di Guido Sacchi
[Dieci anni fa moriva Guido Sacchi (1974-2004), critico letterario, professore di liceo, ricercatore universitario, studioso di letteratura rinascimentale e barocca. Nel 2003, per l’Associazione culturale L’Areopago di Roma, Guido Sacchi aveva progettato un ciclo di conferenze divulgative che cominciò a tenere ma che non riuscì a portare a termine. Erano destinate a un pubblico generico; cercavano di rispondere alla domanda «perché leggere i classici oggi?» e di proporre una guida alla lettura di alcuni autori del canone occidentale. Le pagine che seguono sono tratte dall’introduzione al ciclo. Il testo nasce da una trascrizione; lo stile è quello informale del discorso a voce].
Prima di parlare dell’argomento di questa sera, che è l’Eneide di Virgilio, avevo pensato di fare un’introduzione, spero non molto lunga, a un problema teorico. Abbiamo intitolato la serie dei nostri quattro incontri «Perché leggere i classici?»; è giusto porsi la domanda «che cos’è un classico»?
A questa domanda, noi, più o meno tutti, diamo una risposta intuitiva, empirica: tutti abbiamo qualcosa in mente quando parliamo di classico, ma dare una definizione è più complicato. Io direi che ci sono due criteri – ciò vale per la letteratura, ma varrebbe per le arti figurative, e per la musica altrettanto bene. Uno è il valore, il valore oggettivo per così dire; l’altro è la tradizione. Il classico è ciò che è bello, ciò che è bello in modo indiscutibile, ciò che è talmente bello che nessuno può dire che non sia bello; il classico è ciò che tutti ritengono tale, ciò che la storia ha decretato come importante, come vero, come fondamentale per un certo gruppo di persone. Se noi riflettessimo a cosa noi pensiamo quando pensiamo ai classici, andremmo sempre a finire a questi due criteri. Vi rendete subito conto che sono due criteri un po’ traballanti. O meglio: sono traballanti oggi, nel 2003, ma non lo sono stati per tremila anni. Perché?
Perché oggi, dopo due secoli e mezzo di riflessione filosofica, è molto difficile, se non impossibile, parlare di un bello oggettivo. Nel Medioevo tutti sapevano che la bellezza è un attributo di Dio: se io dico che il creato è bello, so che cosa significa questa affermazione; significa che il creato in qualche modo partecipa di quella caratteristica che è una caratteristica di Dio, e se è una caratteristica di Dio vuol dire che è oggettiva, che esiste; la bellezza è un fatto che esiste fuori di noi.
Oggi non è più così, e non tanto perché noi non crediamo più che la bellezza sia un attributo di Dio, ma perché i filosofi, Kant soprattutto, hanno dimostrato che non è così facile definire un oggetto come bello in modo indiscutibile. Il risultato, il contrario dell’oggettività, è la soggettività del giudizio: non esiste più un criterio per stabilire che cosa è bello per tutti. Qualcosa sarà bello per me e non lo sarà per gli altri. Oggi è possibile che qualcuno dica che la volta della Cappella Sistina non è bella, in altre epoche sarebbe stata un’affermazione semplicemente incomprensibile.
D’altra parte voi capite bene che i due criteri, cioè il valore oggettivo e la tradizione (cioè il fatto che il tempo ha consacrato queste opere, le ha rese intoccabili) tendono a coincidere. Che vuol dire? Vuol dire che quando noi pensiamo a una tradizione, a una serie di testi che sono importanti per la nostra storia, e ci chiediamo perché proprio questi testi sono importanti per noi, ci rispondiamo «perché sono belli, perché sono i testi più belli della nostra storia; questi testi stanno nella nostra tradizione perché sono i migliori, i migliori per natura». Il criterio del valore e quello della tradizione finiscono col fondersi: se cade l’uno, fatalmente si porta dietro anche l’altro.
Il criterio della tradizione è stato molto criticato soprattutto in epoca più recente. È una critica molto interessante perché ci fa capire come la riflessione sui classici contenga delle questioni di grande attualità. La riflessione recente affronta il problema del canone; il canone è più o meno quello che indicavamo come tradizione. Nella storia di un paese, di una religione, esiste una serie di testi che sono ritenuti essenziali. Noi parliamo di canone delle Sacre Scritture. Ma quando si è cominciato a parlare di canone delle Sacre Scritture, i critici letterari greci da molti secoli avevano già parlato del canone degli oratori, del canone dei poeti drammatici, del Canone dei poeti comici, del canone dei poeti lirici e così via – una serie di liste che indicavano gli autori essenziali in un certo ambito. Il canone per come lo abbiamo presentato, sarebbe una serie di testi che nei secoli si sono scelti da soli. La storia li ha scelti, e li avrebbe scelti perché questi testi sono i migliori per natura.
Due cose sono importanti in questa definizione: il canone è un fatto naturale, non è qualcosa che qualcuno ha scelto. Ora: mi sembra opportuno farvi vedere un esempio concreto di canone per mostrarvi che, in effetti, le cose non stanno proprio così. Il canone che vi faccio vedere è tratto dal programma che bisognava preparare per il concorso della scuola, il concorso a cattedre per l’insegnamento dell’italiano. È stato allegato al bando di concorso che esce sulla Gazzetta Ufficiale. È un canone che ha il massimo dell’ufficialità, ha sotto il timbro della Repubblica italiana. La Repubblica italiana dice: «noi stiamo scegliendo quelli che vanno ad insegnare italiano nelle scuole, noi vogliamo che questi signori conoscano ed insegnino alle generazioni future alcuni autori». Poi dice che in realtà bisogna conoscerli tutti, ma alcuni autori sono nominati, altri no.
Ve li leggo: «Riservando maggiore spazio ai secoli XIX e XX, devono comunque essere oggetto di studio: Dante, Petrarca, Boccaccio» e fin qui le tre corone cosiddette. «Ariosto, Machiavelli, Guicciardini, Tasso». Quattro autori del Cinquecento. Dante, Petrarca e Boccaccio sono autori del Duecento e del Trecento: se la matematica non è un’opinione manca un secolo, cioè non c’è nessun autore del Quattrocento. Non è stato un secolo da buttar via per la storia italiana. Mancano, a fare due nomi, Angelo Poliziano, che è stato amico di Lorenzo il Magnifico ed è stato il più grande umanista del Quattrocento, e Matteo Maria Boiardo, colui che ha scritto l’Orlando Innamorato, che ha inventato il poema cavalleresco in Italia. Tanto per farvi capire: Don Chisciotte legge ancora l’Orlando Innamorato un secolo e mezzo dopo la pubblicazione. Eppure Poliziano e Boiardo non compaiono.
Fra gli autori del Cinquecento, Ariosto, Machiavelli, Guicciardini e Tasso non si discutono. Ma come posso capire qualcosa del Cinquecento italiano se non so niente del Cortegiano di Baldassar Castiglione? È molto difficile. Capisco qualcosa se non conosco Pietro Bembo? Molto difficile. Castiglione e Bembo sono nomi meno ovvi; è verosimile che anche voi li conosciate di meno. Ma vi assicuro che dal punto di vista storico non sono meno importanti di Francesco Guicciardini.
Continuo a leggere il canone ufficiale: «Galilei», Galileo Galilei è l’unico autore del Seicento, ma il Seicento è un secolo schifoso e quindi andiamo avanti… «Goldoni, Parini, Alfieri»: questo è il Settecento. L’Ottocento va più o meno da sé, nel senso che è il secolo su cui la scuola italiana si è più esercitata. «Foscolo, Leopardi, Manzoni, Verga, Carducci». Non c’è Angelo Poliziano ma noi mettiamo ancora oggi nel canone ‘la pargoletta mano’. «Carducci, Pascoli e D’Annunzio». Poi il Novecento, che è molto interessante. «Pirandello, Svevo, Ungaretti, Montale, Saba, Quasimodo, Pavese, Vittorini», e qui il canone ufficiale finisce. Ora: Quasimodo ha vinto il Nobel, ma se voi andate in una qualunque università italiana oggi e chiedete se Quasimodo è un poeta importante per il Novecento, nessuno, nessuno avrà la faccia tosta di rispondervi sì. Quasimodo è un poeta secondario. Pavese e Vittorini sono due autori che erano importanti negli anni Cinquanta, quando c’era ancora il dibattito sul neorealismo, negli anni della cosiddetta egemonia culturale della sinistra, ma oggi, anche a sinistra, nessuno si sogna più di dire che Vittorini sia uno scrittore fondamentale. In questo canone non c’è Carlo Emilio Gadda, che è il più grande prosatore italiano del Novecento. Va benissimo, bisogna leggere Conversazione in Sicilia, che è un libro di una bruttezza allucinante, ma si può anche non leggere Il Pasticciaccio di Gadda. Non dico queste cose per mettere a confronto i miei gusti o, diciamo, i gusti dell’accademia di oggi con i gusti del Ministero, ma per farvi capire che quello che si presenta come un canone ufficiale, e quindi che dovrebbe essere indiscusso e indiscutibile, è discutibilissimo, cioè è frutto di scelte. Carducci sta qui non soltanto per nostalgia dei vecchi signori del Ministero, ma perché è frutto di una cultura, quella crociana, di cui ancora non ci siamo liberati. Non è che uno si deve liberare a tutti i costi di Benedetto Croce; era però per dire che dipende da una scelta fatta in base a certi presupposti culturali. Che conclusione ne traiamo?
Il canone non è affatto un oggetto di natura: è un prodotto di cultura, cioè è frutto di scelte. Queste scelte si possono fare per molti motivi. Pietro Bembo (questo signore veneziano che è morto cardinale ed è sepolto in Santa Maria Sopra Minerva, se vi interessa per turismo, e che è il fondatore del petrarchismo del Cinquecento) dice: «bisogna imitare Petrarca e Boccaccio, non Dante». Bembo fa delle scelte, seleziona, si fa il suo canone con alcuni autori e non ne mette altri. Nel secondo Ottocento Francesco De Sanctis mette prima Dante e poi, parecchi chilometri sotto, Petrarca e Boccaccio. De Sanctis non è un nome a caso, perché, essendo stato uno dei primi ministri della Pubblica Istruzione in Italia, ha dovuto inventarsi i programmi della scuola dell’Italia unita e lo ha fatto scrivendo la sua Storia della letteratura italiana, che è una specie di autobiografia della nazione. Non siamo mai stati un paese unito, ma abbiamo sempre avuto una letteratura unita; Francesco De Sanctis lo sapeva bene e fondava l’identità nazionale su questo canone che lui costruiva.
Ma oggi i problemi nostri non sono quelli di De Sanctis, e il canone lo si fa in modo ancora diverso. Questo passaggio, che sembra così banale, in realtà non lo è affatto. Negli Stati Uniti se ne discute molto. Negli Stati Uniti gli studenti che studiano letteratura all’università, vanno all’università, al college e studiano un certo numero di testi, piuttosto limitato, di tutte le letterature occidentali: greca e latina, e poi italiana, inglese, francese, tedesca, spagnola, russa e americana, naturalmente. È la «tradizione occidentale». Chi c’è in questo canone? La Genesi, un paio di libri della Bibbia, Dante, l’Amleto di Shakespeare e varie altre cose. Però, siccome è molto facile prevedere che gli studenti americani non conoscano molto altro oltre questo, parlare del canone negli Stati Uniti significa fare una scelta politica, significa discutere di che cosa insegniamo a questa gente. Una classe universitaria, negli Stati Uniti, è molto diversa dalle nostre. I miei amici professori che vanno spesso ad insegnare negli Stati Uniti e loro raccontano dell’impressione che fa di parlare di Manzoni davanti ad una classe in cui ci sono il trenta per cento di ragazzi neri, un altro quindici di asiatici, un altro quindici di latino-americani e poi un po’ di bianchi. Voi capite che in questo contesto non è così ovvio che Shakespeare sia così indiscutibile.
La riflessione americana è arrivata a questa conclusione (ci sono poi delle premesse filosofiche, ma non stiamo qui a dirle): il canone è solo il prodotto della cultura dominante in un certo paese e in un certo periodo. Francesco De Sanctis, come Ministro della pubblica istruzione, proponeva il suo canone di uomo borghese che non teneva conto, per esempio dei dialetti; il canone in cui ci sono la Genesi, Dante, Shakespeare e via discorrendo è fatto da bianchi, e non da neri; il canone in cui ci sono tutti questi signori i cui nomi, come direbbe Benigni, finiscono tutti con la o, è fatto da uomini, da maschi e non da femmine. Il canone è il prodotto di una cultura dominante e taglia fuori tutti quelli che dominanti non sono: i neri, le donne, le minoranze, gli omosessuali, e così via.
Questo, secondo me, è il nucleo duro, importante, della riflessione americana – ed è vero. Quando noi pensiamo a quello che siamo abituati a considerare normale ci dobbiamo dire che non è così normale: ha alle spalle una storia che ha lasciato del sangue per terra, una storia per cui i maschi si sono potuti permettere di fare il loro canone senza metterci le donne, perché le donne stavano sempre in casa mentre alcuni maschi potevano fare gli scrittori. A questo punto la critica americana fa un altro passo e dice: «dobbiamo riformare il canone e ci dobbiamo rimettere i neri, le donne, gli omosessuali, e così via». E qui cominciano i problemi, nel senso che tutti siamo d’accordo sulla questione teorica così enunciata, però non è detto che siano esistite delle scrittrici donne coeve più importanti di Shakespeare; non c’è una donna che ha scritto una cosa come Re Lear. Questa è una cosa molto triste: vuol dire che le donne stavano in casa, le menavano, non le facevano studiare; però sta di fatto che non c’è. Allora se noi andiamo a cercare negli archivi la peggiore schifezza scritta da una suora del Cinquecento perché era femmina e togliamo l’Amleto e ci mettiamo la schifezza, abbiamo un canone che non è più un canone […]. Il canone è ingiusto, è un prodotto di cultura e non di natura; però è molto difficile farlo diventare giusto a colpi di riforme. Ne vengono fuori dei mostri, e questa è la tendenza mostruosa che sta ampiamente verificandosi negli Stati Uniti.
Voi capite quanto sia attuale in questo discorso: dietro c’è il rapporto di gerarchia fra le culture. Non si può certo affermare che la cultura bianca sia di per sé meglio della cultura nera; però che è giusto affermare, per ragioni che ci addolorano, ma che sono non meno vere storicamente, che la cultura bianca è stata più importante della cultura nera. In questo modo (la faccio un po’ ecumenica, salvo capra e cavoli, la discussione è molto più violenta di così) in questo modo è la storia che fa il giudizio. Si può pensare a un canone che recuperi la sua obiettività sulla base dell’importanza che le opere hanno avuto nella storia. Certi testi sono stati dimenticati, certi altri no, certi autori sono diventati famosi, certi altri no. Naturalmente un canone fatto in questo modo conterrà anche molta paccottiglia: conterrà la Gerusalemme Liberata, che è un poema in cui si piangono calde lacrime perché è bello e commovente, ma conterrà anche Le prose della volgar lingua, di Pietro Bembo che sono un libro di grammatica, e che ci si vuole tagliare le vene a ogni pagina per quanto sono noiose, ma sono tutte e due importanti alla stessa stregua. E’ una possibile soluzione. Mi piaceva dirla, porla in questo modo. Non un canone di bianchi, di uomini, di non so cos’altro, perché ‘sono i migliori’. No, non sono i migliori. Sono quelli che nella storia hanno contato di più – e questo può essere un bene, o un male.
[Immagine: Guido Sacchi].
molto interessante…Grazie!
Grazie.
E’ sempre bello leggere dei testi in cui si sente ancora l’imperfezione e la vivezza del parlato. Bello anche che la destinazione pubblica di questo discorso imponesse la necessità di spiegare cose importanti ma complesse in questi termini così chiari.
Da questo intervento emerge anche in modo evidente quanto sia utile considerare i problemi teorici e critici anche sub specie didattica. La discussione americana sul canone, che sembra, presa dal versante della polemica Bloom-studi culturali, una discussione solo culturale e politica, diventa un problema pratico: che cosa rappresenta Shakespeare per una classe PRECISAMENTE come quella descritta dall’autore in questo pezzo?
La domanda sarà infatti non tanto “Shakespeare sì o no, e in sé”, ma “Shakespeare come e quanto, in relazione a QUESTI studenti”. Questa domanda ovviamente non esaurisce né sostituisce quelle interne alla critica letteraria. Ma arricchisce enormemente il dibattito.
E forse aiuta anche ad evitare il rischio di sostituire a categorie estetiche categorie politiche, quelle famose del risentimento, che, secondo me, non portano lontano. Esemplare è il caso, più che delle donne e degli omosessuali (ma forse il discorso, mutatis mutandis, può essere fatto anche per essi), quello degli stranieri: di norma l’ansia per il rispetto delle loro culture porta a fraintendimenti gravi, come il muticulturalismo esotizzante e stereotipo, anche se in buona fede (in Gran Bretagna in passato lo si è definito “multiculturalità delle 3S: saris, samosas and steel band [il sari, la veste indiana, i samosa, piatto orientale, infine gli strumenti a percussione caraibici]”.
Oggi, e in Italia, significa: che cosa significano Dante e Montale per gli studenti stranieri?
Ma anche: quanto quegli studenti sono “stranieri” e quanto invece non vegno rapidamente assimilati alla nostra cultura (e vogliono assimilarsi: siamo noi invece che li chiudiamo dentro un presunto sostanzialismo culturale)? Quanto la facilità di quell’assimilazione è dovuta al fatto che essa avviene ormai per lo più tramite una cultura di massa planetaria, in cui dunque le specificità (esotiche e non) si perdono? Quanto, dunque, uno sradicamento dalla cultura del paese di origine dei genitori e l’impianto nella “nostra” provocano, più che il rischio di una acculturazione violenta ed etnocentrica, la residenza in una specie di limbo incolore (ho pallidi ricordi della “mia” cultura, devo assimilarmi a un’altra, di fatto il pop che sento qui è lo stesso di ovunque) con gli effetti sociali e psicologici che ciò comporta?
Ultima cosa. Sono abbastanza convinto che la permanenza di Carducci, e non solo sua, nel canone scolastico dipenda, più che da un residuo di crocianesimo, semplicemente da una lunga abitudine didattica, rinforzata poi dalla manualistica (chi fa manuali sa che se un insegnante Carducci si aspetta di trovarlo, non dico che rifiuterà un manuale che non lo contenga o ne abbia limitato fortemente il peso, ma almeno lo accetterà solo dopo una faticosa ristrutturazione cognitiva: dunque, forse, meglio non correre rischi e continuare a lasciare Carducci dov’è). Ma bisognerebbe anche verificare in effetti quanto Carducci si faccia: che sappiamo di quello che avviene in ogni singola classe?
Se questa mia ipotesi è vera, ciò dimostrerebbe ulteriormente il peso che la scuola e le sue pratiche hanno sulla questione stessa del canone e su diverse altre discussioni teorico-critiche. Il peso è reale, ma spesso è taciuto o inosservato.
Bene porsi il problema, ma è una soluzione che mantiene il privilegio dei vincitori. Inoltre è una soluzione che tiene in piedi il pregiudizio autoriale. Forse non ci serve un canone ma un metodo: e allora il Cinquecento sarà un brulicare di divergenze letterarie, di conflitti politici, di scelte teoriche; forse bisogna rinunciare a descrivere un’epoca descrivendo nel dettaglio gli autori.
PS
Il Seicento è sempre bistrattato, poveraccio; e io che sono sempre stato un grande fan de “La secchia rapita” e della “Merdeide”…
Pur registrando gli alti e bassi della fortuna di un autore, un canone letterario che si rispetti non può dare spazio al rifiuto pregiudiziale e quasi viscerale nei confronti dell’autore in questione, soprattutto se questo autore si chiama Giosuè Carducci. Per quanto la sua presenza nel canone scolastico sembri essere ormai puramente residuale, in realtà Carducci è un autore da cui non è possibile prescindere, così come non è possibile prescindere dal secolo al quale apparteneva e del quale è stato un rappresentante di primo piano nell’àmbito della cultura letteraria. Perfino Thomas Mann, per citare uno scrittore straniero consapevole della oggettività dei valori letterari, nella “Montagna incantata” lo effigia attraverso le parole di un suo fedele discepolo, Lodovico Settembrini, come «grande poeta e libero pensatore».
Certo, è innegabile che in un periodo labile, ‘liquido’ e immemore come il nostro, il mondo poetico e letterario di Carducci appaia decisamente inattuale, così come non possono non essere inattuali il rifiuto del populismo, l’invito rivolto agli italiani perché «leggano prima di scrivere» e «facciano prima di parlare», la ripulsa di ogni pavido moderatismo, l’«anteporre sempre nella vita l’essere al parere, il dovere al piacere», il disprezzo per qualsiasi tipo di giovanilismo, il nitore classico della sua scrittura e in particolare della sua poesia, nonché una cultura sterminata.
Sennonché il giudizio derogatorio, incentrato su quell’emistichio della «pargoletta mano» che compare in uno degli epicedi più struggenti e più strazianti, ma anche più belli e più commoventi della nostra tradizione poetica, è destinato a capovolgersi su colui che lo ha incautamente pronunciato, magari pensando di esibire lo stesso distacco cinico, iconoclasta e antirisorgimentale dell’autore dell’elogio di Franti. Del resto, non si può dimenticare che quel grande atleta della cultura ci ha donato alcune poesie vere, che accompagneranno in questo terzo millennio non solo gli italiani e non solo coloro che appartengono ad una generazione, come la mia, la quale era abituata ad imparare a memoria molti testi carducciani. Sarebbe poi opportuno riscoprire, sulle orme della critica più avvertita, la potenza di Carducci prosatore, quale si manifesta nelle sue polemiche e nelle sue ricerche, ma ancor più nei tanti carteggi (basti pensare che il suo è forse il più bell’epistolario della nostra letteratura). Infine, è doveroso ricordare la raccolta “Ça ira”, cioè l’unico esempio di poesia filo-giacobina che esista nella nostra tradizione letteraria, caratterizzata, come è noto, da una profonda incomprensione della rivoluzione francese. Lungo queste vie, che raggiungono l’apogeo nell’Ottocento (un secolo che non piace, e “pour cause”, ai critici postmoderni delle “grandi narrazioni”), si incontrano la rivoluzione francese e il filosofo di Königsberg, il cui nesso è stato còlto con pertinente acume, come ha sottolineato Cesare Luporini in un suo scritto, proprio da Giosuè Carducci in quel verso, forse non bello ma profondo, che suona: «decapitaro Emmanuele Kant Iddio e Massimiliano Robespierre il re».
Le parole di Sacchi richiamano la posizione espressa dal premio nobel Saul Bellow sulla cultura zulù, duramente ripresa e contestata da Charles Taylor: “Una risposta come quella, attribuita a Bellow (…) cioè che saremo felici di leggere il Tolstoj zulù quando arriverà, mette a nudo gli abissi dell’etnocentrismo. Qui c’è, per cominciare, l’assunzione che l’eccellenza debba avere una forma a noi familiare: gli zulù debbono produrre un Tolstoj. E in secondo luogo si assume anche che il loro contributo sia di là da venire: ‘quando’ produrranno un Tolstoj… E’ chiaro poi che queste due assunzioni sono strettamente legate: così, se gli zulù devono produrre il nostro stesso tipo di eccellenza la loro sola speranza sta, ovviamente, nel futuro. (…) Quella che c’è è la presunzione di uguale valore che ho descritto sopra: un atteggiamento che prendiamo quando ci imbarchiamo nello studio dell’altro.” E ancora: “Ma in realtà i criteri che abbiamo sono quelli della civiltà nord-atlantica, per cui i nostri giudizi, implicitamente e inconsciamente, faranno rientrare a forza gli altri nelle nostre categorie – per esempio penseremo i loro ‘artisti’ come creatori di ‘opere’ che poi noi potremo includere nel nostro canone. La politica della differenza, invocando implicitamente i nostri criteri come metro di giudizio di tutte le civiltà e di tutte le culture, può finire per rendere tutti uguali”. (C. Taylor, La politica del riconoscimento,…).
“Il canone è il prodotto di una cultura dominante e taglia fuori tutti quelli che dominanti non sono: i neri, le donne, le minoranze, gli omosessuali, e così via”. Bene. Allora perché dovremmo averne uno e non cento costruiti sulla base di differenti sistemi di riferimento? Quali sono, oggi, i criteri e gli strumenti più adatti a selezionare gli scrittori? Perché Sacchi ritiene che non si possa fare a meno di un Boiardo o di un Bembo? Siamo convinti che gli scrittori ‘parlino’ ad ogni epoca allo stesso modo, con la stessa forza e la stessa persuasione? Io credo proprio di no.
Nel lodevole elenco di scrittori ‘storicamente importanti’, mi pare che Sacchi abbia omesso però di tematizzare e di soddisfare le pretese di validità del suo controverso discorso, cioè abbia dimenticato di argomentare le ragioni che giustificano la scelta di quel gruppo di scrittori. Che cosa ci dicono? a quali problemi rispondono? e, soprattutto, a chi ‘parlano’? le opere devono emergere sullo sfondo di una serie di sistemi di relazioni dinamiche poiché non si tratta di entità monadiche.
Last but not least…visto che le donne stavano sempre in casa…vogliamo lasciarle lì per sempre, tanto non hanno niente da dire? francamente, ma che discorso è? e poi: chi ha affermato che non ‘esiste’ un’opera ‘femminile’ paragonabile al Re Lear?? chi l’ha stabilito? il CANONE, appunto?!?! una stolida tautologia…IL RE LEAR NON E’ UN OGGETTO dotato di proprietà intrinseche riconoscibili con l’applicazione di un metodo preciso, ma è una costruzione culturale solidificatasi con tutti i pregiudizi, gli eccessi e le esagerazioni, e forse i fraintendimenti e una buona dose di ottusità, nel corso dei secoli, ovvero il Re Lear è la storia delle sue tante interpretazioni prodotte altresì attraverso l’esclusione delle donne dal palcoscenico del mondo… E’ nelle pieghe dell’apparente perspicuità dei codici culturali, e della loro intrinseca pretesa di neutralità e validità, che molto spesso allignano atavici pregiudizi di genere e regressive tentazioni autoritarie. Questo intervento ne è un esempio emblematico. Il canone, come lo intende Sacchi, non fa altro che riprodurre gli stessi meccanismi aberranti e le stesse regole discriminatorie che fino ad oggi hanno tenuto fuori le minoranze.
Comunque, la teoria della performatività del linguaggio sviluppata da Judith Butler in relazione alla problematica di genere è una cosa seria… e andrebbe presa sul serio… invece di scopiazzare dagli Stati Uniti le peggiori idee economiche e culturali. Lo so che l’italia è un paese ormai povero e malandato indietro di almeno cinquant’anni in ogni ambito della vita associata, diviso tra un serraglio di salvatori della patria, logorroici e inconcludenti (D’Annunzio non lo legge più nessuno, purtroppo!), e un’accolta di starnazzanti gallinacei di corte… tuttavia, ogni tanto aprire un po’ le finestre e cambiare l’aria di ‘casa’ fa bene e ai polmoni e al cervello.
Il problema teorico attorno a cui ruota la nozione di canone è quello del rapporto tra universale, particolare e individuale. Se vi è allora chi pensa che una specifica civiltà chiamata Europa sia il luogo in cui la ‘humanitas’ si è incarnata più pienamente, a questa tesi si può sempre replicare che le ragioni storiche di questo evento sono puramente contingenti (“l’Occident est un accident”, per usare la formula di Garaudy). Sennonché i valori espressi nel canone sono universali, ma non astratti, poiché non possono costituirsi senza radicarsi in qualche situazione particolare, cioè locale. In questo senso si può contrapporre al ‘canone’, massima espressione dei valori riconosciuti da un determinato sistema culturale, la ‘ragione’, che trascende chiaramente i particolari sistemi culturali, ma che può farlo proprio perché essa è intrinsecamente sganciata da un ‘quando’ e da un ‘dove’. In questa ottica universale-razionale, si può senz’altro affermare che non potrebbe mai darsi una versione tipicamente zulù dell’imperativo categorico kantiano o del realismo gnoseologico. Il canone invece ha un rapporto asimmetrico con il suo ambiente storico: da un lato, per realizzarsi ha bisogno di una situazione determinata, dall’altro è un canone proprio perché va oltre tale situazione proiettandosi in una dimensione universale. Ecco perché, allorquando ci accingiamo ad interpretare il canone, dobbiamo operare, come facciamo con i simboli, una duplice decodificazione e comprenderlo come se fosse se stesso e insieme qualcos’altro, il prodotto di una cultura specifica e insieme di una civiltà universale. Se è vero che un approccio interpretativo ai “Promessi sposi” che ravvisasse in questo romanzo soltanto la storia di due giovani contadini desiderosi di sposarsi, ma osteggiati da un signorotto, ad un tempo, sadico e insatirito, sarebbe altamente discutibile, è altrettanto vero che sarebbe sommamente discutibile interpretare il canone come il prodotto di un’esperienza particolare, circoscritta nel tempo e nello spazio, e non come l’espressione di una specifica cultura il cui valore va ricercato nel legame tra una particolare civiltà e l’umanità concepita in senso universale. Infine, per quanto riguarda il problema, richiamato nel commento di gaspara stampa, circa i criteri e gli strumenti per selezionare gli scrittori, risponderei con un’immagine geografica: è vero che una volta la gente poteva nutrire qualche dubbio sul fatto che Strasburgo appartenesse alla Francia o alla Germania, ma non per questo nutriva lo stesso dubbio su Parigi.
Illustre Gaspara Stampa, non sa quanto mi abbiano commosso in anni universitari alcuni suoi sonetti, come mi abbia affascinato cosa lei sia riuscita a fare di Petrarca. Sembrava che un monumento prendesse vita e parlasse di un’esistenza intima.
Poi capii che su lei proiettavo la lettura che delle sue poesie faceva Rilke (Quaderni di Malte Laurids Brigge): lettura romantica, biografica, piena anche di una certa maschile degnazione verso le donne, così sensibili…
Nonostante ciò, non me ne vorrà se ora, a qualche anno di distanza, dopo qualche libro letto in più e qualche riflessione, a lei preferisco Petrarca. Lo so, è un maledetto pregiudizio storico, l’abitudine occidentale di chiedere a un autore di essere eponimo di un’epoca, di aprire nuove strade, cosa che per ciò stesso condanna tutti gli epigoni, anche quelli che come lei commuovono, alla posizione di seconda o terza fila.
Per questa ragione, non me ne vorrà (forse) neanche se le dico che allo scrittore zulù preferisco Tolstoj. Tostoj e il Re Lear non sono oggetti, certo, ma nessuno in effetti sostiene che lo siano. Mi pare che l’asserto, assai più pacato, di quanti difendono la tradizione occidentale sia che noi siamo quel che siamo anche grazie a Re Lear e a Tolstoj. Non solo: mi pare che la critica, o almeno certe sue correnti (lo hanno fatto alcuni marxisti, specie eterodossi – penso a certe tesi provocatorie ma sempre intelligentissime di Sanguineti -, lo hanno fatto i critici della ricezione), abbiano anche sostenuto che Re Lear e Tolstoj non siano oggetti anche nel senso che non esiste Re Lear o Guerra e pace, ma uno Shakespeare romantico e uno novecentesco (magari pure uno postmoderno, veda il film Romeo + Giulietta), idem per Tolstoj.
Lei è liberissima, nel confronto di opinioni e interpretazioni, di dare letture nuove e polemiche di Re Lear e Tolstoj. Mi spieghi, che so, qualcosa in più sulle tre figlie del vecchio sovrano: non sono un esperto di Shakespeare e magari sto per dire una sciocchezza, è solo un’impressione, ma in quell’opera, fra molte altre cose, mi ha colpito la scissione tra figlie cattive senza sfumature e figlia buona senza sfumature (sembra una fiaba, in questo) e, al contrario, la quasi imprendibile e inclassificabile complessità della figura del re, o anche di quella del buffone. Magari una lettura di genere aiuterebbe me, maschio, che ho letto i suoi sonetti con la stessa degnazione paternalistica di Rilke, a imparare a dislocarmi un po’ da me stesso e da certe rappresentazioni letterarie del femminile. Però lo faccia senza le trombe della politica. Le fiabe son fiabe, mica un pamphlet.
Perciò, la prego, lasci perdere le storie universali: “la tradizione occidentale venera maschi bianchi morti ed europei”, “la storia occidentale è una storia di dominazione”. La storia è un ribollire di fermenti, i più invisibili. Chissà, forse, nell’invisibilità le donne hanno creato mondi interiori ricchissimi. E non è detto che una cosa esista solo se è stata comunicata. Ma il suo caso è diverso: lei, con codici maschili come quelli petrarcheschi, è riuscita a far arrivare la sua voce fino a me.
Se io, nello studente straniero che entra nella mia classe vedo un “dominato”, rischio di non vedere l’uomo o la donna (e riconosco che dire “uomo” e “donna” è dire tutto e niente, perché le differenze culturali esistono eccome).
Inoltre, io ignoro i poeti e gli scrittori della tradizione di quello studente, e non mi basterebbe una vita per conoscerli (cinesi, rumeni, arabi, africani, bengalesi, …), così che il rischio è quello di finire per chiedere a lui o lei di farmeli conoscere, che è un po’ come se un professore, che so, indiano, chiedesse a un nostro studente di portargli uno scrittore italiano significativo e lo studente gli portasse Machiavelli (il giallista, intendo).
Lei davvero non crede che un misogino come Leopardi possa educare, per vie silenziose e poco chiassose, all’alterità più di mille discorsi SULL’alterità?
Eros Barone
Da un lato sembra condividere l’idea che il canone è il prodotto della cultura dominante (maschio, bianco, occidentale), dall’altro rivendica una universalità che in tal caso il canone non potrebbe mai esibire in quanto espressione di una élite culturale, dotta e aristocratica, chiusa e separata dal mondo là fuori. Che cosa intende, dunque, per “umanità concepita in senso universale”? Il suo intervento è costellato di assunzioni (“cultura specifica”, “civiltà universale”, presunti “valori universali” espressi dal canone) non sostenute poi teoricamente. Ammiro lo sforzo di chiarificazione da lei tentato, ma non c’è nessuna qualità universale, metafisica e immutabile, che io sono chiamata a riconoscere quando leggo i “Promessi sposi”, ma certamente posso ricostruire le ragioni storiche, dunque, discutibili per definizione, che lo hanno reso un capolavoro assoluto della letteratura mondiale. Purtroppo, non ne usciamo con i massimi sistemi. Il fatto è che abbiamo bisogno di un canone aperto, plurale e polifonico, la cui articolazione tenga conto della complessità degli intrecci e delle contaminazioni, della divaricazione delle scelte e degli sviluppi inaspettati. La posta in gioco, nella discussione sul canone, sembra piuttosto essere la capacità di dialogare e di com-prendere l’altro, rovesciando la logica brutale tuttora dominante vocata all’assimilazione e/o sottomissione di ogni differenza e diversità.
P.S. L’immagine geografica non l’ho capita!
Siccome sono un umanista fautore delle gerarchie e sono anche tendenzialmente essenzialista e universalista, ritengo di dover dare qualche spiegazione a gaspara stampa. Vi sono tuttavia, nell’impostazione del discorso della gentile interlocutrice, alcune anfibologie che occorre dissipare, se non si vuole dare spazio ai paralogismi. In primo luogo, è un errore scambiare il concetto di gerarchia con quello di elitismo. Si definisce infatti con quest’ultimo termine un atteggiamento che identifica i valori con un gruppo privilegiato, che trae la sua autorevolezza dal rango sociale o dal prestigio culturale. E’ da notare che l’elitismo, così definito, si sposa agevolmente con una certa vena di populismo, come dimostrano il pensiero di Benedetto Croce o quello di Benito Mussolini. Tutte le forme di elitismo sono anche populiste ‘à tout prix’. Il termine ‘gerarchia’, che in origine denotava le tre categorie angeliche, designa invece qualsiasi struttura graduata e, in senso lato, qualsiasi ordine di priorità. In questo senso, tutti sono in qualche modo assertori di gerarchie, mentre non tutti sono fautori dell’elitismo. Insomma, tutti fanno propria una qualche forma di gerarchia dei valori per il semplice fatto che questa tendenza è un elemento costitutivo della soggettività e l’atto di valutare fa parte dell’identità sociale di un individuo, di un gruppo o di un classe. Un soggetto che non discriminasse non sarebbe un soggetto umano per la semplice ragione che tutti gli atti umani si svolgono per esclusione, negazione e soppressione (“omnis determinatio est negatio”, notava il sommo Spinoza). Ecco perché un soggetto postmoderno che identificasse la valutazione, e il canone che ne discende, come un atto ‘elitista’ non può esistere se non come ‘exemplum fictum’. Senza contare che non si capisce come esso possa definire i valori e le gerarchie di valore come irrilevanti o, ancor peggio, ‘elitisti’ senza esprimere con ciò un giudizio di valore. Riconosco che nella tradizione storica della critica letteraria il valore è stato oggetto di una consacrazione feticistica, ma questo non significa che dobbiamo rinunciare a distinguere tra quei valori (ad esempio, Pascoli e Carducci) che sono suscettibili di oscillazioni anche considerevoli nella valutazione e un valore oggettivo, come il romanzo manzoniano, su cui il giudizio difficilmente può oscillare (era questo il senso dell’immagine geografica che ho adoperato). A questo proposito, la stessa gaspara stampa “viene nel mio carrugio” (come si dice a Genova), allorché ammette, coniugando il particolare (la storia) con l’universale (la dimensione e il livello di un”opera-mondo’) che “certamente posso ricostruire le ragioni storiche, dunque, discutibili per definizione, che lo hanno reso un capolavoro assoluto della letteratura mondiale”. Sennonché il ‘focus’ delle obiezioni avanzate circa l’oggettività e l’assolutezza dei valori non è tanto l’idea di un ordine di priorità o di una gerarchia di valori quanto l’assunto che tali priorità e tali valori siano eterni e immutabili. La domanda è allora: che cosa hanno di riprovevole le gerarchie assolute, quando in gioco vi è l’interesse alla libertà e alla felicità di chi è oppresso? Il relativismo non ha mai giovato a coloro che sono stati esclusi e respinti ai margini, poiché questi non chiedono l’abbandono di tutte le priorità ma una loro trasformazione. Dunque, tornando circolarmente all’inizio, non bisogna commettere l’errore categoriale di confondere elitismo e gerarchia, poiché il prezzo da pagare è che un siffatto ‘anti-elitismo’ contribuirebbe nel suo piccolo a legittimare il potere delle élite e a rafforzare quello del mercato, ossia della più potente forza anti-elitista che esista nelle moderne società capitalistiche.
Ogni tanto leggere, riflettere e tacere non farebbe male.
Anche per rispetto a un brano critico, solo apparentemente semplificato e divulgativo, come quello di Guido Sacchi, dal destino troppo rapido, si potrebbero evitare accostamenti tra Mussolini e Benedetto Croce? Uniti nel populismo!
Dovrebbe esserci un limite a tutto, pur nella generosità con cui si ospitano commenti pseudo-dotti.
@Gianlorenzo Alderani
Abbiamo l’impressione che lei abbia interpretato male l’ultimo commento di Eros Barone. L’accostamento a Mussolini e Croce non si riferiva all’intervento di Guido Sacchi.
Confermo la corretta interpretazione della redazione, che ringrazio per l’intervento chiarificatore, e rassicuro Gianlorenzo Alderani: il nesso tra elitismo e populismo, che è a mio avviso assai stretto, non si riferisce alle tesi esposte da Guido Sacchi, ma rientra nell’àmbito della discussione che si è sviluppata tra me e gaspara stampa.
Un classico è il fiore, o il monumento, di una civiltà. Ma che cos’è, una civiltà? Ha qualcosa di interessante da dire in proposito Desmond Fennell, un filosofo irlandese contemporaneo. E’ poco noto; vale la pena di conoscerlo.
“[…] A civilisation is essentially a citied community whose rulers and ruled over a long period subscribe to a grounded hierarchy of values and rules that covers all of life and makes sense. ‘Over a long period’ (unless a natural or military disaster overwhelms it) because the community is motivated to keep reproducing itself by the sense, and therefore goodness, that it finds in its set of rules, its framework for life. The rules derive from the values held. Many of them are adjustable or replaceable as the centuries pass and circumstances and mentalities change. The essential rules are those whose continuous acceptance is necessary for the civilisation to remain itself. They form its defining core.
[…]
What white westerners have been faced with over the past half-century is a framework for life similar to that which confronted every so-called ‘primitive tribe’ whose rules system had been adulterated by colonising Europeans. The resulting hybrid of new and old lacked, a priori, a venerated source guaranteeing the rightness of the system as a framework for life. And it lacked a single rational structure pervading all domains of life from the most abstract to the most particular.
Small wonder, then, that the hybrid ethical framework imposed on such tribes produced, in one instance after another, a condition of effective normlessness, and with that—together with a lot of alcoholism, prostitution, suicide and brigandage—a sort of creeping despair and the gradual dying-out of the tribe. The fact that among the ethnic groups that make up the contemporary USA, the American ‘Indians’ have the lowest fertility rate illustrates this phenomenon in action.
A community’s long-inherited culture can be compared, not for the first time, to a vase containing the community’s life. If its complex of values and rules becomes adulterated by alien values and rules—thus lacking a venerated source and a life-covering rational coherence—the whole then becomes that vase broken. The community faces as a framework for life a brokenness rather than a whole. And that brokenness presents a senselessness causing a psychological hunger pain and an effective normlessness suggesting anti-social opportunities. As a result the people becomes a combination of sufferers and opportunists with varying degrees of both conditions in all of them.”
Il saggio si legge qui: http://www.desmondfennell.com/essay-wests-reigning-ideology.htm
Personalmente ritengo che dovrebbe essere tenuto distinta la questione del canone inteso come insieme delle opere letterarie ritenute dei “classici” dalla questione dell’utilizzo o trattazione di alcuni di questi testi “classici” nell’insegnamento di lingue e lettere che avviene nelle scuole pre-universitarie.
Per quanto riguarda il secondo problema io sono contrario a un imposizione di un canone completo e rigido di opere da trattare e leggere in brani in tutte le scuole di ogni tipo e grado, in quanto il primo obiettivo di un insegnamento incentrato sulle opere letterarie dovrebbe essere la formazione di un lettore di testi letterari competente e non la trasmissione nel giro di tre o cinque anni di un patrimonio formato da decine e decine di testi letterari quasi a voler dire che una volta uscito dalla scuola lo studente non vorrà più toccare uno solo di quei testi per il resto della propria vita. Insomma, dovrebbe essere un insegnamento più “intensivo” incentrato su alcuni fra i testi più importanti (avendo anche il coraggio di saltarne alcuni ritenuti “indispensabili”) e non un insegnamento “estensivo” che pretende di trattare tutti i testi e autori ritenuti più importanti. A questo aggiungo che, al contrario di come prescrivono i programmi attuali, il numero di ore e, di conseguenza, il numero e l’approfondimento di tematiche e testi letterari da trattare dovrebbe essere diverso, ovvero maggiore in quantità e approfondimento nei licei classico e linguistico e minore nelle altre scuole. Di conseguenza, parafrasando quello che Piras ha proposto per la filosofia, io riterrei da abbandonare non tanto un approccio storico ma piuttosto un ordine rigidamente cronologico, soprattutto per evitare che si inizi questa trattazione dai testi meno accessibili ai lettori d’oggi per la loro distanza sia culturale che linguistica.
Per quanto riguarda il primo argomento, sulla questione del canone italiano, ho sempre avuto l’impressione che la letteratura italiana, almeno dalla “Gerusalemme liberata” in poi sia una letteratura minoritaria rispetto al resto d’Europa, soprattutto per quanto riguarda la forma del romanzo (un po’ meglio è la situazione per la poesia) e penso che anche in un liceo specializzato in studi umanistici come il liceo classico mi pare assurdo dare un enfasi così enorme al Manzoni e non altrettanto spazio per almeno un’opera tra quelle di altri autori dell’800 come Balzac, Stendhal, Tolstoj o Dostoevskij, e sinceramente trovo anacronistico giustificare questo “italocentrismo” come fa Serianni nella seguente intervista:
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2010/11/8/SCUOLA-L-ora-d-italiano-I-consigli-di-Luca-Serianni-per-non-fare-disastri/print/125164/
“L’italiano è di fatto – quale che sia la consapevolezza dei parlanti – il più saldo elemento coesivo di un’identità nazionale alquanto debole e precaria. […] Ma la lingua e la cultura si situano a un livello più alto di questo. Se la loro funzione identitaria, affidata in primo luogo alla scuola, venisse meno, non ci sarebbe nessun argine alle spinte di dissoluzione. Per questa ragione ritengo fondamentale che le ore di italiano al triennio delle superiori continuino a essere dominate dalla letteratura nazionale. Non certo perché Shakespeare o Tolstoj siano meno grandi di Dante o Manzoni (e sarebbero oltretutto di più facile lettura per un adolescente, che li accosterebbe in una traduzione moderna); ma perché Dante e Manzoni sono chiavi di volta dellidentità culturale italiana e come tali sono stati vissuti dalla società che li ha letti e rivissuti nel corso del tempo.”
Io sinceramente pensare all’insegnamento della letteratura come una formazione para-militaresca o para-catechistica per formare un perfetto cittadino italiano avente valori identitari condivisi tra i suoi connazionali mi pare un insulto sia alla letteratura che all’autentico sentimento che dovrebbe legare ogni concittadino italiano allo scopo di collaborare per il bene comune del nostro paese (sentimento che è totalmente diverso dalle visioni identitarie e nazionalistiche e i loro relativi funesti esiti avvenuti nel secolo scorso), sentimento che dovrebbe essere non imposto dall’alto ma che deve venire autonomamente dal basso e a cui possono dare valore anche persone legate a culture “altre” (noi italiani che fino a 150 anni fa siamo stati dominati da stranieri dovremmo esserci abituati) e che dunque trovano valore anche alle poesie persiane di Rumi o agli haiku giapponesi, e che dubito possano essere una minaccia sia al valore delle opere di Dante o Leopardi sia per lo spirito di unione e collaborazione fra concittadini, fermo restando che il concetto di canone dovrebbe essere ormai staccato da questo ottocentesco e vetusto ruolo ancillare del servire il bisogno di ricerca di identità da parte di una nazione.
Che si lasci perciò ai filosofi, ai teorici della letteratura e ai critici letterari la ricerca della possibilità al giorno d’oggi di parlare di un canone e di quali opere dovrebbe consistere, ma che non pretendano che la didattica di letteratura dei licei debbano obbedire a qualcuno di loro, specie se all’insegna di vetusti visioni desanctisiane del “fare gli italiani”. Spero poi che fra 40 anni non aggiungano ai licei un sesto anno per permettere di studiare le opere del canone della prima metà del XXI secolo…
@ Michele dr. Sottoscrivo.
Cari Michele Dr. e Lo Vetere,
una prece:
basta, basta, basta, per pietà basta con “la formazione para-militaresca o para-catechistica per formare un perfetto cittadino italiano avente valori identitari condivisi tra i suoi connazionali” che conduce fatalmente alle”visioni identitarie e nazionalistiche e i loro relativi funesti esiti avvenuti nel secolo scorso”, alias al fascismo (Gesù, ‘sto fascismo! Fa più danni da morto che da vivo!)
Il fascismo è morto settant’anni fa, rovinosamente sconfitto sul campo di battaglia. A meno che non si voglia inserire in Costituzione, oltre all’antifascismo da cui nasce la Repubblica, anche l’obbligo di ritenere sinonimi “male”, “brutto”, “sfigato” e “fascismo”, il fascismo non c’entra un tubo.
E dopo la prece, una sommessa domandina:
A vostro avviso, come dovrebbe fare il popolo italiano per coltivare “autonomamente dal basso …l’autentico sentimento che dovrebbe legare ogni concittadino italiano allo scopo di collaborare per il bene comune del nostro paese”, quando dall’alto gli viene minuziosamente e incessantemente martellato nella testa che “Italia” e “italiano” = corruzione, familismo amorale, evasione fiscale, arretratezza culturale, vigliaccheria servile, impresentabilità nei consessi internazionali, scarsa familiarità con il sapone etc., id est, daccapo “fascismo” nell’accezione onnivora e fantasy di cui sopra?
Chiedo se a vostro parere il popolo italiano, o il semplice, singolo cittadino o “concittadino” italiano dovranno sviluppare e coltivare il sentimento di personale e collettiva identità a mezzo di:
a) scienza infusa
b) dialogo medianico con i Padri della Patria
c) tatuaggio de “La spigolatrice di Sapri” su parti intime del proprio corpo
d) reinvenzione of a new and improved storia d’italia, nella quale “questo paese” (come lo chiama, con un vezzo rivelatore, chi lo disprezza) ha conosciuto la salvifica Riforma Protestante e si è trasformato in un “Paese Normale”, cioè a dire nella Gran Bretagna immaginaria e farlocca sognata da Eugenio Scalfari e Umberto Eco quando avevano quindici anni e per sentirsi più fighi indossavano le giacchette con due spacchi e la cravatta regimental?
@ buffagni
con sincero affetto: parlare di popolo italiano e di identità nazionale non ha alcun senso, non esistono. Possiamo fingere quanto ci pare, come fingiamo la nostra identità personale, ma è appunto un gioco. Per cui studiare a scuola letteratura italiana o ugro-finnica tradotta in italiano è perfettamente uguale. Come ha spiegato Elias ripreso da Pinker, il ruolo della letteratura è stato quello di veicolare storie di persone, che insieme a tanti altri fattori hanno implementato la nostra empatia e la spinta a cooperare, non per un supposto bene comune, ma perché se una persona viene educata in un certo modo capisce che è più conveniente cooperare che competere in certe situazioni.
a Dfw vs Jf.
Grazie del sincero affetto, che ricambio altrettanto sinceramente.
Mi è già stato detto (da un compagno di scuola più progredito) che Babbo Natale non esiste, posso resistere anche alla sua rivelazione che non esiste neanche l’identità italiana, il popolo italiano, la cultura italiana, e magari anche l’Italia se non come espressione geografica (quello me lo aveva già detto l’Abate Lamartine).
Va bene così, auguri per i suoi studi di ugro-finnico.
@ Buffagni. Nel sottoscrivere le parole di Michele, sinceramente al fascismo non avevo pensato, e avevo anche dato poco rilievo alla questione delle funeste conseguenze dei nazionalismi.
Avevo letto il tutto come un invito a riformulare l’insegnamento della letteratura su basi diverse da quelle desanctisiane, che mi paiono non essere più le nostre né rispondere alle nostre esigenze (fatto salvo il genio di De Sanctis: ecco, magari, basta storia della letteratura para(ormai)desanctisiana e leggiamo direttamente De Sanctis, che è sempre un piacere ad ogni pagina).
Per parte mia, tutto qui. Molto modestamente.
Caro Lo Vetere,
il fatto che lei, leggendo le parole di Michele Dr., non abbia pensato al fascismo, è per me una luce di speranza.
@dfw vs jf
parlare di popolo italiano e di identità nazionale non ha alcun senso, non esistono. Possiamo fingere quanto ci pare, come fingiamo la nostra identità personale, ma è appunto un gioco. Per cui studiare a scuola letteratura italiana o ugro-finnica tradotta in italiano è perfettamente uguale.
Posso chiederti perché?
@ lorenzo marchese
per intanto questo. premetto che queste cose le ho dette dopo aver letto testi di Steven Pinker ( il suo ultimo sul declino della violenza, nel quale cita e riporta test psicologici per supportare Norbert Elias, il processo di civilizzazione ), Jared Diamond ( il mondo fino a ieri, nel quale ci sono molti esempi di educazioni nelle società tradizionali: giochi nei quali non si deve vincere, ma ad esempio dividere un frutto in parti uguali e passarlo ai compagni. genitori che lasciano giocare i figli con le armi e che si lasciano offendere. figli piccoli cresciuti anche dagli adolescenti che poi non si troveranno a 30 anni con un alieno in mano ), vari testi divulgativi di neuroscienze: Dennett, Hofstadter, Boncinelli, Damasio ( l’errore di cartesio ). Peter Singer e la sua sinistra darwiniana, critica positiva al marxismo. testi sull’evoluzione e il comportamento animale. come funziona il comportamento morale. Eccezionali gli ultimi di Corbellini e Sirgiovanni come introduzione alla neuro-etica e soprattutto Tononi e Massimini sulla coscienza ( Nulla di più grande ). Tornando a Pinker e Elias, loro spiegano il declino della violenza e il processo democratico anche con la diffusione della letteratura e del romanzo. Il romanzo veicola storie di persone, di vite, che consentono di empatizzare (ovviamente qui la sto facendo semplice), per cui il valore educativo della letteratura vale a prescindere dalla provenienza della stessa. chiaramente se il fine è costruire un’identità nazionale verranno usati testi nazionali. ma che fine è? è l’identità nazionale a renderci cittadini migliori? No. è l’empatia. è il continuo conflitto tra cooperazione e competizione. C’è un esempio straordinario nel libro di Damasio ( Cartesio ). un paziente affetto da un tumore che superava brillantemente tutti i test che misuravano la condotta civica e che non era in grado di decidere di non prendere una carta che gli avrebbe fatto perdere dei soldi in un gioco. questo per dire che non è l’insegnamento dei valori a renderci morali, ma l’apprendimento di essi attraverso l’empatia con gli altri, perché la capacità razionale si sviluppa a partire da quella emotiva, senza la quale non siamo in grado di decidere nulla. Be’, sono tutte robe che sto leggendo, quindi, non posso essere proprio efficace. sullo studio della letteratura a scuola però sì, non ci piove. il canone e la provenienza sono indifferenti. e le coscienze sono soggettive. certe volte si possono pure sdoppiare, come nel caso di persone alle quali è stato dovuto tagliare il corpo calloso che collega i due emisferi. poi certo, se ci interessa far sentire le persone partecipi di concetti come Italia o nazione si lavori per questo. io non vedo il senso di costruire un’appartenenza a un insieme variabile di elementi scelti in maniera arbitraria.
@ Dfw. Quello che dice è interessante, certamente la funzionalità antropologica e psicologica della letteratura è cosa di cui tenere gran conto e le scienze cognitive e le neuroscienze possono dare prove empiriche.
Tuttavia, mi sembri un po’ troppo tranchant:
1) la letteratura sta anche in una cosa che si chiama storia che ha a che fare a sua volta con le identità. Io credo che tutte le identità siano costruite, ma sono costruzioni così lunghe, stratificate e complesse che non si può pensare di cancellarle con un tratto di penna, neanche se lo dice lo scienza. Sono cose realissime, che producono effetti storici immani.
2) Dunque non è proprio la stessa cosa leggere letteratura ugro-finnica e italiana, per un italiano, proprio per ragioni di identità. Le dirò di più: se abbiamo fatto storia della letteratura a scuola nel modo in cui l’abbiamo fatta qua in Italia è perché la letteratura era grosso modo l’unica cosa che univa gli italiani, anche se purtroppo solo al livello delle classi colte. Certo, oggi questo modello non funziona più, ma questo aprirebbe tutt’altro dibattito.
3) Questo neutralismo non funziona anche per altre ragioni. La letteratura italiana è una letteratura colta che ha funzionato da modello in Europa almeno in certe epoche. Quella finlandese è una letteratura popolare, fatta di miti e leggende. Insomma, i finlandesi non hanno Dante, Petrarca, Boccaccio e qualcun altro. Non è questione di superiorità civile o culturale, ma il punto c’è, e non lo si può rimuovere. Ma qui si aprirebbe un altro dibattito ancora sul rapporto tra cultura umanistica e culture popolari, su un canone europeo, ecc… e non è il caso.
la tranchantitudine è colpa di Baricco e del Pisapia calciatore di Sorrentino ( bellissimo quando gli dicono “apodittico” ).
Parto dalla fine. Ho detto ugro-finnica perché è il primo nome strano che mi viene in mente. E non ne faccio una questione di relativismo culturale. Mi sono agganciato al valore formativo della letteratura. Chiaramente un insegnamento volto alla comprensione storica e interna alla letteratura si baserà su modelli, canoni eccetera. Per quanto vale sempre il monito di non fissarsi e di insegnare un metodo in grado di adattarsi. Ma quando facciamo leggere i libri, non lo facciamo solo per insegnare letteratura, che in fondo interessa e influenzerà la vita di una piccola parte degli studenti. Un alunno di scuola media o di superiore in che misura è o si sente italiano? E in che misura un insegnamento influenzerà il suo sentirsi?. A proposito, il tuo primo commento ( ormai diamoci del tu, anche perché io sono un rompiscatole. Digressione ulteriore: sono ormai al quinto serale e farò la tesina mettendoci Gadda ) mi ha fatto tornare in mente Appadurai e i suoi esempi di come le persone usino la cultura, dal cricket che in India diventa sport popolare ai ragazzi islamici che fanno rap. Il valore che attribuiamo a Dante sta nella sua valenza universale piuttosto che particolare. E a me viene onestamente da ridere quando perfino Benigni ci chiede di sentirci orgogliosi, per quanto a fin di bene. Chiaramente anche al fine di insegnare come la costruzione di identità giochi il suo ruolo per la società vale auto-analizzare la “nostra identità”, ma io lo farei solo in modo critico, svelando, proprio per gli effetti reali che avvengono nelle persone. Su questo mi è piaciuto un passo di Butler nella sua Critica della violenza etica e di come l’identità possa essere violenta quando siamo noi a descrivere gli altri, e di come possa essere fragile quando siamo noi a descriverci. Ma per tornare al commento di Michele Dr. e al passo di Serianni, gioco ugro-finnico a parte, da piccoli leggiamo storie senza tempo e spazio, e dal momento che le emozioni sono universali, preparazione colta a parte, è davvero così importante leggere la sofferenza di una persona di un certo spazio-tempo? Non è più bello dare un’impronta nuova ( neo-sensibilismo Offlaga Disco Pax ) fino a quando si apprenderà un sapere più specializzato all’Università? Parlo della mia esperienza al serale: a parte me e un’altra compagna appassionata, leggere stralci di Dante, Petrarca, Boccaccio, Parini, Alfieri, Foscolo, Pascoli, D’Annunzio, con una breve intromissione di Shakespeare a cosa diamine serve?. Ho visto una classe appassionarsi giusto un po’ per la verve della prof, ma per il resto noia assoluta verso testi striminziti in una lingua incomprensibile. Io ho visto un film filippino di 7 ore e Parini è più noioso ( però dobbiamo tracciare il percorso risorgimentale; i padri fondatori americani parlavano di riscrivere la costituzione a ogni generazione ). Partecipazione zero, comprensione poca. Libri zero. Film zero. Musica zero. Teatro zero. Pittura zero. E lo stesso quando facevo il mattino qualche anno fa. Tutto perché?, perché non c’è tempo e bisogna preparare i ragazzi a cosa? A una prova di maturità.
“(..) leggere stralci di Dante, Petrarca, Boccaccio, Parini, Alfieri, Foscolo, Pascoli, D’Annunzio, con una breve intromissione di Shakespeare a cosa diamine serve?”
..a conoscerli, sapere che esistono, e sapere che è possibile reperire i loro scritti…serve ad avere un’opportunità ci conoscenza che è possibile cogliere o meno …
Il rapporto con le identità (non solo nazionali) altrui, anche ugro-finniche, è possibile solo a partire dal rapporto con la propria, che volendo si può anche odiare, ma non ignorare o far svanire.
E’ banale, ma è così.
Le culture e le nazioni non sono “insieme variabile di elementi scelti in maniera arbitraria”: scelti da chi?
Le persone non sono individui autoprodotti, sono figli e nipoti di qualcuno, il quale a sua volta, etc. La lingua che parlano non se la sono inventata loro.
Nel passaggio dalla lallazione infantile al linguaggio, si perdono tutti i suoni che non sono propri alla lingua madre, e che invece prima l’infante sapeva pronunciare.
In questo fatterello che ci comunicano i linguisti, direi che c’è anche un interessante apologo: per esistere come persone, come esseri umani reali, si deve rinunciare all’universo dell’astratto possibile, e determinarsi.
Poi, a partire da questa determinazione, che come ogni determinazione è anche una perdita, si potranno apprendere le lingue straniere: che però resteranno, anche se apprese a perfezione, sempre straniere, cioè non proprie, non materne.
Di nuovo: è banale, ma è così. Reclami ai piani superiori.
Io ho uno zio emigrato in Germania, che all’età di 18 anni, nel ’54, per lavorare ha lasciato l’Italia, ha completamente perso ogni cadenza, dice mia cugina, sua figlia, e ricorda poco e male l’italiano, il processo di integrazione è stato talmente efficace che considera la sua nazione la Gemania, è orgoglioso di essere tedesco è orgoglioso che le sue figlie siano tedesche, ama l’arte tedesca e scandinava. Quando viene in Italia per trovare sua sorella, mia madre, i due si abbracciano in un modo unico e commovente. Ma sempre ripete che non riuscirebbe più a stare in Italia, lo ripete ogni volta perché mia madre come un mantra glielo domanda. Quando è arrivato in Germania aveva la terza elementare, in Germania si è diplomato. E’ un grande il mio zio tedesco !!!… ed è la dimostrazione che l’integrazione è possibile.
l’Europa unita è un’opportunità per tutti, soprattutto per i giovani.
Ancora sul tema dell’identità nazionale. E’ stato proprio un ebreo tedesco emigrato negli Stati Uniti, Geoffrey Hartman, a scrivere nel saggio “The fatefull question of Culture” che “la mancanza di una casa è sempre una maledizione”. Sennonché Hartman, se è assai deciso nel respingere un generico e indistinto cosmopolitismo, è anche abbastanza scettico nei confronti dell’idea ‘volkisch’ di identità intesa come ricerca dell’integrità ed espressione del desiderio di appartenenza spirituale ad una qualche comunità. Riguardo poi alla tendenza, facilmente riscontrabile nella comunicazione quotidiana, ad attribuire ‘comportamenti tipici’ agli stranieri o ai connazionali, vi è da dire che non esistono generalizzazioni più discutibili in teoria, eppure più inevitabili in pratica. Per non oscillare ciclicamente tra il realismo metafisico delle ‘essenze nazionali’ e il nominalismo postmoderno della loro semplicistica negazione conviene allora rifarsi al primo importante pensatore che abbia scritto su questo argomento, David Hume, il quale nei “Saggi morali, politici e letterari”, pur ammettendo che “il volgo tende a portare agli estremi tutti i ‘caratteri nazionali'”, rilevava nondimeno che ciò non era però una buona ragione per negare la loro esistenza, poiché “ogni nazione ha un insieme peculiare di abitudini di vita e in un popolo si riscontrano determinate qualità più frequentemente che in un popolo vicino”. L’idea di Hume, secondo cui il carattere nazionale non è il prodotto di un ambiente geografico immodificabile, ma delle mutevoli condizioni politiche ed economiche, merita di essere tenuta presente per cogliere la differenza tra il carattere nazionale e l’identità nazionale, giacché il primo designa una tendenza stabile, mentre la seconda è una proiezione cosciente di sé. Se ci si chiede quindi da dove nasca il discorso dell’identità nazionale, occorre rispondere che esso nasce in gran parte dal declino dell’idea di carattere nazionale, declino prodotto essenzialmente dall’estendersi del mercato capitalistico e della sua logica ‘egualitaria’ di livellamento dei ‘caratteri nazionali’, oltre che dall’immigrazione di massa dai paesi extra-europei e dal consolidamento (sia pur relativo) dell’Unione Europea, laddove è indubbio che le questioni di cittadinanza e di sovranità, per la loro valenza politica e simbolica, investono il cuore dell’identità nazionale in modo diverso da come fanno i consumi e l’intrattenimento. Per quanto concerne l’Italia, sarebbe assai riduttivo un discorso che, nella sostanza, si limitasse a fare l’altalena fra il “Primato morale e civile degli italiani” di Vincenzo Gioberti e il “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani” di Giacomo Leopardi, che costituiscono gli archetipi, non saprei dire se più inconfessati o più inconsapevoli (potenza dell”angoscia dell’influenza’!), del dibattito su questo tema cruciale. Ecco perché il breve scambio di battute che si legge nella “Casa in collina” di Cesare Pavese rappresenta una ‘quasi-soluzione’, ancorché elusiva e compromissoria, molto diffusa: “‘Voi amate l’Italia?’ ‘No, non l’Italia. Gli italiani'”.
@ Barone
mi diresti cosa vuol dire “nominalismo postmoderno” e se per caso ti è venuto in mente leggendo i miei commenti? Te lo chiedo perché mi pare che venga tirato in ballo spesso quando commento, ma non capisco perché.
Per il resto, io non ho letto il testo di Gioberti, solo uno stralcio citato in Sublime madre nostra di Banti, ed era un discorso irricevibile, ma già il titolo dovrebbe farlo capire, su un miscuglio fra le discendenze romane ed etrusche e l’influenza cattolica. Dovrei rileggere Leopardi, che almeno mi pare giochi un’approssimazione accettabile e infatti parla di costumi. A parte ciò, ti faccio alcuni esempi: sto leggendo un libro sulla Prima guerra mondiale, e si parla della situazione un po’ comica della spaccatura fra l’aristocrazia militare tedesca che spingeva per combattere e allo stesso tempo non voleva prelievi fiscali e la leva obbligatoria perché sennò la plebaglia avrebbe sporcato le divise e uno tipo Ludendorff che diceva “ma dove andiamo, facciamo un piano economico di lungo periodo piuttosto”. Poi c’erano politici terrorizzati dall’eventualità della guerra, altri che invece dicevano combattiamo, anche se perdiamo sarà comunque bellissimo, con un po’ di citazioni da Nietzsche, ovvio. Oppure, c’è un libro sui kamikaze giapponesi che amavano la cultura occidentale, leggevano Mazzini e Marx, e annotavano frasi nei diari come: Io, questa confusione e anarchia sono io. E comunque, tu ami tutti gli italiani? Davvero mi ami? A San Valentino? :-***
@ roberto buffagni (avevo mandato giorni fa un post simile ma sembra sia andato perso):
sia tranquillo, se legge bene il mio post di prima non ho fatto alcun rapporto causa-effetto tra una “formazione para-militaresca o para-catechistica per formare un perfetto cittadino italiano avente valori identitari condivisi tra i suoi connazionali” e le “visioni identitarie e nazionalistiche e i loro relativi funesti esiti avvenuti nel secolo scorso” le ho citate solo per tenerle distinte dall’ “’autentico sentimento che dovrebbe legare ogni concittadino italiano allo scopo di collaborare per il bene comune del nostro paese” (e comunque il De Sanctis non era certo un fascista o un suo precursore). Volevo solo affermare il fatto che se forse tale obiettivo dell’insegnamento della letteratura aveva qualche giustificazione al momento dell’Unità d’Italia allo scopo di “fare gli italiani” al giorno d’oggi questa impostazione, checché ne dica Serianni, non ha più ragion d’essere (e tralasciamo il discorso sul chiedersi se abbbia maggiormente contribuito Alessandro Manzoni piuttosto che Mike Bongiorno a “fare gli italiani”, nel bene e nel male) e la cosa più sensata è che la letteratura debba essere studiata a scuola allo scopo di ” formazione di un lettore di testi letterari competente”, e non penso proprio basti una materia scolastica, anche se fosse educazione civica a portare ogni italiano a collaborare per il “bene comune”…
Secondo noi un classico é soggetto al tempo storico in cui lo é considerato, un classico di oggi, cioé che risponde a certi canoni del tempo in cui é stato scritto, sará diverso da un classico di due secoli fa. Ció non significa che le differenze siano per forza negative, la diversitá é salubre, anche nella scrittura. Se vogliamo parlare di “valore” anch´esso é relativo. Il fascino del classico di altri tempi é notevole, é robusto, fa parte del fondamento della letteratura che é comunque sempre un divenire, e come tale, aperta a nuovi modi di esprimersi, e che quindi non preclude a un libro “giovane” ma importante di essere definito poi un classico.