di Daniele Balicco
È difficile riuscire a trovare film italiani contemporanei capaci di raccontare il nostro presente in modo verosimile. Soprattutto commedie. Negli ultimi anni, il meglio della nostra cinematografia ha preferito il linguaggio del documentario e del dramma realistico. E così, il paese che ha inventato una via italiana alla commedia cinematografica, non riesce più a ridere di sé; se non in modo greve e improprio. Esistono eccezioni, ovviamente. Ed una di queste è proprio Smetto quando voglio di Sydney Sibilia (opera prima prodotta da Fandango ed Ascent Film, e interpretata, fra gli altri, da Edoardo Leo, Libero di Rienzo e Pietro Sermonti). Ma prima di raccontarvi perché questa commedia divertentissima, caustica ed intelligente, riapra finalmente i giochi per ripensare una via italiana alla commedia 2.0, può non essere del tutto inutile ragionare brevemente sulle cause dell’eclissi di questo genere e sulla non irrilevante posta in gioco che la sua forma nasconde.
Abbiamo già ragionato (La fiction italiana è oscena) sulla qualità oscena della fiction italiana; in questo articolo proverò a proporre alcune ipotesi sulle cause storiche e formali di questa condanna all’inverosimiglianza nella quale è stata schiacciata, ormai, da oltre tre decenni. Insisterò molto su un’opposizione possibile fra due categorie apparentemente contigue: realismo e verosimiglianza. Se è plausibile pensare in opposizione questi due concetti – ed è per ora solo un’ipotesi – con il secondo intenderò il codice standard di pensabilità del presente, mentre identificherò con il termine realismo lo spazio aperto dentro e contro i limiti di rappresentazione che la verosimiglianza impone. Per essere chiari: leggerò il verosimile come un effetto di potere, il realismo come una forma di antagonismo (poco importa, per ora, che sia una forma di lotta estetica più o meno efficace, più o meno subalterna, più o meno cosciente).
In questi ultimi trent’anni, la commedia italiana (e la sua sorella televisiva, la fiction) è mutata, con poche eccezioni, in un prodotto greve, magari di successo – vedi il caso Checco Zalone – ma sicuramente non esportabile (la possibilità di esportare una narrazione introduce da subito una serie di problemi legati al concetto di verosimiglianza come competizione interna al mercato cinematografico internazionale; ma su questo fra poco). La prima ragione di questa trasformazione va cercata fuori dal sistema estetico; la seconda, invece, al suo interno.
Vediamo la prima. La commedia e la fiction sono generi cinematografici che hanno bisogno, più di altri generi, di un rapporto energetico con il presente; di un coinvolgimento diretto, di uno sguardo fresco e seducente. Si ride, anche amaramente, del presente, se il presente è desiderabile. Ma qui ci scontriamo con la prima difficoltà. L’Italia della Seconda Repubblica si è trasformata vorticosamente in una realtà difficile da capire. In fondo non potremmo anche leggere l’impulso al documentarismo diffuso di questi ultimi vent’anni come un generoso tentativo di decifrare il geroglifico che siamo diventati? (Shall we doc). Al di là della sua atavica predilezione per lo stato d’eccezione, che impedisce generalizzazioni rassicuranti, l’Italia di questi ultimi trent’anni ha smarrito se stessa soprattutto perché ha continuato a pensarsi (e ad auto-rappresentarsi) con categorie politiche e culturali improprie, formatesi nel contesto del secondo dopoguerra e per questo incapaci di registrare i violenti cambiamenti strutturali che il nostro Paese stava subendo, al proprio interno e, soprattutto, nella sua collocazione internazionale. Meccanismi di difesa di ogni tipo hanno agito una trasformazione storica, rimuovendone il contenuto. Daniele Giglioli ha interpretato, nel suo ultimo saggio intitolato Senza trauma, i giovani romanzieri contemporanei come scrittori condannati ad una narrazione dell’inesperienza. Personalmente sarei portato a leggere la rappresentazione dell’assenza di trauma e lo schiacciamento della commedia e della fiction nella prigione dell’inverosimile osceno come uno stesso fenomeno estetico, alla cui base andrebbe però riconosciuto il lavoro di plurimi meccanismi di difesa: Giglioli lavora sulla negazione, ma potremmo riconoscere nell’esterofilia di massa una forma di identificazione con l’aggressore, nel mito politico degli anni ’70 un meccanismo di idealizzazione, nell’adattamento ad un quadro istituzionale incapace di pensare Legge e Conflitto una forma di regressione verso l’indifferenziato, etc… Per essere chiari: gli ultimi trent’anni sono stati, con le parole di Gramsci, un’età dove il vecchio non è morto e il nuovo non è riuscito a nascere. Mentre la drammaturgia realistica e il documentario prosperano o, meglio, possono prosperare, anche in una condizione drammatica di stallo, la commedia e il novel arrancano perché hanno bisogno che il presente sia desiderabile per essere verosimile; e viceversa.
Se questa è la prima ragione, avviciniamo ora la seconda, che è invece interna alla forma cinematografica: la fiction e la commedia italiana non sono state capaci di competere, o di reagire creativamente, alle trasformazioni formali imposte dalla nuova serialità cinematografica internazionale, per lo più statunitense. Per tantissime ragioni, ma soprattutto per l’imposizione di un nuovo codice di verosimiglianza che ci ha spiazzato culturalmente. L’invasione infestante e magnifica della nuova serialità americana, di cui tutti ormai da anni compulsivamente ci nutriamo, non ha solo cambiato il modo di raccontare il presente ma, soprattutto, il modo di desiderare cosa oggi il presente debba essere. Il livello standard di verosimile, al di sotto del quale la realtà rappresentata non è credibile, né desiderabile (per intendersi: la serialità RAI/MEDIASET è tutta drammaticamente al di sotto di questo standard così come il 95% delle commedie cinematografiche), si costruisce oggi con un alfabeto abbastanza semplice: la scrittura deve essere veloce e disinibita (violenza e pornografia non turbano più nessuno, anzi: da tabù sono diventate il materiale grezzo con cui le storie prendono forma); lo sguardo sulla vita deve essere preferibilmente disincantato, ironico o cinico, ma orientato da conflitti netti; la fotografia sarà per lo più estetizzante e le riprese dovranno sapere imprimere allo spazio del racconto un senso di apertura ed infinito. Con un azzardo, potremmo definire questo nuovo alfabeto del racconto come la compensazione estetica del nuovo comando capitalistico sulla vita: sradicamento vissuto come libertà, disinibizione come proprietà di sé, azzeramento del senso di colpa e di vergogna come autenticità, coazione al godimento come norma, narcisismo come individuazione etc… Con questo preciso alfabeto, Mad Man e The Wire, Shameless e Girls, Homeland, Breaking Bad, Boss e The Slap (ma l’elenco delle serie di questa spettacolare golden age può continuare ormai all’infinito) hanno costruito un universo estetico capace di rappresentare il presente in modo che oggi riconosciamo come verosimile. Ma il campo del verosimile – questa la tesi – è lo spazio estetico della lotta per l’egemonia: perché fiction e commedia agiscono, più di altri generi, sul senso comune di massa.
Smetto quando voglio è un film interessante proprio perché sublima una condizione realistica – le condizioni di vita miserrime di sette giovani ricercatori universitari, espulsi dal mondo della ricerca a causa dei tagli imposti dalla riforma Gelmini del 2007 – in una racconto di genere divertente, caustico e picaresco, portato però – questa è la novità sostanziale – all’altezza dello standard di verosimiglianza internazionale. Il modello del film è Breaking Bad, la pluripremiata serie americana ideata da Vince Gilligan, trasmessa da AMC, e terminata, dopo cinque stagioni, ed un successo di pubblico con pochi equivalenti al mondo, l’estate scorsa. Il protagonista della serie, Walter White, è un professore di chimica di liceo che scopre di avere pochi mesi di vita a causa di un cancro a polmoni. Si trasformerà, nell’arco delle cinque stagioni, da uomo debole e abituato per lo più a sopravvivere, in uno dei più potenti produttori di metanfetamina degli Stati Uniti. L’adattamento italiano è abbastanza preciso: Pietro (Edoardo Leo) è un giovane ricercatore universitario di chimica che perde, nello stesso tempo, contratto di ricerca e promessa assunzione in ruolo. Restando disoccupato, decide di produrre insieme ad Alberto (Stefano Fresi), amico scienziato che lavora come lavapiatti in un ristorante cinese, una nuova droga sintetica e di entrare così, insieme ad altri cinque ricercatori allo sbando, nel mondo dello spaccio di droga romano. La scrittura diretta e dissacrante, l’eleganza della regia, la scelta di una fotografia sbilanciata su colori acidi, la velocità dei tagli e della narrazione, la rappresentazione di Roma come spazio metropolitano potenzialmente infinito, garantiscono alla storia una godibilità rara: riconosciamo quello che viene proiettato sullo schermo come verosimile perché è detto in una forma adeguata al presente estetico nel quale siamo immersi. E qui però si apre finalmente una posta in gioco interessante: nell’adattamento al contesto italiano, la storia non può che perdere il tono tragico, di lotta universale fra Bene e Male. Questo conflitto primitivo, che struttura la psicologia e la narrazione americana, per essere credibile in Italia, non può che essere corretto da uno sguardo ironico e dissacrante. Il mondo da tragico diventa grottesco e la vita di questi sette ricercatori universitari allo sbando viene sì raccontata con l’alfabeto dei nostri giorni, senza moralismi (come ancora, per esempio, nel Virzì di Tutta la vita davanti) e senza redenzione alcuna. Ma conservando, nell’autoironia della narrazione, l’incapacità tutta italiana di vivere il tragico come conflitto elementare fra opposti; che poi è, nel bene e nel male, il nostro modo di essere moderni. Speriamo davvero che un film come Smetto quando voglio apra la strada per ripensare ad una rappresentazione cinematografica adeguata a quanto potrebbe essere oggi un’idea di commedia all’italiana 2.0. (ma basterebbe dare anche solo un’occhiata alla nuova serialità web – come la mini serie di Ludovico Bessegato intitolata Kubrick – per rendersi conto che una nuova energia narrativa sta finalmente prendendo forma).
Se vale quanto detto all’inizio di questo articolo, iniziare a raccontare il presente accettando di competere sul piano del verosimile internazionale non è un semplice atto estetico: è un modo per iniziare a fare i conti con un egemonia fortissima, come quella anglo-americana oggi, uscendo finalmente dall’inverosimile osceno, che non è altro se non puro stigma di subalternità. Con Smetto quando voglio si ricomincia a ridere del nostro presente in modo intelligente e verosimile. Riattivando il sentimento del contrario, si abbassano i meccanismi di difesa. Chissà, forse è solo un abbaglio. Oppure è il primo segno visibile che il vecchio sta iniziando a morire davvero e il nuovo può finalmente nascere.
[Immagine: Smetto quando voglio di Sydney Sibilia].
Splendido!
completamente d’accordo, ma il film? che ci dici del film?
bella bella bellissima analisi! e per sapere del film, corro semplicemente a vederlo!
Il film è molto divertente. Certo, la dipendenza estetica dalle serie tv citate nell’articolo è pregnante, il che mi fa sperare che un’ipotetica commedia 2.0 possa trovare anche vie alternative, originali e meno subalterne. Però, la cosa è accettata con ironia, e anche apertamente sbeffeggiata. Quando uno dei protagonisti si prende le botte dagli scagnozzi del Murena, due energumeni tatuati fino al collo, gli urla contro, ridendo: “Ma state proprio in fissa con queste serie americane! Non vi si può vedere!”.
Comunque è la prima volta, negli ultimi anni, che mi sono trovato a ridere di gusto con un prodotto italiano.
Ho letto l’articolo (bellissimo) con grande interesse e più volte per cercare di capire bene alcuni concetti e volevo suggerire che prima di SMETTO QUANDO VOGLIO a farci ricominciare a ridere in modo verosimile e intelligente del nostro presente c’è stata la serie tv – da me amatisisma- BORIS (in cui peraltro recitano molti degli attori che ritroviamo nel film di Sydney Sibilia).
@ Lucrezia
Gentile Lucrezia,
sono d’accordo con lei. Boris è stata la prima mini serie che ha rotto l’incantesimo soffocante dell’inverosimile osceno. Nello stesso tempo, però, essendo un gioco meta-cinematografico, il suo scopo era quello di corrodere dall’interno l’immagine della fiction italiana più che competere con il verosimile internazionale, come invece fa Smetto quando voglio. Comunque sia, sono d’accordo con lei: Boris è l’incunabolo di questa nuova energia espressiva che sta finalmente prendendo forma. O per lo meno speriamo che sia così
Intelligente e acuta analisi di un film per arrivare a far luce sul presente e i suoi limiti. Grazie