cropped-VIADOTTO-COPERTINA-1_2.jpgdi Marco Bellardi, Daniele Giglioli e Gabriele Pedullà

[Il romanzo d’esordio di Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013), sta suscitando un dibattito critico notevole. Qualche settimana fa ne abbiamo pubblicato un brano (qui). In rete si possono leggere, fra le altre cose, gli interventi di Andrea Cortellessa e di Carlo Mazza Galanti. Quelle che seguono sono le recensioni di Marco Bellardi (inedita), di Daniele Giglioli (uscita sul «Corriere della Sera») e di Gabriele Pedullà (uscita, in una versione ridotta, sul «Sole 24ore») (gm)]

Marco Bellardi

A proposito di postmodernità, Ceserani individuava un punto importante nell’esperienza di straniamento vissuta dai nati negli anni Trenta, particolare per il fatto di sentire più tardi non solo o non tanto la differenza rispetto ai padri, ma rispetto a sé stessi da giovani. Ivo Brandani, sessantanove anni nel 2015, è invece un «prodotto perfetto» del Tempo di Pace (p. 224) e il suo rapporto attrazione/repulsione con il passato prebellico è filtrato dalla sola figura del padre, «il Nemico Interiore» violento ed ultimativo. Attraverso il genitore passano le rare allusioni del libro a un periodo avvertito come concluso: però non c’è un vero rapporto dialettico, solo rottura e impossibilità di una piena comprensione. Il mondo di Brandani comincia nel ’46 e si nutre di altre narrazioni, di «istituzioni mentali» (Madre & Padre, la Città di Mare, la Città di Dio, il Senso del Mare, ma pure la nozione di Baretto o di Sega) sedimentate come reperti fossili nella coscienza, mitizzazioni di vita vissuta che costituiscono il codice genetico in fieri della nostra memoria.

La vita di Brandani è tutta qui, nelle elucubrazioni di una mezza giornata in aeroporto alternate alle aperture sulle tappe fondamentali di un passato colto a passo di gambero: il disarmo alla fine di una carriera da «Ingegnere Strutturista che non progetterà mai nulla» (p. 95), travolto da incombenze burocratiche; le estati della maturità nell’amata Grecia, la passione per la pesca; i primi passi nella grande azienda, i fraintendimenti, innanzitutto di se stesso; gli anni universitari, il Movimento studentesco, le botte non prese e la scelta di passare da Filosofia a Ingegneria per costruire ponti; l’estate fulcro dell’adolescenza, la scoperta del corpo della donna; la Roma dell’infanzia nelle passeggiate obbligate con il padre, l’educazione cattolica e le leggi non scritte («una società retta da un sistema gerarchico primitivo e ferreo», p. 438-9) degli amichetti sgangherati della scuola; gli anni dell’immediato dopoguerra fuori Roma, le durezze di Padre (Inesorabile, inesorabile, p. 477) e la «modalità consolatoria & accogliente» di Madre, la Buca di Bomba nel retro di casa.

Nel corso di questo libro di trame mentali si precisa il tema tutto postmoderno del non avere sostanziali difficoltà materiali nella vita (p. 107) da parte di un «Ceto Medio Mondiale nell’esercizio del Tempo Libero», con tutto il portato di fatue nevrosi sovralimentate. Ma l’impeto analitico di Brandani si spinge fino alla considerazione delle frange estreme di questo periodo storico: il «mondo che sta per finire» indicato in copertina è allora forse (volendo giocare con le etichette) proprio quello della postmodernità, che apre le porte agli iper-ismi, perché ormai siamo «tutta cultura» e i viaggiatori che Brandani vede in aeroporto «ormai sono diversi da lui, hanno radici più recenti. I nativi del capitalismo mediatico non posseggono la nozione di opposizione, di alternativa, e nella contemporaneità ci si ritrovano come topi nel formaggio». E allora anche Brandani può scoprirsi straniato una volta di più nel considerare che il futuro immaginato da ragazzo sui racconti Urania «si è deteriorato», e il mondo si sta trasformando in «fake planet», anzi è già «post-natura», avendo visto «la nascita dell’iper-tetta & dell’iper-culo» (pp. 142-7), e potendo bene accogliere anche la finta barriera corallina a cui sta lavorando.

Il rapporto tra postmodernità e inautenticità è riarticolato anche secondo schemi di fascinazione e coazione con l’episodio culminante nella vacanza in barca del neolaureato Brandani con il suo capo De Klerk, la macchietta del manager di successo (spiccio, impeccabile, perfetto anche nel nome: cfr. l’inglese clerk, “impiegato”, “addetto”) che ne incarna e unifica la sostanza aderendo «al mondo così com’è» (p. 152). Nella subordinazione di Brandani a questo personaggio, e nella sua successiva insubordinazione, rinveniamo l’ovattarsi dell’utopico refrain della giovinezza, quell’«Io non sono come voi, non mi avrete mai» (p. 159) che scandisce il capitolo, il tentativo di Ivo di marcare sempre una differenza di immagine, di stile, per “non integrarsi”, cadendo nel ridicolo agli occhi di Clara, più chiusa e ingenua di lui ma certo più onesta.

Se «il Tempo di Pace è solo una guerra silenziosa di tutti contro tutti» (p. 226) dove conviene fare i conti a partire da sé stessi, i colpi più duri sono diretti contro i modelli rivoluzionari del ’68. Agli occhi di Brandani il Movimento è minato alla base dalle sue stesse interne dinamiche. Sono i momenti più spietati del libro, in cui emerge una volontà dissacrante e non consolatoria: «Anche il Sessantotto fu solo una manifestazione finale… L’esito politico di una rivoluzione culturale partita negli anni Cinquanta e durata una decina d’anni, il tempo che servì ai baby boomers piccolo-borghesi come me per diventare grandi e guardarsi in faccia» (p. 230).

A fare da collante, in questa vicenda individuale che vuole farsi collettiva è il tema centrale del disfacimento, legato a doppio filo con quel «senso di catastrofe» che troviamo in incipit nella grandiosa metafora della caduta di Bisanzio. In questa prospettiva è interessante notare il ciclico riapparire in sottotraccia del motivo scatologico, che esplode nel calcolo delle deiezioni mondiali giornaliere posizionato quasi in chiusura, ad epitome dei processi di trasformazione e contaminazione.

Per lo schietto pessimismo che ne emerge, l’opera di Pecoraro può evidentemente essere agganciata ad alcuni riferimenti nazionali, primi fra tutti quelli di Svevo (per la «catastrofe inaudita» avvertita da Zeno – ma aggiungerei anche per il modello di Senilità, qui in parte ribaltato) e del Gadda del Giornale di guerra e di prigionia, oltre a quelli già fatti da alcuni commentatori di Calvino, Pasolini e Siti. Però forse il principio strutturante del testo va ravvisato nel Montale de I limoni. «La mente indaga accorda disunisce»: Brandani sembra ostinatamente indagare «l’anello che non tiene» del mondo postbellico. Nella visione aerea della cementificazione della Penisola, quest’uomo ormai guastato dal proprio tempo osserva il potere distruttivo della concretezza (ancora l’inglese concrete, “cemento”), e come ogni tentativo di progresso infligga al mondo una piccola spinta in direzione del nulla: «la sommatoria di tutto questo bene parziale, puntuale, circoscritto, non costruisce un bene più grande, non migliora il mondo, ma lo addomestica e lo uccide» (p. 501), espressione definitiva del nocumento apportato dalla cultura alla natura.

In un mondo naturale alla rovina e in cui ogni sorte progressiva è stata soppressa, il nichilismo che s’affaccia pare senza rimedio. Ma noi apprezziamo la scelta stilistica più appariscente del testo, quella delle «istituzioni mentali» tutte rivolte al passato e anti-utopiche, ma anzi ben fissate nel tempo e nello spazio. Cosa ci resta nella vita se non immagini sintetiche, scorci emozionali, il colore di un oggetto usato, il tono di un rimprovero, la caviglia di una lontana amante? A ciò si aggiunge l’adozione da parte di Pecoraro di un procedimento stilistico largamente assimilabile all’endiadi retorica, che ritaglia la coppia peculiare, quasi il codice binario di quel che Ivo Brandani esperisce: i poli opposti e irriducibili di «Madre & Padre», pur nell’unità del nucleo famigliare; oppure la duplice qualità di un sentimento, di un oggetto, di un personaggio: «soldi & macchina (Fabrizio), fisico & prestanza (Max), cultura & parole (Sandro)» (p. 337).

Nel finale, al rintoccare delle inesorabilità, quando le direttrici temporali tracciate dall’autore come orbite di moto opposto si ricongiungono, la luce si eclissa. Una potente analogia accosta allora la Buca di Bomba all’oblò nel volo terminale dell’ingegner Brandani. Ivo guarda nel buco come guarda dal finestrino, finalmente ci cade per scoprire che è poco profondo, benché colmo di rifiuti e lattine taglienti, e Pecoraro, con uno splendido stacco (una “parallissi”: a questo punto del libro possiamo immaginarci il furibondo disprezzo di Padre nei confronti di Ivo, che rimane nel non detto) condensa il significato conclusivo del suo libro. Il piccolo cratere infestato di ortiche che si imprime nella memoria del bambino anche per via del comando paterno («tu non ci cadere dentro», p. 469) è forse il simbolo autentico di un Tempo di Pace su cui hanno attecchito questioni urticanti.

Sistemati alcuni conti col passato, La vita in tempo di pace ci invita a prendere in carico questo fardello di soluzioni equivoche e occasioni mancate. È il romanzo italiano della postmodernità, amarissimo.

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Daniele Giglioli

Il 29 maggio del 2015 l’ingegner Ivo Brandani, sessantanove anni, muore in volo. Non sul suo amato Spitfire, il caccia perfetto della seconda guerra mondiale di cui fantastica fin da bambino, ma su un aereo di linea che lo riporta in Italia da Sharm el-Sheik, tempio del turismo di massa, dove cura per una multinazionale giapponese un progetto di ricostruzione sintetica della barriera corallina. Cose che capitano a chi si trova a vivere La vita in tempo di pace, romanzo capolavoro di Francesco Pecoraro (dopo un volume di racconti, una raccolta di prose già pubblicate on-line, un libro di versi). Era meglio morire eroicamente sulla Manica durante la battaglia d’Inghilterra?

Domanda senza risposta. Brandani ha avuto solo quella vita, e Pecoraro la ripercorre attraverso una raffinata costruzione narrativa a corrente alternata che intelaia in terza, in prima e anche in seconda persona (quando il narratore si rivolge a se stesso) gli andirivieni del suo flusso di coscienza. Da una parte i capitoli dedicati al giorno ultimo, in successione cronologica dal mattino alla sera. Dall’altra una serie di ricordi disposti in senso inverso, dai più recenti ai più antichi: il grigio impiego come dirigente comunale a contratto in una Roma alluvionata; i lunghi soggiorni estivi su un’isola greca molto amata; il rapporto perverso con l’amministratore di un’azienda che lo ha assunto dopo l’università; il sessantotto militante in cui sperimenta i primi attacchi di panico e i turbamenti che lo porteranno ad abbandonare Filosofia per Ingegneria nella speranza che farsi costruttore di ponti salvi lui e la specie dall’entropia cui sembrano votati; l’adolescenza inquieta, l’impaurita infanzia di sfollato. Verso avanti il poco tempo che resta, a ritroso tutto ciò a cui non si ci rassegna che sia stato.

Tonalità emotiva dominante è infatti l’irritazione, il risentimento, il furore ulcerato di chi nel fatto stesso che le cose siano come sono sente un’intollerabile lesione alla pelle del suo Io. Il romanzo di Pecoraro è un’ininterrotta accusa contro la vita, ovvero contro tutto ciò che è: metamorfosi perenne, presente in perpetua dissolvenza, in nome di ciò che dovrebbe essere: stabilità, ordine, responsabilità, ragione. Deluso nel suo orgoglio di homo faber, perseguitato da un onnipresente senso di catastrofe («La vedeva in ogni iniziativa di trasformazione della realtà»), Brandani interpola alla sua affabulazione lunghi inserti riflessivi che rispondono all’assedio del reale con la fuga nel concetto. Distogliersi dalla contingenza è l’imperativo, non fosse che nella generalizzazione si trova solo altro dolore, uno sconforto più profondo perché ragionato.

A questa sostanza traumatica, che è poi la struttura stessa dell’esistere, Brandani oppone una muraglia cinese di spietata precisione nomenclatoria, prelevando copiosamente dai linguaggi settoriali più tecnici (architettura, archeologia, geologia, chimica, biologia) e concedendosi di rado l’ambiguo sollievo della metafora, figura della fusione, dell’amalgama tra Io e mondo. Impaginazione dell’angoscia, distanza, durezza, frontalità, resa visiva di ciò che si ha schifo di toccare (a parte Mare e Madre, utopia del ritorno a un grembo indistinto non fangoso e malevolo come la Città, su cui regna un Padre insieme onnipotente e inappagato). Vendetta, anche: se riflessioni e descrizioni sopravanzano gli eventi, è perché nella realtà sono gli eventi a sopraffarci, macroscopici o microscopici che siano – la globalizzazione che divora il pianeta, l’ameba che lo porterà alla morte -, in ogni caso eccedenti la potenza ordinatrice dell’umano. Ma vendetta consapevolmente ridicola, se le sue geniali elucubrazioni altro non sono che il farneticare di una mente che muore, mentre si accusa e si deride con la crudeltà che può avere solo chi segretamente si adora – e si disprezza per questo. La disperazione metafisica di Brandani è il pendant tragico del cinismo di tanti altri ex sessantottini. Volontà di potenza andata a male: volevamo tutto, e se non ce l’abbiamo fatta noi…

Scontento politico e frustrazione creaturale si tendono lo specchio. L’exploit di Pecoraro è aver calato la visione di qualcosa che è sempre – all’ingrosso: la condizione umana – nella storicità perfettamente colta dell’Italia del secondo dopoguerra: ricostruzione, benessere, il sessantotto come falso movimento, la lotta di tutti contro tutti in cui si misura la degenerazione attuale. Doveva andare diversamente. Non poteva andare diversamente. Nella tensione tra i due assunti, contraddittori eppure entrambi veri, si dibatte Ivo Brandani, esponente terminale di un secolo, il Novecento, che con la politica ha creduto di tagliare il nodo di Gordio risolvendo la natura in storia. Ora è il tempo del contrappasso: non vincono che i batteri e il capitale, forze mutanti che realizzano in forma d’incubo il suo sogno di un presente eterno. Non c’è Spitfire che tenga: il singolo non può farcela con loro, e in tanti è ancora peggio. Non mi avrete mai, era il motto di Brandani. Come no. Al cinema, forse. Mi chiedo quanto sia costato a Pecoraro drizzare il suo trionfo artistico sulle ceneri di una sconfitta così.

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Gabriele Pedullà

Per un paio di stagioni, sei o sette anni fa, nelle loro interviste i giovani narratori italiani non facevano che parlare del Grande Romanzo Italiano. «Vorrei fare il Grande Romanzo Italiano», «Lui sì che potrebbe darci il Grande Romanzo Italiano», «Chissà se qualcuno di noi scriverà mai il Grande Romanzo Italiano»… L’espressione veniva dagli Stati Uniti, dove si parla comunemente di Great American Novel per gli affreschi che in diverse centinaia di pagine (cinque o sei, come minimo) ripercorrono alcuni decenni della storia recente, raccontando attraverso una vicenda esemplare il «come si è diventa ciò che si è» di un intero popolo. Urgeva anche da noi adeguarsi ai modelli statunitensi.

Come tutte le mode effimere, anche la caccia al Grande Romanzo Italiano si è esaurita rapidamente. Leggendo il recente La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro viene però da chiedersi se il concetto non potrebbe tornare utile per descrivere questo imponente libro di oltre cinquecento pagine, che ripercorre il nostro secondo Novecento attraverso la vita dell’ingegnere Ivo Brandani, dal 2015 prossimo venturo al lontano 1946, andando inesorabilmente all’indietro, ancora e ancora, sino all’origine di tutto, un poco come avviene in Underworld di Don De Lillo (un Great American Novel, senza alcun dubbio). Strillo di copertina e bandella indirizzano il lettore su questa strada, pur senza pronunciare mai la fatidica espressione.

Con tutta la buona volontà, Pecoraro, classe 1945, non può esattamente definirsi un giovane scrittore, anche se questo è solo il suo secondo libro di narrativa, dopo una raccolta di racconti, Dove credi di andare (Mondadori 2007), al suo apparire giustamente apprezzata dalla critica. In questo caso però l’anagrafe non c’entra. Se la categoria di Grande Romanzo Italiano non pare troppo pertinente per descrivere La vita in tempo di pace è anzitutto perché l’autore dimostra di credere assai più alla Natura che alla Storia: persino quando è di eventi eminentemente storici che parla. Il romanzo si apre non a caso sul racconto dell’assedio e della caduta di Costantinopoli – una ossessione del protagonista – descritti come il collasso di una cellula davanti all’aggressione di un agente patogeno esterno, dove il passaggio dei germi attraverso le ferite che gli uomini si infliggono sul campo di battaglia replica in scala minore l’apocalissi culturale dell’Impero bizantino. Altre distruzioni seguiranno, a cominciare proprio dalla cornice che contiene i diversi frammenti di memoria e che narra le ultime ore di Brandani, impegnato a progettare in egitto una barriera corallina artificiale che sostituisca in gran segreto quella vera, sul punto di scomparire per effetto del surriscaldamento globale. La furia elencatrice del narratore è, da questo punto di vista, un chiaro indizio malinconico, essendo per lui gli elementi del catalogo nient’altro che i frammenti di un ordine ormai in frantumi.

Assedio e ossessione condividono la medesima etimologia, e l’indizio si rivela utile anche per Pecoraro. Dopo le prime pagine Bisanzio scompare dal romanzo ma a questo punto le carte sono ormai state disposte. Ci è stata presentata la nevrosi del protagonista (ingegnere come il più nevrotico degli scrittori del nostro Novecento, Carlo Emilio Gadda), e ci è stata offerta la chiave per interpretare una vicenda che, capitolo dopo capitolo, e soprattutto crollo dopo crollo, verifica con precisione scientifica una implacabile morale neodarwiniana. Per quanto si credano liberi, gli uomini obbediscono a impulsi che li trascendono – la lotta per la vita, la lotta per la riproduzione. In altre parole sono agiti assai più che agenti. Esattamente come i germi che infestano le mucose e gli orifizi dei soldati impegnati nella battaglia con cui si apre il romanzo.

Scrutati da lontano, con la più radicale delle operazioni di straniamento, gli esseri umani non sono che degli organismi appena più complessi, ma altrettanto vulnerabili e sofferenti: ridicoli nella loro pretesa di collocarsi al centro dell’universo, e tuttavia commoventi per il dolore senza risarcimento al quale neanche loro possono sottrarsi. L’equivalente stilistico di questo salto di scala è il passato remoto alla prima persona plurale, cui Pecoraro ricorre saltuariamente, ma con un effetto potentissimo, innalzando di colpo il dettato del suo racconto, da vicenda individuale e tutto sommato privata, a epica di un mondo prossimo al tramonto: «Cosa è stato vivere settant’anni in Tempo di Pace? In cosa fummo diversi dai padri e dai padrei dei padri? Padri, nonni, bis-nonni, su su fino a risalire nel tempo, vissero ciascuno nel proprio mondo ed erano mondi non paragonabile a quello in cui vivemmo noi: mai c’è stata prima una pace così lunga, mai un’accelerazione così forte delle cose, mai gli oggetti si sono così rapidamente trasformati in altri oggetti, mai una instabilità così accentuata…».

Come insegnano i romanzieri illuministi, la superbia intellettuale dei sapiens sapiens può essere facilmente contenuta con un semplice gioco prospettico. Nel caso de La vita in tempo di pace tale gioco prospettico appartiene al personaggio non meno che al narratore. Vittima di devastanti e riccorrenti attacchi di panico, Brandani associa l’ansia a un preciso senso di sdoppiamento. L’indicazione possiede però un valore più generale, conoscitivo piuttosto che psicologico, perchè è proprio a uno sdoppiamento analogo che Pecoraro si affida per liberarci dalla illusione antropocentrica della Storia e portarci, a poco a poco, a osservare le vicende umane con gli occhi impassibili dello scienziato che contempla i guizzi dei bacilli sotto le lenti del microscopio. È solo il panico, insomma, che consente all’ingegner Brandani di vedere con tanta chiarezza il nostro presente, alternando liberamente la prima e la terza persona e una prosa più sobria e tagliente con un monologo interiore decisamente più magmatico (Gadda avrebbe parlato di «gioco ab interiore» e di «gioco ab exteriore»).

Pare che la prima ipotesi dell’autore fosse quella di intitolare il proprio romanzo Spitfire, dal nome del caccia inglese più ammirat dall’ingegner Brandani. Eppure, è sufficiente tradurre in italiano il nome dell’aereo da guerra – alla lettera «Sputafuoco» – per poter leggere in questo titolo mancato una pertinente descrizione del suo protagonista. Brandani riversa contro il mondo il suo dolore e le sue frustrazioni: conosce (e ci fa conoscere) attraverso l’insofferenza e persino l’intolleranza. Il viaggio al ritroso nel tempo è dunque anche, da questo punto di vista, un viaggio all’origine del tormento del protagonista.

Brandani, però, a dire il vero non crede molto nella psicologia. Uomo concreto, o meglio uomo che ha scelto la concretezza del faber contro l’astrazione della teoria quando ha abbandonato gli studi filosofici per divenire ingegnere (percorrendo al contrario la strada di Wittgenstein), l’eroe di Pecoraro si affida alle pillole e agli ansiolitici per tenere a bada il proprio risentimento. L’unico psicoanalista che si affaccia ai margini del racconto, nel capitolo intitolato «Il Senso del mare», è un relitto di uomo, ma anche – scopriremo – un competitore del protagonista nella inarrestabile competizione dei maschi per le femmine fertili. Da un individuo così è inutile aspettarsi qualsiasi forma di solidarietà o aiuto.

Niente Freud, dunque. Eppure, a differenza degli scrittori delle generazioni successive, i quali evidentemente hanno sperimentato un rapporto diverso con la figura paterna, ne La vita in tempo di pace le relazioni con il pater familias e in generale con l’autorità sono ancora altonovecentesche: vale a dire, nella sostanza, edipiche. Il padre (anzi come scrive Pecoraro: Padre, esattamente come fa con Madre, Isola, Sorella Maggiore, Sorella Minore, Buca di Bomba, Città di Mare, Città del Nord, Città di Dio, alla ricerca di un sistema di riferimenti assoluti, che liberino il romanzo dalla sua più scontata referenzialità naturalistica, anche se Milano e Roma sono inconfondibilmente loro), il padre è ancora il grande oppositore del protagonista, che proietta la sua ombra oscura su tutto il romanzo. E così i suoi alter-ego simbolici – educatori, preti, superiori, docenti universitari.

Al rifiuto del genitore corrisponde nel romanzo di Pecoraro una ricerca ininterrotta di altri modelli maschili praticabili. Un fratello maggiore? Un amico più grande? In parte quest’ultimo c’è, nella persona del più saggio Franco Sala, al quale Pecoraro affida le riflessioni più culturalmente consapevoli che non si sente di affidare a Brandani (ecco un altro potenziale sdoppiamento). Di certo, nella letteratura italiana degli ultimi decenni, solo in Fenoglio si trova una ammirazione altrettanto pronunciata per la pienezza virile. Anche la rinuncia del protagonista alla teoria per la pratica sembra fare parte di questa aspirazione a un ideale tutto fattivo dell’esistenza. E il suo rifiuto di generare a sua volta un figlio, oltre che frutto casuale degli eventi, è anche un modo per marcare ancora di più il distacco da una figura ostile e incomprensibile. Brandani potrà vendersi al Capitale, ma rifiuterà sempre di trasformarsi nel detestato tutore dell’ordine costituito che per lui è sempre stato Padre. Anche l’ateismo del protagonista, d’altra parte, più ancora che come una ricaduta delle sue convinzioni materialistiche e darwinistiche, può essere letto come una sfida al creatore per eccellenza. Il sospetto verrebbe anche senza quella maiuscola così compromettente.

A tratti, rifacendosi alla lezione dell’altro grande ingegnere narratore del secolo scorso (Robert Musil), Pecoraro imbocca la strada del romanzo-saggio. Ne La vita in tempo di pace (ma il titolo potrebbe tranquillamente suonare «La lotta per la vita in tempo di pace»), il lettore si vedrà magnificare la splendida aerodinamica dello Spitfire, sarà erudito sull’arte di costruire ponti, informato sui meccanismi delle tangenti nei paesi di quello che un tempo chiamavamo Terzo mondo, indotto ad ammirare l’evoluzione dei carapaci, portato a dissezionare la topografia di Roma alla ricerca di un perfetto ordine geometrico sempre negato e tuttavia sempre inseguito contro la tirannia delle rovine antiche e le sinuosità del Barocco. Digressioni, occorre dirlo, spesso straordinarie. Eppure, al tempo stesso, Pecoraro non perde mai di vista gli obiettivi – tutti squisitamente narrativi – di una pagina sempre e comunque incandescente per la sofferenza psicologica del protagonista. La vita in tempo di pace è un vero romanzo, anche nelle sezioni apparentemente più meditative e astratte. Lo vediamo bene in quello che è forse il più virtuosistico dei capitoli del libro, «Il Senso del mare». Qui, all’assoluta immobilità di Brandani, il quale, in vacanza su un isola greca assieme alla giovane compagna (siamo nel 1996), ha scelto di non unirsi a una grigliata di amici e, uzo dopo uzo, rievoca in solitudine la sua antica passione per l’universo acquatico, corrisponde l’estrema dinamicità degli altri personaggi, che lo cercano, lo incalzano, lo stringono: sino al dramma finale. Dopo tutto, darwinianamente, ne La vita in tempo di pace sono quasi sempre le donne, le femmine della specie, che con la loro semplice presenza – a seconda dei casi oggetto o soggetto del desiderio – mettono in moto l’azione.

Con un personaggio ingegnere e un narratore che nella sua prima vita è stato architetto, non è strano che molte delle sezioni para-saggistiche riguardino la conformazione dello spazio e in particolare della città. Non si tratta ovviamente di un campo metaforico poco sfruttato: ma se gli autori novecenteschi, a cominciare dal nostro Calvino, sono stati affascinati soprattutto dal nesso città-comunità (la città come civitas), a Pecoraro sta a cuore invece piuttosto quella che i Romani avrebbero definito l’urbs, vale a dire la struttura razionale delle strade e dei palazzi. La città ideale di Brandani, che si incarna nella geometria del quartiere Prati, risponde a un sogno di purezza assoluta che finisce per considerare gli stessi abitanti, questi disgustosi infestatori, come una potenziale minaccia all’ordine della linea retta. L’ossessione per le fortezze (che permette di avvicinare Pecoraro al Sebald di Austerlitz) è una diretta conseguenza di questa tendenza a considerare gli uomini soprattutto nella loro dimensione di distruttori della perfezione formale dei puri volumi. Solo la vita acquatica, dove tutto è mobile senza per questo diventare caotico, sporco, disordinato, possiede per il protagonista – al polo opposto – una carica utopica paragonabile.

Da un punto di vista narrativo, il darwinismo evoca inevitabilmente ricordi di remote lezioni liceali su Zola, Verga e i veristi siciliani. In Pecoraro, invece, esso assume una funzione prettamente antinaturalistica. La lotta per la sopravvivenza e la legge del desiderio sono così onnipotenti che condizionano gli uomini con la forza di un destino cieco assai più che attraverso il calcolo razionale dell’utile e dell’onesto. Più simili a forze ancestrali, nel romanzo i condizionamenti biologici hanno dunque il compito di spalancare orizzonti che la semplice, scontata logica del massimo profitto personale non sarebbe mai in grado di raggiungere: schiudono una dimensione inquietantemente altra.

L’equazione si verifica facilmente in quello che, con ogni probabilità, è il più memorabile capitolo del libro, «Sofrano», ambientato tra Roma e la Grecia alla fine degli anni Settanta (un riferimeno a L’amico americano di Wim Wenders permette di situare gli eventi tra la primavera e l’estate del 1977). In una ottantina di densissime pagine (quasi un romanzo nel romanzo), evitando i luoghi comuni dei sociologi per le vertigini dell’allegoria, Pecoraro è il primo scrittore a raccontare il maniera davvero plausibile il rapido trapasso di una generazione dagli ideali rivoluzionari ed egualitari di gioventù alla definitiva integrazione dei contestatori in quello stesso sistema che sognavano di abbattere. E ci riesce mettendo in scena un incontro faustiano con un diavolo griffato Abercrombie & Fitch e Baume & Mercier.

Riecco dunque la Storia, che forse non era mai scomparsa del tutto ma era solo stata tenuta a debita distanza nel triplice tentativo di raccontare un Occidente traghettato dalla guerra aperta al risentimento della finta pace, di mettere in scena un’apocalisse senza clamori, e di cauterizzare la piaga di chi assiste alla fine del proprio mondo ricorrendo alla prospettiva extraumana dei microorganismi. Per quanto riguarda Brandani, come ci viene detto nelle primissime pagine, la moglie lo coglierà esattamente lo stesso giorno della caduta di Bisanzio, vittima di un piccolo ma letale microorganismo endemico nei paesi africani: il 29 maggio 2015. Quattrocentosessantadue anni dopo.

Degli allegoristi, d’altra parte, oltre alla passione per le simmetrie, Pecoraro esibisce una speciale fiducia nei nomi parlanti: a cominciare proprio dal suo protagonista, Brandani soprannominato Brando, quasi a segnalare la distanza dall’inarrivabile Marlon (lui sì un vero maschio alfa, indubbiamente). Ma si può pensare anche alle sue donne (Carla e Clara, per semplice anagramma), al suo fascinosissimo professore di filosofia, verosimilmente ispirato alla figura di Lucio Colletti (Molteni, con significativa storpiatura del più greco dei venti, il meltemi), sino all’enigmatico, seduttivo, corruttore Nico De Klerk (letteralmente, «il commesso» – ma con un nome di battesimo che in inglese è quello del diavolo). Tanto più vero quanto più ostentatamente lontano da qualsiasi ansia di trascrizione memoriale del vissuto e del verosimile. Proprio come il libro di Pecoraro: grande romanzo che, per fortuna, non aspira a essere un Grande Romanzo Italiano.

[Immagine: Viadotto, disegno di Francesco Pecoraro (particolare)].

 

6 thoughts on “La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro

  1. Un breve commento, solo per riportare le primissime impressioni sulle poche pagine finora lette, dopo averne acquistato stamane la versione digitale.
    Con una certa dose di sorpresa, visto che mi considero un lettore molto esigente, ne sono rimasto affascinato.
    La sorpresa è in effetti relativa, perchè da qualche sporadico scambio di commenti sul web, avevo già ammirato l’intelligenza dell’autore (è la ragione che mi ha spinto a procurarmi il romanzo senza indugi), e per me questo specifico aspetto rimane dominante anche quando indosso le vesti del lettore di romanzi.

  2. Mi sono fidato. Ho letto il romanzo. L’attacco è sorprendente: la caduta di Bisanzio! E per un po’ fremo: vuoi vedere che Pecoraro è riuscito a ricostruire la psiche di un occidentale contemporaneo coi suoi miti di conservazione e di declino a-partire-da-data-certa? Che Pecoraro per contrasto riesce a snidare l’autoinganno attuale della Decadenza Punto Due, mascherone dell’Indifferenza, punto? Pecoraro, snudami la miseria culturale imborghesita di chi crede di avere una cultura e non ce l’ha e di chi si sente in colpa per essere diventato un borghese senza esserlo mai diventato!

    Invece no: l’Ivo Brandani di Francesco Pecoraro è un nonnetto che scatarra e dice Peste & Corna, uno che si è già sentito fino allo sbuffo, che ha già scritto articoli di giornale a non finire, saggi di autocritica sull’uomo occidentale a biblioteche, ha straparlato ai congressi, è uno che non aggiunge niente ma che ripercorre, pedantemente, tutto (Fine Seconda Guerra Mondiale, fatto, cioè detto, o meglio: scritto; Sessantotto, fatto-detto-scritto; estate al mare perché Padre lavora, impiego frustrante nel pubblico, silurato nel privato perché il capo è stronzo, atterraggio nel settore internazionale delle porcate ecoinsostenibili e aerei, aerei, aerei, e la domanda di tutte le domande: perché mi piacciono così tanto gli aerei?) senza dire niente che non sia stato già detto così-et-cosà, già lamentato, già compianto, già rassegnato a se stesso.

    Libero chiunque di farsi piacere la scrittura del romanzo (indiscriminatamente cumulativa, che utilizza cinque frasi dove una già basta e anzi era meglio non ci fosse neanche quella, senza una molla interna che non vada girata a mano dalla pazienza e dalla buona volontà del lettore) però una lenticchia di onestà intellettuale ci vuole e, se si è letto Gadda, non si può accostare Pecoraro a Gadda, non senza metterci prima una mezzora di distinguo, e un’ora e mezzo di distinguo ci vogliono pure se si vuole accostare “La vita in tempo di pace” a “Underworld” di DeLillo, perché altrimenti sarebbe come voler accostare “Cuore” di de Amicis a “Alice nel paese delle meraviglie” di Carroll: se fai così prendi per il culo il “Cuore”, eddai.

    Insistendo, per Calvino e Siti qualcosa si rimedia (ma Calvino non ha mai sentito di vecchiaccio in questo modo), però Pasolini: cosa c’è di pasoliniano nella Sgridata Gioventù e nella Bacchettata Infanzia e nelle Vacanza al Mare con Cabina di Pecoraro di Ivo Brandani e nel suo lessico precisello, spesso tecnico-filosofico senza brio, è un mistero o meglio una associazione molto tirata via. A parte che la sessualità rivista, e da rivista, scritta da Pecoraro rientra perfettamente nella datatissima categoria de “Le Avventuro di Ciccio Ti Tocca”, tranvate da Maschio Rifiutato Che Non Gl’è Mai Passata e Fisime del Cazzo Cattolico Consapevole Ma Senza Sbattezzo comprese.

    Già che c’erano, i suoi lettori critici, hanno pensato bene di metterci dentro anche Musil: tanto chi lo legge Musil? Chi li legge Céline, DeLillo, Pasolini, ora? Io Musil non l’ho ancora letto perciò su di lui taccio, ma che tristezza se scoprissi che Musil scrive come Pecoraro. Credono manchino solo Joyce, Thomas Mann e Erodoto, e Naomi Klein no?

    “La vita in tempo di pace” è un romanzo con un titolo bellissimo, ma con di bellissimo solo il titolo, che sceglie un linguaggio ipercostruito con le putrelle a vista, una lingua nauseata da se stessa ma con la nausea speravo si avesse chiuso qualche decennio fa, e se una nausea di nove mesi è accettabile e alla fine dà una vita, una nausea di settanta anni con morte per vermi nel cervello a formaggino finale è accanimento.

    Mannaccia a me che mi sono fidato. Io, come referenti culturali di Pecoraro, userei: Grand Hotel da ombrellone, Pavese e Svevo per come li si è capiti studiandoli al liceo, abbonamento annuale a MicroMega e Limes stemperato con la cinematografia italiana di Bruno Gaburro, modellini a dispense della Fabbri Editori e narrativa italiana in edizione economica per lo più in edizioni Bompiani.

    Sottovalutare un romanzo è una vigliaccata, ma sopravalutarlo è una pugnalata al cuore attraverso la schiena.

  3. @antonio coda

    Concordo in parte con quello che dice sul romanzo di Pecoraro, anche se con un linguaggio meno funambolico che a tratti le invidio, e con meno perentorietà. Mi sembra un buon titolo, ma lontano dall’essere un grande romanzo: piuttosto, un’opera a tratti semplicistica, di lingua e stile un po’ lontani dall’idea di Grande Romanzo Italiano: idea nefasta, visti gli effetti che ha avuto su opere spesso kitsch e pretenziose dei nostri tempi, alcune cose di Genna, Scurati, mezzo noir italiano (che a dispetto delle apparenze è il genere più “massimalista” della nostra attuale produzione). Ma nonostante questo, leggendo la produzione straniera coeva cui Pecoraro, almeno nelle idee, secondo me deve parecchio (Littell, Bolaño e poi gli Houellebecq e i DeLillo di cui sopra; tralascerei i paragoni con il romanzo Modernista, che parlando di Pecoraro mi sembrano poco più di cartine di tornasole), la tentazione di cercare anche in Italia il Grande Romanzo Italiano è forte. Pecoraro ci ha provato, e solo per questo merita il massimo rispetto da parte mia. Ma secondo me ha scritto di meglio.

    A breve uscirà su 404 un pezzo mio proprio su questo argomento, provvederò a segnalarlo nei commenti e per ora mi taccio – che se dico tutto ora chi se lo va a leggere il pezzo?

  4. @Antonio Coda: Ho letto appena duecento pagine, tra la tentazione di smettere e l’obbligo morale di concludere non posso non trovarmi del tutto de’accordo con la sua disamina.

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