di Federico Bertoni
[Questo saggio è uscito su «Between», III, 6, 2013].
L’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guardare, cioè di essere nel mondo.
Calvino
1. Situazione
La prima cosa è guardarsi bene intorno. Tracciare le coordinate. Fare il punto. Solo qualche neopositivista incallito potrebbe contestare quello che ormai sembra un dato acquisito in tutti gli ambiti di studio: che il sapere è sempre situato, che non esiste una cultura neutrale, che ogni presa di parola è un gesto storico e politico calato in una specifica forma di vita, cioè la forma assunta dall’esperienza in un determinato contesto spazio-temporale. E se osservo la mia, di situazione (insegnante di letteratura, Italia, 2013), mi viene in mente il tono curioso e perplesso con cui Remo Ceserani, qualche anno fa, dava inizio alla ricognizione di Convergenze: «la situazione − scriveva – mi sembra contraddittoria e quasi paradossale», con un singolare bilancio di perdite e di profitti: se da un lato la letteratura «stenta a perdere la tradizionale posizione di prestigio goduta a lungo nelle nostre società (e nei nostri programmi scolastici)», dall’altro guadagna un’inaspettata ed eccentrica rilevanza in altri contesti, che nel panorama ricostruito da Ceserani sono appunto le convergenze, l’uso spesso disinvolto e approssimativo degli «strumenti letterari» da parte delle «altre discipline», non solo quelle umanistiche (storia, antropologia, psicologia, ecc.) ma anche quelle tecnico-scientifiche (fisica, matematica, biologia, economia, ecc.) (cfr. Ceserani 2010).
Quella indagata da Ceserani è forse la manifestazione specifica di una contraddizione più ampia che investe lo statuto e il ruolo del sapere letterario nelle società tardocapitaliste, travolte da una crisi di sistema senza precedenti e da tentativi sempre più miopi di “riformare” i propri modelli educativi, con un progetto tanto ideologico quanto inefficace di adeguarli a nuovi orizzonti sociali, economici e tecnologici, o alle richieste del fantomatico “mondo del lavoro”. In questo contesto, i luoghi comuni trionfano e la doxa regna sovrana. Non basterebbe Flaubert per irridere la bêtise di ministri, prorettori ed esperti di quality assurance. Che ce ne facciamo di Shakespeare e Proust in un mondo come questo? Come si può misurare, valutare, monitorare l’apprendimento di un sapere così volatile e imprendibile, disseminato in miliardi e miliardi di parole? Come possiamo insegnare la lentezza, la solitudine, il silenzio, il raccoglimento necessari per sfogliare tutte queste pagine a gente che vivrà in un mondo frenetico e iperconnesso, gremito di immagini e schermi, avvolto in una bolla sempre più densa di rumore bianco? Non ne faremo dei disadattati? Li manderemo alla concorrenza coi cinesi brandendo i libri come scudi? Li lasceremo sbeffeggiare da qualche tanghero che li inviterà a farsi un panino con la Divina Commedia? Davvero, davvero: non basterebbe Flaubert… Ovviamente, dietro i luoghi comuni ci sono le presunte certezze di quella moderna arte sciamanica che si chiama statistica, la forza oggettiva dei (grandi) numeri, la verità rocciosa del dato, che in realtà è materia estremamente plasmabile in funzione di obiettivi e circostanze. Basta comunque sfogliare il rapporto periodico stilato dall’Istat, La produzione e la lettura di libri in Italia[1], per alimentare con la forza di numeri, grafici e tabelle le solite geremiadi di un popolo capace solo di compiangersi e autoassolversi: ecco la prova che gli italiani leggono poco, signora mia; i «non lettori» (cioè quelli che non hanno letto nemmeno un libro nei dodici mesi precedenti all’intervista) sono più del cinquanta per cento; i «lettori forti» (quelli che leggono almeno un libro al mese) non arrivano al quindici per cento, per non parlare dei lunatici che frequentano regolarmente le biblioteche; in una casa su dieci il libro è un oggetto sconosciuto, e non mancano forme di analfabetismo di ritorno.
Nel campo più specifico di chi studia e insegna letteratura, vige da anni la tendenza a contemplarsi l’ombelico e a indagare tutti i risvolti della «crisi della» e della funzione intellettuale. Pamphlet, inchieste, dibattiti, numeri speciali di riviste: dal libro di Segre in poi, Notizie dalla crisi (1993), interventi di ogni tipo hanno proclamato la Caporetto non tanto della letteratura, quanto della funzione critica, di quell’opera di mediazione e (auto)riflessione esercitata dalla critica letteraria. Una disfatta evidente in tutti gli ambiti: saggistica letteraria ridotta al lumicino, con editori che commissionano solo manuali e strumenti didattici o che vivono nel circuito drogato delle edizioni a pagamento; pagine culturali dei giornali inesorabilmente degradate, invase da recensioni compiacenti o dal “caso” del momento; riviste letterarie in agonia, chiuse nel circuito asfittico dei “bollettini”, degli “annali” o dei “quaderni” di una determinata disciplina accademica; perplessità e sfiducia anche rispetto a quello che potrebbe essere lo strumento risolutivo per uscire dalla palude, il web, in cui proliferano siti e blog letterari spesso molto rozzi, a volte intelligenti e ben fatti, che però non hanno (ancora) creato una comunità più ampia e davvero alternativa rispetto alla “cultura ufficiale” (cfr. Giglioli 2009). Non certo un dato di natura (nulla di naturale nei fenomeni della cultura), ma forse un suicidio assistito di cui gli stessi critici e insegnanti di letteratura sono stati complici e attori, come suggerisce il titolo di uno degli interventi più lucidi e centrati: Eutanasia della critica di Mario Lavagetto (2005).
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[1] L’ultimo rapporto, relativo al 2012, si trova al seguente indirizzo: http://www.istat.it/it/archivio/90222.
[Immagine: Al Weiwei, Bang, LV Biennale di Venezia, 2013 (gm)].
Mi fà molto pensare la scelta di Calvino per la citazione iniziale. Scienza e letteratura sapere unico indivisibile; tranne in Italia forse (tranne qualche eccezione: Giulio iorello: http://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Giorello)
Gli interrogativi da approfondire qui in Italia, in un presente che deve raccogliere il passato, dovrebbero essere: è il sapere scientifico legato alla letteratura? Se no come mai?
E’ il sapere filosofico legato alla letteratura e non al sapere scientifico? Se si come mai?
Le possibili risposte forse vanno cercate in quello che un giudice antimafia ha scritto e detto Roberto Scarpinato, che fanno riferimento alla modalità con cui si forma la classe dirigente italiana ed al raoporto tra essa la criminalità organizzata e la cultura italiana.
CORRIGE:
“se da un lato la letteratura «stende a perdere la tradizionale posizione di prestigio goduta a lungo nelle nostre società (e nei nostri programmi scolastici)»”
Federico Bertoni scrive: “Quella indagata da Ceserani è forse la manifestazione specifica di
una contraddizione più ampia che investe lo statuto e il ruolo del
sapere letterario nelle società tardocapitaliste, travolte da una crisi di
sistema senza precedenti e da tentativi sempre più miopi di
“riformare” i propri modelli educativi, con un progetto tanto
ideologico quanto inefficace di adeguarli a nuovi orizzonti sociali,
economici e tecnologici, o alle richieste del fantomatico “mondo del
lavoro””.
È pertanto opportuno interrogarsi sulle ragioni di una regressione così pesante, che a me sembrano riconducibili al clima e agli orientamenti culturali di restaurazione, che dominano in particolare il nostro paese, spingendo verso l’abbandono della ragione come guida del pensiero e dell’azione, nonché alimentando, negli atteggiamenti e nei comportamenti diffusi, un crescente irrazionalismo. Se si volesse assumere l’atteggiamento verso Galileo come cartina di tornasole, sarebbe facile verificare che la figura e l’esempio di questo grande scienziato e filosofo, che ebbe una grandissima fiducia nella ragione e la manifestò in tutte le sue opere, risultano un corpo estraneo e perfino un pericolo per tutte le forze che sono interessate a produrre o a mantenere questo clima di restaurazione, più o meno mascherata dalle cortine fumogene e dagli effetti oppiacei della ‘società dello spettacolo’. Eppure, Galileo, che è, fra l’altro, uno dei più grandi prosatori della letteratura italiana, ha scritto gran parte delle sue opere in lingua volgare, affinché esse potessero essere lette e meditate anche da chi non appartiene al mondo dei dotti. «Io l’ho scritto vulgare,» spiega in una lettera a Paolo Gualdo, parlando dell’“Istoria intorno alle macchie solari”, «perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere, e per questo medesimo rispetto ho scritto nel medesimo idioma questo mio trattato (il “Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua”) e la ragione che mi muove, è il vedere, che mandandosi per gli studi indifferentemente i giovani per farsi medici, filosofi etc., sì come molti si applicano a tali professioni essendovi inettissimi, così altri, che sariano atti, restano occupati o nelle cose familiari o in altre occupazioni aliene dalla litteratura…; et io voglio ch’e’ vegghino che la natura, sì come gl’ha dato gli occhi per veder l’opera sua… gli ha anco dato il cervello da poterla intendere e capire.»
La visione dell’uomo e della civiltà che si esprime in queste dichiarazioni è ben diversa da quella che oggi si vorrebbe imporre; è una concezione della cultura che porta Galileo a stabilire un nesso inscindibile fra la tecnica, la scienza e la letteratura e gli permette di sostenere il valore pienamente scientifico di uno strumento quale il telescopio (definibile, per dirla con gli epistemologi, come una “teoria materializzata”). A distanza di 400 anni da queste vicende, nel paese di Bellarmino e di Urbano VIII, ma anche di Enrico Fermi e di Edoardo Amaldi, la battaglia per difendere e sviluppare la ragione, che ha la sua incarnazione prototipica nel grande scienziato toscano, e la battaglia per superare il dualismo fra le ‘due culture’ attraverso un collegamento sempre più stretto fra la scienza, la filosofia e la letetratura, sono ancora all’ordine del giorno. Questo dovrebbe valere ancor di più nella scuola, ammesso e non concesso che l’intento di chi decide e di chi governa sia quello di creare le condizioni affinché i giovani «vegghino che la natura, sì come gl’ha dato gli occhi per veder l’opera sua… gli ha anco dato il cervello da poterla intendere e capire.»