di Umberto Fiori
[Qualche settimana fa, negli Oscar Mondadori, sono uscite le Poesie (1986-2014) di Umberto Fiori. Pubblichiamo cinque testi, seguiti da alcune pagine del saggio introduttivo di Andrea Afribo].
ALLARME
In piena notte
sui viali scatta un allarme.
Si ferma, e poi ripete
due note acute, tremende, con la furia
di un bambino che gioca.
Nei muri bui dei palazzi lì sopra
le finestre si aprono, si accendono.
Tranne la strada
in mezzo ai rami, vuota,
niente si vede.
Si tirano le tende
e si rimane intorno a questo urlo
come si sta in un campo
intorno a un fuoco.
(da Esempi, 1992)
* * *
PER STRADA
Se all’angolo una signora
-o magari un vigile-
si volta
con la faccia scavata dalla luce
della bella giornata
e parla –proprio a me,
a me, qui- del rispetto che si è perso
o del caldo che fa,
io mi sento mancare, come un santo
quando lo sfiora l’eternità.
Sento le piante crescere, sento la terra
girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto
deve ancora succedere.
(da Chiarimenti, 1995)
* * *
STRETTOIE
In tanti vanno, lungo il marciapiede,
continuamente. S’incrociano e si scansano,
rallentano e poi avanti. Filano, scorrono
svelti e tranquilli, finché
di qua c’è un mucchio di assi, di là
un rimorchio di camion.
Soltanto uno ci passa.
*
Uno soltanto: ma chi?
Ogni volta ti incanti,
prima di entrare.
Rimani lì a pensarci
una vita.
Dall’altra parte la gente arriva spedita,
s’infila nella strettoia. Tu le fai ala
come una folla al suo sovrano.
*
Con un mezzo sorriso
ti fai da parte, lasci che sfili
un cane
che tira una signora,
poi un tizio che viene
dietro di lei, deciso; ti sporgi appena
e subito rientri,
fai largo a un altro con una moto.
Guardali come sono calmi, sereni,
mentre ti passano di fronte
senza parlare, con gli occhi fissi nel vuoto,
ognuno un sole che sorge.
Beati, indifferenti:
sembrano dèi.
Tu invece, lì sull’attenti,
mastichi amaro.
*
Cos’è, rancore
quello che ti prende
ogni volta? Che torto ti hanno fatto?
Passare tu, volevi,
al posto loro?
No, non è questo.
*
Né tu, né gli altri. In quel passaggio stretto
vorresti che nessuno avesse cuore
di penetrare;
che durasse per sempre
e per tutti quell’attimo di scrupolo,
di esitazione;
che soltanto a vederlo, questo sentiero
sacrificato, in mezzo a due transenne,
le persone restassero impietrite
da un infinito rispetto.
*
Allora, fermi a un imbocco
e all’altro della strettoia,
mille volte ripetere l’invito
-prego, si accomodi!-
e mille volte regalarci il mondo
con gli occhi e con le mani, e mille volte
rifiutare, e invitarci, finché l’asfalto
che ci separa, a furia di cerimonie
si spacchi, e l’erba lì in mezzo ricresca alta
come se mai
ci fosse passato un uomo.
(da Tutti, 1998)
* * *
DICIOTTO E VENTISETTE
Le macchine che si muovono
a scatti lungo il viale, poi restano
ferme in fila al semaforo,
non sono vuote.
Ogni volante, una testa. Come due uova
rimaste nel cestello di cartone,
il taxista e il cliente
guardano avanti.
E’ troppo nuova per te, questa scena?
Perché tremi? Cos’è, non l’hai mai visto
il suo broncio di pietra
venirti incontro? Non sei ancora pronto
a queste facce, a queste ruote?
Ancora ti sconvolgi, di fronte
all’autotreno che non si ribalta,
alle minacce che non arrivano, al cuore
strappato vivo
dal petto di nessuno
e stretto in mano, e sollevato in alto?
(da La bella vista, 2002)
* * *
[Le vostre accuse, i vostri]
Le vostre accuse, i vostri
rimproveri, di nuovo.
……………………………….Mentre li smonto
come posso, uno a uno,
citando fatti, nomi, date,
mentre riconto sulle dita i miei due,
tre, quattro meriti,
e vi abbaio sul muso la mia vita
non dite niente: mi guardate.
Le orecchie rosse, le vene
gonfie sul collo
-cosa guardate? Lo so, lo so che il bene
è diverso.
Ma non vi fa pietà
vedere come
ogni giorno son qua
a fargli il verso?
(da Voi, 2009)
* * *
«Perdere tutte le bravure»
di Andrea Afribo
Umberto Fiori ha scritto che «per essere poeta […] occorre saper cantare». Ma questo, continua, «non significa che determinate tecniche, determinate capacità o talenti permettano di produrre il canto come valore aggiunto al discorso. Chi canta, anzi, perde tutte le bravure».[1] Ecco: perdere tutte le bravure, quelle bravure che definiscono da sempre lo stile di un poeta e lo scarto tra lingua della poesia e lingua comune, è la condizione senza la quale la poesia di Fiori non esisterebbe.
Il suo lettore non ha mai bisogno di un vocabolario, è una poesia ‘semplice’ – almeno in apparenza, almeno in superficie. Come Saba, ma senza o quasi le manipolazioni del triestino, Fiori usa la ‘lingua di tutti’, parole comuni (case, gente, bambini, cani, cose…) di cui evidentemente non può rivendicare un copyright nell’invenzione. Eppure, ed è il primo paradosso, Fiori è riconoscibilissimo e letteralmente memorabile. Chi ha avuto la fortuna di leggerlo non può più guardare una casa o un tizio per strada senza pensare, almeno per un attimo, alle case e ai tizi protagonisti di molte sue poesie. Lo sa bene Fabio Pusterla, altro notevole poeta di oggi, che parlando di una propria poesia, Certi muri, così ha scritto: «bozzetto del tutto privato, su cui mai avrei pensato di scrivere alcunché; salvo che poi mi sono venute in mente le poesie di Umberto Fiori, spesso dedicate proprio ai muri, alle case (le care case) […] Ed ecco l’impulso a scrivere».[2]
Ciò significa che dal suo primo vero libro d’esordio (Esempi, 1992) al più recente (Voi, 2009), Umberto Fiori ha saputo creare un proprio mondo, un compatto poema direbbe Sereni, in cui tutto si tiene e coopera alla riconoscibilità e indelebilità del risultato finale – cioè un certo lessico-chiave, un determinato modo di costruire le frasi, di descrivere con pochi tratti una scena, ma soprattutto una precisa regia d’insieme. Perché c’è quasi sempre una storia nelle poesie di Fiori, sempre munita di personaggi, di un minimo ma sufficiente ancoraggio spazio-temporale, e costantemente seriata in due momenti. Il primo, esplicitato oppure solo alluso o dato per scontato, descrive la routine di ogni giorno, rassicurante ma soporifera, protettiva ma devitalizzante. Il secondo momento sovverte il primo, lo sovverte all’improvviso trafiggendolo con un evento tanto banale e casuale quanto, negli effetti, eccezionale. È il momento del ‘miracolo’ («proprio allora, lontani come sono, / rivedono il miracolo», Altra discussione), del prodigio inaspettato che spalanca il mondo della vita, che disseppellisce il disabituale sepolto nell’abituale, quello che ci fa vedere l’ordinario – cioè le cose intorno a noi, gli altri vicino a noi, tutti i giorni – sotto «una luce nuova, più vera» (Ritardo). […].
«Perdere le bravure» comporta poi il programma di sfilarsi il più possibile da una poesia come rito intertestuale o peggio citazionistico, non farsi troppo invischiare dai modelli del passato, e non usare lo stile – il loro o il proprio – come una maschera o come un segno di distinzione, come l’impronta di un’ideologia. Le deroghe al programma sono pochissime. […] E tuttavia, se debiti precisi e dunque fonti precise non esistono, esiste – o si ha l’impressione che esista – una somiglianza di fondo con una linea importante (importantissima) della poesia del Novecento passato, quella che si profila a partire dagli anni Sessanta, con Montale a fare da grande suggeritore. Cioè la poesia di Vittorio Sereni, quella di Giovanni Raboni e dintorni, quelle «importanti lezioni lombarde» che Fiori appunto «non dimentica» come ha giustamente notato Maurizio Cucchi.[3] Quanto segue cercherà di sviluppare tale impressione, con l’obiettivo di dire cos’è la poesia di Fiori, e cosa poteva essere e non è stata,.
C’è intanto un’aria di famiglia che si respira per tutta una serie di scelte prese da Fiori e dai suoi predecessori, in grado di dilatare, aprire e ‘sporcare’ i confini del codice lirico. Il che vuol dire uso costante di un linguaggio senza aureola e senza visibili estetismi, senza riconoscibili tics lirici; vuol dire meno monologhi che dialoghi o effetti di dialogo, sfruttamento del ‘parlato’, presenza di personaggi diversi dall’io, e un set urbano e metropolitano più o meno stabile. Ma poi, a unire di più, e più nel profondo, Fiori a Montale, Fiori a Sereni, a Raboni eccetera, è quella scansione del testo (e della vita) che prima si diceva: cioè quella articolazione in due momenti paradigmatici – da una parte il ‘sempre uguale’, dall’altra la sua improvvisa variazione. Così è infatti in Montale, dove le epifanie, e i rari prodigi o miracoli scompaginano il «tutto è fisso» e il già «scritto» (cfr. Crisalide negli Ossi). E così è in sostanza nella poesia di Sereni, strutturalmente oscillante tra il campo della «noia», dell’«opaca trafila delle cose» e quello dell’attesa di «un qualche vento / di novità …», della venuta – «di colpo» – di una primavera «che si aspettava da anni», dell’apparizione («un miracolo») di vecchi amici – «la Giuliana e il Giancarlo», in una «torpida / mattina del ’60» alla «bocca del Magra». E abbiamo citato tre testi degli Strumenti umani, rispettivamente Ceneri, Finestra, Gli amici.
Ma se lo schema profondo è simile, molto diversa è la sua realizzazione, e diverso, quasi opposto, il risultato finale. Nella sua sceneggiatura Fiori non indugia in particolari, non connota mai ciò che della storia è il sistema cartesiano e il motore, cioè attori, luoghi, tempi. Nella poesia degli altri ci sono, e sono fondamentali, i nomi propri come «la Giuliana e il Giancarlo», come Dora Markus, Clizia, come «la Donatella» e «la Paoletta» di Milo De Angelis. Ci sono le date storicamente definite: «la mattina del ’60» ecc., e l’intreccio dialettico di piani temporali con relativo ventaglio di tempi verbali. I luoghi sono precisi, e sono puntuali crocevia di esistenze i toponimi: come «Bocca di Magra» o Luino, come «via Boscovich» o «viale Zara» in De Angelis.
La sua, di Fiori, è al contrario una procedura che obbedisce a un rigido protocollo di tipizzazione. Quello che più sorprende è la mancanza della soggettività e della personalizzazione. L’io, hegelianamente centro e contenuto del genere lirico, è quasi sempre sostituito da degli uno qualsiasi, oppure da due, qualcuno, tizio, nessuno, tutti, la gente e così via. Le rare precisazioni qualificative dei personaggi non ne smentiscono l’assunto puramente attanziale, precisando non l’identità fisica o psicologica ma la funzione: di pedone, di vigile o autista eccetera. Sono soggetti così privi di spessore e di puntualità da risultare interscambiabili: «Se all’angolo una signora / – o magari un vigile» (Per strada). Va da sé che non hanno un vissuto, non hanno un padre o una madre, non hanno un romanzo familiare o una storia d’antenati da raccontare. Tra loro non esiste alcun vincolo d’amore, d’affetto o di semplice amicizia, di complicità. Tra loro non vi è alcun rapporto che li collochi all’interno di una comunità socialmente, ideologicamente, storicamente riconoscibile, che li leghi ad alcuni e li separi da altri. Una figura come la Clizia montaliana non c’è ed è impensabile che possa esserci, come non c’è traccia di quei tu che hanno fatto la storia della poesia novecentesca.
Altrettanto dicasi per le indicazioni di tempo e di luogo, che si limitano a formule meccaniche, generiche e ricorsive come «Un giorno…», «una volta», «Ogni mattina», «Quando», «come quando», «È come quando di nuovo…»; «una certa fermata», «in giro», «per un paio di piani», «tra le case», «da qualche parte». Frequentissimo è il ricorso ai deittici – «qua intorno», «lì intorno», «Qui ora c’è questa rete / e al di là della rete / questo terreno», «Le cose sono lì…», «Giorno e notte, qua sotto». Sono pertanto moduli locativi insieme determinati e indeterminati: il modo più economico per mettere in chiaro che qui non è lì, e che un paio di piani sono due o tre e non uno o sette. Non si cerchi poi di capire in quale città si svolgono i fatti. La ricorrente presenza di strade, viali, angoli di strada, tangenziali, semafori (sottopassaggi, tram, macchine, giardini, autosilo, piazzale, cantieri, scavi, asfalto), dice chiaramente che siamo dentro uno spazio cittadino o meglio metropolitano. Può essere Milano, ma può essere qualsiasi altra città. Del resto, scrivendo sulla poesia di Camillo Sbarbaro, Fiori si chiede e si risponde: «Genova? Poco importa, anzi, niente».[4] Infine: anche i luoghi, come i personaggi, rispondono a geometrici principi di equivalenza: «in treno o in autobus» (Pensieri e monumenti), «in coda, o in un tram pieno» (Pari). E i verbi sono quasi tutti al presente, a indicare la simultaneità tra momento dell’enunciazione e dell’enunciato, l’iteratività degli eventi (da qui l’eccezione dell’imperfetto), ma soprattutto la loro acronicità, perché quel che accade può accadere sempre, e avere una validità universale. […].
Fiori trasforma le sue storie in apologhi, cioè in storie virtuali che in latino si chiamano exempla e che appunto lui, nel titolo del suo libro d’esordio, chiama Esempi. Anche nelle regole dell’exemplum infatti è d’obbligo che il tempo e i luoghi vengano trattati astrattamente e genericamente, e che i personaggi siano dei quidam. Ed è solo così, così disciplinate e spersonalizzate, che quelle sintetiche narrazioni possono essere esempi al massimo rappresentativi dei comportamenti umani, senza distinzioni di specie, di classe, di appartenenza storica o ideologica. E noi lo diciamo per Fiori: è solo così che la sua poesia può diventare «figura del luogo comune, della scena quotidiana, dove da sempre si replica il destino dell’uomo, di tutti gli uomini».[5] Non costruendo storie particolari ma solo storie possibili, Fiori potrebbe dire ai poeti o ai lettori di poesia quanto Wittgenstein disse agli uomini di scienza: «A me non interessa innalzare un edificio [cioè una storia nel nostro caso], quanto piuttosto vedere in trasparenza dinanzi a me le fondamenta degli edifici possibili».[6] E i cantieri e gli scavi, che non a caso ritroviamo spesso nella sua poesia, sono anche questo: figure del possibile, immagini della virtualità.
Da qui, come dell’exemplum, il carattere didattico e morale delle poesie di Fiori, il quale, sgravato del suo io biografico, è più libero di giudicare e di spremere una lezione salutare da quei fatti quotidiani che sinteticamente racconta. E questo anche in modi del tutto espliciti: «Cosa c’è sotto questi discorsi…?» (Sedicimila presenze); «Cosa si deve fare? / Che cosa si può fare?» (Canto); «tutti questi esempi concreti / – cosa dimostrano? Di che cosa sono prove?» (Verità in costume).
Riprendendo e sviluppando quanto accennato all’inizio, gli esempi di Fiori dimostrano e sono prove di questo: che l’«abitudine» (Abitanti) che regola la quotidianità – e ci rassicura, ci difende – finisce però per svuotare di senso la nostra vita. Finisce che non ci fa più vedere ciò che ogni giorno abbiamo davanti agli occhi; che ci allontana da chi abbiamo ogni giorno vicino. E finisce che non comunichiamo più, anche se ogni giorno e ogni minuto parliamo, parliamo, parliamo. Bastino quattro citazioni: «Siamo lontani dalle cose vere / che abbiamo intorno. / Siamo in errore» (Pedone); «lì davanti li hai / e non li vedi ancora» (Tangenziale); «Vedi? Parlare ci separa» (Spiegarsi); «nessuno parla – o ascolta – veramente» (Il discorso e la voce I).
Però poi questi esempi ci dicono sempre e ripetutamente che «a volte», «all’improvviso» e «di colpo» può scattare un imprevisto in grado di rompere tale consuetudine e di farci vedere il mondo in «una luce nuova, più vera». Cioè restituire al mondo, e al nostro sguardo, l’originario carattere eccezionale, la sua evidenza e nettezza fenomenica; e ridare al linguaggio l’occasione di ridiventare ciò che è o dovrebbe essere: pienezza comunicativa, centro di incontro di una comunità che riesca a «dire le cose / con gli occhi e con la bocca, / da pari a pari» (Discussione).
Vedere e parlare veramente, come in una ipotetica prima volta («come se / mai nella vita / avessi ancora aperto bocca», Dati di fatto): è questo il miracolo secondo Fiori. Che è un miracolo – continuando il confronto con i presunti ‘modelli’– affatto diverso da quello ad esempio montaliano. Perché con Fiori sono cambiati i momenti che incentivano il miracolo, e sono cambiati i suoi destinatari, le sue modalità di partecipazione.
I momenti che preparano l’epifania, che aprono una breccia liberatoria nel muro dell’abitudine, consistono tutti in zone di scivolamento minimo ma sufficiente interne all’ogni giorno. Sono piccoli guasti, interruzioni del continuum, imprevisti banalissimi ma inderogabili e disarmanti. Soprattutto sono ingorghi del traffico, ritardi, incidenti con annesso capannello di curiosi, tamponamenti da constatazione amichevole, una lite, uno scontro involontario tra due passanti, il già visto scatto di un allarme, lo squillo di un telefono o di una sveglia nell’appartamento del vicino, eccetera eccetera. E poi tutto quanto può capitare in una discussione: perdere il filo del ragionamento, bloccarsi, un silenzio a sorpresa. […]
Il soggetto tipico della lirica moderna è un soggetto senz’altro tragico, il che vuol dire antagonistico, in perenne conflitto col mondo, separato da esso e dagli altri, o al limite chiuso in una classe di soggetti suoi pari. Di fronte al ‘miracolo’ un soggetto siffatto non può che rivendicare un diritto di prelazione, affermare che è più a lui che ad altri che i segni parlano. Si prenda Montale: in un osso famoso, Forse un mattino andando in un’aria di vetro, chi vede «compirsi il miracolo» se ne va poi «zitto» con il suo (solo suo!) «segreto». Più in generale il rapporto con Clizia, o con gli altri tu femminili, è il segno di una appartenenza che divide dagli altri che «non sanno» come si legge nel finale del mottetto Ti libero la fronte. Altrettanto dichiara la nota formula di Piccolo testamento – «Ognuno riconosce i suoi», che è formula che aumenta il suo senso discriminatorio se ricondotta al suo tragico contesto d’origine, cioè alla terribile strage degli Albigesi come ci ricorda ancora Fortini.[7] E insomma, in Montale, gli altri hanno una stabile semantica negativa, e la massa, la folla: la «folla […] non è niente» come si legge nel tardo Quaderno di quattro anni.
Per Fiori invece privilegi e divisioni vanno superati: «il mio sguardo / geloso, risentito, che per sé ti vorrebbe», scrive nel poemetto La bella vista, «non è diverso da quello di altri mille». A parlare è la Bella Vista che è la personificazione del miracolo: dialogando con il soggetto, lo ammonisce a non considerare quel dialogo come un fatto privato. «Non sei solo con me» gli dice, ci sono anche gli altri, talvolta «minaccia» e «ingombro», talvolta «aiuto» e «compagnia». Ma il ‘sugo’ del poemetto non fa che esplicitare ciò che era fissato fin dalle origini della poesia di Fiori, diciamo nel suo statuto di fondazione. Se in essa – lo ripetiamo per l’ultima volta – tutti gli uno sono uguali e nessuno può vantare vincoli d’affetto privilegiati e pregressi, tutti hanno diritto a fruire del miracolo. Il miracolo arriva a chiunque, come a chiunque – nel comico – può arrivare una torta in faccia: si gusta «insieme a tutti» (La bella vista), non nel segreto ma nel vivo della comunità.
Infine, perché il miracolo veramente si compia e si compia «insieme a tutti», non basta solo lo scatto di un allarme. Occorre un altro gesto, che in teoria è semplicissimo visto che accedere al miracolo è come ‘sfondare una porta aperta’ come si legge nella Bella vista; ma in pratica, per come è fatto l’uomo, è molto complicato e chissà perché. Il gesto che ci vuole è un gesto paradossale – e siamo sempre un po’ nel comico: consiste nell’essere bravi a perdere le bravure, a lasciarsi andare, disinnescando quei meccanismi difensivi, immunizzanti e struttivi della nostra vita. Come si legge nell’importante sequenza in apertura di Chiarimenti, è proprio quando uno «le ha perse tutte, le bravure» e «le cose non le sa dire più bene», che le può dire «soltanto così, soltanto perfettamente» (Il discorso e la voce VI). È solo, quando «tutto il fiato è finito» che il linguaggio può ritrovare «chiarezza» e «trasparenza», e la naturale – ma così difficile – coincidenza tra le sue parole e le «cose», «i fatti». […] Nelle case di Fiori e nella sua architettura ‘sociale’ il muro maestro non esiste, e se esiste, come si legge in un’epigrafe di Tutti, «si potrebbe quasi dire che è sorretto dall’intera casa».
[1] U. Fiori, La poesia è un fischio. Saggi 1986-2006, Marcos y Marcos, Milano 1993, p. 38.
[2] F. Pusterla, L’origine di due poesie (e mezza pagina di diario), «Il gallo silvestre», 12, 1999, p. 186.
[3] Nella premessa a U. Fiori, Case, S. Marco dei Giustiniani, Genova 1986, p. 9.
[4] U. Fiori, La poesia è un fischio, cit., p. 158.
[5] U. Fiori, La poesia è un fischio, cit., p. 159.
[6] L. Wittgenstein, Pensieri diversi, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1980, pp. 25-26.
[7] F. Fortini, Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano 1987, p. 127.
[Immagine: Marco Petrus, Hof Wien (gm)].
Mi aspettavo di più prima di leggere questi versi. Vogliate perdonarmi ma è ciò che penso. E’ in questa direzione che va ormai la poesia ?
Per me, al contrario, questa è veramente ottima poesia.