di Giacomo Giubilini
Smetto quando voglio nasce come film nuovo, come rilancio o meglio aggancio ad un immaginario cinematografico di intrecci e trame che si muove altrove – l’Europa, l’America. Dovrebbe e vorrebbe così costituire un modello di commedia in un momento di crisi; intento salvifico dal momento che non c’è niente di meglio che assecondare la decadenza anziché cercare di combatterla, consapevoli che è volgare e controproducente strombazzare dogmi in epoche estenuate come questa.
Film interessante dunque, come interessanti e approfondite sono state spesso le reazioni che ha smosso (anche su questo sito); opera di buon livello artigianale, che nasce come sfogo e reazione, ed è a sua volta frutto di un’ ossessione citazionista, di un ripensamento di testi golosamente invidiati e studiati – testi che hanno formato in buona parte il nostro immaginario di consumatori “colti” e i nostri rimpianti e aspirazioni di italiani condannati alla fiction nazionale. Così, Smetto quando voglio risponde finalmente a una necessità sentita da tutto l’ambiente del cinema italiano, umiliato in questi anni dal Sistema, o almeno sempre zavorrato dai fantasmi del sistema stesso, dai sistemisti tutti. Funzionari, produttori, complottatori di ogni risma e affaristi, tutti il più delle volte immaginati e inesistenti (magari ci fossero nel pantano dei nemici veri), coagulati intorno al mistero e all’alveo di istituzioni kafkiane, la Rai su tutte, che alimentano paranoie proprio per la loro poca trasparenza, frutto però di pigrizia e sciatteria e non certo di un diabolico piano. Del resto, chi ama Breaking Bad difficilmente ama Don Matteo – in un certo senso sbagliando di grosso, mancando cioè completamente l’importanza rivelatrice del contingente e disprezzando la favola del prete detective proprio per quello che è: un orrore reazionario e consolatorio che anche solo per questo è una cosa importante.
I giovani, categoria italiana forgiata dai vecchi, tragica perché emendata da ogni rabbia e imbrigliata nell’ambra della nostalgia anche di quarantenni che si sentono tali, i giovani, dicevo, aspirano giustamente alla qualità. Tanto più pregnante quanto più generica, perché improponibile nella realtà che ci circonda, e quindi vagheggiata nell’America e nei suoi migliori prodotti. Questa fuga nell’altrove ci evita qualunque riflessione sull’accanto, sull’accanto più intimo, quello delle radici, quello che si potrebbe chiamare addirittura Noi, anche perché permette la riattivazione perpetua di un discorso da “esperti” – con l’analisi di aspetti specifici e divisivi: la regia, i dialoghi, le ambientazioni. Analisi puntuta e colta ma troppo spesso ultima frontiera, la più solida e radicata, dell’ignoranza dei laureati e delle loro categorie sclerotiche e analitiche senza alcuna presa e utilizzo possibile: sapere tutto sul montaggio di Breaking Bad ma dimenticarsi dei rifiuti tossici nell’orto della nonna. Uno spiaggiarsi senza troppe tragedie e un dimenticarsi di sé come soggetto collettivo e politico. Dove viviamo e perché diventa un « almeno viviamo», godendo dei prodotti visivi di Paesi dove le professionalità sono altre, i modelli industriali e il loro humus, i soldi sono ben altri e via così discorrendo. Un discorso spanato tutto fondato su aspirazione e lagnanze ridotte poi a concreti dialoghi alla Friends.
L’ammissione della resa, copiare direttamente da lì, da Breaking Bad, da Friends, come fa Smetto quando voglio, diventa davvero in questo quadro l’inerzia conclusiva ma anche un colpo di genio, la mèta di un dibattito critico senza critica, un rimpianto del «si potrebbe… si dovrebbe…» che per la prima volta prova a fare qualcosa: copiare appunto. Un piccolo plagio è l’anima creativa del film. Dimenticando la natura debilitante e al tempo stesso ricca del nostro cinema, e cioè la ricerca di ossessioni autoriali, la produzione di prototipi sgangherati e antieconomici, la lezione di grandi registi rivelatisi anche degli smorti monumenti a se stessi e a loro insaputa (Moretti) la ricerca ossessiva di un cinema popolare in realtà per signore del circolo del bridge pronte alla commozione indotta (Ozpetek), la coltivazione di pensose minoranze “vittime del sistema” e investite da una missione sacrificale che le veda immolarsi al sacro fuoco del messaggio meglio se politico e sociale (Gaglianone, ma anche molti altri).
Una ricchezza poliedrica che viene finalmente considerata un limite – e lo è, ma è anche il vero carattere di questa industria allo scatafascio.
E tuttavia, nonostante i lodevoli proponimenti, il risultato di Smetto quando voglio – come sempre accade quando l’intento è troppo pianificato – resta distante dal progetto iniziale e dal progetto di rinverdire il giardino con linfa nuova. Il film comico risulta in molte sue parti tragico, testamentario. In ritardo, certo, ma capace per questo di chiudere un’epoca; simile, in questo, alla Grande Bellezza. Due film ultimi.
In Smetto quando voglio il presepe degli attori quarantenni risulta un carrello di bolliti, riproposti oltre il tempo massimo. Come se quell’immaginario si fosse esaurito da anni e fosse stato spolpato e saccheggiato dalla realtà, come se il confine tra lo schermo e la realtà fosse saltato e quest’ultima fosse ormai più comica, più serializzabile, più recitata del film. Noi tutti più personaggi di loro, residuali nella palude più di loro e invasi dal loro linguaggio che è diventato da tempo il nostro linguaggio quotidiano. Sempre meno persone, sempre più personaggi.
Tragico e imbarazzante, in particolare, è il volto gommoso e inespressivo dell’attore protagonista, con una mimica tra il trancio di pesce spada e il pongo, eterno giovane diventato rugoso per forza di gravità e inerzia.
Tragica e anestetizzante la coralità di improbabili soliti ignoti, inesistenti, scarni e sdentati per necessità di copione, ma in realtà cultori del colluttorio e ben pasciuti.
Tragico e annichilente il mondo di una società fantasmagorica e in attesa, senza spigoli veri e quindi senza alcun appiglio comico, in cui gli immigrati offrono lavoro agli italiani laureati e questi ultimi lo accettano pure (magari!). Un popolo intimamente razzista che si trasforma in vittima comica e così si perdona e si riscatta. La sospensione del contemporaneo per una fantascienza senza alieni ed invasori.
Tragica l’estetica da grande distribuzione Conad, artificiale come la foto di un panino McDonald, trapianatata in una Roma pastasciuttara diventata, ma mai fino in fondo e senza alcuna cattiveria, un lunapark da racconto dell’orrore di Lansdsale.
Tragico l’utilizzo dell’ultimo gadget da cazzoni, il Drone che sorvola la città e nonostante questo la manca sempre, alla ricerca di un’anima metropolitana che è altrove (non certo a Roma, che non è una metropoli).
Tragica la recitazione dei comprimari, con la figura davvero commovente di Sermonti, un naufrago, un sopravvissuto alla fiction italiana più importante e devastante dell’ultimo ventennio; eterno vacanziere deambulante prestato alla recita che, lasco come un elastico di mutande troppo usate, è ancora entusiasta di trascinare, tra una battuta e l’altra, l’insulsa fisiognomica da ultimo Elvis senza tragedia, annacquato, stiracchiato, senza chitarra e costume. Lì per caso o per sbaglio.
Tragica e misogina, da società tribale, la figura delle donne nel film, o escort o matrigne castratrici, come nel caso dell’indomabile compagna del protagonista, incarnazione della cagacazzi paradigmatica e, almeno nel film e nella parte che le è stata scritta, imitazione stanca dell’urlatrice e sacerdotessa dell’ordine, la madre del genere, Laura Morante.
Tragici i modelli registici – il muffito Marco Ponti appunto, ma soprattutto il primo Guy Ritchie di Lock and Stock, importato con quindici anni di ritardo.
La cosa davvero positiva è che durante la proiezione qualche risata ce la siamo fatta, consapevoli di essere ormai noi stessi parte di questo film e della sitcom che lo e ci ha formato, Friends, e di tutti i prodotti ad essa correlati. Ridiamo all’ombra della continuità inestricabile tra ciò che vediamo sullo schermo e ciò che effettivamente pensiamo. Una grande opera composita e transmediale che ha travalicato gli schermi per diventare la nostra vita, il nostro linguaggio, il nostro dialogare, il nostro ritmo da spasmo su un divano sdrucito a dimenticarci di tutto ma per prima cosa di noi.
[Immagine: Smetto quando voglio di Sydney Sibilia].
ma dire, tipo, che è semplicemente una commedia ben fatta, no?
La cultura a volte fa male…
Dopo quello di Balicco un altro articolo dedicato a “Smetto quando voglio”!?! Là si parlava con enfasi eulogica di un nuovo inizio della commedia all’italiana, qui si parla con enfasi escatologica di un film “testamentario”, accostandolo alla “Grande bellezza”. Sì, sono d’accordo, la cultura a volte fa male, poiché è come l’amore, che rende stupidi gli intelligenti e intelligenti gli stupidi (mi riferisco naturalmente agli oggetti delle recensioni). E fa male soprattutto quando viene usata per pompare prodotti tanto mediocri quanto pretenziosi, che confermano ancora una volta come l’Italia sia il paese della commedia che fa piangere (cfr. “Smetto quando voglio”) e della tragedia che fa ridere (cfr. “La grande bellezza”).
@ eros barone
Caspita addirittura “enfasi eulogica” !!!!
Si, sono d’accordo, la cultura fa male.
In sintesi, ‘sto film è un po’ nammerda che diverte.