cropped-Di-Ruscio1.jpg[Tre anni fa, a Oslo, moriva Luigi Di Ruscio (1930-2011). Lo ricordiamo con due contributi video: il primo, di Alessandro Ansuini e Marika Bortolami, è accompagnato dal racconto dell’incontro con Di Ruscio a Oslo e da alcune foto; il secondo, che apparirà nel pomeriggio, è un’anticipazione esclusiva per Le parole e le cose del film-documentario che Paolo Marzoni e Angelo Ferracuti stanno realizzando sullo scrittore di Fermo. Tutti i diritti sono riservati].

Non possiamo abituarci a morire
(Luigi Di Ruscio a Oslo)

di Alessandro Ansuini

INGAGGIO

Ero a Bazzano col mio amico Stefano Massari, avevo partecipato a una sua iniziativa poetica che consisteva nel leggere per strada, durante il giorno di mercato del paese, e alla fine stavamo parlando del più e del meno, letture interessanti fatte ultimamente, dove andare in vacanza per l’estate. Fu allora che nominai simultaneamente Luigi Di Ruscio e Oslo. Mi ero appena appassionato alla lingua di Di Ruscio, ero immerso nella lettura dei Cristi Polverizzati, e cercavo un posto fresco dove passare l’estate, che io e Marika, la mia fidanzata, non andiamo molto d’accordo con il caldo.

“E perché non te ne vai a Oslo a girare un documentario su Di Ruscio?”

Va detto che Stefano Massari aveva appena aperto, a Bazzano, una piccola galleria d’arte, che fungeva anche da fucina d’idee e piccola casa di produzione video, “Carta Bianca”.

“Ti pago il biglietto aereo, pensaci.”

Luigi Di Ruscio viveva in Norvegia dal 1957. Io avevo la passione per la macchina fotografica, oltre che per la scrittura. Così io e la Marika ci pensammo, e un mese dopo avevamo i biglietti andare a Luglio a Oslo. Era il 2010.

AEROPORTO

In aereo finii di leggere “Cristi Polverizzati”. Non avevo mai letto Di Ruscio fino a qualche mese prima. Era stato un accenno di Andrea Cortellessa, letto su un blog, che mi aveva spinto a incuriosirmi a questo scrittore. La prima cosa che pensai leggendolo è che ero di fronte a una lingua particolarissima. Lui aveva fatto appena le elementari, la lotta con la scrittura era stata una faccenda privata, durata tutta una vita, cominciata in Italia e perseguita con carattere quasi mitologico in quella terra sconosciuta che è la Norvegia. Avevo letto che aveva sempre lavorato in fabbrica, e che non aveva mai smesso di scrivere. Questa lotta, fra Luigi e la scrittura, vista l’ostinazione di entrambi aveva dato vita a un ibrido che mi colpiva ad ogni paragrafo. Sintassi e sostanza parevano lottare all’interno delle sue righe – questo mi colpiva più d’ogni tratto – la lotta, vera e propria, che si tramutava in una sorta di porta d’accesso a un punto di vista e a una forma, per me, del tutto nuove. Sono sempre stato affamato di “stile”, quello che cerco quando leggo uno scrittore è proprio quello, una nuova ginnastica per imparare ad arrampicarmi dove prima non ero riuscito ad arrivare. E Luigi era una scala bellissima, dimenticata da molti, dura come l’acciaio che lavorava e al tempo stessa morbida come possono essere morbidi i ricordi di un esiliato che ricorda la sua terra, che ti narra il suo vissuto. La seconda cosa che pensai era che mi ricordava, per tematiche e sfrontatezza, un certo Bukowski. Forse alcune scritture nascono dal lavoro, dal non poter essere portate avanti nella sicurezza di una rendita, non saprei dire. Qualcosa nella forza dei due scrittori faceva sì che la mia mente li associasse.

Arrivammo in aeroporto un pomeriggio di Luglio del 2010. Mentre uscivamo un cane tirato da un poliziotto veniva lasciato annusare i passeggeri. Io accolsi il cane che mi puntava con un certo ingenuo entusiasmo. Il poliziotto con meno, quando il cane mi si arrampicò addosso. A me e un altro, che poteva essere un marocchino o un tunisino, ci fecero accomodare in una stanza laterale dell’aeroporto. Mi perquisirono la valigia, calzino per calzino, quindi una donna bionda con lo sguardo gelido mi chiese in inglese cosa ero venuto a fare in Norvegia.

“Devo andare a girare un documentario su uno scrittore italiano che vive a Oslo.”

“Scrittore Italiano? Come si chiama?”

“Luigi Di Ruscio.”

“Mai sentito.” Disse la donna. “Ha un recapito telefonico?”

Ce l’avevo un recapito telefonico. Avevo chiaramente preso contatto via email con Luigi e gli avevo chiesto se gli avesse fatto piacere ricevere una visita e concederci qualche foto e un’intervista. Lui era sembrato molto contento e mi aveva lasciato il suo recapito telefonico di Oslo. Lo dissi alla donna che lo scrisse su un foglietto che passò a un altro poliziotto. Quindi mi fecero accomodare in uno stanzino ancora più piccolo e mi fecero spogliare nudo. Immaginai la poliziotta chiamare Di Ruscio e chiedergli spiegazioni circa un sospettato che tenevano in stato di fermo all’aeroporto. Mentre pensavo a questo, bel modo di presentarsi sicuramente, la guardia che mi aveva fatto spogliare si mise un guanto in lattice e io lo guardai con aria atterrita, e cominciai a gesticolare che no, non avrebbe fatto quello che immaginavo volessero per fare, ero pronto a chiamare l’ambasciata. La guardia si mise a ridere e mi disse di rivestirmi. Con i guanti voleva controllare per filo e per segno ogni risvolto, tasca, minuscola piega della mia giacca, quella che aveva attirato l’attenzione del cane. Era lei la responsabile. Confessai che sì, forse ero stato in ambienti dove qualcuno si era fatta una canna giorni prima, ma che assolutamente non portavo niente con me. Così mi lasciarono andare.

TORNEO DI CALCIO, APPUNTAMENTO E LENTICCHIE

Avevamo pianificato, io e Marika, di restare solamente tre giorni a Oslo. Quindi di prendere una macchina e farci un giro fino a Floro. Ma le cose non andarono come previsto. “Vuoi che non ci sia una macchina da noleggiare all’aeroporto di Oslo a Luglio?”, avevo detto io in fase di prenotazione, dall’alto della mia esperienza Nell’organizzazione di viaggi, addirittura stizzito nei confronti di Marika a cui invece piace essere preparata e organizzata. Ma non avevo fatto i conti con il torneo di calcio femminile che si svolgeva in quei giorni. Non solo niente macchine all’aeroporto, nei giorni seguenti scoprimmo che non c’erano proprio macchine a noleggio a Oslo, nonostante avessimo girato qualcosa come dieci autonoleggi differenti. Alla fine ci arrendemmo, e decidemmo di trascorrere l’intera settimana in città. Chiamai Luigi dall’hotel, lui mi diede delle indicazioni su quale autobus prendere e quale fermata della metro risultava più vicina. Si raccomandò di non prendere il taxi, costosissimo. Si raccomandò anche di fare l’abbonamento per una settimana, che si risparmiava un po’, ogni corsa a Oslo costava attorno ai 6 euro. Sembrava molto contento di vederci.

“Vi piacciono le lenticchie?”
“Lenticchie?”
“Vi preparo un bel piatto di lenticchie col sugo.”
“Va bene dissi io, ma non preoccuparti.”
“Nessun disturbo.” Disse lui.

Così prendemmo appuntamento per le quattro del pomeriggio.

“Ti piacciono le lenticchie?” chiesi alla Marika sorridendo. Va detto che lei detesta le lenticchie.
“Lenticchie?”
“Farai uno sforzo.”

Piazzai una telecamera sul bordo della finestra, che puntava una rotonda, e la lasciai accesa per catturare la luce che sarebbe scesa all’imbrunire. D’altronde eravamo lì per fare un documentario.

ASENGATA, LENTICCHIE E LETTURE 

Decidemmo di prendere la metro e scendere a Nydalen, per poi fare due passi fino a Aasengata 4/c, la via dove abitava Luigi. Gli enormi caseggiati quadrati, di colore rosso scuro, si disponevano all’interno del comprensorio formando una specie di quello che qui da noi chiamiamo cortile, un’area comune con del verde e dei muretti per gli abitanti delle case. Chiamai Luigi con il cellulare dicendogli che eravamo di sotto, e rimanemmo a guardarci intorno. Lo vedemmo sbucare da un portone con la faccia sorridente, ci chiamò alzando un braccio e indicandoci di andare verso lui. Ci presentammo e Luigi ci fece strada. Prima di salire in ascensore si fermò a controllare la posta. Non ce n’era. Salimmo al terzo o quarto piano e Luigi ci disse che aveva preparato le lenticchie.

“Avete mangiato?” chiese.
“Sì, risposi, ti ringrazio molto.”

D’altronde erano le quattro del pomeriggio. Ci fece entrare e sommariamente ci fece vedere gli spazi della sua casa. Sulla destra si apriva, a metà del corridoio che portava al salone, la sua stanza della scrittura. Non potei fare a meno di dare immediatamente una sbirciata e notai il computer, grandi quantità di libri e fogli ammassati. Ci indicò una pila e disse che stava revisionando dei lavori da dare a un editore che glieli aveva chiesti. Notai che la finestra dava sul cortile interno e provai a immaginarmi Luigi seduto intento a scrivere nel corso degli anni, che ogni tanto alzava lo sguardo e guardava fuori. Subito ci condusse in salone dove campeggiavano le foto della sua famiglia, sua moglie, Mary (“ti chiami come mia moglie” aveva detto a Marika appena ci siamo incontrati), suo figlio Adrian e sua figlia Caterina, più un quarto di cui non ricordo il nome. Quindi ci fece vedere il bagno dove, indicando in alto e ripetendo un passo scritto in un suo libro, disse che una volta s’era formata una chiazza d’umidità a forma di elefante, che riusciva a vedere solo lui, continuò ridendo. L’aveva fatta vedere a tutta la famiglia ma nessuno ci vedeva un elefante. “D’altronde noi poeti serviamo a questo, a fare vedere le cose che altri non vedono.”

Ci fece vedere il suo balcone, dal quale si vedeva la fabbrica dove aveva lavorato e che raggiungeva in bicicletta tutte le mattine, la Christiania Spigerverk, (Christiania era l’antico nome di Oslo, ci disse) quindi ci fece accomodare in cucina, dove una pentola stava sopra i fornelli con un coperchio inclinato dal mestolo che si frapponeva del mezzo. Lui alzò il coperchio e diede una girata alle lenticchie, quindi ci chiese se ne volevamo un po’, che ne aveva fatte tante, e chi le mangia tutte queste lenticchie se non le mangiate voi. Io dissi di sì mentre Marika disse che aveva mangiato molto a pranzo, era davvero a posto, come se le avesse mangiate comunque. Così io e Luigi ci sedemmo a tavola e per un po’ rimanemmo seduti a mangiare le lenticchie col sugo. Erano buone. Gli chiesi se c’era qualche scrittore italiano contemporaneo che apprezzava.
“Non ne conosco.” Mi disse.
Gli chiesi se conosceva Bukowski, dicendo che il suo modo di scrivere un po’ me lo ricordava, anche lui era stato un lavoratore per tutta la vita. Solo che Bukowski era tutto donne e alcol e cavalli, mentre Luigi era tipo da una moglie, niente alcol e lo stesso lavoro per tutta la vita. Caratteri differenti.
“Mai sentito nominare.” Mi rispose.
Così continuammo a mangiare. Gli chiesi se aveva ricevuto una chiamata dalla polizia che mi riguardava, raccontandogli per sommi capi quello che mi era successo all’aeroporto, ma nessuno lo aveva chiamato. Evidentemente si erano solo accertati se il numero che gli avevo dato corrispondesse a Luigi Di Ruscio. Una cosa che notai, del volto di Luigi, chiaramente segnato dagli anni, era che sorrideva con gli occhi. Non so spiegarla bene questa particolarità, ma quando sorrideva non ti accorgevi solo dalla bocca che stava sorridendo, ma dagli occhi, che assumevano una particolarissima posa che trasmetteva una dolcezza infinita. Finito di mangiare si voltò verso Marika e le disse:
“Lo sai fare il caffè?”
“Sì.”
“E allora fai il caffè” le intimò, senza darle ragguagli sul dove trovare le cose. Così mentre lei esplorava le scansie sopra il lavello io tirai fuori la mia copia di “Cristi polverizzati” e dissi a Luigi che quel libro mi era piaciuto moltissimo, chiedendogli gentilmente se poteva farci una dedica. Lui rammentò sommariamente le vicende che lo avevano portato a pubblicare, su richiesta di Cortellessa, e narrò una parte della critica che gli aveva fatto che gli era piaciuta molto, che riguardava la definizione di amore, in una scena dove Luigi aveva fatto l’amore con una donna e si addormentava e sognava di fare ancora l’amore con quella donna, per poi ritrovarla al risveglio. Gli chiesi se saremmo riusciti a incontrare Mary, mentre lui su un tovagliolo faceva le prove per la dedica. Ci disse che Mary era molto riservata, quindi non si era fatta trovare appositamente. Quindi ci passò il foglietto e ci fece vedere la brutta copia della dedica che aveva intenzione di scriverci sul libro, e solo quando l’avemmo approvata, con una lentezza sacrale, la riportò fedelmente sul libro. Io confessai che di suo avevo letto solo quel libro, cosa che mi faceva sentire in imbarazzo perché da troppo poco avevo compreso l’importanza di questo scrittore esiliato. Così ci condusse nella sua stanza di scrittura, dove ci consegno una copia fotocopiata di “Non possiamo abituarci a morire”, con prefazione di Quasimodo, 1966. Sembrava un oggetto uscito fuori da un altro mondo. Le fotocopie erano tutte storte, ma la sostanza, gli scritti, erano tutti compresi nel quadro fotocopiato. Lo ringraziai immensamente per quel regalo e gli chiesi da quanto scrivesse al computer, e come si trovava. Disse di trovarsi benissimo, che in questo modo poteva correggere le cose molto più velocemente. Gli dissi che Nabokov, cent’anni fa, aveva un metodo di scrittura per cartelle molto simile a quello che riproduciamo adesso col computer, sistema questo che gli permetteva di spostare le cose per averne un quadro generale diverso senza doverle riscrivere. Luigi mi disse che non conosceva Nabokov.

A quel punto, visto che ancora c’era luce, gli chiesi se era disposto a leggerci qualche poesia o un passo di “Cristi polverizzati” fuori sul balcone, per fare qualche ripresa. Accettò di buon grado e così andammo fuori, dove Luigi ci raccontò qualcosa della fabbrica, che da lontano ci osservava immobile, polena inevitabile di ogni suo giorno, anche adesso che era in pensione. Ci raccontò di quanto gli mancava l’Italia, del viaggio che aveva fatto appena qualche anno prima, a Fermo, per un convegno organizzato su di lui. Che durante quel viaggio doveva essersi preso qualcosa in casa da suo fratello perché al suo ritorno era stato in ospedale, una particolare infezione alle vie urinarie, che l’aveva portato in punto di morte. Ancora adesso, disse, era costretto ad andare in bagno più volte al giorno, cosa questa che lo limitava nelle passeggiate poiché a lui piaceva urinare all’aperto, mentre a Oslo ci sono multe salatissime per chi viene sorpreso in questo particolare piacere della vita, vizio che condividevamo. D’altronde a Oslo c’è il carcere anche se ti sorprendono con un alcolico in mano al di fuori di un bar. Ogni civiltà ha i suoi pregi e i suoi difetti. Quindi Luigi ci lesse qualche poesia, e un passo di Cristi Polverizzati su mia richiesta che mi piaceva molto, che era il seguente.

[…] Mi trovo bene in questa vita anche con un viavai di comparse che chiedevano notizie sulla fine del mondo, ogni giorno si alzavano sbalorditi nel constatare che questo terrore è ancora in piedi, i torturatori erano più profumati del necessario, tutte le nostre debolezze furono catalogate, la nostra riducibilità misurata, nella fabbrica siamo terrorizzati, rimanere disoccupati significa cadere nell’ultimo inferno, è qui che dovete dimostrare il vostro diritto ad esistere, non siate feroci come è feroce il padre vostro nei cieli, troppa nobiltà per affrontare un universo di sbranatori, scrivere è mostrare lo squarcio, raggiungere i limiti estremi, siamo finalmente venuti, scrivere la verità è raggiungere l’orrore estremo, non ci accorgevamo di quando siamo stati brutalizzati, quando l’encefalogramma sarà piatto prenderanno il nostro cuore per trapiantarlo in un maiale, non assistere impotente alla tua brutalizzazione, proclama lucidamente la tua rabbia, prepariamoci per lo spasmo estremo, non saranno certo gli errori, le gazze e tantomeno i cretini ad avere l’onore di guastarmi la gioia di essere vivo […]

Luigi non terminò la lettura di questo passo però. Disse che si sentiva stanco. Forse era emozionato. Ogni volta che leggeva ci chiedeva se andava bene, sorridendo con gli occhi. C’era del vento fuori, e noi non avendo un microfono indipendente collegato alla telecamera non eravamo attrezzati nel migliore dei modi, ma andava bene, gli dicemmo, andava benissimo, anzi, se eravamo stati troppo invadenti lo pregavo di scusarci. Ci chiese se ci andasse di andare a fare una passeggiata fuori, ne aveva bisogno. Accertammo di buon grado, non prima di esserci scattare due polaroid sul balcone, seduti di fianco, scatto questo che conservo con gelosa cura, dopo gli eventi che accaddero l’anno seguente.

AUTOBUS, MUNICIPIO E AKER BRYGGE

Scesi da casa ci inoltrammo per un dedalo di corridoi interni al condominio che ci fecero sbucare dall’altra parte del cortile, dove passavano i binari del tram. Attraversammo la strada andammo alla fermata dell’autobus. Luigi si informò sul come eravamo arrivati. Gli dissi in metro, che non me la sentivo di prendere un autobus non avendo ben chiare le fermate e tutto il resto. Lui si mostrò molto preoccupato del prezzo dei biglietti di qualunque cosa e ci raccomandò di fare un abbonamento, che ci permetteva di risparmiare qualcosa, i prezzi a Oslo, per un italiano, erano impossibili. Ce ne rendemmo conto in seguito quando calcolammo che il prezzo di una margherita era 40 euro e quello di un bicchiere di Tavernello 12. Fu allora che io e Marika decidemmo di approvvigionarci esclusivamente nei supermercati, che scoprimmo non a caso affollati di turisti che controllavano i prezzi e facevano la conversione nella loro valuta con massima attenzione. Salimmo sull’autobus e Luigi si mise seduto vicino a Marika, va detto che era molto più interessato a parlare con lei che con me, e come non capirlo d’altronde. Mi misi nei suoi panni e pensai che avrei fatto la stessa identica cosa. Non sentii di cosa parlarono in quel tragitto in cui io fotografavo fuori dal tram in corsa, Marika mi disse che gli chiese della sua famiglia, che lavoro faceva suo padre. Così arrivammo nella enorme piazza davanti al municipio, nelle cui vicinanze Luigi ci disse essere un suo amico col quale si fermava spesso a parlare, un immigrato italiano che possedeva una merceria, se non sbaglio, e con cui gli piaceva scambiare quattro chiacchiere, ma la conversazione era molto limitata mi disse, l’uomo non era avvezzo alla letteratura ma era comunque un paesano. Mi chiese se avevo pubblicato qualcosa in Italia e io risposi di sì, e lui compiaciuto mi disse che ero fortunato. Non mi misi a spiegare che le vicende delle mie pubblicazioni erano stati eventi particolari che avevo forzato, e non starò a spiegarlo qui. Non mi chiese però di leggere qualcosa di mio, e io non glielo proposi. Nonostante sia un poeta e uno scrittore so stare al mio posto quando incontro qualcuno che ha dimostrato qualcosa che io ancora neanche mi sogno. Parlo di coerenza e lealtà verso la scrittura, naturalmente. Luigi Di Ruscio aveva sacrificato la sua vita per scrivere, ne aveva fatto il suo bunker. Dalla sedia davanti alla sua Olivetti lanciava filosofiche maledizioni del mondo, scannerizzandolo con la sua mente acutissima. Nonostante a inizio carriera ricevette recensioni di Fortini e Quasimodo, (Pasolini disse che lo trovava caotico) dal suo esilio a Oslo Di Ruscio era stato praticamente dimenticato dalle patrie lettere, e questa cosa lo feriva moltissimo. Ma qui sta la differenza fra un grande scrittore e uno scrittore comune. Di quella sofferenza, della sua distanza e isolamento, della sua mancata frequentazione della lingua italiana e delle vicende letterarie nostrane aveva fatto un punto di partenza per continuare a menare i suoi fendenti letterari. Quando a pensavo a Luigi durante l’atto della scrittura avevo l’immagine di un pugile davanti a un sacco, intento a colpirlo e colpirlo senza tregua, affinando sempre di più lo stile, senza allenatore che gli suggerisse le mosse, consapevole che quell’allenamento comunque non lo avrebbe mai portato a una sfida per il campionato del mondo. Non da vivo almeno. Ci fece vedere, dall’altra parte della piazza, il posto dove assegnavano i Nobel, e facemmo una passeggiata lungo l’Aker Brygge, il porto di Oslo dedito al passeggio, dove locali di ogni genere dai costi esorbitanti si susseguivano senza posa. Lì ci disse che in cinquant’anni non era mai stato a cena fuori con la sua Mary. Neanche una volta, chiesi? Neanche una volta, mi disse come fosse la cosa più naturale del mondo. Ci salutammo che stava facendo buio, dandoci appuntamento per il giorno dopo, dove ci avrebbe condotto a visitare il Vigeland Park, il suo posto preferito di Oslo, quello dalle “tante statue”.

VIGELAND PARK, L’ADDIO

Non ci incontrammo il giorno successivo, Luigi era stato poco bene, ma quello dopo ancora. Ci mandò una mail che si intitolava PROGRAMMA PER DOMANI e diceva così:

Carissimi vi propongo questo programma per domani:

Domani di mattina voi andate a quel parco con le tante statue e per andare in quel parco prendete il 37 andate alla stazione e alla stazione prendete il 12 che si ferma davanti al parco delle tante statue. Poi riprendete il tram 12 vi fermate a SANDAKER SENTER e venite a casa mia. Vi offro un pranzo di lenticchie poi andiamo al cimitero monumentale. Cercate di essere a casa mia verso le 3 (15) del pomeriggio. Fatemi sapere.

Un forte abbraccio, Luigi

Quel giorno c’era un bel sole su Oslo, e la temperatura era accettabile. Non andammo al parco al mattino, particolare questo che ci permise di visitarlo assieme a Luigi, ma che fece saltare la visita al cimitero monumentale che facemmo in seguito, da soli. Ci vedemmo sotto casa sua e prendemmo di nuovo l’autobus. Chiaramente Luigi si sedette vicino a Marika mentre io mi perdevo nel fotografare fuori o riprendere Luigi mentre parlava al telefono con la moglie, in una lingua che sarebbe dovuta essere il norvegese ma assomigliava a qualcosa d’altro, di sicuro non al norvegese che sentivo dagli altri. Arrivammo al Vigeland Park e Luigi fece subito tappa in bagno. Eravamo un po’ preoccupati e gli chiedemmo se volesse tornare indietro, ma lui disse che una passeggiata gli avrebbe fatto bene. Così ci incamminammo per il parco, io e Luigi davanti, Marika dietro che ci riprendeva, o riprendeva Luigi. Non avevamo girato molto e col senno di poi ci siamo rammaricati di questa cosa, ma gli eventi non ci spinsero a forzare la mano e costringere Luigi a un’intervista normale, ci accontentavamo di stare con lui, ci dicemmo che la lettura l’avevamo registrata e potevo girare tranquillamente qualche veduta di Oslo nei giorni seguenti, per completare il documentario. Da un lato c’era la voglia di esplorare meglio il mondo di Luigi di Ruscio ma dall’altro c’era anche la consapevolezza di non voler essere troppo invadenti, di lasciar venire le cose nella maniera più spontanea. Così passeggiamo per il parco, Luigi più che darci informazioni sulle centinaia di statue del Vigeland Park ci dava indicazioni sui fiori, sul tipo di rose che crescevano nel parco. Arrivati alla fontana ci disse di andarci a fare un giro da soli, che lui era stanco, ma di rimanere in vista. Si raccomandò più volte di rimanere in vista, e così facemmo, mentre lui era seduto a guardarsi intorno con le mani appoggiate alle ginocchia. Quando fummo di ritorno si informò sul tipo di macchina fotografica che avevamo, una Reflex Canon digitale, e provò qualche inquadratura lui stesso. Lo incitammo a fare qualche fotografia ma lui, dopo essersi avvicinato a qualche fiore per inquadrarlo, desistette. Ci disse che si sentiva un po’ stanco e forse era il caso di tornare a casa. Ci suggerì di restare lì al parco e andare a vedere l’obelisco di corpi intrecciati che si trovava quasi alla fine ma noi insistemmo per accompagnarlo a casa. Sull’autobus chiamò nuovamente Mary, io ero dietro di lui, fissando la sua nuca e il telefono, così piccolo nelle sue mani grandi. Ci chiese dove dovevamo scendere e quando scoprì che la nostra fermata era prima della sua insistette per farci scendere, gli pareva assurdo farci fare il giro e non avendo fatto l’abbonamento avremmo dovuto pagare un’altra corsa del tram, cosa per lui inconcepibile. Così lo salutammo di fretta, fra facce di norvegesi che si accalcavano sul tram, donne che spingevano passeggini. Ci baciammo sulle guance e lo guardammo salutarci dal finestrino del tram che si allontanava.

Restammo a Oslo altri quattro giorni, nei quali sentimmo Luigi via email. Non si sentiva bene e noi non desiderammo disturbarlo oltre il dovuto. Tornammo in Italia e montai il video assieme a Stefano Massari. Ci scrivevamo con Luigi, io gli parlavo di cose, volevo pubblicare un suo piccolo estratto per il progetto di letteratura pieghevole gratuita che stavo portando avanti, e lui mi chiedeva sempre e solo come stava Marika, il che mi faceva sorridere tutte le volte. Una volta mi scrisse di leggere, se non l’avevo fatto, “Il maestro e margherita” di Bulgakov che era un gran libro. Una mattina di febbraio del 2011, al risveglio, Marika mi disse che aveva sognato Luigi, una sorta di incubo in cui lui stava male. Rimanemmo a guardarci in silenzio quando, accendendo, trovammo una mail di Adrian che diceva semplicemente così:

Luigi di ruscio is dead.

La data era:

The 23 of february 2011 at 4:00 AM

Così se ne andava il poeta operaio, venendo a farci visita in sogno. Nel frattempo avevo letto di lui “La neve nera di Oslo”, “Palmiro”, “La mitologia di Mary”, “Non possiamo abituarci a morire” che mi aveva dato. Più lo leggevo e più mi rendevo conto di quanto fortunato fossi stato nell’aver avuto l’occasione di poterci parlare. Questa consapevolezza era anche accompagnata da un certo sentimento di vergogna per non averlo approfondito di più, prima di conoscerlo, e di conseguente imbarazzo per aver avuto un’occasione unica e non averla potuta comprendere fino in fondo. Non solo per me, ma anche per i tanti che in seguito si sono appassionati a Di Ruscio, e per i molti che, conoscendolo, trovarono il nostro breve documento, un montato di cinque minuti, tanto toccante quanto, purtroppo, breve. Io stesso non mi sono mai risolto a scrivere il racconto dei nostri due giorni con lui, proprio in virtù di quest’insieme di sentimenti che mi faceva sentire, in qualche modo, indegno della sua memoria. Ma oggi, a quasi tre anni di distanza, un reportage di Angelo Ferracuti a Oslo sulle orme di Luigi mi ha fatto aprire gli occhi su quanto importante potesse essere aggiungere anche solo un piccolo tassello a quella che ormai sta diventando, e speriamo sempre di più, la mitologia di Luigi Di Ruscio. Così mi sono deciso a finire le bozze che avevo scritto appena tornato, colmandole con quelli che sono i miei ricordi a tre anni di distanza. E ancora un po’ mi vergogno. Come se non fossi degno di riportare per iscritto quello che per me è stato un generoso atto del destino, talmente generoso da non avermi neanche messo in grado di comprendere a fondo quanto lo fosse. Ma so che qualcosa, mentre riguardo le foto di quei giorni e rileggo la corrispondenza con Luigi, so che devo rendere indietro. Non per me. Per lui. E per quanti vogliano sapere qualcosa di più sulla vita del poeta operaio in quella terra lontana. So che sono pochi scarsi appunti. Lo so benissimo. Ma spero servano a costruire quel pezzetto di mitologia che Luigi Di Ruscio merita, più di ogni altro scrittore italiano che abbia avuto la fortuna di leggere, non solo di conoscere. Così, magari, da poterne avere una tutta per sé, oltre a quella bellissima che aveva costruito per la sua Mary.

Di Ruscio e Ansuini…..Luigi Di Ruscio e Alessandro Ansuini a Oslo.

Non possiamo abituarciNon possiamo abituarci a morire, Schwarz Editore, Milano 1953. Copia di Luigi Di Ruscio.

[Immagine:Luigi Di Ruscio a Oslo, 2010. Foto di Marika Bortolami (mg)].

 

7 thoughts on “Non possiamo abituarci a morire. Luigi Di Ruscio a Oslo

  1. Pure a me m’era venuto in mente un po’ di Bukowski leggendo La neve nera di Oslo, più che altro perché torna come un ritornello in entrambi questo fatto di scrivere di quando scrivono, della musica classica che passa nel sottofondo e il rumore assordante della macchina da scrivere, quello che possono pensare i vicini, la vita casalinga. Poi c’è da dire che Di Ruscio se lo mangia a Bukowski.
    Un bel ricordo comunque e bello anche lo spezzone del film su Di Ruscio. Speriamo che prima o poi vengano ristampati alcuni libri che non si trovano più, per esempio Cristi polverizzati.

  2. ho comperato nel 1988 un libro di Di Ruscio che si intitolava “palmiro” c’era in copertina una fotografia di August Sander fotografo tedesco dei primi anni del novecento, lo comprai per quella copertina perchè mi intrigava il fatto, allora ero studente di cinematografia, che Sander avesse passato tutta la sua vita a cercare di fissare sulle lastre tutta la società che gli passava accanto… la fotografia del libro si intitolava “i pugilatori” due uomini uno alto e uno basso, uno sorridente e uno serioso guardavano l’obbiettivo… leggendo il libro mi sono poi reso conto che quell’immagina era perfetta per il libro, perfetta perchè si fondeva con le parole distillate come smeraldi ancora sporchi di terra… c’era una post fazione, credo scritta da Antonio Porta, che si intitolava “il sogno che mi veniva incontro”… mi sono chiesto perchè non sia mai ritornato in patria Di Ruscio, definitivamente voglio dire… ma forse ora lo so…

  3. @Angelo Rossetti,
    in effetti il post gemello di questo porta un titolo che mi convince poco (che poi è il titolo mi pare del documentario), Luigi di Ruscio a Oslo, un italiano all’inferno; sicuramente gli autori del film su Di Ruscio avranno le carte in mano per dimostrare che il titolo è valido, può darsi pure che sia stato lo stesso poeta a scriverlo, ma non è che forse che forse l’inferno per Di Ruscio è stato più l’Italia che la Norvegia? D’altronde la Norvegia gli ha dato un lavoro, una casa, una famiglia, dei figli, una stabilità economica, la libertà di scrivere quello che voleva, linguisticamente straniero e sfrenato nella sua famiglia che non conosceva l’italiano, e la possibilità di conservare la musicalità della marca sporca, del suo mondo sonoro che giù a Fermo moriva. Certo, lo dice lo stesso Di Ruscio che se gli avessero dato un posto di scopino a Fermo sarebbe rimasto in Italia, ma non glielo avevano dato i democristiani e non glielo avrebbero dato manco i comunisti, perché era troppo poco ortodosso e pensava e diceva troppo quello che gli pareva per non risultare inviso pure ai compagni… Poi non lo so. Quando uno emigra da un posto non deve essere perché è particolarmente paradisiaco.

  4. sinceramente e rudemente: il video è inguardabile, non conosci la grammatica delle immagini;
    non è meglio che ti limiti alla letteratura?

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