cropped-Michelangelo_Caravaggio_022.jpgdi Daniele Giglioli

[È uscito in questi giorni il nuovo saggio di Daniele Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica (Nottetempo). «La vittima – si legge nella quarta di copertina – è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto. È tempo però di superare questo paradigma paralizzante, e ridisegnare i tracciati di una prassi, di un’azione del soggetto nel mondo: in credito di futuro, non di passato». Presentiamo due paragrafi tratti dal terzo e ultimo capitolo del libro]

Verità è morte

La vittima è nel vero per definizione. Non deve diffidare di sé. Non ha bisogno di vagliare e interpretare nulla. Non la toccano gli scrupoli con cui un secolo e piú di ermeneutica del sospetto ha scrutato il nesso inquietante tra verità e potere. Che vero sia ciò che il potere ha deciso essere vero è un rovello che non la riguarda, perché la vittima è vera quando è priva di potere, e in caso contrario non sarebbe tale. L’interrogativo angoscioso “che cos’è la verità” è il dubbio privilegio di Pilato, e bene ha fatto Cristo a non rispondergli, o a sottintendere: ce l’hai di fronte. La verità indiscussa esiste solo per le vittime della non verità. Se la verità è dubbia, la menzogna è certa quando la si subisce. La verità si interpreta, la menzogna si constata.

Condizione sommamente desiderabile, in un’epoca sospesa tra due estremi: da una parte uno scetticismo generalizzato, dall’altra un acritico desiderio di credenza, delega, affidamento nichilistico a chi ti dice cosa devi fare. Quale sia la verità di chi le dice cosa deve fare, la vittima lo sa benissimo, e non le serve alcuna ipocrisia, alcun accecamento volontario. Giustamente ha notato Girard che perfino i nichilisti piú conseguenti decostruiscono tutto salvo il principio dell’innocenza della vittima. Quando ci fu in Italia la voga del pensiero debole, era tutto un fiorire di ricette etiche intitolate a termini come cura, sollecitudine, tutela (non garantite, ad avviso di Vattimo e altri, dal cosiddetto “pensiero forte”, troppo impegnato a confermare se stesso per preoccuparsi della singolarità sofferente).

Tutto vero, ma non tutto qui. Conseguenza sinistra e inevitabile è infatti, come si è visto, il proliferare di vittime presunte, potenziali, aspiranti, e talvolta biecamente false. Non si esce cosí facilmente dal circolo tra verità e potere. Se solo la vittima è nel vero, chi desidera crisma di verità per il proprio discorso sarà sempre tentato dalla menzogna di spacciarsi per la vittima che non è. La mancanza di una verità, cosí come di un bene, indicabile in positivo e non via negationis, fa del nostro un tempo di paralisi quanto a una prassi che non voglia essere mero adeguamento all’esistente. Le cose non stanno come dite voi: questa è solo metà del lavoro della critica. L’altra metà è altrettanto necessaria: stanno invece in quest’altra maniera. Che a prova dell’ingiustizia si possa addurre solo la sofferenza subita è la soddisfazione post festum di chi dispera comunque di vincere. Non cosí si erano regolati Illuminismo, marxismo, femminismo, per non citare che tre esempi, né cosí fanno purtroppo i fondamentalismi religiosi. Il no senza un sí almeno possibile è un premio di consolazione che non mette conto ritirare.

Un esempio chiarissimo lo offre Romanzo di una strage, il film di Marco Tullio Giordana dedicato a piazza Fontana, con la sua ingenua (o furba; comunque irritante) dicotomia tra i buoni, ovvero coloro che sono morti (l’anarchico Pinelli, il commissario Calabresi, Aldo Moro), e i cattivi, ovvero chi ha organizzato e coperto la strage. Sono questi ultimi a fare la storia: gli altri la subiscono. Nella storia non c’è posto per il bene. Ma a questo sfondo tragico corrisponde un’etica antitragica, evidente nella scelta di privare i protagonisti della possibilità di partecipare a un male che nel sistema assiologico del film viene identificato con l’azione, cioè con la politica, una politica ridotta per di piú al solo ius neci, il diritto sovrano di uccidere (nonostante Pinelli stia in un movimento che non ripudia affatto la violenza, Calabresi porti la spada in quanto rappresentante delle istituzioni che detengono il monopolio della forza legittima, Moro sia uomo addentro ai segreti dello Stato). Che anche i buoni possano essere in conflitto tra loro, portatori di valori difficili e forse impossibili da sintetizzare, è un dubbio che non deve mai sfiorare chi guarda. Solo l’impotenza è un valore di cui andare orgogliosi.

In una delle ultime sequenze del film, Calabresi è solo, di notte, nel suo ufficio. La cinepresa lo inquadra da tre lati (a suggerire interiorità drammatica e personaggio sfaccettato), poi Calabresi si volta e guarda in macchina: dall’altra parte c’è Pinelli, assorto, che alza il viso e accenna un sorriso triste. Si rispettavano già prima, e ora sanno entrambi la verità. Una verità che arriva troppo tardi, alle soglie della morte: Pinelli le ha già attraversate, Calabresi sta per farlo. La verità può dirsi solo quando è inutile. Ciò di cui Romanzo di una strage è sintomo, piú che testimone, è un rapporto tra coscienza e storia da cui è stato rescisso qualunque nesso di efficacia: unica prestazione richiesta, la pietà. Se la verità è negli occhi della vittima, la verità coincide con la morte. Un monito chiarissimo a chi decidesse di cercare quella di oggi. Si è visto come va a finire. Una morale da resa a discrezione cui l’iconostasi della vittima offre un risarcimento di dignità non meritata.

Ma anche una chiamata di correo da cui sarebbe farisaico tentare di sottrarsi. È difficile essere all’altezza di un nichilismo che non ci è piovuto sulla testa per volontà degli astri, ma è il risultato del mondo per come, Vico insegna, ce lo siamo costruito noi. Nel mondo umano non c’è una verità trascendente cui far riferimento per confutare un discorso, rifiutare una pratica, avversare una politica, ed è comprensibile anche se triste che ci si rivolga alla vittima come a una sorta di suprema istanza, di Corte di Cassazione della storia. Comprensibile ma paralizzante. Necessario quanto difficile è accettare invece che esistono solo pratiche da contrapporre a pratiche, interessi a interessi, valori a valori: verità a verità, un termine che forse, come avverte da tempo Alain Badiou, occorre declinare al plurale, senza per questo annacquarlo nel pluralismo imbevibile della compatibilità a tutti i costi e dell’accreditamento reciproco come legge superiore. Le verità possono essere in conflitto, e non c’è un’etica generale perché non esiste alcun soggetto universale che possa farsene portavoce, ombra incorporea cui la vittima dovrebbe offrire il contrappeso del proprio corpo sofferente. Etica è la “fatica”, scrive Badiou, “che fa avvenire in questo mondo alcune verità”. Una fatica a cui si può soccombere, ma non certo da vittime. Mentre niente è piú nichilistico di un’etica capace di fondarsi solo sul male ricevuto, reale o possibile: edificata sul ricatto del nulla cui sempre si rischia di essere ridotti, la mitologia vittimaria è una religione della morte.

Polifemo

Ricapitoliamo gli addebiti. La prosopopea della vittima rafforza i potenti e indebolisce i subalterni. Svuota l’agency. Perpetua il dolore. Coltiva il risentimento. Incorona l’immaginario. Alimenta identità rigide e spesso fittizie. Inchioda al passato e ipoteca il futuro. Scoraggia la trasformazione. Privatizza la storia. Confonde libertà e irresponsabilità. Inorgoglisce l’impotenza, o la ammanta di potenza usurpata. Se la intende con la morte mentre fa mostra di compiangere la vita. Copre il vuoto che soggiace a ogni etica universale. Rimuove e anzi rigetta il conflitto, grida scandalo alla contraddizione. Impedisce di cogliere la vera mancanza, che è un difetto di prassi, di politica, di azione comune.

Tutti temi che abbiamo visto ciclicamente affiorare e risommergersi nelle situazioni e nelle circostanze piú diverse. Ce ne sarebbe abbastanza per una condanna senza appello. Ma non siamo in tribunale, e una critica che si limiti a metter capo a un giudizio, specie se negativo, spreca la sua carta migliore. Nessun gioco di prestigio dialettico che trasformi d’incanto il negativo in positivo. Ma è sottesa all’attuale prestigio della condizione di vittima la risposta sbagliata a una domanda giusta; una verità in latenza che attende di essere estratta; un segnavia invertito, un’indicazione di percorso rovesciata. Interrogarla in questa luce è la piú alta forma di pietà possibile. Non si tratta soltanto di descrivere i fenomeni, ma di salvarli – era il motto della scuola platonica caro a Walter Benjamin quando leggeva nel dramma luttuoso del Barocco tedesco l’allegoria del suo tempo, il Novecento –, individuando in essi non solo la struttura che vi soggiace, ma anche la potenza che li fa scaturire. Potenza significa poter essere diversi, un cosí che potrebbe anche non essere cosí. Potenza è la miglior traduzione di agency.

È infatti all’agency, per quanto denegata, che ci riconducono tutte le vie della vittima. Respingendola da sé, pur in cambio di compensazioni, esenzioni, privilegi e false coscienze, la mitologia vittimaria ne addita costantemente la presenza: altri, non io, ma pur sempre qualcuno è responsabile. Non un destino cieco e inscrutabile, non il capriccio degli astri o degli dei, non l’innocenza del divenire o gli algoritmi adespoti dell’economia, ma dei soggetti storici precisi, individuabili, che rispondono per nome e cognome, classe e condizione, ideologia e comportamenti. Se le cose sono come sono, è perché qualcuno ha fatto qualcosa, il che testimonia che fare qualcosa si può. Tutto sta a vedere cosa, e soprattutto chi, da che parte cioè si vuole stare. La vittima non accetta giustificazioni in nome di interessi superiori (volontà di Dio, ragion di Stato, felicità del popolo, predominio della razza, società senza classi, esigenze della produzione, ce lo chiede l’Europa…), in quanto non può prescindere dai suoi particolari. In ciò è la sua debolezza ma anche il suo momento di verità, e se nega la propria responsabilità ingigantendo quella degli altri è pur sempre a una responsabilità reale che fa appello.

Qualcosa di simile accade con un’altra mitologia contemporanea, parente stretta di quella vittimaria: il complotto, la cospirazione, la congiura onnipresente e universale, umiliante contraltare alla requisizione dell’azione efficace nella sfera della presunta razionalità sistemica. La spiegazione piú corrente e corriva suona infatti: società e storia sono complesse, filosofie e ideologie che promettevano ai soggetti la possibilità di porre un nesso razionale tra cause ed effetti, mezzi e fini, determinando il corso degli eventi, sono in crisi da tempo; quella possibilità è avocata dal sistema, e all’iniziativa individuale e collettiva non resta che un ruolo di comparsa, una contingenza senza necessità. I piú deboli e sprovveduti non lo reggono e si chiedono di chi è la colpa. L’ossessione cospirativa è una razionalizzazione fallace, e non ci resta che irridere o compatire chi si chiede: chi mi fa torto?, come i Ciclopi con Polifemo. Nessuno ti fa torto, lasciaci dormire.

Ma Polifemo, oltre ai suoi torti, una parte di ragione ce l’aveva: qualcuno l’occhio glielo aveva pur cavato. Continua a vivere in questa razionalità distorta la pretesa che la storia la facciano gli uomini e le donne, non agenzie impersonali e inimputabili in giudizio; una pretesa senza la quale della modernità non è piú nulla. Modernità rovesciata, accecata, denegata al pari di quella della deresponsabilizzazione vittimaria; ma che ha ancora la forza di far sentire, sia pure attraverso il linguaggio straniato del sintomo, le sue ragioni e la sua necessità. Maniaci dei complotti e corifei delle vittime rivelano quello che nascondono, affermano ciò che negano, guardano fisso quanto non possono vedere: nella resa c’è un residuo di lotta, nella rinuncia una traccia di desiderio, nell’orgoglio sbagliato la spia di un possibile orgoglio legittimo. Letta al contrario, la loro fallacia è il linguaggio della verità.

La prosopopea della vittima è la protesta (impotente e pericolosa se abbandonata a se stessa) contro quell’avaria della dimensione pubblica che affligge il cittadino di una società post-democratica. Quando non è in palese malafede, certo; eppure, anche in quel caso attingendo allo stesso bacino di energia passionale. La forza dei mistificatori parassita quella dei mistificati. Restituirla agli espropriati è ciò a cui mira la critica della vittima, come accadde per esempio quando il movimento operaio passò da quella che Marx chiamava “filosofia della miseria” all’orgoglio dialettico di chi, sentendosi insediato nella punta piú avanzata della produzione sociale, rivendica il diritto a guidarla: un diritto del fare, e non dell’essere attraverso il subire. Dannati della terra sí, ma in piedi, prometteva il suo inno: “Debout les damnés de la terre” ecc.

Prima mossa dovrebbe essere cominciare o ricominciare a sentirsi parti in causa, non rappresentanti di una universalità spettrale quale è quella promessa dall’etica vittimaria. La condizione di vittima pretende a una risposta unanime; ma una risposta unanime è soltanto una risposta falsa, che non permette di vedere quali sono le vere linee di frattura, ingiustizia e ineguaglianza da cui è segmentato il terreno dei rapporti di forza. Politica e conflitto sono sinonimi. Politica, ha spiegato Jacques Rancière, è quando di idee su come ripartirsi il mondo ce ne sono almeno due. Che ce ne sia una sola, invece, è “polizia”, nel senso settecentesco di policy, police, ordinaria amministrazione, funzionamento ben lubrificato dello status quo. Che la vittima sia diventata quel lubrificante è insieme un’evidenza e uno sfacciato paradosso, quando a rigore dovrebbe costituirne l’inciampo, lo scandalo, il punto d’arresto. La mitologia vittimaria è una subalternità che perpetua il dominio. Troppo promettere nonché idea ingenua del potere sarebbe credere che spariranno insieme. Ma questo è l’ordine del giorno, e a ogni giorno basta la sua pena.

[Immagine: Caravaggio, Il sacrificio di Isacco (gm)].

 

18 thoughts on “Critica della vittima

  1. Nella società moderna, se Polifemo è stato accecato è la vittima e si condannerà il colpevole. Successivamente se si scopre che Polifemo era a sua volta carnefice si condannerà anche lui. Non credo esista più la regola dell’occhio per occhio intesa come, se Polifemo era stato a sua volta carnefice, ben gli sta! Il tutto rapportato ai giorni nostri si traduce in: chi è la vittima ora, nel momento in cui qualcuno denuncia qualcun’altro? Il carnefice paghi, poi si può scavare un po’ più a fondo. Lo sbaglio più grande è quello di non denunciare un comportamento sbagliato al momento opportuno. Dopo può essere troppo tardi. Se nel presente pervade un vittimismo dilagante si studia la situazione e si cercano le risposte. In mezzo si insinua anche la falsa vittima ma questo non deve scoraggiare la ricerca della verità. Se questa verità è una delle tante si assume per verità quella della maggioranza. La maggioranza vince sempre.

  2. Scrive Adorno in un noto passaggio di “Minima e moralia”:

    “egli [l’amante offeso] riconosce che nell’intimo dell’amore accecato – che non ne sa nulla e che nulla potrebbe saperne – vive l’esigenza della liberazione da ogni accecamento. Egli ha subito un torto: e di qui deduce l’esigenza del diritto, che – nello stesso tempo – è costretto a respingere, poichè ciò che desidera non può nascere che dalla libertà […] Con la sua richiesta di esaudimento, che non è fondata su nessun titolo e su nessuna pretesa , egli fa appello ad un’istanza sconosciuta, che gli promette – per pura grazia – ciò che insieme gli spetta e non gli spetta” [Adorno 1951, 194]

  3. Vorrei porre cortesemente alcuni quesiti e riflessioni.
    A parere dell’autore in che termini è possibile tracciare le condizioni di possibilità che aggirino un esito regressivo della sofferenza? Non è nella sofferenza già ricompreso il desiderio di un suo superamento? E se così fosse, la realizzazione di una prassi che scongiuri il perpetuarsi del dolore, il coltivare il risentimento e l’impotenza, lo stabilire identità reificate non affonda essa stessa le sue possibilità in condizioni storico-sociali?
    In che termini ricollocare l’innesco attivo di un suo trascendimento, se non in un tessuto intersoggettivo?
    Dove può trovare la vittima le risorse sociali di una prassi rinnovata? Quale legame sociale riattiverà la trasmissione delle risorse irrinunciabili per la sua fioritura?
    Tale processo può essere letto esclusivamente in termini di “volontà di potenza” della vittima?
    E l’ingiustizia che rende muti? Nel momento in cui l’oggettivazione non permette più spazi di riappropriazione soggettiva e prosciuga le risorse dell’autocomprensione dove scorgere orizzonti del riscatto?
    Per tornare alla suggestione adoriana, chi assumerà l’ingiustizia dell’amante offeso?
    Non di certo l’offeso, muto e sommerso. Chi, allora? Chi testimonierà l’intestimoniabile, testimonierà in suo favore; non testimonierà dunque la sua testimonianza, perché essa non gli appartiene; e neppure testimonierà la testimonianza che l’offeso non può offrire. Testimonierà in favore dell’offeso, non in sua vece. Colui che testimonia in favore dell’intestimoniabile, non in sua impossibile rappresentanza. In favore, dunque: farsi carico dell’ingiustizia, che non si risolve in sublimazione estetizzata e nemmeno si aggrappa alla riparazione formale, o al suo superamento tecnico. La testimonianza dell’intestimoniabile è la testimonianza in favore della speranza che – seppure l’ingiustizia rende muti – tale ingiustizia non sia l’ultima parola.

  4. Temo che il momento del passaggio dalla consolazione alla rivalsa ci sfugga completamente. La letteratura offre parecchie testimonianze di questo vuoto di descrizione e di analisi: là dove un uomo o una donna del sottosuolo da vittima passiva decide infine di passare all’azione, ciò avviene in modo del tutto impulsivo, senza che né lui/lei (personaggio) né noi (lettori-spettatori) riusciamo a farcene una ragione, e le conseguenze tornano a sfuggire al controllo umano, restando oggetto di contemplazione passiva.
    Di questo agire intermittente e astioso è costellato, mi sembra, il nostro presente, non solo della cronaca nera (campo dell’etica), ma anche di quella politica, dove alla paludosa mistificazione vittimistica fanno da contraltare improvvisi scatti di azione che nessun sociologo aveva saputo prevedere prima, né alcuna intelligenza collettiva riesce poi a portare oltre l’episodico. Il vero salto di qualità sarebbe dare orizzonte e continuità all’azione al di là degli interessi particolari, in nome dei quali “hanno tutti ragione” e tutti sono vittime. Il dato paradossale di quest’epoca, mi sembra, consiste nel fatto che chi cerca di dare continuità e orizzonte universale all’azione, si trova emarginato nelle piazze e per di più in brevi momenti di testimonianza. Chi non sta al gioco della finzione, si trova confinato nella realtà.

  5. La verità è che non tutte le “vittime” sono uguali. Basti pensare al peso rispettivo delle morti di calciatori nel corso delle competizioni e delle morti di lavoratori che periscono nei luoghi di lavoro. Diceva giustamente il presidente Mao Zedong che vi sono morti che pesano come una piuma e morti che pesano come una montagna. Quanto pesa allora il massacro quotidiano di tre lavoratori al giorno in media, che sono vittime dell’organizzazione capitalistica del lavoro e della produzione. E qual è, se esiste, l’unità di misura del peso sociale della morte?
    La domanda sorge spontanea per chiunque non si faccia trascinare dall’emozione o non intenda sfruttarla a fini edificanti ed apologetici: perché un peso sociale così forte per la morte di un calciatore o per il motociclista di un Gran Premio mondiale rispetto al peso che viene dato agli infortuni sul lavoro? Rispondere a questa domanda, che può essere posta per qualsiasi tipo di decesso improvviso (nel calcio, nello spettacolo, nelle missioni coloniali come quella in Afghanistan), significa porsi il problema del peso sociale odierno del lavoro. È a questo punto che si comprende perché, sul piano oggettivo, non certo sul piano del valore, la vicenda della morte, o dell’infortunio, di un appartenente allo ‘star system’ pesa socialmente più delle morti sul lavoro.
    In effetti, ben difficilmente i ‘mass media’ amplificano le morti sul lavoro, ossia gli omicidi bianchi, come fenomeni sociali totali (a meno che non si tratti di vere e proprie stragi come quella avvenuta nel 2007 alla Thyssen-Krupp di Torino), cosicché, se non è un medico del lavoro particolarmente attento a questi aspetti della fenomenologia capitalistica a informarci in merito, normalmente i decessi sul lavoro tendono ad esprimere la propria carica simbolica e di significato entro le pieghe oscure della società, là dove non arriverà mai la luce abbagliante dei riflettori della ‘società dello spettacolo’. D’altra parte, essendo i ‘mass media’ non uno strumento oggettivo di rilevazione, ma un processo di costruzione sociale dei significati simbolici controllato dalla classe al potere, chi si propone come soggetto politico deve essere in grado sia di contrattare con essi l’importanza di un messaggio collettivo sulle morti nei luoghi di lavoro sia di proporre una propria iniziativa di costruzione del significato. Ecco perché, ‘rebus sic stantibus’, non meraviglia che la morte di un individuo-feticcio abbia, nel “mondo stregato e capovolto” in cui viviamo, un peso sociale così abnorme. In realtà, a partire dalle morti sempre più invisibili nei luoghi di lavoro, ciò che la società capitalistica tende a far dimenticare, nell’epoca più distruttiva della sua crisi, è questa semplice verità: che in un mondo fondato sul profitto, sulla rendita e su quell’‘análogon’ del profitto e della rendita che è lo spettacolo, nessuno muore, ma tutti vengono assassinati.

  6. Grazie. Mi sembra una riflessione preziosa, da prendere e tenersi stretta per affrontare meglio questi giorni.

  7. Quello di Giglioli è un bellissimo libro, che riesca ad essere al contempo rigoroso e spregiudicato, di grande raffinatezza teorica e però anche chiarissimo e piano. A lettura ultimata, mi è rimasta una sola curiosità, riguardante il dubbio espresso nel finale circa l’esigenza o meno di una nuova mitologia non subalterna. A me pare che, in fondo, il percorso descritto dal libro non lasci spazio ad un dubbio del genere. Le nuove mitologie sono sempre identitarie e dominanti.

  8. @ paolo godani

    L’esigenza che esprime oggi il movimento di classe non è tanto quella di una “nuova mitologia non subalterna” quanto quella di una “utopia concreta”. La crisi generale del capitalismo appartiene infatti a quel genere di crisi che, come affermano Marx ed Engels nel “Manifesto del partito comunista”, “mettono sempre più minacciosamente in forse l’esistenza di tutta la società borghese”. Occorrono dunque un progetto strategico e, insieme, un’idea-forza.
    Se è vero che la Rete, con la svolta tecnologica e sociale che ha determinato, rappresenta sul piano simbolico un mito potente, che trae la sua forza dall’utopia irenistica di una società democratica e trasparente in cui siano, per lo meno ottativamente, superati gli aspri conflitti dell’epoca fordista, è altrettanto vero che, come ha posto in evidenza il saggio di Bronislaw Baczko sull’utopia, questa dimensione, per così dire, figurale dell’agire collettivo è, ad un tempo, costitutiva del legame sociale e co-generatrice di cambiamenti reali fin dal periodo storico della nascita della politica moderna (basti pensare al culto della dea Ragione promosso dalla rivoluzione francese o all’esperienza del cosmismo in Unione Sovietica o, ancora, a quella dei “costruttori di Dio” promossa da Lunaciarskij e Gorkij nel primo periodo della rivoluzione russa). I movimenti, le organizzazioni e la classe devono quindi dotarsi di questa dimensione utopica, che penetra nel profondo della società e suscita forze ancestrali radicate nella condizione umana, se non vogliono abbandonare il campo della conquista dell’egemonia culturale alle destre comunitariste, portatrici di ideologie ‘volkisch’ e di identità mitiche di stampo premoderno, capaci di sedurre le masse con il potere di irraggiamento di quello che, a suo tempo, fu molto ben definito come “il sole nero degli oppressi”. Il compito che si pone al movimento di classe è perciò anche quello di offrire uno sbocco non necrotropico ma biofilo, e soprattutto coerente con una prospettiva di reale emancipazione, alle tensioni antropologiche (sogni visioni anticipazioni utopie), studiati a suo tempo da Jacques Rancière in un libro affascinante intitolato “La nuit des prolétaires”. Tornare a parlare di socialismo (non come di una gestione più efficiente del capitalismo ma) come di una civiltà in cui “il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti” potrebbe essere il primo passo nella giusta direzione.

  9. Sentivo un gran bisogno di uno studio provocatorio (ma quanto provocato a sua volta dal piagnisteo costante del Partito delle Vittime-per-partito-preso-e-mai-reso) come questo di Giglioli.

    Il pensiero lo collega immediatamente a un altro testo: “I nuovi demoni” di Simona Forti, anche lui con l’intelligenza puntata contro le nuove strategie del potere (dei rapporti di forza), con il senso critico che si rimette sulle tracce di chi prova a far perdere le sue, contro chi prova a mistificare le responsabilità individuali affumicandole in impersonali “spiriti del tempo”.

    In letteratura lo scrittore che a me sembra colga più inclementemente e più smaliziatamente questo slittamento isolato e indagato da Giglioli, questa mutazione nel gioco delle parti che è sempre un gioco di potere nel quale adesso i vincenti vogliono acquisire pure il ruolo dei perdenti per esautorare del tutto le vittime integrali, facendole sparire a ogni livello occupando completamente lo spazio pubblico del dicibile, è Aldo Busi, che se con “le vittime” non è mai pietoso, è solo per essere spietato senza mezze misure coi carnefici, specie se di se stessi.

    Le vittime e i carnefici si spostano, e se ora i carnefici provano a occupare lo spazio “riconosciuto” delle vittime, bisogna pure chiedersi dove staranno ulteriormente sprofondando le vittime, le ‘sconosciute’.

    Portare alla luce le vittime significa indicare una nuova strada ai carnefici, a quelli più raffinati e aggiornati; e spingere perciò le vittime in un altro buio inedito.

    Perciò all’intelligenza, al pratico spirito critico, non può essere data requie: ogni quiete diventa uno smorto collaborazionismo, a cui il saggio di Giglioli si oppone e già solo per questo gli va riconosciuto un gran merito.

    I miei saluti,
    Antonio Coda

  10. Grazie a tutti coloro che sono intervenuti. Sulle questioni sollevate ho più dubbi che risposte, dal paradosso del testimone alla possibilità di una mitologia non subalterna. Testimoniare in favore è certo possibile; purché, mi verrebbe da dire, ci venga richiesto, sia cioè un atto di associazione tra due soggettività, non un generoso e benintenzionato sporgersi verso la sofferenza dell’altro in cui la vera posta in gioco è la nostra buona coscienza. E dove ciò non è più possibile? Ecco il punto sul quale mi incaglio.
    Sul problema dei miti, forse la confusione deriva dalla polisemia del termine: cosa si intende, storie sacre, racconti esemplari, mascherature più o meno in buona fede di una realtà che apparirebbe ben diversa alla luce del logos? Siamo al limite dell’omonimia, come si vede, e bisognerebbe prima fare chiarezza su questo.
    Trovo invece meravigliosa la formula: Chi non sta al gioco della finzione, si trova confinato nella realtà. Ontologia del presente allo stato puro, già solo a partire da questo si potrebbe scrivere un altro libro, in attesa di poter fare qualcosa di meglio.

  11. Ringrazio l’autore per il suo intervento. Molto interessanti anche le altre suggestioni. Mi sto occupando di vergogna come emozione sociale per la mia tesi di dottorato (dovrebbe uscire un saggio in rivista di lavoro preliminare sul tema a breve). Sarebbe eventualmente prezioso poter dare un seguito al dialogo su questi temi. Ancora grazie e un saluto.

  12. @ giglioli

    “in attesa di poter fare qualcosa di meglio”.

    In attesa di poter o in mancanza di voler? O forse in attesa di voler? O semplicemente in mancanza di poter fare qualcosa di meglio? Senza offesa nei confronti dell’autore di queste pagine, che merita rispetto, ma mi chiedo se una simile frase non tradisca la stessa falsa coscienza che si rimprovera alla figura della vittima. Ma forse interpreto troppo seriamente una chiusa un po’ autoironica.

  13. Malgrado l’Oscar appena ottenuto che dovrebbe tappare la bocca ai dissenzienti, io non riesco a capire l’entusiasmo per questo film da parte del ceto medio intellettuale che sembra vi si rispecchi quasi con soddisfazione. E mi pare che l’acume interpretativo mostrato da Daniela Brogi nella sua elegantissima lettura critica resti in parte mal speso e monco.
    Non ci sto e mi permetto qui di seguito delle obiezioni – diciamo pure – moralistiche, antiquate, esterne.

    Perché convocare Flaubert, Breton, Fellini per nobilitare quest’opera?
    Concesso che il titolo voglia essere antifrastico e sia usato per rivelare la “grande bruttezza” (quale, per favore?), non è che a questa ci si adatti pigramente, “naturalmente”?
    Come non scavare sul nichilismo di fondo del film? O sul fatto che siamo alla rassegnata accettazione della impossibilità di qualsiasi mutamento o cambiamento (non “renziano”) del mondo e alla negazione di ogni responsabilità individuale?
    Se la tesi di fondo è che «tutto é menzogna», come si fa a sopportare la menzogna?
    Ed è solo il personaggio a lasciarsi sfuggire il «momento di verità» o è lo stesso regista che asseconda la sua cecità con la «progressione del racconto», permettendo che quelle parole vere (: «non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare») non si facciano mai gesto anche minimo di rivolta individuale? E, in tal caso, come non dire che è lo stesso regista a compiacersi e adattarsi a questo nichilismo?
    E poi, fuori dai denti, chi sono quelli che si possono permettere di inseguire «la bellezza in disfacimento delle nature morte barocche»?
    A me pare che con la scusa che non sia possibile pretendere «una sistemazione unica, capace di comprendere o addirittura di risolvere le scuciture attraverso le quali la vita si trasforma in destino», ci si adagi nel buco nero detto “destino”. Anzi si facciano diventare “destino” tutte le azioni prodotte da altri e da noi.
    La solitudine «completamente scollata dal mondo circostante» non si fa più critica del mondo circostante. Perché mai? Perché è oggi impossibile qualsiasi critica? Perché l’unica critica possibile sarebbe questa messa in atto dal regista?
    E perché mai «l’angoscia della mancata esperienza della bellezza» non si dovrebbe più tramutare in *responsabilità* o in *maturita* che rifiuti la menzogna? Perché, invece, è così facile che si tramuti in cinismo o si sdraia sul «nastro di indolenza su cui scorre»? È inevitabile?
    È il personaggio che è così e non può che essere così? O lo ha deciso così il regista Sorrentino/Flaubert? E perché ha deciso in tal senso?
    Una lettura critica del film non dovrebbe tentare di spiegarlo? Non dovrebbe tentare di spiegare perché il regista «disarticola il racconto, eliminando spesso i raccordi»? O decide di narrare la catastrofe «in una prospettiva antiromantica e antiromanzesca, cioè senza sviscerarne le cause, ma presentandone le manifestazioni»? O perché feticizza quel « tempo attimale e irrecuperabile» « delle situazioni che per spreco di tempo non abbiamo vissuto pienamente»? Perché – insomma – il regista (ma anche Daniela Brogi, mi pare) si ferma allo psicanalismo e rifiuta la fatica di una ricostruzione psicologico-storico-politica di questo film?

    Poi, oltre all’Oscar, dategli pure tutti i premi che volete e avvelenatevi pure baroccamente.

  14. A lettura del saggio ultimato, confermo quanto ricevuto dalla prima impressione: la “Critica della vittima” è una riflessione di grande freschezza, attualità e urgenza, ottenuta con sintesi e equilibrio e tramite una benemerita equivicinanza, al riparo cioè dallo sgretolamento istantaneo dei bizantinismi pavidi di qualsiasi equidistanza. Una utilissima, e essenziale, ricognizione del vittimismo-di-potere, corredata nella ‘nota al testo finale’ da una onesta e assai stimolante bibliografia di riferimento. Neanche il tempo di finirlo e già inizia il dispetto per il difficilissimo reperimento di un altro saggio di Giglioli appassionante fin dal titolo, “Il pedagogo e il libertino”, che spero venga presto ristampato. I miei saluti, Antonio Coda

  15. Salve.
    Dall’ascolto di Radio tre, alle sponde di queste riflessioni. Profonde, schiaccianti, elevanti. In attesa di possedere le capacità di sopportarle o supportarle adeguatamente, sorretto dalla più luminosa brevità della saggezza napoletana, secondo la quale mentre il medico studia il malato soccombe (tecnicamente, muore), vorrei gentilmente chiedere al professore Giglioli un prezioso e gradito contributo di volontà, nelle forme del pensiero e conseguentemente dell’azione, in merito ad una attività di autodenuncia, per violazione di un codice etico di una banca italiana. Le conseguenze tangibili di questo avvenimento sono al momento un licenziamento per giusta causa per cessazione del rapporto di fiducia e la possibilità di poterne parlare.
    Con l’occasione, ringrazio il Professore Giglioli per il generoso contributo allo sviluppo della Umanità, auguro il trascorrimento di una piacevole giornata e saluto con cordialità
    Domenico V.

  16. Non ho letto il libro di Daniele Giglioli, mancanza che voglio colmare al più presto, per la rilevanza dei temi trattati.
    Ho trovato interessanti anche tutti commenti.

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