di Raffaele Donnarumma
[Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo che segue è uscito il 14 ottobre 2011].
Mi piacerebbe scoprire chi scrive sui forum dei blog letterari, e chi si nasconde dietro nick che, di solito, non eccedono in fantasia. Si leggono cose molto diseguali: interventi più o meno informati, denunce, divagazioni, rifritture di quello di cui si discute sin dal X libro della Repubblica e che ora ci viene presentato come l’inaudito del giorno, la promessa di una folgorazione per il domani; ma la mia curiosità va ai picchi negativi. È una curiosità di natura sociologica: in quali strati della popolazione nascono tanta incultura, tanto risentimento, tanta frustrazione, tanto bisogno di saltare sul palco, strappare il microfono al Bonolis di turno, e gridare: «So tutto, ci sono anch’io!»? Dev’essere gente che ha abbastanza tempo a disposizione, ha fatto l’università, compra (diciamo: sfoglia) un discreto numero di libri; e soprattutto, scrive: i più riempiranno il computer di inediti, qualcuno verrà pubblicato da editori minori, pochissimi si guadagneranno qualche recensione su un quotidiano. Ma sui blog e sui loro forum, mistero: come si chiamino davvero Vachrameev, Eloisa o Tvttb, non si sa; quanti anni abbiano, dove vivano, di che campino, neppure. Già. Che faranno nella vita, questi scrittori aspiranti o in incognito, e in una vacanza più protratta di quanto credano dalla scrittura? Sono dottorandi, addottorati? Insegnano? Sono signore per bene con l’hobby della lettura? Professionisti che si concedono il lusso della carriola? Dipendenti pubblici o privati che si imbucano in chat anziché andare a lavurà? Chissà. Di certo, trasformano i blog in glory hole per dilettanti dell’aggressione, del monologo esteriore, dell’esibizionismo: i blogger ci fanno vedere quanto ce l’hanno duro, nascondendo la faccia e tutto il resto. Rimane qualcosa da eccepire sulle dimensioni del corredo (la durata del servizio, si sa, è limitata per contratto).
Come funziona il forum di un blog? Prima regola: stravolgere quanto dice il malcapitato di partenza. Malafede? A volte; più spesso, genuina incapacità di comprendere. Scopo del fraintendimento: crearsi un avversario. Seconda regola: il nemico sostiene sciocchezze madornali, asinerie da arrossire, mostruosità diaboliche. Scopo: ergersi a paladini del Vero, del Santo, del Giusto. Ne consegue la terza regola: mostrare che il nemico è emissario di una potenza oscura e malefica, come amico di o servo di. Quarta regola: ma vorremo mica star dietro a quel che dice qualcun altro? Il discorso va subito spostato su quello che il blogger ha sempre pensato, ha già scritto, va ripetendo da anni. Conseguenza: il blog diventa una sequela di sparate a vanvera e divagazioni, in cui ciascuno si affanna a promuover se stesso e a far vedere quanto è bravo, profondo, spiritoso. Speravate almeno di trovarvi al cabaret? Siete al Bagaglino. Impazza l’aforisma sbilenco; si sciupano le hit parade dell’arbitrio; dilagano le confessioni, le filosofie tascabili, i sistemi ultimativi del là per là. Ulteriore, inopinata conseguenza: siccome il blogger è pseudonimo, non solo non promuove il se stesso anagrafico, ma neppure il suo avatar scempiato di anagrafe: promuove invece Babele e Babilonia, la chiacchiera a capocchia, l’isteria del pensiero, la convulsione dell’intestino, l’affossamento di qualunque minima decenza del discorso pubblico.
Blog!
Alef
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 16:52
Dante ha scritto la Divina Commedia.
Bet
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 17:34
Comedìa!
Gimel
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 17:35
Tzè! Ha scritto la Vita nuova, il Convivio, le Epistole e le Rime, tra le quali merita particolarissima menzione lo strenuo esercizio stilistico delle ‘petrose’.
Dalet
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 17:49
La mia nonna sapeva interi canti a memoria. Ce li recitava la sera, prima che la barbarie televisiva venisse a rovinare le famiglie e questo povero paese. Com’è cambiata, l’Italia! E anche mia nonna. Morta.
He
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 18:15
Cosa intende Alef per ‘scritto’? La Divina Commedia è una scrittura? Dante uno scrittore? Che significa scrivere? Lo chiedo per chiarezza, e senza nessun intento polemico.
Vav
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 19:21
Ma come si fa ancora a parlare di Divina Commedia, insabbiando il Fiore e il Detto d’amore? L’epistola a Cangrande è un falso! -isti!
[Va bene un Ismo qualunque: anche «vetrinista» puà essere una taccia d’infamia immedicabile.]
Zajn
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 20:44
E io?
Khet
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 20:59
Quoto in toto Bet: lo sanno tutti che la Società Dantesca è tenuta su dai soldi del narcotraffico.
Zajn
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 21:33
Io!
Tet
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 22:15
Per dirla con Baudrillard. Come scrive Lacan. Agamben ce l’ha insegnato. Lo spiega bene Zizek. Cito a memoria da mio cugino. P.P.P., ci manchi.
[Nei blog non letterari, a questo punto ci sarebbe il testo di una canzone. Ma basta aspettare: già ora, la musica è la stessa.]
Zajn
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 22:58
Io! Io! Io!
Jod
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 23:29
E io no?
Alef
Pubblicato il 31 dicembre 2008 alle 23:56
Dante ha scritto la Commedia, l’Eneide, la Bibbia e il Decameron! Shakespeare? Dostoevskij? Proust? Lui! sempre lui! Oggi vive in incognito a Brescello, e compila ogni anno il catalogo degli Oscar Mondadori e le Pagine gialle.
Kaf
Pubblicato il 1 gennaio 2009 alle 00:00
È Natale. Auguri. Bel post, Alef: grazie. In fondo abbiamo ragione tutti e siamo tutti d’accordo.
Lamed
Pubblicato il 1 gennaio 2009 alle 00:29
Pearl Matthew, sei un grande!
Mem
Pubblicato il 1 gennaio 2009 alle 01:55
No! Sì! Invece! Eh! Ah! Bah! Boh.
Zajn
Pubblicato il 1 gennaio 2009 alle 03:18
Io.
Bisogno di un avversario, falsificazione delle sue idee (idee…), screditamento parodistico: i blog sono un correlato del berlusconismo, visto il berlusconismo è la forma del pensiero (pensiero!) un po’ da tutte le parti, spesso antiberlusconiani inclusi. Vige la medesima simulazione di democrazia: la censura, quando può, si fa sentire, ma non è la regola vera. Qui ciascuno ha l’accesso formale alla parola. Vi tengono fuori dal salotto buono? I gran balli potete spiarli solo da lontano e da fuori, come i contadini alla Vaubyessard? Qualche aia disposta ad accogliervi per una sagra della cotica la troverete. Il signore concede a tutti di dire la loro, purché se ne stiano chiusi nei loro gabinetti. Al bagno ci si possono chiudere in cinque o anche in cinquanta: staranno stretti, ma per il signore non cambia nulla eguale (male che vada, in gabinetto ci si potrà chiudere momentaneamente lui: tanto c’è l’idromassaggio).
Del resto, i blogger sono innocui perché fra loro non esiste un vero terreno di intesa. L’intesa, anzi, è mortale: il blogger scrive per distinguersi, ogni sua frase ha un valore di posizione. Se dice a, è perché Tizio ha detto b, perché Caio aveva già detto a-1, per impedire a Marco Antonio di dire a per primo. Nietzscheanesimo da assemblea di condominio; lotta per un capitale simbolico virtuale, buono come i fondi d’investimento della Lehman Brothers.
Ciascuno parla una lingua propria, e per sé; ma poi, siccome la solitudine è uGirna triste condizione, a un certo punto deve cercarsi amici, alleati, compagni di merende: magari solo per cinque minuti, magari per intere annate. Allora partono gli scambi di cortesie, i flirt, i cuori messi a nudo, le memorie dall’oltretomba, i ‘questo l’ho letto anch’io’, i ‘che pianti ci siamo fatti su quelle rime’. Diffidate: sono compartecipazioni abusive di parole, innamoramenti per equivoco. Villaggio globale? Villaggio, anzitutto. Sembra davvero di stare al bar sotto casa: alla fine, i più si conoscono, si riconoscono, se la dicono e se la cantano. Formano una società letteraria parallela, di serie C, con il suo pantheon di idoli discordi, il suo ammasso di leggi perentorie, incerte e pregiustinianee, soprattutto le sue liste di proscrizione aggiornate di ora in ora, implementate di post in post. Per fondare questa pur minima comunità ci vuole un altro, un nemico, un capro espiatorio – non importa quel che dice, basta che assolva alla funzione senza la quale, altrimenti, l’allegra banda dei gitanti si disperderebbe al primo refolo di temporale. Il risentimento è una passione passiva, responsiva: se non ha qualcuno contro cui parlare, al blogger la voce vien fuori flebile, malinconica, senza tono né colore. Dietro il censore furibondo, che sbraita qualche imparaticcio consumato con l’aria di suscitare scandalo e sconcerto, c’è sempre un pallido contemplatore della luna e di sé: tutti questi castigamatti sono lirici con i condotti lacrimari intasati dalle lacrime, la testa ingombra della lista di libri che li hanno fatti stare tanto male, il cuore colmo dei versi che li hanno indotti a sognare. Disgraziati voi se incapperete nel loro amore: espropriati di voi stessi, trasformati in fantasmi, sarete solo la loro proiezione.
Come il tifo degli ultras, i forum dei blog sono forme vigilate per l’espressione del disagio, lo scarico della marginalità, lo sfogo della violenza. Bruciano macchine e si accoltellano solo a parole, ma il principio è lo stesso. Fanno finta di avere delle idee e che queste idee contino. Si danno un sistema loro di riconoscimento. Possono pure credere di essere avanguardisti incompresi, maestri del pensiero in rotta con la perversità dei tempi, eroi della controcultura e della resistenza all’ordine globale. Nella cui palude, invece, sguazzano affogando. Ma pazienza. Tanto, poi, tornano a fare il loro mestiere, e tutto resta come prima. A chi dovrebbe importare di quattro pseudonimi che arrancano nelle loro incertezze? Chi si commuoverà a questa ricerca patetica di riscatto, di fama e di ribalta, per i soliti quindici minuti warholiani?
A me, lo confesso, un po’ di magone viene. Lo spettacolo dell’inconsapevolezza mi deprime. Ma non è escluso che non se ne possa tirar su qualcosa. Fate caso. Qualche critico che trova nel bercio la sua aria, e fra i berciatori i partner di duetti o partouze in punta di penna o a colpi di clava, ogni tanto appare. Del resto, meglio tenerseli buoni. Non si sa mai: esiste un mercato delle citazioni e della visibilità, e doparlo torna sempre utile. E così, il critico soddisfa il bisogno più disperato del blogger che, povero donchisciotte in cerca di un avellaneda, rivolge alla sua notorietà invocazioni valdughiane: blandiscimi, lusingami, carezzami! correggimi, bacchettami, bastonami! ma notami, parlami, rispondimi! considerami, riconoscimi, legittimami! Però, questa fratellanza non può essere solo opportunistica ed estemporanea. Sotto sotto, ci dev’essere un’affinità vera. E se anche il critico ragionasse da troll? Se anche i suoi verdetti avessero solo un valore di posizione? Se anche le sue pagelline servissero a farsi degli amici e a procurarsi dei nemici, perché senza quelli non ci si fa vedere abbastanza? Se anche lui fosse non più un dilettante, ma un professionista della rissa pur che sia, della falsificazione interessata, della promozione di sé e del proprio clan? Certo, qui scivoleremmo dalla colpa al dolo, dall’irresponsabilità sprovveduta al calcolo della malafede. Qui, tutta la differenza starebbe proprio nel firmarsi: nel mettere il marchio su esternazioni, picconamenti, proclami. Se, allora, i blog fossero la verità di questa critica? Se la sovraesposizione del nome fosse questa stessa angoscia di anonimato, questa pseudonimia coatta, questo combattere affannoso contro il dubbio che tante chiacchiere, per quanto rumore facciano, non significano nulla? Se il critico soffrisse di non essere niente altro che un blogger, abbandonato al clamore e all’irrilevanza del proprio narcisismo?
E allora? Raccogliamo intanto firme per un referendum in cui si chieda la proibizione a chicchessia di scrivere sotto falso nome. Anzi, strafacciamo: chiediamo l’immediata abolizione dei forum, che dico?, dei blog letterari. Ci daranno dei fascisti: pazienza; tanto, se rifiuteremo di leggerli, i troll ci accuseranno comunque di avere appiccato le fiamme alla biblioteca di Alessandria o di aver portato taniche di benzina al rogo di Giordano Bruno. E quei critici? Chi volete li schiodi dai loro computer? Se ne staranno sempre lì; ma con una tribuna di meno, con una vertigine di solitudine in più. Sullo schermo nero, riconosceranno finalmente – ma deforme e slargata, con gli occhiali che riverberando li privano di occhi – la propria faccia.
[Immagine: Simone Giaiacopi, Cacciavite]
Concordo sulla natura dei commenti – gli esempi riportati parlano da soli- e sul fatto che ciò che conta, purtroppo, è solo apparire e contare gli adepti. Propongo tuttavia- e mi pongo- due questioni: la prima, cosa si intenda per blog letterari, perchè a me pare che ce ne siano di tipologie diverse (una cosa è se stra- parlo di Dante e della Comedia, una cosa, credo, è se provo a produrre di mio e a proporlo agli altri); la seconda, una discussione sullo stato della critica, discussione di vecchissima data ma mai risolta: chi fa critica oggi in Italia? esiste ancora una critica? deve ancora esistere? E me ne viene in mente anche una terza, di osservazioni: molti usano il loro nome, senza nascondersi dietro pseudonimi, nei blog che tu chiami letterari.
Ma la più importante, tra le questioni, mi pare la prima.
Saluti.
Donnarumma,
salto a pié pari la provocazione, che porta lei (che l’ha scritta) e me (che ne parlo) al livello stesso delle persone che lei biasima, le direi:
1) il diritto di parola, come il diritto di voto, é positivo, anche quando viene usato per trollare o votare Berlusconi. Se lei lo ritiene un esercizio di finta democrazia, è perché mantiene una posizione aristocratica sulla concezione letteraria, e di lì la trasmette alla società: il cittadino alle urne vota per esprimere una posizione politica sempre parziale, non vota per eleggere un personaggio/Icona/Giustizia divina. Quando quest’ultima accade, ad essere sotto accusa non è il diritto di voto, ma il rapporto non più paritario tra cittadino e forme politiche; e quindi la colpa è di chi quelle opinioni le trasforma in +1, o le giudica sulla qualità del voto.
In letteratura allo stesso modo, il dibattito è un bisogno naturale, fatto per creare e sostenere dialogo, non certo interventi folgoranti o novelli critici letterari. L’idea di “qualità” letteraria o critica, che continua ad aleggiare nei suoi articoli, preferisce un bel candidato (Icona) con una serie di Parole-d’ordine ad un buon programma di partito (non elettorale): il secondo si raggiunge a costo di enormi sacrifici, ma è solo il risultato temporaneo di un dibattito che continua comunque, e non si ferma alla formulazione di programmi e ai tempi di Elezioni.
2) mi sembra una leggera contraddizione sostenere (A) che i nickname e l’anonimato favoriscano la deresponsabilizzazione individuale e (B) che favoriscano l’esibizionismo e il narcisismo. Una persona o si nasconde o si mostra. Se lei ritiene, come me, che l’identità online abbia un uguale valore in una discussione rispetto a quella anagrafica (i blogger hanno una memoria e ricordano chi ha scritto cosa) allora, anche se schizoide, si crea l’effetto opposto, quello di una responsabilizzazione programmatica, context-based (il che è positivo). Altrimenti, se lei ritiene il nickname solo un paravento, vorrei capire come questo paravento possa al tempo stesso illuminare la persona stessa. Il problema è lo stesso di Superman, Batman e tutti i vigilanti mascherati; l’ansia di dire “sono io, sono io, so tutto” mal si sposa con una maschera. Esempi famosi di troller, e lei lo sa, rispondono ai nomi di Gilda Policastro e Ennio Abate, non certo Karenina78 o LamaSilente.
3) letterario o no? Nel suo discorso trovo accuse infondate, ma molte attinenze con la realtà dei blog letterari; ma come sostenevo prima, il problema non sono i blog, siamo noi ( il suo momento di autocritica è per me troppo breve e troppo falso, mi spiace). La situazione che delinea è proprio quella della società letteraria, dei magheggi e fraseggi e motteggi, di false schermaglie tra Professoroni, di mandrie di Assistenti in fila per la promozione, di pubblicazioni riciclate, articoli per cooptazione e risse furibonde sui finanziamenti (e sui nomi da mettere in calce); Noi “letterati” portiamo tutta questa massa di edonismo e risentimento sui blog (che già ne hanno una quantità più che sufficiente); se siamo arrivati in cima (posto fisso), sputiamo a chi vuole salire sul (nostro) monte; se scaliamo la montagna, urilamo bestemmie a chi sul monte c’è già. E tra due vette, via di sassaiola. A me non preoccupa la gente che si sfoga nei blog, mi preoccupa quando quest’ultima torna al suo mestiere. E credo che l’etichetta della Qualità, dei discorsi illuminanti, dell’Arte vera, sia proprio l’abbaglio che ci fa cadere in queste trappole. Qualsiasi sanzione positiva (verità, giustizia, qualità) è il prodotto della società tutta, o non è. La letteratura di serie C, con i suoi pregi e difetti, è il campo di incontro, non il nemico.
Scusate l’intromissione OT, tanto che la questione intavolata non mi par esattamente da poco, ma Ennio Abate, imho, NON ritengo sia un troll, bensì una sorta di grillo collodiano: prenderlo a martellate (bannarlo) non giova a nessuno; non mi pare sia mai stato offensivo né abbia avuto atteggiamenti persecutori nei confronti delle persone.Se il paragone non convince, allora diciamo che è il termometro che misura il reciproco grado di permalosità spaesata: in fin dai conti siamo tutti “stranieri in terra straniera”, a maggior ragione qui, in questa specie di spazio etereo che un qualsiasi black-out, temporaneo o indeterminato, può azzerare totalmente là per là
caro Gigi,
specifico che non sono tra i detrattori di Ennio Abate o i favorevoli al ban, né ho fatto il suo nome per incitare alla gogna mediatica; mi sembravano esempi familiari a chi frequenta questo sito.
Detto questo, ritengo che indipendentemente dalla volontà o meno di trollare, il fastidio generalizzato sia un effetto visibile; che può corrisponde sia all’atteggiamento dello scrivente, sia alla scarsa sopportazione dei lettori (di solito entrambi); ad entrambe le parti lo sforzo di venirsi incontro.
A Vincenzo Idone Cassone
Il suo intervento è interessante e pone problemi reali. Dobbiamo però invitarla a rispettare le persone che coinvolge nel suo discorso. Ennio Abate e Gilda Policastro hanno sempre firmato i propri interventi con il proprio nome anagrafico: si può essere in accordo o in disaccordo con le loro posizioni, ma non li si può definire “troller”. Questa discussione si annuncia aspra ma costruttiva: cerchiamo di mantenerla nei limiti della correttezza dialogica. Siamo sicuri che capirà il senso di questo richiamo.
Mi sento innanzitutto di rassicurare la prima commentatrice: il dialogo che Donnarumma propone, mi pare totalmente inventato, e inventato, mi perdoni Donnarumma, da chi i blog letterari, in realtà non li frequenti più di tanto, se non come lurker, come si dice in gergo. Quello che s’impara frequentandoli è anzitutto che l’ingenuità di cui parla Donnarumma non esiste nemmeno nel più sprovveduto dei lettori di Moccia (ammesso che ne esistano, a loro volta, di lettori di Moccia nudi e crudi, perché chi legge ha comunque compiuto un passo ulteriore rispetto all’inconsapevolezza, indipendentemente dall’oggetto e per il solo fatto di essere entrato in libreria piuttosto che in sala giochi. E questo si prenda come dato non valutativo, ma sociologico, nel senso che non intendo certo dire: si legga Moccia, purché si legga, ma soltanto che chi legge, fosse pure solo Moccia, è comunque approdato a un livello di consapevolezza maggiore della passività e della retorica delle emozioni primarie televisive) e che i blog letterari, quando frequentati e ancor prima condotti con giudizio, sono dei luoghi di discussione accesissima, animata, talvolta violenta ma quasi mai o per niente ingenua. Jaron Lanier ci ha spiegato molto bene come funzionano le dinamiche di potere in rete, e come il potere della rete sia in realtà al tempo stesso uno specchio e un generatore potentissimo delle dinamiche dei rapporti di forza al di fuori della rete. Ma un passo per volta. Dire blog letterari, così, genericamente, andando dal blog di Fiorellino ’74 a Vibrisse di Giulio Mozzi, è non dire assolutamente nulla. Sarebbe come mettere in un enorme calderone TuttoSport e Allegoria. Vibrisse, così come Lipperatura o Nazione indiana sono dei blog letterari di tradizione oramai almeno decennale, in cui si riescono periodicamente ad avviare confronti su temi letterari o culturali in senso più ampio a colpi di 200-300 commenti per volta (fu così per la discussione sul “ritorno alla realtà” di Nazione indiana o per quella sui generi letterari e sul mainstream tra i Wu Ming, Cortellessa e la sottoscritta su Lipperatura), persino coi famigerati nick. Il pezzo di Donnarumma, poi, non tiene conto di quel fattore nuovo che è il social network, dov’è maggiormente viva, attualmente, la discussione letteraria, in un interscambio tra dentro e fuori che merita qualche osservazione in più. In Italia il circuito chiuso tra grande comunicazione (quella, detto senza perifrasi, che fa vendere i libri) e grande editoria (la sola in grado di produrre massicciamente il libro-merce da destinare alle vetrine e di conseguenza al mercato) sembrava, fino all’avvento di Fb impenetrabile, mentre, ad esempio, la scorsa edizione del Premio Strega ha fatto registrare un elemento di novità dirompente, dal momento che alla prima fase di selezione (la famigerata dozzina da cui poi si sceglie la cinquina televisiva) ha avuto accesso il libro di un editore medio (ovvero dalla tiratura iniziale di non oltre 4-5 mila copie), grazie a una campagna di consensi costruita sapientemente attorno al libro medesimo (più o meno meritevole di accedere al Premio, non rilevava) nel social network da un veterano della rete. Risultato: ristampa del libro in questione, maggior visibilità e popolarità per il suo autore, conseguente aumento del suo valore di mercato, nuovo contratto dell’autore con un grande editore, con anticipo triplicato rispetto all’anticipo mediamente offerto ad autori al secondo o terzo libro con editori tra piccoli e medi. Tutto grazie a Facebook, come ammetteva lo stesso editore in una nota pubblica. Quale ingenuità, allora, chiedo a Donnarumma? Non c’è nessuna pericolosità sociale in Fiorellino ’74, o in utenti come quel personaggio del libro di Fabio Genovesi che scambiava il codice d’accesso al motore di ricerca con un reale contatto americano, al quale destinava messaggi di commovente tenerezza nel suo blog personale. Viceversa, le lobby di scrittori che si vanno creando come vere forze arrembanti rispetto a sistemi editoriali finora più o meno inaccessibili, questo è un fenomeno che dall’interno (del social network, e delle pratiche di scrittura in generale), preoccupa di più. Perché ha incidenza sulle possibilità concrete di accedere alla grande editoria, di conseguenza ai canali di comunicazione, di conseguenza ai premi, agli ambiti di lavoro pagato (e molto ben pagato, anzi). Questo circuito economico a maglie più o meno larghe a seconda delle capacità autopromozionali non accoglie virtuosamente le eccellenze e meno che mai le scritture più innovative o di ricerca, ma progetti culturali per lo più reazionari nelle forme e nelle pratiche, quando non nei contenuti e nello stile. E qui torno a Lanier e alla pericolosità della rete come strumento aggregativo di forze antiprogressiste: la logica delle consorterie virtuali è quella del consenso al leader riconosciuto, del cameratismo, del sostegno incondizionato all’ “amico” qualunque cosa scriva o dica nella rete, sui giornali, in tv. Il vero pericolo non è l’ingenuità o l’impressionismo dei giudizi dei diari in pubblico delle sciure lettrici della domenica, ma l’impossibilità per il singolo (critico, scrittore, lettore, appassionato che sia) di trovare un proprio spazio di espressione (e, perché no, di emersione), senza venir messo a tacere più o meno definitivamente (il social network ha lo strumento potentissimo del “ban”, o della rimozione totale del contatto indesiderato) dalla comunità ristretta che si viene a creare attorno a singole entità di potere. Un potere che, ripeto, non coincide solo con la visibilità o col narcisismo, mali minori, ma con il vero e concreto accesso al mercato, e dunque al vero centro del sistema editoriale (Schiffrin docet) attuale.
I blog letterari sono totalmente inutili e dannosi perchè in mano a mafiosi quanto coloro che votano in questo momento alla Camera.
La scoperta dell’acqua calda: i blog, e tutta la rete, sono una prova di democrazia, e svelano, portano alla luce, un modo di ragionare a metà tra il conscio e l’inconscio. Ma questo è un bene. Io almeno vedo il bicchiere mezzo pieno.
ma no dài, avete appena aperto
Premessa.
Questo pezzo è stato scritto nel novembre 2008. Ho tagliato e cambiato qualcosa, ma riconosco che, nella sostanza, ha un che di antico. Il titolo corretto sarebbe: «Aboliamo i forum dei blog letterari» [lo si evince dalla prima e dalle ultime righe]. Però – un po’ di Lausberg! – ho tagliato corto per amore dell’effettaccio. C’era anche un sottotitolo: «Una proposta (neppure modesta)». Si tratta insomma di un pezzo satirico (Swift, Pasolini: eh sì, banale): chiedergli quello che la satira non intende fare è fuori luogo. Se volete un lavoro serio, c’è questo, di Guglieri e Sisto: http://www.nazioneindiana.com/2011/03/24/verifica-dei-poteri-2-0/. È eccellente, ma lascia fuori il problema che interessava a me: i «picchi negativi»
Inoltre, Policastro può prendersela con me perché faccio di tutti blog un fascio (anche in quel senso là, forse); ma sarebbe come se inveisse contro le satire antifrancesi perché non tutti i francesi sono snob sciovinisti con il basco, i baffi a punta e la fisarmonica; o come se precipitasse in ambascia quando, nelle comiche, uno scivola sulla buccia di banana.
Quindi è vero: ci sono blog diversissimi, e alcuni neppure ammettono il forum. A me interessava la legge generale – che, come tutte le leggi generali, fa sempre torto ai singoli. Spero a un prezzo non troppo alto.
@pes
Ho risposto sopra (mi auguro). Policastro aggiunge molti dati. Sul chi fa la critica, anche lei vede che è una roba capitale. Ho una mia tesi su web e critica 2.0: però ci vorrebbe un saggio intero. Mi piacerebbe anche discutere del cosa e come scrivere per la rete – e soprattutto: del per chi scrivere.
@ Idone Cassone
1) La democrazia non dovrebbe essere un posto dove tutti dicono la prima cosa che gli passa per la testa (quello, si chiama carnevale), ma dove tutti sono messi in condizione dire la cosa migliore che possano dire. Che le strutture formali del suffragio universale consentano plebisciti non per Berlusconi, ma per Adolf Hitler, a me pare un bel problema. Ora, la critica letteraria non è affatto democratica come le elezioni: non prevede abilitazioni generalizzate a emettere giudizi. Leggere un libro e parlarne tra noi possiamo farlo tutti. Fare critica lettaria no – come non tutti possiamo dire qualcosa di legittimo in materia di medicina, diritto o economia, neppure quando queste materie ci toccano personalmente. Poi, si sa, anche i medici sbagliano le diagnosi. La democraticità a cui la critica letteraria deve tendere è la trasparenza del linguaggio e delle argomentazioni (dove possibile): solo così può raggiungere il maggior numero possibile di persone che si interessano della sua materia (una minoranza della popolazione, soprattutto in Italia). Il web, invece, sdogana il principio del «dite anche voi la vostra», che è populismo in genere becero.
2) Veramente, volevo distinguere tra chi usa un nick e chi usa il proprio nome, e poi far vedere che c’è una paradossale (sottolineo paradossale) convergenza. In secondo luogo, c’è effettivamente una contraddizione nelle cose: l’esibizionismo e il narcisismo possono in effetti nascondere/rivelare un io fragile (è un tema su cui insitono molto i teorici dell’ipermoderno, come Lipovetsky). La cosa migliore che ho letto sui nick nei forum sta in Disumane lettere di Carla Benedetti: lì c’è un’analisi seria che condivido.
3) Sono d’accordissimo: infatti, volevo dire che la tanto sbandierata novità della critica 2.0 riproduce quel vecchiume che lei ci ricorda. L’Arte vera non so neppure dove stia di casa, mi creda. Ah, non c’è nessuna autocritica da parte mie: ha ragione Policastro, sono un lurker.
@ sui troll
Per Wikipedia troll è «una persona che interagisce con gli altri utenti tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi». Dal punto di vista oggettivo («fuori tema o semplicemente senza senso ») Abate e Policastro non sono affatto troll, scherziamo?; dal punto di vista del fastidio soggettivo… dipende. È come se dicessi: ma io non sono antipatico! Che vuol dire? c’è pieno di gente a cui sono antipaticissimo.
@ Policastro
Grazie, anzitutto, per tutte le cose utili e precise che dici. Però, «mi consenta» (e qui faccio proprio l’antipatico, ma Policastro, con me, ci è abituata):
– Certo: «Blog!» è inventato. Secondo me funziona, ma se a te non fa ridere… beh, pazienza: vuol dire che non so raccontare le barzellette.
– «Ingenuità di cui parla Donnarumma»: scusa, dove? a che riga? Leggo: «incultura», «risentimento», «frustrazione», «inconsapevolezza»… Anche col cerca-trova, zero.
– «Quale ingenuità, allora, chiedo a Donnarumma?» Ah, guarda, me lo chiedo pure io: ma siccome non ne parlo da nessuna parte, non posso rispondere nulla alle tue osservazioni in proposito.
– «Fiorellino ’74»: ma come! nessuno si firmerebbe mai Fiorellino ’74! casomai, Fiorellino74. Con la tua fama di studiosa, mi scivoli su un tratto di stile così rivelatore? Sarai mica un po’ lurker anche tu?
– «Dire blog letterari, così, genericamente, andando dal blog di Fiorellino ’74 a Vibrisse di Giulio Mozzi, è non dire assolutamente nulla. Sarebbe come mettere in un enorme calderone TuttoSport e Allegoria »: infatti, è quello che fa la satira, il genere letterario a cui, anche a scopo autoterapeutico, mi sono accostato. Persino Dante mette in un solo calderone, a vituperarle, tutta Pisa, tutta Genova, tutta Italia. Guardo all’alto, dalle mie bassure: non si frigge mica coll’acqua.
– «Confronti su temi letterari o culturali in senso più ampio a colpi di 200-300 commenti per volta»: andiamo a peso? Dovremmo parlare nel merito di quella pletora di post.
– Fb e il premio Strega: Fb non è oggetto del mio pezzo – un po’ di amore dei distinguo, ogni tanto, ce l’ho pure io. Sui premi letterari, che sono sociologicamente un fatto centrale che tu qui richiami giustissimamente, preferisco soprassedere.
– «Un potere che, ripeto, non coincide solo con la visibilità o col narcisismo, mali minori, ma con il vero e concreto accesso al mercato»: ecco, qui ci vorrebbe qualcosa di più da sapere. Il diritto darwiniano all’«emersione» lo vedo benissimo (ho cercato anche di scriverne sopra); non vedo invece questi schiere infelici di bannati, ughifoscoli e danti rigettati nel peregrinaggio e al sale della rete. Continuo però a pensare che, per ora, il Leviatano del potere editoriale se ne infischi abbastanza del web: può anche pescarne, occasionalmente, ma le logiche sono altre (e spesso brutalmente personalistico-feudal-mafiose: siamo sotto il bel cielo d’Italia).
@Pincelli
Bella democrazia! A me, comunque, anche due dita di rosso danno alla testa: sono astemio.
@Montieri
Ma lo sa che lei mi ha fatto proprio ridere?
Perdonate davvero le lungaggini – oltretutto, insufficienti.
Ma il fatto di scrivere un pezzo del genere su un blog letterario significa che l’intento dell’autore è provocatorio?
Seconda domanda: che cosa s’intende per “forum di un blog”?
Molte delle questioni qui sollevate conoscono già una cospicua “blogografia” (oltre che bibliografia). Ecco un problema serio in cui può incappare la rete: rischiare di azzerare ogni volta il dibattito (paradossalmente, si direbbe un problema di reperimento delle fonti).
Lo spero proprio Raffaele e diamoci del tu. Naturalmente ho colto il senso dell’articolo, il problema dei blog e siti letterari, sono, più che i commenti, un certo tipo di commentatori. Quelli che chiamo “Commentatori seriali”. A Napoli diremmo: Fanne sule chest’ da matina ‘a sera.
Un saluto
Di filologia in filologia, mi piace notare che (non) mi venga riconosciuto il merito di aver indotto Donnarumma a datare il suo pezzo, che a questo punto, dunque, Donnarumma stesso confessa superato rispetto alla enucleazione e descrizione di alcune modalità del dibattito in rete (sulle cui dinamiche complessive, peraltro, prima dell’articolo di Sisto e Guglieri, uscito su “Allegoria”, c’è l’ottimo Gherardo Bortolotti di ”Blog e letteratura”, postato su “Nazione indiana” il 3 dicembre 2008; e da tener presente è anche il capitolo di Emanuele Zinato, ”Tra vecchio e nuovo millennio: la crisi, lo stile e la critica nella rete”, in ”Le idee e le forme. La critica letteraria in Italia dal 1900 ai nostri giorni”, Carocci, 2010, oltre a qualche intervento senza falsa modestia non irrilevante della sottoscritta, a partire da ”Il critico nella rete”, uscito sul ”Manifesto” il 20 gennaio 2010, arrivando al pezzo dedicato a Facebook, e a ”Tu non sei un gadget” di Jaron Lanier, uscito su “Alfabeta” nel maggio 2011). Ripartirei da un minimo approfondimento bibliografico, perché il problema della rete non è (solo) far ridere o non far ridere (a quale riga, di grazia, avrei detto di non aver riso del dialogo immaginario fra blogger, sempre perché il nostro nume tutelare rimanga Timpanaro più che Zuckerberg?), ma rapportarsi agli interlocutori come a degli avversari, dei nemici (dialettici), volendo, ma sempre con la serietà necessaria a far sì che la discussione resti tale e non degeneri in rissa o in burla (e in questo, al di là di tutto, torna cruciale la questione del nick, dove esso non sia ricerca di un’identità altra, con una sua coerenza e continuità, come per molti abituali e serissimi frequentatori di ”Nazione Indiana”, da Alcor a Tashtego, le cui identità ”reali” sono state comunque, nel tempo in qualche modo svelate, quanto piuttosto una scelta deresponsabilizzante e un paravento a tutela della propria personale impunità), affrontando nel merito le questioni senza aggrapparsi pretestuosamente alle minuzie o alle microsviste eventuali degli interlocutori (inevitabili, tanto più nei commenti, che rispetto ai post primari hanno il limite di non poter essere rivisti e corretti dai rispettivi autori). Mi spiace dover notare che Donnarumma, invece, in questa sua replica, si rifiuti di prendere in considerazione con serietà i temi oggetto del mio commento (e lo credo bene che non si possa esaurire la questione della critica in rete in quattro righe, ma perlomeno si può evitare che queste quattro righe coincidano con triti luoghi comuni sull’esibizionismo, il narcisismo etc. del critico nella rete, che non vedo poi in cosa possa divergere, tale narcisismo-esibizionismo, nella sostanza, dall’autocompiacimento di chi salga in cattedra a far lezione o di chi moderi un pubblico evento o dibattito, o altri infiniti esempi possibili) e badi invece, com’è prassi proprio dei vari Fiorellini della rete, con apostrofi o <3 <3 <3 del caso (e questa, lo riconosco, può decifrarla solo chi non lurka, ma pratica), a ridurne il merito con l'appuntarsi esattamente a quelle minuzie o alle microquestioni che non inficiano la sostanza della tesi di fondo, col proposito, magari, di distrarre da essa (ad esempio, il peso dei commenti, rispetto all'evidenza del richiamo enorme degli argomenti letterari, e di certi argomenti in particolare come la questione dei "generi", nei dibattiti in rete, è microquestione, ma posso comunque rispondere che non ho citato due dibattiti a caso, bensì due dibattiti entro cui, nella pletora dei commenti, se ne segnalavano alcuni di grande qualità e spessore). Questo, Lausberg o no, a casa mia si chiama predicare bene e razzolare male, e invece che nascondersi dietro le inoppugnabili ragioni della satira, forse sarebbe più onesto limitarsi a denunciare le proprie inevitabili lacune rispetto a un oggetto di necessità in continua evoluzione come la rete (è assolutamente vetusto oramai, ad esempio, turarsi il naso rispetto al social network, che è non solo un luogo operativo, di elaborazione-diffusione di idee, nei casi migliori, ma anche uno strumento indispensabile alla comunicazione, come lo sono diventati, nel tempo, i telefoni cellulari e la posta elettronica).
Un saluto anche da me e, soprattutto, <3 <3 <3.
Questo sito comincia ad avere le parvenze di un backup di Nazione Indiana. dove sta la caratterizzazione?
Mi ricordo anche- ma non saprei dire l’anno, forse due anni fa?- una bella discussione sullo stato della critica in Italia su Alias, se non sbaglio con un intervento di Policastro, sicuramente di Pedullà. Qualcuno sa i link, che mi piacerebbe rileggerla? A suo tempo l’avevo postata nel blog, ma temo che sia andata persa con una sprovveduta cancellazione.
La dinamica di alcuni commenti a questo post mi pare dimostri l’attualità del post stesso…
@ Policastro.
Certo che, se vuoi fare l’antipatica, sei molto più brava di me. Proverò a fare del mio meglio per stare al passo, comunque.
1. Non so gli altri che leggono, ma io non sono affatto sicuro di avere capito bene quello che dici. Ovviamente, è l’osservazione più avvelenata che potessi fare: ma fra usi lessicali e sintattici arcaici, sintassi polipesca e dilagante, argomentazione a valanga, davvero, faccio fatica a trarre qualcosa. Però trovo il post enormemente esemplare: la smania dell’aggiornamento convive con uno stile intellettuale vecchio, vecchissimo; la furia dell’high tech con l’accademichese più spinto; l’entusiasmo per il villaggio globale con l’affezione ai compagni di vermuth delle Giubbe Rosse. È proprio questo che mi sgomenta del web: da un lato, i peones, corteggiati o deprecati come torna meglio; dall’altro gli amici di dipartimento (o di redazione di giornale, o di casa editrice), che se la cantano e se la suonano.
2. «Donnarumma stesso confessa superato [il suo pezzo] rispetto alla enucleazione e descrizione di alcune modalità del dibattito in rete». Non ci allarghiamo: non ho avuto difficoltà a datare il pezzo, ma non cambierei una virgola sulla sua sostanza, che è spiegare come funziona un forum, su quale logica si regge, quali costumi intellettuali rivela. Un saggio di psicologia culturale, insomma: magari per te del tutto incondivisibile, ma questo era, e non uno studio sulla critica in rete. Qualche prova al mio discorso la aggiungi anche tu: grazie anche di questo. Perciò, contraccambio con un dono («Timeo Danaos…»), e ti cito Contini su Gadda: la tua prosa è tutta provocata dal risentimento, dal malumore – mostra cioè che chi frequenta così assiduamente blog & forum & fb può essere mosso anzitutto dalla volontà dell’autopromozione (darwinianamente legittima), da interessi di gruppo (giusto: mica siamo condannati all’eremitaggio), da un’idea di militanza letteraria come necessità quasi esclusiva di schierarsi pro o contro X (qui, invece, ci siamo meno). C’è qualcosa di nuovo in questo? No, e lo dichiari tu per prima: «non vedo poi in cosa possa divergere, tale narcisismo-esibizionismo, nella sostanza, dall’autocompiacimento di chi salga in cattedra a far lezione o di chi moderi un pubblico evento o dibattito, o altri infiniti esempi possibili». Faccio però presente che una lezione costruita sul narcisismo-esibizionismo non funziona proprio, figuriamoci un intero corso. Altrove, invece, c’è gente che ci ha costruito la propria fortuna di personaggio mediatico.
3. Grazie per la bibliografia.
4. «A quale riga, di grazia, avrei detto di non aver riso del dialogo immaginario fra blogger?» Scusa, ma dove hai detto di aver riso? dove hai mostrato, nel post precedente, di tenere in un qualche conto l’ironia? È il mio comando cmdF che non funziona più? Certo, se continuiamo così…
5. «Far sì che la discussione resti tale e non degeneri in rissa o in burla». Nessuna rissa, Dio ne scampi! Ma che in rete (e non solo lì) uno debba cercare attitudini meno paludate, sintassi meno inamidate, cipigli meno marmorei, beh, a me sembra proprio necessario. La media della prosa accademica è già ammorbante su carta: dobbiamo trasportarla pure qui? Un po’ di democraticità (cfr. sopra) non guasta: qui, vedo invece un gergo troppo interno alla corporazione.
E poi, siamo seri: la nostra generazione è sufficientemente schiaffeggiata dai tempi perché si metta a riprodurre lo stile di papà e nonno. L’assenza di legittimazione che viene dal non avere un lavoro degno di questo nome nelle istituzioni della cultura non può certo essere compensata dal giocare a scrivere come cattedratici degli anni Cinquanta. E anche se la butto lì, credo che questo sia il problema: il web fa da valvola di sfogo e da misura di compensazione fantasmatica per chi è privato di quello che gli spetterebbe di diritto, e che in altri anni avrebbe avuto se solo passava davanti a un portone di facoltà. «Uno su dieci di voi diventerà ricercatore a quarant’anni? Bene, intanto fate pure i professori emeriti nel Kindergarten virtuale».
6. «Commenti, che rispetto ai post primari hanno il limite di non poter essere rivisti e corretti dai rispettivi autori». Ecco, questa è una delle maggiori sventure della rete. Non c’è nulla di peggio del commento a caldo, della replica di getto, del post postato dopo 5 min. Beati voi, o saettati da Apollo! Per me, diffido della prima cosa che mi viene in mente – e che è spesso qualcosa che qualcuno ha già pensato meglio di me, e nemmeno me ne accorgo. La critica letteraria richiede tempo. Se la rete il tempo non lo concede, traiamo pure la conclusione del sillogismo.
7. «Mi spiace dover notare che Donnarumma, invece, in questa sua replica, si rifiuti di prendere in considerazione con serietà i temi oggetto del mio commento». Le ipotesi sono due: o Donnarumma era d’accordo (come aveva detto all’inizio della sua replica a te) e non stava lì a ripeter quello che avevi detto tu; o a Donnarumma stavano a cuore altri temi, tipo:
a) per chi si scrive sulla rete?
b) di che cosa scrivere sulla rete?
c) come scrivere sulla rete?
Noterai che anche le osservazioni sparse in questo post, mentre fanno le viste di prendersela con te, di fatto cercano di ragionare su questi problemi (che, magari, a te non interessano: il che richiedebbe da parte mia doppie, pubbliche scuse).
8. «Minuzie o microquestioni». Hai ragione: «eh via, son debolezze» (Il barbiere di Siviglia). Però cerchiamo pure di respirare aria meno rarefatta. Dio, del resto, sta nel particolare – e il tuo lapsus ipercorrettista meriterebbe un paragrafo a sé.
9. «Invece che nascondersi dietro le inoppugnabili ragioni della satira, forse sarebbe più onesto limitarsi a denunciare le proprie inevitabili lacune rispetto a un oggetto di necessità in continua evoluzione come la rete». Vado a prendere una tanica di benzina per immolarmi sul rogo del tempo che tutto travolge e dell’ignoranza che mai colmeremo: ho sempre ammirato la fine di Brunilde, ha una virilità che le invidio. Ma poi scusa: come sarebbe a dire «inevitabili»? Allora qui di che stiamo a parlare? Le bibliografie ce le hai date per l’aldilà?
10. «È assolutamente vetusto oramai, ad esempio, turarsi il naso rispetto al social network, che è […] anche uno strumento indispensabile alla comunicazione, come lo sono diventati, nel tempo, i telefoni cellulari e la posta elettronica». Ma dai! è l’argomento della nonna! E poi mi fai fare il bastian contrario: ce li hai presenti Proust sul telefono, Benjamin sulla fotografia, Pirandello sul cinematografo? Triti misoneisti, ma meglio dell’entusiasmo di quel cicisbeo di Marinetti.
Scusa, squilla l’iphone.
Best regards.
Urka-Lurker
Sono stupita da tanto amore per l’anagrafe e da tanto disprezzo per i “blogger” che, probabilmente, sono anche quelli che leggono questo post. Sono perciò lieta di gettarmi democraticamente, e polemicamente, nella mischia e di accettare il disprezzo con una levata di spalle. Faccio anche notare che, molto spesso, è a quelli che scrivono il post che conviene la portata polemica dello stesso, perché fa impennare le statistiche. I disprezzati blogger sono la manna per articoli come questo, che non dice molto, ma smuove gli animi. Fiera di chiamarmi Precaria Guerrilla, porgo cordiali saluti.
Unicuique suum, Donnarumma: tu i calembour , io l’accademichese: ben curiosa, peraltro, quest’attribuzione, visto che sguazzerei senza costrutto e con risentimento (verso chi, poi, e in nome di cosa? vallo a capire) nel mondo virtuale dei narcisi, degli autopromoter e delle consorterie. Ad ogni buon conto, non ti seguirò sulla via del battibecco punto per punto, e mi limiterò a isolare, nel modo più sintetico possibile, il quid della discussione in corso su web e letteratura (non in corso qui, dico, in corso tra coloro che la rete la vivono come esperienza quotidiana e appendice o anche sostanza dell’impegno intellettuale, piaccia o meno a chi non la vive e non la conosce, e ne parla comunque), visto che dal mio latinorum non emergeva con sufficiente evidenza. Le dinamiche di consenso e di potere che si vengono profilando nei dibattiti in rete e che replicano o alimentano i rapporti di forza già consolidati tra grandi concentrazioni economiche fuori dalla rete, sono in questo momento il problema maggiore dell’interazione fra letteratura e rete, a mio avviso, perché minano ulteriormente quella che già da alcuni anni si viene definendo con felice similitudine la bibliodiversità, ovvero la possibilità di sopravvivenza della varietà delle proposte editoriali, nell’appiattimento dilagante sull’unica via dell’intrattenimento e della narrativa di consumo. A tale omologazione non si arriva più solo dall’alto ma anche (apparentemente) dal basso, attraverso la creazione ad arte di dinamiche di consenso attorno a singoli soggetti più o meno già detentori di un potere comunicativo/economico, che tale potere incrementano e mettono a servizio non dell’innovazione ma della conservazione dei monopoli (delle idee, e delle finanze), con pratica che Lanier definisce fascista, perché fondata sul consenso al leader e l’isolamento dell’avversario/nemico dialettico. Mi pareva molto chiaro dal mio primo commento, ma evidentemente le microsviste hanno distratto dalla sostanza. Succede, ”nell’olline”.
Mi spiace invece non poter dare indicazioni a @pes sul dibattito di “Alias” relativo alla critica, risalente, mi pare, al 2008-2009: dubito che si trovi in rete da qualche parte, ma proverò a reperire almeno i riferimenti cartacei.
@ Precaria Guerrilla
Ma lei è sicura che ci sia tutto questo amore per l’anagrafe? Se non fosse così, magari scoprirebbe che non c’è neppure un disprezzo indiscriminato per i blogger (ripeto che mi interessano i «picchi negativi», ma tanto lo so che da quest’orecchio non ci sentite…). E poi la chiami indignazione, non disprezzo.
Nelle statistiche ci siamo tutti: lei, che ha La borsa degli attrezzi, certo più di me, che su LPLC sono un ospite. Se non dico molto, aggiunga pure quel che occorre. Del suo nick sarei fiero pure io, e molto, ma solo a metà. Grazie per i saluti, che mi fa piacere scoprire cordiali: li contraccambio.
@ Policastro
Se la questione è come la rete replichi o reagisca alle concentrazioni di potere editoriale e finanziario, mi pare ci sia poco da aggiungere a quello che tu scrivi, visto che è inoppugnabile e ben documentato. Resta il fatto che, come tutti i nuovi entranti (Bourdieu), al momento i fenomeni che nascono o si appoggiano alla rete non hanno un capitale simbolico abbastanza alto. Alla fine della fiera, i giochi si decidono fuori. Poi, credo che la situazione cambierà: ma per ora vantare la forza della rete, o raccontare che è nata la critica 2.0 a sparigliare la carte dei mammalucchi universitari, è un po’ buttare fumo negli occhi (e tu, infatti, non lo fai).
Tuttavia, questo non era propriamente l’argomento che mi ero dato – e che invece ha più a che fare con il risentimento su cui ti interrogavi. Beh, come molti, mi sono fatto i miei bravi anni di precariato; e credo sia persino legittimo che si nutra risentimento verso i garantiti per grazia anagrafica, i tutelati senza merito proprio, gli arrivati perché vocati dal cielo. A me, come a molti altri, quel periodo ha imposto di chiedermi radicalmente cosa diavolo volesse dire fare un lavoro intellettuale, di cosa valesse la pena di occuparsi, in che forma occorresse farlo. La rete risponde proprio a questi problemi, ma in una maniera che spesso non mi convince.
Grazie, oltre che a tutto il resto, per la pazienza.
Trovo interessante (senza ironia) che un sito ispirato al tema letteratura e realtà si trovi a ospitare una polemica sul rapporto fra metaletteratura (la critica letteraria) e realtà virtuale. Resto invece un po’ perplesso nel trovarmi ancora una volta di fronte al moralistico e ipocrita luogo comune che vuole far coincidere la presentazione delle generalità con la legittimità a pubblicare commenti. Mi sembra evidente che la maggioranza dei commentatori che scrivono sotto pseudonimo siano, di fatto, anonimi, persone che poco o nulla contano nel campo letterario. Lo si deduce, se non altro, dalla constatazione opposta: la quasi totalità di quelli chi si firmano con nome e cognome sono persone istituzionalmente identificabili, che nel campo letterario giocano in un ruolo preciso (l’accademico, il critico, lo scrittore, o aspiranti tali). L’onestà intellettuale dei letterati di professione che si firmano con nome e cognome coincide necessariamente con un interesse pratico. Per quanto riguarda gli altri, cosa importa che si firmino Giovanni Rossi o Raskolnikov? Si vuole evitare ciò che spesso accade, ossia che i Raskolnikov infestino i blog letterari con l’espressione del loro risentimento? Basta vietare loro di farlo, limitando o eliminando la possibilità di postare commenti. Non si vuole essere sottoposti al malanimo di commentatori anonimi? Basta non scrivere negli spazi a cui questi hanno accesso. Ma occupare il web per poi lagnarsene, o, ancora peggio, per volerlo rendere un luogo migliore (il web va benissimo così com’è, coi porci, con gli stupidi, con la pornografia, coi fascisti e persino coi letterati, non toccatecelo) è un atteggiamento, ripeto, di moralismo ipocrita, e anche un po’ antiletterario. Come dovrebbe sapere chi la pratica, la critica moderna trae origine da querelles i cui attori, non di rado, scelsero di esprimersi con l’anonimato.
Scherzosamente direi:
mentre il commentatore è commentato da Donnarumma, l’inutilità di questo articolo si evidenzia comicamente;
mentre il Donnarumma afferma la sua impressione negativa sui blog letterari, egli stesso alimenta ciò che lo indigna;
mentre Donnarumma prende la mira, il bersaglio è già scappato;
mentre Donnarumma vigila sui lit-blog, noi veniamo disturbati dal suo russare;
mentre Donnarumma viene preso nella rete dei commenti, i pesci aprono discussioni interminabili sull’eventualità di lasciarlo lì;
mentre un commentatore aggredisce il suo interlocutore, un altro spiega pacatamente a Donnarumma che non tutti i commentatori fanno così;
mentre nei commenti si esprime un’epoca, Donnarumma s’immedesima nella virgola;
mentre tra i commentatori può capitare di incontrare persone generose e competenti, e anche capaci di stimolare la discussione e la curiosità, Donnarumma scopre che sulla terra c’è vita;
mentre continua a usare il termine-grimaldello del “berlusconismo”, Donnarumma, indossato un nick, e completamente fuori di sé, scopre il piacere della maschera: staccandosi da se stesso, per così dire travestendosi da Ottiero Ottieri, coltiva pensieri di odio e ne avverte con dolore il piacere;
mentre si prodiga in letture psicologizzanti del commentatore, egli stesso, il Donnarumma ormai spazientito, commenta la propria psiche;
mentre Leautreamont, Karl Kraus, Savinio, Heiner Muller, Bordiga (e altri che ora dimentico) non disdegnavano l’anonimato o il ricorso a un nick-name, Donnarumma indossa la divisa dello sbirro virtuale e indice un referendum per l’Identità Trasparente (ahimè, circolano voci che la Cassazione non lo ammetterà, mentre la Fondazione degli Psicologi Degenerati rilascia un comunicato in cui si evidenzia che l’identità è sempre multipla);
mentre alcuni commentatori suggeriscono idee, il Donnarumma guarda la tv cercandone di nuove nel rito realistico del duo Fazio-Saviano;
mentre la satira istituisce se stessa, Donnarumma la insegue dimenticando di togliersi il pigiama;
mentre sto scrivendo questo commento, il Donnarumma ne sta scrivendo un altro, come se il futuro non fosse altro che un pensoso commento;
mentre colgo la differenza, e le contraddizioni, tra i diversi commenti, il commento mi prende la mano e abbasso i toni della conversazione sino ai piedi che puzzano;
mentre un commento è un commento, quello di Donnarumma è un commento, giacché ogni commento è un commento, e non c’è commento, anche il più giustificato, e persino il più lucido, che non resti nient’altro che un commento;
fai del commento un’opera d’arte, suggerì un certo Walter Benjamin.
Donnarumma la prego: si lasci prendere dal ritmo sonnolento d’un centinaio d’ore e non me ne voglia per questo mio scherzo. All’ironia si può rispondere solo con l’ironia, non trova? Provi, se ne avrà voglia, a prendere cento commenti a noleggio; vedrà che non tutti arrivano dall’albergo della Grande Stupidità. E mi perdoni la maschera-nick; il sottoscritto continua a preferire il carnevale alla democrazia odierna.
Stan. L.
@ Stan L.
Ah, ma c’è riuscito benissimo lei, a farmi addormentare!
Non gliene voglio affatto. Sono, infatti, il suo
Oliver H.
Donnarumma, Policastro, vi secca se vi si dice che fate parte di una compagnia di giro che legittimamente si esibisce in rete (vale a dire in provincia), in forse beckettiana aspettatura di palcoscenici più CAPITALI?
@ Anonimo
Sbaglierò, ma la sua voce mi dice qualcosa… Comunque.
Credo sia fisiologico che ci si occupi qui del «rapporto fra metaletteratura (la critica letteraria) e realtà virtuale»: prima di suonare, bisogna accordare il pianoforte e scaldarsi con un po’ di scale.
L’anonimato si legittima se uno deve difendere la propria incolumità, in regimi in cui esporsi è richiare qualcosa. Ma sul web, scusi, che cosa rischia? A lei cosa costerebbe firmarsi, anziché Avicenna o Virginia Woolf, Edoardo Casti o Beatrice Cenni (ammettendo che lei si chiami davvero Edoardo Casti o Beatrice Cenni)? E poi: le sembra carino che mentre lei mi vede in faccia, io invece ho davanti qualcuno/a che parla dall’oscurità, con la maschera di Zorro? A me no – e se fosse moralismo (ma è galateo), dove starebbe l’ipocrisia? Del resto, da come lei scrive e per come argomenta, di cultura non solo letteraria deve masticarne parecchia, e pure buona.
È così atterrito/a dall’assumersi la responsabilità di quel che dice, semplicemente firmandosi, da invocare addirittura la misura fascista del vietare a qualcuno di prendere la parola? Neppure ho paura del malanimo di chi scrive. Quanto all’occupare il web (ma mi ha visto? mi ha preso per un generale di corpo d’armata?) per poi lagnarsene… Beh, non la seguo mica. Abitare in una casa, lamentarsi del casino e poi mettersi a riordinare un po’, almeno nella propria stanza, non mi pare così diabolico. Vedrà che dopo la ringraziano anche i suoi eventuali conviventi.
Quindi: mi spiace non sapere chi dover ringraziare per questo commento, e spero di risentirla – lei, o uno dei suoi eteronimi. Certo, a discutere delle questioni che lei pone (anonimato, presa di parola pubblica, identità fittizie, plurime e virtuali) ci vorrebbe un filosofo.
@ Massino
No no: a me non secca, si figuri! Già mi vedo da Gad Lerner. Però: perché me lo dice con il «si» impersonale?
O forse è anche un po’ collettivo, il si. Visto che le vostre voci, comunque interessanti, hanno oscurato- come capita ed è capitato sempre in questi luoghi – questi della rete, intendo- le altre voci. Non che non ci sia possibilità di esprimersi, ma avete detto tutto voi, cosa altro possiamo fare noi poveri mortali?
@ Donnarumma
La critica di moralismo ipocrita non si riferiva ovviamente al suo articolo, e mai avrebbe potuto. Il titolo stesso, «Aboliamo i blog letterari», è del tutto onesto e coerente col ragionamento che vi è contenuto: l’impresa di parlare seriamente di letteratura sul web è resa ostica da troppi molestatori anonimi da un lato, e da molti narcisi con nome e cognome dall’altro. Cosa su cui mi trova perfettamente d’accordo. Ciò che mi disturba in una certa critica dell’anonimato (ripeto, non la sua), è che chi scrive spesso e volentieri di letteratura sul web firmandosi con nome e cognome potrebbe benissimo evitare d’incorrere in commenti anonimi. Un sito letterario può escludere i commenti, selezionare i commentatori, adottare forme di moderazione drastiche. Se si scrive in un sito che non adotta queste difese, è doveroso accettare le regole del gioco, regole, del resto, che sul web vigono quasi ovunque per una semplicissima ragione: l’anonimato o lo pseudonimato sono una forza a volte stupida, spesso cattiva, ma sempre vitale. C’è più realtà nel commento acido, risentito e anonimo di uno scrittore mancato che nel profilo facebook di uno scrittore pubblicato. Quanto a me, le dico in tutta onestà che se posto commenti sotto pseudonimo è perché letterariamente non sono nessuno, e perché penso che la scrittura virtuale (quella in senso stretto virtuale, dei commenti, delle chat eccetera) sia al confine fra il parlato e lo scritto, e non mi sento dunque di sottoscrivere tutto ciò che dico, tantomeno sapendo che resterà per sempre impresso sulla rete. E per rispondere alla sua domanda, sì, mi sembra normale che io la veda in faccia, perché lei ha pubblicato un testo sul quale ha avuto la possibilità di riflettere a lungo; per la ragione opposta, non mi pare scandaloso che io intervenga con la maschera di Zorro. Certo, non rischierei nulla a gettare la maschera. Ma non rischiava nulla nemmeno chi, esprimendosi anonimamente sul Cid o sulla Princesse de Clèves, contribuì alla nascita della critica letteraria. È una scelta contestabile, ma di stile. Con simpatia e stima sincere.
@ Anonimo
Pensi: credevo di essere stato molto più duro con i «narcisi con nome e cognome» che con gli anonimi. Ma quelli, evidentemente, hanno altro da fare. Non è che poi non veda le possibilità che l’anonimato e l’eteronimia aprono, però le si possono conservare anche mantenendo il proprio nome. Per esempio, condivido del tutto il bisogno di inventarsi delle maschere stilistiche, cercando un tono che corteggi il parlato. Ma da questo punto di vista, è molto più divertente essere plurimi (non lo siamo per statuto?) sotto la stessa identità. Che meraviglia, se Pessoa si fosse sempre firmato Pessoa!
Spero nessuno sia così sconsiderato da sottoscrivere tutto quello che dice. Ma rivendico anche la necessità di giocarmi ogni partita sino in fondo – e allora, scegliermi un nick sarebbe una fatica distraente. E poi: per uno che, come lei, fa dell’anonimato una scelta di stile di pensiero (ma non la metta sul «non sono nessuno»), ce ne sono quattro o cinque che ne fanno un alibi per il teppismo.
In ogni caso, preferisco di gran lunga che ciascuno sappia moderarsi da sé, al ba-bau che censura e azzittisce. Ecco: alla fine, credo che il punto sia questo. Siamo abbastanza dispersi e ingrigiti, da non dover replicare l’oltraggio dei tempi rendendoci anonimi da soli, e una volta di più.
Che peccato! Non potrò farle nemmeno gli auguri per l’onomastico. Vorrà dire che me ne ricorderò il giorno di Ognissanti.
La ringrazio per la risposta, sono d’accordo che i “picchi negativi” esistano, ovviamente non potrebbe essere diversamente, visto che questi spazi virtuali sono come delle piazze, e, per fortuna, in una piazza chiunque può saltar fuori a dire la sua banalità, o a dare il suo contributo alla discussione. I picchi negativi possono essere meritori di “indignazione”, a volte fanno ridere, qualcuno ci può vedere un segno dei tempi (tutti che vogliono scrivere, nessuno che legge attentamente…) ma rimane il fatto che sono una pula inemendabile, se non si vuole limitare la libertà di partecipazione creando sbarramenti e check point. Ritengo sia meglio riderci su, piuttosto che indignarsi. E poi è bene imparare a saltellare qua e là, cercando di sviluppare il fiuto per evitare l’inutile. Ri-contraccambio.
@Anonimo
Avremmo bisogno di lei nella discussione del post accanto!
@ Precaria Guerrilla
Certo meglio la pula del filo spinato. Il problema è che sospetto che qualche cosa, in rete, funzioni proprio per dare libero sfogo ai famigerati picchi negativi, con l’illusione del libero accesso alla parola. Insomma: i picchi non sarebbero accidente, ma sostanza; non incidente di percorso, ma fondamenta della baracca. Mica sempre, si capisce. Vedrò di scansarli a saltelli. Ma guardi poi che ridere si dovrà di me.
Mi trovo d’accordo col Prof. Donnarumma dalla prima all’ultima delle sue parole, anche nei commenti.
Mi sembra importante che vengano fuori interventi come questo, in cui la necessità dell’analisi analiticamente analitica lascia almeno in parte il posto a una presa di posizione, all’assunzione di una prospettiva che proprio e solo nella sua parzialità ci fa intravedere una purezza, se non di convinzioni, almeno d’intenti. Una parzialità provocatoria, forse, o forse provocativa: anche questa volta, come tante altre, i suffissi fanno una grande differenza. Invece di evocare Pasolini a sproposito, inviterei il mondo intero a ricordarsi di quando scriveva che le scuole medie andavano abolite.
In questo Paese di martiri del cerchiobottismo, ogni tanto un desiderio di radicalità che va oltre le elezioni più vicine, oltre il rinnovo contrattuale, al di là dei piccoli interessi gregari e degli ammiccamenti e delle confraternite per la bibliomediocrità, ed è capace di sollevare uno sguardo franco alle speranze e alle lotte dell’uomo di domani.
Bravo Donnarumma: quanno ce vo’…
Il blog è, tecnicamente, un arcaismo. E’ un ibrido un po’ mostruoso, uno strano oggetto, che nasce dall’uso (improprio) di tecniche nate per la stampa a piombo in un contesto (o uno spazio) che ha tutt’altra natura. Non si può difenderlo, anche perché scomparirà molto presto. Come tutte le creature ibride è sterile, e poco adatto al mondo in cui vive. Un blog dovrebbe essere lo spazio dell’effimero, ma tutto quello che si scrive pesa come il piombo: basta un aggettivo di troppo e la signora si offende a morte. Promette longevità alle nostre conversazioni, ma basta rileggerlo dopo qualche mese e avete l’impressione di ritrovarvi in una soffitta piena di polvere, ratti e bigiotteria senza valore. Un po’ come tutta la rete, che accumula soprattutto un infinito ammasso di rifiuti linguistici e psicologici di cui non abbiamo il coraggio di liberarci. La parola nel blog ha sempre qualcosa di spettrale e non è un caso se si preferisce usare una maschera per entrarci. E chiamare uno spettro con il proprio nome è, ammetterete, un po’ macabro.
E non c’è emoticon, lol, o <3 che tenga: le possibilità di comunicazione sono più rozze, limitate che nell'oralità, e più imprecise e meno raffinate che nella scrittura tipografica. Un blog è tecnicamente "archeologia", nel senso peggiore del termine: una sopravvivenza un po' scomoda di tecniche in un mondo che le ha superate. O se si vuole, sono un embrione molto imperfetto di qualcosa che aspetta un suo Steve Jobs per essere inventato. Ma non si può difenderlo come se fosse il nuovo paradiso. Lo si può frequentare, anche con piacere, perché per ora esiste solo questo, e perché passare una settimana in un paesino di campagna dove tutto è rimasto agli anni cinquanta può apparire riposante. Ma rivendicarne le potenzialità "democratiche" è un discorso estremamente retrogrado e conservatore, oltre che ingenuo. E' conservatore, perché significa smerciare per democrazia un simulacro inane della partecipazione (@Donnarumma ha perfettamente ragione). Ed è retrogrado, perché è come invitare qualcuno a considerare un fossile del cretaceo miracolosamente rimasto intatto come il più sofisticato, confortevole, progredito "ritrovato della tecnica".
Insomma: sì, aboliamo il blog, mettiamolo in un museo, ma liberiamocene al più presto, e cerchiamo di inventarci qualcosa di più interessante.
@Urbi et orbi
Non è la prima volta che lo noto: sembra che i blogger professionisti (non so come amino chiamarsi) non siano troppo ironici e tollerino con grande difficoltà la critica. Se li sfiori ti danno del Lurker o ti ammorbano con dubbie disquisizioni pseudo-filologiche (rigorosamente 2.0, perché tutto quello che è su carta stampata è "superato"). Se invece provi a mettere in dubbio l'equazione tra democrazia e web, ti danno semplicemente del fascista, e si dilungano in astruse considerazioni di sociologia da colportage. Se appunti che l'anonimato, nel web come fuori, è un problema politico sei un poliziotto (fascista moralista ecc.). Io sarei personalmente per una pseudonimia generalizzata (il filosofo di cui porto il nome ha avuto lo strano destino di essere stato chiamato per secoli con un nome storpiato dalla traslitterazione dell'arabo originale), ma sta di fatto che è un po' ridicolo pretendere uno stato di diritto e l'universale anonimato. Anche in questo, mi sembra, @Donnarumma ha perfettamente ragione, almeno a porre la questione.
@Policastro
Forse ho frainteso il senso dei suoi post (devo confessarle che il suo stile è oggettivamente involuto) ma a me sembra il problema della "bibliodiversità" (che orrido neologismo!) così come quello della concentrazione editoriale non è di natura sociologica, ma giuridica. E lo strapotere dei grandi gruppi è garantito soprattutto dai monopolisti della distribuzione. Basterebbe un minimo intervento legislativo per distruggere in due settimane il potere di Feltrinelli, Mauri-Spagnol, Messaggerie, Mondadori/Einaudi and Co. Se non lo si fa' è perché non lo si vuole: l'editoria, così come la rete non sono misteriose creature autonome dalla fisiologia spontanea. Non sono spazi liberi e funzionano solo come gli si impone di funzionare. Credere a imperscrutabili movimenti dal basso o dall'altro o a indecifrabili movimenti sociologici è un po' come scambiare mulini a vento per giganti dalle braccia rotanti.
In ogni caso da un certo punto di vista l'eccessiva "bibliodiversità" rafforza i giganti e non li indebolisce. E se, come mi pare di capire, il suo obiettivo restano comunque le grandi cifre di vendita (eventualmente dei suoi libri), perché scagliarsi contro i giganti-mulini a vento? Le piccole case editrici non faranno mai grandi affari.
Non capisco nemmeno cosa c'entri la democrazia con il fatto che gli editori-giganti-mulini a vento non intendano dare spazio a quelle che lei chiama «le scritture più innovative o di ricerca»: un editore è un privato che fino a prova contraria ha tutto il diritto di stampare e promuovere quello che vuole. A me sembra reazionario il suo discorso piuttosto: vorrebbe impedire a Benetton di produrre magliette à bon marché perché non usano quei «tessuti più innovativi o di ricerca» che contraddistingue i capi di Etro?
@ Gerace
Grazie!
@ Averroè
Non avevo mai pensato a un carattere archeologico dei blog/forum, forse perché ero troppo colpito dal carattere arcaico del loro funzionamento. Ma in effetti la natura ibrida è molto forte: siamo indotti tutti alla schizofrenia tra parole-sasso e happening a briglia sciolta. Evito di rileggere, ma credo che ne avrei un penoso effetto intercettazione – con l’aggravante che le microspie me le sono messe da me. Tuttavia, questo stato ibrido fra scrittura e oralità potrebbe essere una delle risorse migliori del web, e indurre a scrivere (anche su carta) rinuciando a vecchi, tristi rituali. Limito strettamente il discorso alla critica letteraria. Mi pare si riversi spesso in rete una scrittura formale, burocratico-accademica, o al peggio pseudo-colta e strafalcionistica, appunto per cercare di scongiurare la povertà di capitale simbolico (come se uno andasse in tight ad affettare la r moscia in un centro sociale). Il conformismo colpisce tutti, ma soprattutto i nuovi entranti. Al massimo, si tende allo stile da appunto, con esiti faticosissimi, e vari oltraggi alla logica diurna.
Riflessioni analoghe per la postura psicologico-intellettuale: nei forum, oscilliamo (non dico lei, che si è trovato il suo tono giusto) fra il professore e il clown, la lezioncina tetra e la sparata a capocchia, gli approfondimenti bibliografici e la bava alla bocca… È una prigione. Allora, sarebbe meglio gente che potesse vantare il suo «se fami, freddi o vigilie mai», e che, quando si mette al pc, si calca un imbuto in testa e una trombetta fra le labbra (c’è una poetica della maschera e dell’anonimato che sta simpatica pure a me). Dello sperimentalismo e della libertà che il web consentirebbero, non è che veda tutte queste realizzazioni. Quanto a una scrittura seria, chiara, pulita, a un’argomentazione limpida e non cervellotica, meditata e non fatuamente/intimidatoriamente citazionistica (my toy, my dream, my rest!) quella, per fortuna, si trova in alcuni blog e in qualche post – ma sfido! è tutta gente che scrive e pensa come se avesse davanti il foglio e la penna e che, appena può, risistema per il libro quello che ha prima postato in rete. Per di più, sulla rete si pagano con un savrapprezzo tutti i limiti della cosiddetta critica militante italiana, che si sente impegnata e d’avanguardia solo perché parla del prossimo romanzo di Scurati o dell’ultimo Strega – ma sempre un po’ come se disquisisse sugli endecasillabi di settima di Panuccio del Bagno o sui circoli umanistici nella Ferrara del duca Ercole, o tromboneggiasse moralisticamente. Filologia e predica sono la ciabatta destra e la ciabatta sinistra d’o’ prufessore.
C’è poi in effetti una questione giuridico-politica: l’anonimato in rete pone problemi analoghi al copyright/copyleft. Che ne è della proprietà intellettuale? Mettiamo che io volessi citarla: come fare? Forse Averroè (sc. Abū l-Walīd Muhammad ibn Ahmad Muhammad ibn Rushd) 2011, [Replica] a Donnarumma ecc., in http://www.leparoleelecose.it/?p=1403#comment-880… Mah, mi pare una schifezza. Per carità, le idee sono più importanti di quelli a cui vengono. Ma anche la rete è un mercato di idee, e gli anonimi – quelli migliori, mica i «picchi negativi» – vanno in giro a farsi borseggiare, mentre i Nomi ne approfittano per darsi luce, nel momento stesso in cui replicano (neppure serve rubino). Anche lei, rischia di fare la fine di quegli studenti a cui i professori scippano intere pagine della tesi, infilandole nei loro volumi – oppure, di finire nel Don Chisciotte di chi ha bisogno di qualcuno da bastonare per farci vedere quant’è nobile cavaliere.
Rispondo qui a Signorina Else, «Regole del gioco nel dibattito in rete», postato il
16 ottobre 2011 alle 19:50 sotto «I minuti contati» di Angelo Ferracuti
@ Else
E dove l’ha letto il giudizio definitivo? Non so quanto tirannico sia il suo Ego, e quanto forte lei avverta la necessità di far tornare i conti di tutto quello che dice quando la inchiodano alla sua anagrafe, come se ogni frase di dialogo fosse un paragrafo della Fenomenologia dello spirito, e ogni suo interlocutore un giudice severissimo pronto a prenderla in castagna. Io, per me, non mi faccio scrupolo di cambiare idee e posizione, soprattutto qui in rete, dove ogni post, dopo cinque minuti, è consegnato agli archivi del nulla. Per questo, non ho bisogno di maschere e anonimati. E se, al contrario, fossi uno che ripete sempre le stesse quattro cose, non ci sarebbe anonimato che potrebbe scamparmi da me stesso. Per il resto, devo avere un’antropologia molto più nera e insieme molto più rosea della sua: la sua fiducia in un dibattito sereno e oggettivo mi pare ingenua; la sua sfiducia nella possibilità di dimenticarsi di sé quando si parla a proprio nome, un torto all’umanità. Come letterato, mi interessano sia le idee, sia le persone: il bello della critica è che è una disciplina delle singolarità. Avessi amato le idee in sé, avrei fatto il filosofo. Invece, nulla mi entusiasma di più che vedere le idee nascere dalle storie degli individui, leggere nelle idee le loro storie – e guardi che non lo intendo come un esercizio relativistico, ma come un modo di avvicinare gli altri, di mettere da parte se stessi.
Lei non ci dice come si chiama perché così si sente più libera di dire il vero? Mi scusi, ma in questo io ci leggo tutto un romanzo che parla delle sue remore psicologiche, delle sue aspirazioni, delle sue insofferenze, della sua volontà di sperimentare, della sua capacità di divertirsi con le idee. Il che, oltretutto, mette una certa allegria. Quanto all’oggettività, che lei dice di perseguire in maschera… Beh, non ci credo proprio. L’oggettività, per fortuna!, non ha nulla a che fare con quello di cui mi occupo io (romanzi, poesie, poemi, autobiografie, autofinzioni…); non so se abbia a che fare con ciò di cui si occupa lei.
E così, non ho capito davvero perché lei abbia bisogno di spacciarsi per una morta sotto la penna di uno scrittore austriaco quasi cent’anni fa. Forse adotta una poetica dell’anarchia e del clownismo? Allora, avrebbe tutta la mia simpatia. Amo moltissimo Palazzeschi – ma il suo «lasciatemi divertire» funziona perché la gente si aspetta che lui faccia il poeta. Qui in rete, fra tanti pseudonimi dal volto irrintracciabile, mi pare che il gioco abbia meno mordente. E poi, non c’è bisogno di cancellare il proprio nome: la retorica mette a disposizione un’intero armamentario di maschere.
Vive in stato di persecuzione politica? Io per primo le cercherei un passaporto falso. Teme che, criticando Ferracuti, gli sgherri di Feltrinelli le facciano la pelle? Ma si rassicuri, la pubblicità funziona anche sul purché-se-ne-parli.
Vuol dirci che, sotto mentite spoglie, lei può dire quello che altrimenti non le verrebbe di dire? Tipo difendere il gelato alla fragola, che tutti credono lei detesti? O celebrare Berlusconi, che spero lei abomini? O proclamarsi devota alla Vergine Maria, pur essendo atea? Ma scusi: lo faccia a suo nome! L’effetto sarà raddoppiato!
Oppure ci sono considerazioni di opportunità privata? Che so? Lei è la fidanzata di Ferracuti, ma non se l’è mai sentita di dirgli quello che pensava del suo racconto (e la capirei: rischiava grosso)… Oppure: lei è la mia fidanzata, e la sopresa sarebbe enorme, visto che apprenderei in questo momento di avere una fidanzata… Ma in ogni caso, queste sono spiegazioni che poco o nulla hanno a che fare con l’oggettività.
Pensi pure tutte le nuove regole che vuole: non si preoccupi, starò al gioco. Non mi dica che non ha capito che, se lei è tentata di gettare la maschera, io non sono tentato di metterne altre solo perché in questo stesso post ne ho cambiate tre o quattro. (E poi, che ne sa di quello che mi frulla per il capo?)
P.P.S. Sbaglierò, ma pensavo che Gadamer alludesse a qualcosa che ha a che fare statutariamente con qualunque forma di comunicazione umana. C’è un momento in cui, parlando con chicchessia, bisogna fondere gli orizzonti, sennò mica ci si capisce. Policastro inclusa, ovviamente (anche se credo non siamo fatti per fusioni orizzontali – ed è colpa mia, che vergogna!).
I romanzi insegnano questo, e mi pare lei lo sappia molto bene.
“C’è un momento in cui, parlando con chicchessia, bisogna fondere gli orizzonti, sennò mica ci si capisce.”
G.le Raffaele Donnarumma
(scrivo così perché scrivere “@ Donnarumma” proprio non mi viene, c’è un che di altamente strambo secondo me nel sostituire g.le o sig. o ciao o non so che altro ancora con “@”, ma forse mi sbaglio) stimo davvero molto la passione che mette nel dibattere. Mi sembra un esempio di grande rispetto – dentro l’epoca. Anche questa cosa qui è un “blog”, e non mi sembra per niente poca cosa. Che poi sia “la rete” a renderlo possibile, indipendentemente da tutti noi, è qualcosa che lascia pensare, almeno un po’. Vorrei dire solo alcune cose: la prima è che (almeno in assenza di blackout elettromagnetico) quanto scritto nella rete rimane, eccome se rimane, sembrano quasi gli archivi del Tutto, piuttosto che quelli del Nulla; e poi c’è sempre la stampante per le parole da riporre nel cassetto. Un’altra cosa è che in questa faccenda dei nomignoli forse conta anche la timidezza, l’impaccio, il riserbo, e non sono certo cose di poco conto, e quando ci sono si vedono, nelle parole scritte. L’ultima cosa è che in questi dibattiti o conversazioni o thread (trame, fili) che siano manca molto, almeno secondo me, la voce e le parole dei giovani studenti. Non lo so, forse ci sono, forse adottano un nick pure loro, ma non mi sembra che ci siano. Se è vero che è così, se è vero che i giovani studenti, specie delle discipline interessate, ma anche di tutte le altre e tutti gli altri, non ci sono, questa qui mi sembra essere un’assenza grande, in una qualche maniera preoccupante. Non lo so perché, però è questo che penso, e volevo dirlo da diversi giorni, e alla fine, vincendo il mio impaccio, l’ho detto.
Un cordiale saluto
@Ruggeri: Giovani studenti? Presente! Sa qual è il problema? Che questo sistema non è poi così tanto aperto come volete farlo sembrare. Anche qui quasi sempre, come fuori, i professori e professorini stanno in cattedra, su un piedistallo, a fare i loro ghirigori alla lavagna, e gli studenti dal basso devono sbracciarsi perché si dia loro la possibilità di articolare una domanda. Figurarsi un’osservazione! Il fatto che il supporto fisico di comunicazione sia cambiato (le vibrazioni acustiche dell’aria nel primo caso, i pixel di uno schermo retroilluminato nel secondo) non ha inficiato minimamente quelle dinamiche di potere e di sottomissione, e sarebbe stato nel migliore dei casi ingenuo aspettarselo. C’è bisogno sempre, da parte chi ha scritto l’articolo o da parte di un membro della redazione, di una cooptazione all’interno del discorso.
Di questa cosa ho parlato anche con alcuni colleghi, e le assicuro che da fuori si vede, è evidente.
Qualche tempo fa scrissi i miei primi due commenti a questo blog. Il primo era un commento a un articolo di Claudio Giunta sullo stato delle facoltà di lettere italiane, e su come migliorarlo. Io mi opposi ai criteri utilitaristici che l’autore di quell’articolo aveva adoperato. Giunta si limitò ad accusarmi di idealismo, facendomi paternalisticamente scoprire che avrei cambiato idea col passare degli anni, che lui dall’alto della sua veneranda età poteva ormai prevedere ogni mia mossa, ipotecare il mio futuro. Io risposi aggiungendo argomentazioni a favore della tesi che avevo sostenuto nel mio primo commento, e mostrando indignazione per il suo atteggiamento paternalista ed evasivo. L’ulteriore risposta di Giunta non venne, e vennero invece le ulteriori risposte a chi l’aveva elogiato – come si fa appunto implicitamente nel chiedere la tesi a un professore – per poi contestargli solo un punto o due. Senza mettere in dubbio l’anima dell’articolo, a mio parere deleteria.
La seconda volta non ci fu occasione di scontro: venni semplicemente ignorato del tutto. Scrissi un lungo commento a due articoli di Giglioli e Policastro sullo stile del romanzo italiano contemporaneo, trovandomi d’accordo su alcuni punti di partenza, ma spostando il fuoco del discorso su una distinzione di tipo diverso da quella da loro introdotta. Policastro si limitò a rispondere a tutti gli altri commenti che non mettevano assolutamente in dubbio le sue categorie, e che tentavano al massimo di aggiustare il tiro con gli stessi strumenti. Alla fine rifugiandosi nel solo, facile gioco del “chi sostiene chi? Io scommetto su Frasca! Dieci euro e mezzo che Frasca vince in volata!”, come al solito, come sempre, come fuori. Rispondere a me sarebbe stato, lo riconosco, affrontare la questione da un punto di vista diverso. Ma se non si fa questo neanche su un blog, di che cosa stiamo parlando? Dov’è l’apertura? Dov’è la libertà? Senza contare che il mio commento a quell’articolo – ne sono ancora abbastanza convinto – centrava il discorso molto più di tutti gli altri commenti e dell’articolo stesso. Ma forse una risposta sarebbe stata fuori dalla portata di Policastro.
Pazienza! Vorrà dire che mi limiterò a commentare gli articoli con cui concordo, se proprio devo commentare. Ma non venite a lamentarvi se poi gli studenti si tengono generalmente – e giustamente – alla larga da questo giochino.
Ciao Roberto, io faccio tutt’altro nella vita; riguardo le cose che dici non posso dire niente dunque, non le conosco. Sicuramente però voglio dire che il tuo commento appena sopra mi appare molto serio. E’ una cosa seria, insomma. Buona giornata. Buon studio
Adelelmo
sommessamente, come dice sempre la Melandri, vorrei far notare a Donnarumma che LP LC è un blog letterario, di fatto, e lo stesso Donnarumma ne fa parte; ha postato e commenta, come nei blog – letterari e no – si è sempre fatto.
detto questo, ho letto, ho sorriso, e ho deciso di riaprire il blog che avevo chiuso
a Roberto Gerace vorrei dire che da un lato ha ragione, le dinamiche del potere sono le stesse ovunque, anche nei blog gli studenti devono sbracciarsi, ma è una buona scuola per prendere la parola in pubblico, no? purché non ci si lagni di non essere ascoltati, che è sempre una forma di autoesclusione. Non me ne voglia se glielo dico, lo faccio perché una delle ragioni, sebbene non la sola, per cui ho deciso di usare un nick, è stato anche l’interesse per le meccaniche dell’esclusione/inclusione nel discorso pubblico, vecchie, ma sempre interessanti.
Buona continuazione.
E grazie a tutti per la lettura:)
Credo di essermi spesa abbastanza, tanto in questa, quanto nella succitata discussione sullo ”stile”, apertasi sotto un post precedente a mia cura: già solo per questo non mi ritengo in nessun modo obbligata a rispondere né ad Averroè, che ‘l gran commento feo, né a Gerace. Però un’osservazione diciamo metodologica (ma anche solo logica o di mero buon senso), che secondo me vale per entrambi, come in generale per i commentatori accaniti dei thread, mi sento di apporla, in modo veloce e il più possibile pacato: partecipare a una discussione nel web non è in nessun modo un lavoro, per l’ovvia considerazione che non si tratta di un’attività remunerata, e devolvervi del tempo e delle energie è perciò una pratica assolutamente libera e volontaria. Non vedo perché, a fronte dell’assoluta e sempre rivendicata libertà di postare un commento aggressivo quanto si vuole, riduttivo o ridimensionante o delegittimante o offensivo quanto si ritiene necessario (il mio stile è ”involuto”? benissimo. Poi però vuol continuare a parlare con me, e m’interroga, il buon Averroè: perché?), col nick o con le sigle, con la maschera o con la clava, non si possa accettare che, dall’altra parte, cioè da parte di chi posta un pezzo, vi sia lo stesso diritto alla libertà incondizionata: di selezionare, anzitutto, nel thread, gli argomenti cui si sia maggiormente interessati e, perché no, su cui ci si senta maggiormente ferrati o rispetto ai quali si ritenga di avere qualcosa da dire che valga da avanzamento della discussione, e non da semplice riconferma dell’ovvio o del già detto, e a quelli e solo a quelli dedicare spaziotempo ed energie. Perché è così difficile da far passare questo principio? Mi ci romperò la testa, come diceva il commissario di Sciascia.
di solito mi limito a leggere, ma ci terrei a rispondere a gerace in merito al suo ultimo intervento.
al posto di giunta, nell’intervento sulla scuola italiana, nemmeno io t’avrei risposto. per il semplice motivo che sei entrato bello deciso col tuo primo intervento nella discussione, e alla pacata risposta di giunta hai inanellato una serie di frasi così aggressive da suggerire alla mia sensibilità di lettore estraneo alla discussione una serie di randellate in testa. ecco, dai pochi interventi tuoi che ho letto qui, pur così interessanti e stimolanti, mi è parso di notare un accento polemico decisamente sproporzionato alla linea della discussione. senza contare alcune inesattezze del tipo “dante sarebbe stato d’accordo con me”, che sinceramente non ha molto senso, come qualsiasi riattualizzazione decontestualizzata di grandi della letteratura.
questo giusto per precisare che, se non ti è stato risposto, oltre che questioni di economia negli interventi (non si può rispondere a tutti, non si può parlare a tutti) la causa può essere che il tuo modo di esprimerti non invita alla discussione.
ps: sono uno studente universitario pure io
Ho letto tutto. Non ho capito quale sia la questione che Donnarumma voleva indicare con il suo pezzo.
@ Ruggieri
Caro Adelmo (come vede: un colpo al cerchio, e uno alla botte), il mio timore è che archiviare tutto voglia dire ridurre tutto in polvere. L’eccesso è inflazione, e a me fa venire la sindrome di Bouvard e Pécuchet. Se davvero mancassero gli studenti, anche a me dispiacerebbe moltissimo.
@ Gerace
Sono d’accordo: la rete è falsamente democratica, e neppure la cultura riesce a esserlo davvero, sebbene si sforzi di esserlo. Inutile nascondersi dietro un dito: non abbiamo tutti lo stesso peso, né per prestigio, né per qualità delle nostre argomentazioni. Però lei continui assolutamente a intervenire tutte le volte che pensa di avere qualcosa da dire (e forse, soprattutto se è in disaccordo).
@ Alcor
Ma dice davvero? Un blog, questo? Sono caduto in un’imboscata? Lei si sta amabilmente burlando di me… La prossima volta mi dirà, che so?, che in questo momento sto scrivendo su uno di quegli abbominevoli e volgarissimi forum. Grazie, comunque (e perdoni il mio clownismo).
@ Policastro
Certo, scrivere su un blog non è un lavoro, ma come tutte le nevrosi (o le opere buone di volontariato) avrà il suo tornaconto. Io, se interpellato, cerco di rispondere: al limite, che non so cosa rispondere. Ma ciascuno si costruisce una propria immagine come meglio può, crede o gli viene.
@ Marchese
Lei ha ragione. Ci sono risposte mancate per motivi occasionali, e risposte mancate per calcolo (nel caso peggiore: non ti riconosco per quello che dici, o per come lo dici, o per quello che sei). Confidiamo nel buon cuore dei singoli, sul quale non è possibile legiferare.
@ Mozzi
Che pazienza! Donnarumma voleva indicare queste questioni qui:
a) che i blog letterari collettivi sono fintamente democratici, e che spesso riproducono i solite, vecchi tramesti da clan;
b) che il meccanismo dei forum è spesso vizioso, e ci induce tutti a una certa stoltezza;
c) che il teppismo a volte non è un inciampo, ma la cosa intorno a cui il forum (e qualche blog) si costruisce;
d) che lo scopo di alcuni forum (e di qualche blog) è fare da valvola di sfogo per il disagio culturale, sotto la favoletta della libera espressione;
e) che la cosiddetta critica 2.0 deve ancora nascere, come dimostra il permanere di uno stile di pensiero (e semplicemente di uno stile) accademico;
f) che scrivere per la rete di critica letteraria può essere il modo migliore per fare una critica letteraria seria, pulita e che parli al maggior numero di persone, ma solo a patto di ripensare davvero ai propri mezzi, ai propri oggetti, ai propri destinatari;
g) che anonimato, pseudonimia ed eteronimia sono un problema, ma anche una risorsa (questo l’ho scoperto soprattutto dai commenti);
h) che a leggere certi blog, e moltissimi forum, mi sento come il dott. Giulio Mozzi in «Sono l’ultimo a scendere»: solo che, a differenza del lettore di «Sono l’ultimo a scendere», non mi viene mica da ridere.
Grazie. Io quassù mi sono molto divertito, ho riflettuto su alcune cose alle quali non avevo pensato abbastanza, ho imparato delle cose, ho avuto delle idee che, magari, elaboro e vi faccio sapere. Spero sia stato lo stesso per voi.
@ Ruggieri: La ringrazio vivamente.
@ alcor: sì, è una buona scuola. No, lagnarsi oltre che legittimo, in certi casi, è doveroso, e non è affatto una forma di autoesclusione: a meno che lei non voglia far passare la remissività per l’unico modo per accedere al discorso pubblico; nel qual caso, meglio l’esclusione. Che lamentarsi sia un modo per autoescludersi, provi a raccontarlo ai ragazzi della rivolta di Rosarno. Per il resto, io non ce l’ho con nessuno, non ce l’ho mai avuta con nessuno, e su questo mi deve credere. Proprio per questo uso toni duri, perché non sono generalmente capace di accettare quando ci si dimentica di qualcuno.
@Policastro: il fatto è che lei non può permettersi il discorso che fa perché parla/scrive da una posizione di potere. Per quanto possa essere disponibile, aperta, per quanto lei possa spendersi in questa cosa, la sua azione risulterà sempre l’esercizio di un potere, e quindi il consolidamento di esso (per questo concetto e per altre cose che condivido, si rilegga Donnarumma appena sopra di me). Non foss’altro perché nella pagina del suo articolo il suo nome sta più in alto di tutti gli altri.
@Lorenzo Marchese: può essere che il mio tono non inviti alla discussione. Se fossi capace di accorgermene lo abbandonerei. Finora, però, esso mi sembra il più proporzionale possibile alle situazioni in cui mi trovo. Mi sono andato a rileggere i miei vecchi commenti a Giunta (ché per quello a Giglioli e Policastro il tuo discorso non vale). A ben vedere, il mio primo commento non era aggressivo, era duro e deciso: stante la prima qualifica in luogo del sostantivo indignazione, stante la seconda in luogo di convinzione. Esiste un “peccato” di indignazione, o forse un peccato di convinzione? Non mi pare. E fin qui forse siamo d’accordo, dato che Giunta a questo commento aveva “risposto” (mai virgolette furono più appropriate). L’aggressività, stavolta sì, del mio secondo commento, era una risposta difensiva a un atteggiamento insopportabilmente violento da parte di Giunta. Si può essere tanto pacati quanto violenti contemporaneamente, quando si esercita il proprio potere, di qualsiasi natura esso sia, come un imperatore che pacatamente condanna a morte col pollice in giù. Se Giunta usa nei miei confronti un atteggiamento paternalista, e non entra nel merito del discorso, non solo non mi rispetta in quanto interlocutore (“sei giovane, ergo le tue idee sono di serie B”), ma esercita su di me tutta la violenza che ha a disposizione. Io ho tirato fuori i denti (sempre e comunque senza offendere nessuno) nel tentativo di avere finalmente quella risposta che non avevo avuto nel primo commento. Lui non ha avuto bisogno di tirare fuori niente, se non il suo bel pollice da articolista per decretare che non avevo diritto a essere trattato come un interlocutore alla pari. Dimmi tu da che parte sta la violenza, quella vera, quella che si sente davvero perché non è un episodio, ma una pressione costante.
Mi dispiace peraltro che il richiamo all’ordine sia venuto proprio da uno studente, da un mio collega. “Non vi fidate mai”, dice uno dei professori che stimo della mia Facoltà, “dei professori che danno del tu agli studenti e degli studenti che vogliono continuare a dare del lei ai professori”. Tempi duri.
Quanto a Dante, io non riattualizzo niente: è solo che certi autori stanno nella storia e contemporaneamente superano le nostre piccole vertigini storicistiche. Ci pensa già lui a essere eterno: quando mi capita di incontrarlo, non mi resta che prenderne atto. La saluto collega.
@Donnarumma: La ringrazio, vedrò di farmi coraggio!
@Donnarumma.
Mi sono accorto di non essere stato chiarissimo (vede @Policastro? Lo dico anche a me che sono involuto, non si offenda, la prego!). Volevo suggerire questo: lei descrive alcuni fenomeni, meglio alcune “patologie” estremamente diffuse tra “bloggari” (il teppismo, l’accademicismo la tendenza all’anonimato) le analizza in termini psicologici, e diagnostica che la causa siano alcune posture psicologico-intellettuali che esistono anche fuori dalla rete. A me sembra invece che tutto quello che descrive sia una conseguenza più o meno necessaria della strana di ibridazione tra oralità e scrittura che il blog produce. Questa ibridazione, inedita ma probabilmente anche transitoria (perché i blog scompariranno, prima che qualcuno faccia in tempo ad abolirli), fa sopravvivere una tecnica nata per la scrittura a piombo (la scrittura visuale appunto) in uno spazio nuovo, che per natura sarebbe più proprio a una comunicazione diversa, più orale, immediata, quasi olografica, legata a molti più sensi che alla sola vista. Per McLuhan una situazione di questo tipo (l’uso antiquato di una nuova tecnologia) era la causa di tutti i mali della modernità, persino della seconda guerra mondiale.
E in effetti, il blog obbliga a fare un uso antiquato di una nuova tecnologia, costringe il parlante ad assumere posture da un punto tecnico oggettivamente assurde: sarebbe possibile parlare con la propria voce (basta accendere skype), ma invece si scrive… Bisogna ammettere che è un po’ strano come comportamento: è come incontrare un amico e cominciare a usare il codice morse per parlare con lui invece di aprire la bocca.
Tutti i sintomi che lei nomina (anche la tendenza alla «scrittura formale, burocratico-accademica, o al peggio pseudo-colta e strafalcionistica», il conformismo, ecc.) dipendono (mi sembra) da questo: sono o l’espressione psicologica di un disagio tecnico, o il tentativo più o meno goffo di dominare una situazione comunicativa molto strana… Lei fa un bellissimo esempio, e parla di chi «va in tight ad affettare la r moscia in un centro sociale»: ora, chi fa questo (a meno che non sia totalmente scemo e in quel caso pazienza) ha un problema di codice, di etichetta. Ecco, il blog induce tecnicamente, quasi spontaneamente a questa confusione di etichetta, a questo malinteso di codici. Meglio, il blog è questo malinteso obbligatorio sul codice da usare, meglio è l’obbligo di fraintendimento sul codice usato. Per questo si ha sempre l’impressione di prendere clavate in testa. Nessuno capisce bene che codice bisogna usare… Questo era il punto, e mi scuso di essermi espresso in maniera troppo involuta nel post precedente. Per questo (questo era il secondo punto) se la critica 2.0 rinascerà (e lo farà) di certo non lo farà nei blog: qui continuerà a perpetuare tutti i difetti (e i pregi) della critica su carta stampata.
«Dello sperimentalismo e della libertà che il web consentirebbero, non è che veda tutte queste realizzazioni». Parole sante.
Su anonimato, pseudonimia ecc.. Il mio più che uno pseudonimo è un rebus: basta risolverlo e si arriva al nome anagrafico. Comunque: i milioni di eruditi che hanno scritto su carta stampata: Averroè, In Aristotelis de anima commentarium ecc. in realtà, senza accorgersene hanno usato uno assurdo pseudonimo affibbiato da un copista o un traduttore un po’ ottuso al personaggio che in realtà si nominava Abū l-Walīd ecc. ecc. ibn Rushd… E’ come se da secoli invece di scrivere Petrarca si fosse sempre scritto Pitturata. E ogni volta che traduciamo un cognome dal latino o dal greco succede un po’ la stessa cosa… Cartesio non suona un po’ come lo pseudonimo di Monsieur Descartes? Se volessimo essere rigorosi dovremmo dire il Signore Dellecarte. Però fa un po’ schifo, no? E’ la cultura “ufficiale” la prima a non prendere i nomi troppo sul serio.
Che anonimato, pseudonimia ed eteronimia sono una risorsa, è quanto il web grida a gran voce da tempo. A me era sembrato interessante incontrare finalmente qualcuno che dica il contrario, per favore non si ricreda!!
L’anonimato, la pseudonimia ecc. sono un problema. Ma non certo per il copyright: il plagio delle idee è inarrestabile perché la mediocrità è inarrestabile (e comunque il plagio letterale è un problema solo della carta stampata, nel web è impossibile plagiare davvero, perché la possibilità di controllo è immediata). L’anonimato è (invece) un problema per la politica. Ma non nel web, fuori. La possibiltà dell’anonimato nel web ha prodotto un problema enorme, ma fuori: una grande storica del diritto ha detto una volta, che se lo stato è nato grazie alla stampa (l’aveva detto McLuhan) Internet lo ha fatto morire. Che negli stati di diritto, che hanno costretto a vivere gli uomini in un regime di immediata identificazione con il proprio nome, la proprio foto ecc., si siano aperte bolle in cui si può circolare anche solo per un attimo usando maschere, questo è un problema interessante! Ridurre la questione a quisquilie di etichetta (il fatto che la gente insulta, è aggressiva e quant’altro) mi sembra un po’ una ingenuità. Le persone insultano anche senza nick (Ennio Abate docet!), esattamente come anche fuori dal web nessuno ha bisogno di una maschera per insultare o prendere a manganellate un passante. Nemmeno i black block lo fanno….
@Signorina Else
Non sono tanto convinto dall’idea che la pseudonimia generalizzata produca un progresso dello spirito scientifico e una maturazione della «comunità dei parlanti». A me sembra interessante che in realtà si produce quasi sempre il fenomeno contrario: ci si nasconde dietro la maschera del nickname per concentrasi meglio sugli aspetti soggettivi e «umani». Del resto cosa c’è di più «umano troppo umano» di una maschera? Il problema da cui la discussione è nata era proprio questo. L’uso del nick di fatto produce un accanimento di tutti gli utenti su tutto tranne che su gli argomenti e la teoria: si comincia a insultare, a dire un po’ quello che ti passa per la testa, a dire cavolate a ruota libera. Usare lo pseudonimo è come trovarsi in un stato di «rutto libero» permanente… Ha il suo fascino, ma certo, è un problema. Se non altro per lo stomaco.
@Policastro
«Non mi ritengo in nessun modo obbligata a rispondere né ad Averroè, che ‘l gran commento feo». Aahahahah!! Questo è un colpo geniale!
Mi spiace si sia offesa, e mi spiace che, infervorato dalla discussione, il mio intervento le sia parso come una serie di colpi di manganelli. Concretamente sullo stile: io stesso credo di essere molto involuto nella scrittura e mi fa’ piacere quando qualcuno me lo fa notare. E volevo parlare con lei proprio perché lei aveva sollevato il problema del rapporto tra rete e concentrazioni economiche fuori dalla rete. In ogni caso, si figuri, non è in nessun modo obbligata a rispondermi, può fare tutto quello che vuole. Io non mi offendo mica: m’hanno condannato, m’hanno scomunicato, hanno bruciato chissà quante volte le mie opere, si figuri se me la prendo se qualcuno non mi risponde!
Ringrazio Raffaele Donnarumma per aver mostrato (qui) che le cose dette da Raffaele Donnarumma nell’articolo qui sopra potevano essere dette con meno parole e più chiarezza.
Non sono dottore. Dopo il liceo sono andato a lavorare.
Una curiosità: perché Donnarumma sceglie di chiamare “forum dei blog” ciò che tutti chiamano “i commenti” o “spazio dei commenti”? La formula, per carità, è intuitiva e non genera equivoci; ma ha una cert’aria da improprietà: un forum è una cosa, per quel che ne so io, e un blog è un’altra cosa. Per esempio: nei forum, solitamente, qualunque iscritto ha la possibilità di aprire con un primo intervento una discussione; cosa che nei blog non è possibile; ecc. (Wikipedia: forum, blog).
Ecco, @Gerace, frasi come questa: «Che lamentarsi sia un modo per autoescludersi, provi a raccontarlo ai ragazzi della rivolta di Rosarno», paralleli così impropri, in questa sede, portano però poi alcuni a rispondere ad altri interventi, più argomentati e argomentanti. Nessuno è obbligato a leggere tutti i commenti e men che meno a rispondere. Non si stringe nessun patto di questo genere tra i commentatori di un blog.
Vedo che Mozzi ha notato quello che avevo notato anch’io, un forum è un’altra cosa, questo infatti è un blog e il commentario ha preso ormai tutte le caratteristiche del tipico “blog letterario”. Per mancanza di esperienza, Donnarumma è caduto nella trappola.
@Donnarumma, Gerace
Non perpetuiamo equivoci, per favore: non è un problema di volersi mostrare più o meno buoni o accondiscendenti coi poveri blogger o commentatori o nick da catechizzare, ma di avere informazioni o meno, su un determinato argomento, e volerle o non volerle offrire a una discussione, specie quando questa prenda la piega del consenso indiscriminato o dell’attacco pretestuoso. Donnarumma entra per la prima volta o quasi in un ”forum” (sic), ci ”si diverte” (sic) e impara un sacco di cose? Benissimo: non altrettanto posso dire io rispetto al suo post: mi dispiace, ma devo essere brutalmente onesta, come lo è stato lui nel thread del resto. Che si trovi o meno in una posizione di rilievo rispetto alla discussione che ne è seguita, il post non diceva nulla di nuovo, e conteneva, anzi, elementi già superati dalla discussione attuale sulle dinamiche della rete. Ciò posto, il potere che Gerace chiama in causa del tutto impropriamente rispetto alla possibilità di postare un pezzo, e nella fattispecie in riferimento alla mia persona, in cosa, esattamente, consisterebbe e si estrinsecherebbe? Quale incremento o vantaggio concreto nella mia vita professionale e personale avrei tratto dalla frequentazione assidua dei blog, che a lei risulti, Gerace? Oppure dobbiamo intenderci sulla definizione di potere. Forse per potere lei intende il riconoscimento di una comunità più ampia di quella del manipolo di commentatori (più o meno compiacenti, a parte rare eccezioni: non per caso Alcor e giuliomozzi, che di blog avrebbero certo più titoli a parlare di Donnarumma, ma anche della sottoscritta, per anzianità di frequentazione) qui radunati. E quel potere si conquista con gli anni, con la formazione, l’apprendistato, i riconoscimenti sul campo. Ma non è un vero potere se non si esercita in nessun modo: si figuri, Gerace, che la mia unica arma riconosciuta, nei blog, è l’essermi riservata di non rispondere al tale o alle questioni che trovo meno interessanti. Poi, mi pare veramente volgare stare sempre a insinuare che uno dalle attività che svolge debba sempre ricavare un tornaconto. Non si ricava proprio niente, dal partecipare alle discussioni in rete, specie negli ambienti lavorativi cui afferisco io, nei quali piuttosto ci si scredita. (Poi perché nevrosi o abnegazione? Fa così ribrezzo chiamarla passione?) E allora: basta con le insinuazioni, e basta pure con quell’antipatica della Policastro, che poi però fa sempre gioco, se aiuta il numero dei commenti a lievitare.
@Policastro
Se ho capito bene, lei si situa tra Roy Batty e Simona Ventura:
«Ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare…
E poi sono una grande professionista della rete: porto pubblico, audience, contatti, esperienza, vivacità e anche un po’ di sex-appeal.
E ringraziatemi: che vi faccio la guest star gratuitamente, senza chiedervi di pagarmi il cachet (che degli sfigati come voi non potrebbero nemmeno permettersi)»
“imperatore che pacatamente condanna a morte col pollice in giù.”
“Lui non ha avuto bisogno di tirare fuori niente, se non il suo bel pollice da articolista per decretare che non avevo diritto a essere trattato come un interlocutore alla pari. Dimmi tu da che parte sta la violenza, quella vera, quella che si sente davvero perché non è un episodio, ma una pressione costante.”
“(“sei giovane, ergo le tue idee sono di serie B”), ma esercita su di me tutta la violenza che ha a disposizione.”
questo mi sembra sintomatico del tuo atteggiamento (usiamo un eufemismo) sulla difensiva, pronto a parare con sdegno attacchi invisibili, forse perché inesistenti. la violenza nell’intervento di giunta, basta un minimo di competenza linguistica e stilistica, di fatto non esiste. chiunque può andare a leggere gli interventi incriminati e avere conferma empirica di quanto affermo. un po’ di attinenza al testo, suvvia.. detto, lo premetto, senza alcun intento aggressivo o violento, ma solo perché la situazione da te descritta è un po’, come dire, di parte.
in secondo luogo, perché ti dispiace che il richiamo all’ordine venga da uno studente? anzi, proprio perché viene da un individuo che non ha interessi o poteri dalla sua parte, e che quindi non ha nessun vantaggio o tornaconto a “richiamarti all’ordine”, dovrebbe farti riflettere sull’evidenza dell’atteggiamento da te assunto.
“Non vi fidate mai”, dice uno dei professori che stimo della mia Facoltà, “dei professori che danno del tu agli studenti e degli studenti che vogliono continuare a dare del lei ai professori”. Tempi duri.
non ho capito questa frase nel contesto dell’intervento: me la potresti spiegare, per favore?
un caro saluto
@ Averroè
Spero proprio che lei metta insieme le sue idee, perché la sua interpretazione è molto interessante. Tra i vizi della comunicazione in rete, c’è anche l’impossibilità di argomentare distesamente. Dovrei pensarci ancora, ma al momento non sono del tutto d’accordo con lei. È vero che la mistura oralità-scrittura è paradossale e innaturale; ma non so se sia la causa (capisco bene?) di tutti i guai che elenchiamo. Penso infatti che blog & forum funzionino così proprio perché uno scrive, proprio perché quell’uno assume la posa di chi scrive, soprattutto se non trova altri luoghi (o altri luoghi potenzialmente così visibili) su cui rendere noto ciò che si scrive. In questo senso, quella di cui parlo è proprio una patologia della scrittura, piuttosto che del suo ircocervico connubio con l’oralità; e una patologia dell’intellettuale, o di chi ha ambizioni intellettuali. In questo senso, il mio vero bersaglio polemico non erano i blogger e i troll, ma i critici letterari ufficiali che lo diventano.
Su anonimia & C. non mi ricredo, stia tranquillo. Per me, è una tentazione respinta visto che la giudico meno efficace della schizofrenia a proprio nome. Non ho fatto marcia indietro, anche se certo ho visto più cose e meglio: e poi, mi piace mettermi dal punto di vista di chi la pensa all’opposto di me. Ogni tanto, almeno. La questione sollevata dalla storica del diritto di cui lei parla (a proprosito, chi è? non ci dà un po’ di bibliografia anche lei?) è davvero decisiva: per questo, non mi permetterei di liquidare la questione dei nick con il sorriso, l’alzata di spalle, il «passerà». Si tratta di un problema di stile di pensiero e di scrittura, di politica, e di filosofia. E hai detto fischia.
@ Mozzi
1. Anche l’Odissea si può ridurre a uno svelto «Ulisse torna a casa», e potremmo riscrivere Proust con lo stile di Giulio Cesare. Ma non sarebbe la stessa cosa. (Sa che prevedevo la sua replica? Infatti avevo approfittato del suo intervento per bignamizzarmi. Prevedo pure che lei non mi faccia notare che non sono né Omero né Proust – perché questo, purtroppo, lo sanno anche quelli del censimento).
2. Ah, se è per questo lei non è neppure il personaggio Giulio Mozzi che si muove e parla in «Sono l’ultimo a scendere».
3. Perché intendevo parlare proprio di certi blog e forum. Magari, però, lei è del tutto soddisfatto di come va Vibrisse e non sente il problema.
@ Policastro
Tornaconto della nevrosi è, come sai, Freud: che in effetti, più che «veramente volgare», era un vero sporcaccione. Sono un po’ fermo al palo della scuola del sospetto.
Ma sì, ma sì: siamo tutti appassionatissimi. Tu chiamale, se vuoi, emozioni.
Sei carina a immolarti all’audience.
Per il resto, hai ragione: basta. In effetti pensavo avrei chiuso i miei interventi con il commento di ieri sera. Però, mica ti chiedevo di confermare così puntigliosamente quello che ho scritto sopra! (Ess.: «Comedìa!»; «Tzè! Ha scritto la Vita nuova, il Convivio, le Epistole e le Rime, tra le quali merita particolarissima menzione lo strenuo esercizio stilistico delle ‘petrose’»).
Non sempre un ergastolano o un secondino è la persona che ti sa spiegare meglio come funziona un carcere. Foucault non l’hanno mai messo in gattabuia, né mai mandato ai matti.
@Averroè
Gentile filosofo, i suoi commenti sono spesso interessanti, ma smetteremo di leggerli se non la finisce con quelle battute sessiste e misogine verso la Gilda Policastro .
@ Policastro: “Che (Donnarumma) si trovi o meno in una posizione di rilievo rispetto alla discussione che ne è seguita, il post non diceva nulla di nuovo, e conteneva, anzi, elementi già superati dalla discussione attuale sulle dinamiche della rete”. “E quel potere si conquista con gli anni, con la formazione, l’apprendistato, i riconoscimenti sul campo”.
È ridicolo appellarsi all’assiduità di frequentazione, all’apprendistato e alle promozioni sul campo per quella che resta una semplice “discussione pubblica”. Non siamo in un salotto, nella bottega del Ghirlandaio, o nell’esercito napoleonico. Per entrare in un dibattito e farsi ascoltare non servono requisiti esoterici e diversi dal BUON SENSO. Che forse non è così ben distribuito in questo mondo, come mostrano alcune sue risposte, ma certo non sarà mai “superato”. Con buona pace della sua avanguardia bloggara.
Raffaele,
1. So che la mia risposta era prevedibile. Ma ho l’impressione che, nel caso specifico, il riassunto sia più chiaro ed efficace dell’originale.
3. La risposta non è congrua. Mi viene un sospetto: forse sarebbe più produttivo discutere attorno a questo o quel forum o blog chiamato per nome (o a un certo numero di forum o blog chiamati per nome), che andare avanti a parlare di “certi blog” senza farne il nome. Di solito, specificare l’oggetto della discussione aiuta. Come aiuterebbe, credo, tentar di specificare un po’ di più quale sia “il problema”.
Vengo al merito, a partire dal riassunto.
“a) che i blog letterari collettivi sono fintamente democratici, e che spesso riproducono i soliti, vecchi tramesti da clan”. Domando: è sufficiente scrivere che chi si dichiara “democratico” lo è “fintamente”, e che l’ “organizzarsi in gruppo per un comune obiettivo” è un “tramesto da clan”, perché ciò diventi vero? Non sarebbe il caso di illustrare, esemplificare, nominare?
“b) che il meccanismo dei forum è spesso vizioso, e ci induce tutti a una certa stoltezza”. Non frequentando forum aperti (ne frequento uno solo, altamente professionale e molto ristretto) non so che dire. Avanzo però un dubbio di principio su quel “tutti”.
“c) che il teppismo a volte non è un inciampo, ma la cosa intorno a cui il forum (e qualche blog) si costruisce”. I forum non so (vedi sopra). Non mi par di frequentare blog costruiti intorno al teppismo. Comunque dipende anche un po’ da ciò che si vuole intendere con la parola “teppismo”.
“d) che lo scopo di alcuni forum (e di qualche blog) è fare da valvola di sfogo per il disagio culturale, sotto la favoletta della libera espressione”. I forum non so (vedi sopra). Se al posto della parola “scopo” ci fosse la parola “funzione”, potrei dire: conosco (e non frequento) blog che effettivmaente mi pare facciano “da valvola di sfogo per il disagio culturale”. (La poesia e lo spirito, ad esempio).
“e) che la cosiddetta critica 2.0 deve ancora nascere, come dimostra il permanere di uno stile di pensiero (e semplicemente di uno stile) accademico”. Non sapevo che esistesse una “cosiddetta critica 2.0”. Non mi è chiaro, peraltro, in chi permanga “uno stile di pensiero (o semplicemente uno stile” accademico”, e dove questi stili vengano messi in opera. Si possono avere delle indicazioni?
“f) che scrivere per la rete di critica letteraria può essere il modo migliore per fare una critica letteraria seria, pulita e che parli al maggior numero di persone, ma solo a patto di ripensare davvero ai propri mezzi, ai propri oggetti, ai propri destinatari”. E’ una banalità: quando una certa attività cambia luogo, cambia mezzo di trasmissione, cambia pubblico ecc., un “ripensamento” è necessario.
“g) che anonimato, pseudonimia ed eteronimia sono un problema, ma anche una risorsa (questo l’ho scoperto soprattutto dai commenti)”. Dubito.
“h) che a leggere certi blog, e moltissimi forum, mi sento come il dott. Giulio Mozzi in «Sono l’ultimo a scendere»: solo che, a differenza del lettore di «Sono l’ultimo a scendere», non mi viene mica da ridere”. Il proverbio dice: “Se lo conosci, lo eviti”.
Nell’articolo leggo: “…Del resto, i blogger sono innocui perché fra loro non esiste un vero terreno di intesa. L’intesa, anzi, è mortale: il blogger scrive per distinguersi, ogni sua frase ha un valore di posizione. …”. Per la stessa ragione sarebbero innocui i frequentatori del bar che frequento anch’io. Ma costoro a me non sembrano innocui, perché l’individualismo sfrenato è al governo da vent’anni in questo Paese, e mi sembra che abbia nociuto assai.
Tento di porre la questione in altri termini. Nel momento in cui si esce dalle aule accademiche, o dalle pagine delle riviste, o semplicemente da casa propria, e si va in piazza tirandosi dietro una sedia, e ci si mette a parlare in piazza, è ovvio che si incontra di tutto. E’ anche ovvio che la situazione è nuova (se si è vissuti fin allora nelle aule accademiche o nelle pagine delle riviste o in casa propria) e quindi risulta difficile da governare. Si troverà una soluzione, immagino, lungo una di queste vie:
1. costruendo piazze riservate, o almeno protette;
2. imponendo alla gente convenuta in piazza per ascoltare e discutere precisi limiti e/o regole per la discussione;
3. diventando acrobati.
La terza via è la più ardua, e sospetto sia quella buona.
@Signorina Else, faccia uno sforzo, distingua fra dentro e fuori, fra la realtà in cui se si firma come può fare qui nel blog le ridono in faccia o chiamano la neuro, e un dibattito in rete. Parlavo della prima, evidentemente, riferendomi alle competenze riconosciute, che determinano poi la maggiore o minore autorevolezza in un determinato ambito ANCHE nella rete. Qui sta il problema e forse l’invidia del nome, da parte dei troll come lei: così si determina il paradosso secondo cui meglio sei corazzato (perché non vivi solo nei blog, ma hai un’identità ben determinata anche fuori) più sei bersaglio di attacchi violenti o di sarcasmi fastidiosi, perché non ci si capacita che esistano dei requisiti minimi chiamati, appunto, competenze, apprendistato, studio, documentazione, ricerca. ”Mi ci romperò la testa” (e 2).
@Donnarumma, non sarai Proust ma ti corrisponde a pieno la definizione di quel personaggio del ”guarito immaginario”: ora ti sei messo pure a linkare i video per chiudere la partita, com’è prassi consolidata delle quattordicenni nei da te vituperati social network! Che il tuo obiettivo polemico fosse il critico nella rete (la sottoscritta? Cortellessa? chi? converrebbe fare i nomi anche in questo caso, come t’invita a fare Mozzi rispetto ai singoli blog, perché non ce ne sono poi così tanti, di critici cosiddetti cartacei, a impegnare le loro energie e il loro tempo senza nessun tornaconto – insisto, e non facciamo i furbi, o altrimenti, spieghiamo – nelle discussioni in rete, mentre sono più tipiche di una stagione per fortuna al tramonto le posizioni protette e inaccessibili dei siti chiusi ai commenti) lo si è capito perfettamente, ma credo si tratti di un obiettivo scelto molto male, perché il critico nelle dinamiche del consenso costruite nella rete attorno a certe identità forti di scrittori o di autopromoter arrembanti non ha proprio la benché minima incidenza, esattamente come fuori dalla rete. E dunque non chiamiamole emozioni, ma passione, appunto, che è tutt’altra cosa, tu che hai letto pure un po’ di Leopardi, oltre a Freud. E anche qui, poi, l’impressione era che parlassi in modo astratto, con formule stereotipate sul narcisismo, l’esibizionismo, etc. e non per reale conoscenza dei dibattiti della rete. Torno a dire che la discussione fra Cortellessa e i Wu Ming sui generi letterari dello scorso anno su Lipperatura, pur con i caratteri dell’aspro scontro polemico, ebbe anche dei momenti di messa a punto di questioni teoriche di grande momento, oltre che segnalarsi per la massiccia partecipazione e il rilevante contributo dei cosiddetti common reader (che di quel sito nello specifico costituiscono la massima parte dei frequentatori) al dibattito su letterarietà e mainstream.
@ Policastro: “competenze, apprendistato, studio, documentazione, ricerca”
è l’ultima volta che le scrivo, perché dandole tanto spazio finiamo solo per fare il suo gioco. Ma vorrei precisare che la mia, di esperienza (mi guardo bene dal dirle quale, per evitare argomenti ad personam come quelli con cui aggredisce i Nomi che hanno la sventura di esserle noti), insegna il contrario: che più si hanno competenze oggettive, meno le si sbattono in faccia agli altri, nell’illusione che nascondano la povertà delle idee e delle argomentazioni.
Le sue liste di letture, di frequentazioni illustri e altri titoli di nobiltà (qui invece mi permetto di fare come lei: Cfr. P. Bourdieu, B. Latour, Gesù, Socrate) mi ricordano un po’ quelle danze tribali fatte per inibire l’avversario, se non fosse che gli All Blacks fanno la haka ma sono davvero i più forti.
http://www.menly.fr/wp-content/uploads/2010/09/all_black.jpg
Quanto al mio nick, è nato in reazione a un racconto qui postato in cui si narrava, come in Schnitzler, delle ultime ore di un suicida messo alle strette; ho poi pensato che nell’interesse del dibattito è sempre meglio conservare un’identità costante, per quanto fittizia. Ed è quello che faccio, evitando stupide illazioni sui nomi degli altri (anche perché possono sempre essere ritorte!).
Se la mia firma irrita tanto una Pasionaria del Nuovo come lei,
per questa volta mi firmerò suo
E.S.
@ Mozzi
Grazie. Inizio con una minima dichiarazione di poetica: diamo alle parole una limitata procura. Credo nell’utilità delle generalizzazioni, ma mica sono un totalitario dell’Idea! Se dico: mi piace da matti il gelato alla crema, lei può obbiettarmi che ci sono gelati alla crema da schifo, che persino io sputerei alla prima leccata. È vero: ma se tutte le volte sto a precisare quali gelati alla crema mi piacciono, capirà! ci sarebbe da spararsi (o da spararmi). Ribadisco: il mio era una saggio di psicologia culturale (e una satira) che, sacrificando i singoli, cercava una legge valida un po’ per tutti. Rimproverarmi di saltare le bibliografie e gli studi aggiornati è come scandalizzarsi perché sto in spiaggia in costume, anziché in completo di Calvin Klein e con la cravatta.
Nel merito:
a. in genere, tutti i blog aperti si presentano come democratici (escludo per questo le riviste on line sulle quali non si può intervenire – che so? Il primo amore). Di alcuni, vedo subito la paternità (es.: Vibrisse – Mozzi; Lipperatura – Lipperini); di altre è più difficile (es.: Nazione indiana). Anche di queste ultime però, uno può farsi una mappa, osservare presenze costanti, notare, diciamo così, flussi di energia, accordi, giochi di esclusione, mute contro l’estraneo. Ricordo una vecchia discussione su NI (http://www.nazioneindiana.com/2008/10/31/quid-credas-allegoria/), a cui ho preso parte, e di cui potrei spiegare proprio per questo come e perché A diceva a e B diceva b: cioè, per prendere posizione in una rete di rapporti. L’oggetto della discussione era pretestuoso, alla fine. (Non mi si dica che universalizzo un caso privato: sarebbe come se io dicessi che lei, visto che ha lavorato o lavora per Sironi ed Einaudi, non può dir nulla dell’editoria italiana in generale);
b. Vd. sopra. Personalmente, sono fra gli stolti – p. es. quando faccio le bucce a Policastro e ribatto a Ferracuti che mi dà del criticone cattivone. La più vera ragione è di chi tace;
c. Teppismo: «azione di vandalismo, molestia o di intralcio dell’ordine pubblico» (Wikipedia, s. v.). Sostituisca a «ordine pubblico» «discussione pubblica», a «vandalismo» «ingiuria, offesa personale, petizione di principio aprioristica (ess.: ‘chi dice nero è fascista’, ‘se hai in casa Céline sei antisemita’)». Guardi le discussioni nate da «Sull’equivalenza narrativa terrorismo:oscurità» di Brogi, sempre su LPLC, o questa stessa. Non le pare che, a tratti, si incaglino? Non le pare che qualcuno faccia provocazione per la provocazione, cerchi la rissa, tenda al personalismo? Se crede che questi termini siano più adeguati, sostituiamoli a teppismo. Nella discussione su NI di sopra (che ricordo bene perché c’ero dentro) ho visto però del teppismo vero. Secondo me, non sono accidenti casuali: è una delle leggi del funzionamento della discussione in rete, come la lite nei talk shows (che è una chiave di lettura adattissima);
d. vero;
e. di critica 2.0 si parla ormai abbastanza spesso (p. es. http://www.nazioneindiana.com/2011/03/24/verifica-dei-poteri-2-0/). Un esempio di persona molto attiva sul web e che mantiene una postura e uno stile accademici (ma giocando con accortezza anche con la sua autorappresentazione mediatica) è, tanto per non andare lontani, Gilda Policastro (per carità: lo dico senza alcuna valutazione e, anzi, per sottolineare un caso molto interessante). In genere, tutta una ritualità di citazioni, omaggi, note, bibliografie, parole d’ordine, circonlocuzioni, diatribe, patenti di affiliazione, ascrizioni a scuole e riparo-all’ombra-dei-maestri a me fa accademia: invece, soprattutto in rete si potrebbe discutere andando prima e meglio al sodo;
f. sarà una banalità: lo è anche che rubare non è bello; se mi arrestano per furto chiamo lei come avvocato difensore?
h. infatti, per anni mi sono ben guardato dall’intervenire, in qualsiasi modo e in qualsiasi forma. Ora mi ci hanno ritrascinato quelli di LPLC, ma, le dirò, sono loro grato;
i. innocui: nel senso che li si fa sfogare dandogli l’illusione di smuovere chissà quali acque, ma senza che questo cambi davvero le cose. Gli si fa credere e loro pensano di essere i sanculotti che irrompono a Versailles; invece, sono i contadini che guardano il ballo di qua dai finestroni, alla Vaubyessard. I giochi si decidono fuori dal web: sui giornali, nelle case editrici, per qualcosa nelle università; insomma nelle vecchissime e ben poco punto zero istituzioni culturali. Discuto con amici che mi dicono: sul web sono nate e si sono affermate personalità intellettuali o di scrittori nuove, che hanno cambiato il modo di parlare di letteratura. Mica tanto; o non ancora. Lei, o Genna, o Lagioia (TQ, M&M) eravate già Mozzi, Genna e Lagioia prima di arrivare al web. Avete fatto da traino voi al mezzo, non viceversa. I casi contrari che mi vengono in mente (es.: Michela Murgia) sono eccezioni.
Infine:
e non le pare che io sia qui, sul mio filo teso, con sotto le bestie feroci pronte a sbranarmi, col pubblico pronto a prendermi a pomodorate? Spero di non cascare. A tratti, è una bella sensazione.
@ Policastro
Ti ho tirato in ballo sopra (con rispetto), ma questa storia del «facciamo i nomi» è una trappola bloggara per ridurre tutto a una lite tra Tizio e Caio. Non mi piace per niente.
Sul ‘critico come obiettivo polemico scelto male’: vabbè, allora prendiamocela solo con i dirigenti di Mondadori o, già che ci siamo, con Berlusconi e il Capitale. Sono d’accordo sulla minima incidenza: ma a me sembra che la prosopopea professorale sia appunto una compensazione (fasulla) alla minima incidenza. E quindi: i critici-venduti-al-mercato non hanno bisogno della rete, perché sanno che non conta ancora; chi celebra la rete come la rivoluzione piglia lucciole per lanterne; se tutto deve risolversi in un’occupazione del Potere editoriale o culturale, bene, avvincente come un romanzo di Balzac, ma è una lotta a cui fatico ad appassionarmi. Se poi mi chiedi un pezzo contro i critici del consenso, d’accordo: ma una patata bollente per volta! (Ne ho scritti, comunque, in passato).
Il dialogo Cortellessa-Wu Ming-restodelmondo è un bell’esempio. Anche questa discussione, a tratti, lo è (e anche meglio, perché alcune delle posizioni più interessanti, secondo me, vengono da ignoti).
Sulle formule del narcisimo e dell’esibizionismo: sarà banale dire che a mezzogiorno nel Sahara si crepa di caldo, però si crepa di caldo sul serio. C’era comunque uno sforzo stilistico per riscattare quei luoghi comuni.
Scusa, ma l’hai aperto il link? Certo tu e l’umorismo siete come la morte ed Epicuro; e non so se la morte ti fa più bella.
Baciuz! Gaga97
@Alessandro, Sara, Silvia, Federico
Averroistae non sunt sexistae: gli averroisti aderiscono da sempre e indefettibilmente all’intelletto unico e separato. E da queste altezze il sesso di chi si sforza di connettersi alla mente universale conta ben poco. Non lo vediamo nemmeno. Tutti gli averroisti sono democraticamente e indiscrinatamente nemici di chi dice io, e combattono con somma indifferenza i soggetti di ogni sesso, colore, nazione e confessione. Sono democraticamente snob. Maschi, donne, etero-, bi-, omo-, gay, lesbo, trans, indecisi, perversi polimorfici: abbiamo uno sguardo per tutti. La nostra generosita’ critica è infinita.
Scherzi a parte, capisco perfettamente le vostre preoccupazioni e le condivido in pieno, ma attenti a non cadere nelle trappole. Ironizzare su un utente con un nick o un nome femminile non significa essere misogini. Essere misogini significa invece fare del proprio “essere donna” una tesi, un argomento, una giustificazione e un capitale simbolico non per rilanciare la questione femminile (come sarebbe sacrosanto in un paese dove la donna è ormai una specie in via di estinzione, costantemente minacciata da mamme e puttane) ma a favore di se stessi e della propria autopromozione.
Per tornare a parlare della cosa stessa, spiegatemi perche la traduzione automatica dall’arabo del messaggio postato deve aver giocato brutti scherzi. Quali sono i passaggi sessisti? Il riferimento a Simona Ventura? O il sex appeal che persino Berlusconi ritiene di possedere in larga misura? A noi sembra che le strategie di autopromozione non hanno sesso e sono sia nei masculi che nelle femminucce molto fastidiose. E dannose sia per i masculi che per le femminucce.
(questo post è troppo divertente)
PS: Per evitare di dare l’impressione di parlare solo con le conventicole, mi rivolgo direttamente anche a @ Policastro, stavolta però con un’accorata richiesta di risposta.
Quanto ha irritato me (e non credo di essere stato il solo) nei suoi commenti è il fatto che Lei continua a rimandare a queste benedette discussioni esoteriche avvenute anni fa su altri blog, o a saggi decisivi sottolineando il suo disappunto per il fatto che nessuno in questa stanza virtuale li conosca, senza mai parteciparci in maniera chiara e concisa del contenuto di questi Concili di Saggi avvenute in luoghi lontani, e comunque fuori dalle nostre latitudini.
Ora, se si limita a fare così, è normale che la gente pensi che il suo obiettivo sia solo quello di ricordare a tutti la nostra ignoranza di Lurker, di autoglorificare la sua esperienza e la sua erudizione (rigorosamente 2.0) di smascherare il dilettantismo di noi poveri romantici che crediamo ancora al senso comune e alla cultura fai da te.
Perché non prova a spiegare in poche parole, in pillole, in massime comprensibili anche a noi perché mai gli argomenti di @Donnarumma sono superati e perchè la Sua posizione sarebbe più al passo con i tempi per una volta senza difendersi dietro un’autorità più grande? Per dirla in maniera un po’ più secca: continua a sciorinare la sua «reale conoscenza dei dibattiti della rete» ma per ora, a parte dirci che questo sapere si trova su altri siti non ce ne ha comunicato nemmeno una briciola. Non può stupirsi se qui qualcuno si insospettisce e pensa che si tratti della strategia di chi affastella nomi perché non sa come rispondere alla domanda. Insomma: spieghi, ma con parole sue, non inanellando note a piè di pagina.
Per farle un esempio concreto: lei ha ripetutamente spostato l’attenzione dalla rete al mercato e ai grandi gruppi editoriali, ed è stata contestata da molti (me, @Donnarumma, @errebì ecc.) perché di fatto parla del Mercato (anche del mercato editoriale) in modo più sostanzialista di un liberista, come se si trattasse di un’Entità Autonoma e Autoorganizzantesi. Errebi glielo aveva già fatto presente (http://www.leparoleelecose.it/?p=727#comment-168), ma lei rispondendo si è limitata a ripetere un po’ meccanicamente un paio di tesi del libro Schiffrin, come se tutti debbano per forza essere d’accordo con uno dei tanti editori americani che sono stati scottati dal mercato. E non ha mai, ripeto, mai, provato nemmeno un istante a prendere sul serio le tesi opposte: «sono banalità» dice lei commentando le tesi di @Donnarumma. Guardi che anche il libro di Schiffrin ripete molte banalità per chi (non è l’unica ad avere accumulato competenze) ha lavorato nell’editoria. Se continuiamo così non si lamenti delle manganellate. E’ lei che picchia per prima.
Mi annoia molto @ Averroè seguirla in questo (inutile, odioso, avvilente, poverissimo, gratuito, ozioso) gioco al massacro: se vuole avviare un confronto serio sui temi che enuclea dovrà, senza deroghe, tornare alla serietà di una discussione ad armi pari e dunque, non dico che ”converrà che lei si nomi”, ma perlomeno che depuri il suo linguaggio dagli epiteti sessisti e dai giudizi non richiesti: se vuol essere considerato un interlocutore credibile malgrado la maschera si scusi, tanto per cominciare, per aver tirato in ballo il sex-appeal in riferimento alla mia persona, oppure spieghi dove, eventualmente, lo avrei adoperato io nella discussione svoltasi finora. Già che c’è, si scusi anche per aver definito il mio stile ”oggettivamente involuto”, dal momento che in nessun contesto mai mi è stata fin qui imputata tale menda (che dunque così oggettiva non è: le pare?). Proseguendo, toglie dal mio nome l’etichetta 2.0 e si documenta sul mio percorso critico, come le è consentito fare, dal momento che non mi chiamo Signorina Else (e meno male che mi/ci ha spiegato come e perché, via, così adesso ci possiamo meglio regolare). Infine, visto che ha seguito con cotale acribia la mia vita di redattrice de LPLC mi fa la cortesia di rileggere con attenzione i miei commenti precedenti, magari anche quelli postati altrove, e poi, e solo a questo punto, se non vi ravvisa le risposte che cerca (ma sono fiduciosa: vedrà che le trova tutte), mi interpella nuovamente. Questo è il mio tempo, e lo impiego o lo spreco a mio discernimento, e non certo sottostando ai fraintendimenti pretestuosi o agli esamini intimidatori di Signorine Else e Averroè del caso. Tanto più paradossale, trovarsi in tale situazione, sotto un post che partiva, tra l’altro, dalla stigmatizzazione dei nick e delle pratiche perniciose di esibizionismo e di esercizio muscolare nelle discussioni in rete, per poi fornirne un esempio in atto tra i più avvilenti (oltre che l’ennesima, non richiesta dimostrazione delle tesi di Lanier sull’accerchiamento delle posizioni contrarie, e sulla riduzione a oggetto di scherno dell’avversario), e dirsene, alla fine, complessivamente entusiasta. Lasciate divertire anche me, allora: ma così, altro che manganellate, mi pare il solito bau-bau che conosco (e combatto) da anni, e mi vien piuttosto da lasciar grattar dov’è la rogna…
@ Raffaele Donnarumma
Provo ad esprimere alcuni pensieri, tenendo a precisare che per essere sintetico potrei eccedere nei toni ( oltre a sbagliare comunque il tiro ):
Il problema principale che si nota nel suo testo è la confusione. Nei blog letterari che conosco io non si è mai verificata la serie dei commenti da lei inventati ( d’accordo che è una satira, ma sarebbe adatta ad altri blog ). I commenti sono moderati o in partenza o comunque nel corso della discussione ( è evidente che il gestore fa la differenza, ma come anche il numero dei visitatori, della loro frequenza nel commentare come nel rapporto tra lettori e commentatori ). Soprattutto, e qui io porrei una distinzione fondamentale, con l’andare del tempo si nota che i commentatori sono in larga parte gli stessi. Si crea un rapporto di base, quando non un’amicizia o cose del genere. Questo fa anche la differenza a proposito dei nickname. Uno che commenta sempre con il proprio alla fine lo riconosci.
I picchi massimi negativi per quanto riguarda i commenti io li vedo in Youtube. Youtube sta a Vibrisse come il peggior bar di Caracas sta al (boh?) Il Bar Sport.
La regola generale è quella dell’entropia, laddove la vita prova a remare contro. E i blog che leggo io sono vivi.
@ Lorenzo Marchese: Mi fa piacere parlare con te, e – a proposito dell’argomento dell’articolo di Giunta – devo aggiungere alle necessità delle facoltà italiane un maggiore scambio interno e confronto fra gli studenti di università diverse. Paradossalmente, è più facile incontrare un professore di un’altra università italiana o uno studente straniero (attraverso iniziative come l’Erasmus), che un collega di un’altra università italiana. Questo innanzitutto.
Poi: non starò a dirti “suvvia, un po’ di linguistica pragmatica”, perché avevo appunto in mente di chiedere al Prof. @Donnarumma di spiegare alla Dott.ssa @Policastro che sciorinare una bibliografia e un pedigree non è di per sé un argomento critico. Magari con un nuovo post: “Aboliamo le bibliografie nei blog letterari”. No, perché qui siamo a livelli di schizofrenia critica invidiabile: prima si respinge per il proprio stile la qualifica di “accademichese” e si invita a entrare nel merito delle questioni, senza aggrapparsi alle microsviste dei commenti, poi si infilano (sempre nei commenti) tirate di bibliografie e pedigree a più non posso e ci si rifiuta (aggrappandosi a microbattutine, decontestualizzandole, nello spirito del femminismo più becero) di entrare nel merito della questione. Mi ricorda un po’ quelle studentesse (o quegli studenti!) che studiano a memoria e che, alla prima domanda difficile da parte del professore (o della professoressa!), non sanno fare altro che citare punto per punto il programma d’esame. Per quanto riguarda la questione delle insinuazioni, Dott.ssa Policastro, quelle se l’è inventate lei e non mi appartengono: dunque lei si risponda. Il potere di cui parlo io deriva dal punto di emissione dei suoi messaggi: non c’è bisogno di avere un tornaconto materiale per esercitare un potere. Il fatto che lei sia nella redazione di questo blog e che abbia (fuori) il curriculum di cui lei parla (sa che ho cercato un suo libro nella mia biblioteca? Non sono riuscito a trovarne nessuno! Lo dirò alla bibliotecaria, che dice che la nostra è la biblioteca universitaria di settore più fornita d’Italia: “possibile che manchino i pezzi della Policastro?”) le permette di non rispondere ai miei commenti senza intaccare (formalmente) l’autorità delle cose che viene dicendo nei suoi post; invece, se io adesso decido di non rispondere a lei, non faccio altro che dare risalto alle sue affermazioni. Questo è il potere di cui lei dispone: lei non ha niente da perdere (e quindi le critiche se le deve beccare tutte, dalla prima all’ultima, senza lamentarsi ma rispondendo).
Ancora @Marchese: per Giunta, vedi sopra quanto ho detto alla Dott.ssa Policastro, ché vale anche per i maschietti. L’analisi linguistica e stilistica non basta: ci sono fattori che vanno oltre e insieme al testo, ma che non sono nel testo. Il problema, credo, della tua incomprensione è che siamo troppo abituati a farci trattare così dai docenti: ma su internet no, qui non va bene, altrimenti siamo nella solita ipocrisia. Almeno qui si dovrebbe partire da una parità in partenza fra gli interlocutori: non voglio la risposta come una concessione da parte di chi si piega gentilmente a fare divulgazione, voglio la risposta meditata di chi è realmente interessato al problema. La frase del professore significa: i docenti, dandoti del tu, non smettono comunque di farsi dare del lei, e quindi togliendoti la forma di cortesia non fanno che acuire in te la sensazione della tua subalternità; gli studenti dovrebbero desiderare un confronto alla pari coi professori (non in base a una parità di competenze che ovviamente non si dà, ma in base alla considerazione dell’eguale passione, dell’eguale interesse, dell’eguale – fino a prova (?) contraria – intelletto di cui dispongono). Mi dispiace che tu contravvenga questo auspicio.
@alcor: la generalizzazione (“sempre”) appartiene a lei, e io a quella ho risposto. E a partire da qui la mia mi pare più una dimostrazione deduttiva, che una risposta. Del resto, mi rendo conto di essere fra i pochi a vedere tra le due cose un collegamento quasi diretto: ma questo è perché non sono abituato a prendere la letteratura come uno scherzo.
@Averroè e @Signorina Else: volevo dirvi che mi sto affezionando a voi, e che già per questo motivo mi dispiace che usiate uno pseudonimo.
Chiedo scusa: per vari motivi non ho ancora letto per bene il post di Donnarumma e i relativi commenti, e son partita dal fondo. leggerò dunque con attenzione, tuttavia tutto quello che può essere stato scritto prima non può certo dare fondamento di civiltà e di cortesia al tono davvero inaccettabile che Roberto Gerace usa nell’ultimo commento, appellando con stizza Policastro come dottoressa rispetto al “Prof “Donnarumma. (tra l’altro, son convinta che anche Donnarumma troverebbe offensivo questo modo). Policastro, intanto chiedo scusa io.
@ Brogi: Mi dispiace che sia stata percepita un’offesa di cui le mie parole non volevano farsi carico. Adesso che lei mi fa percepire questa possibile interpretazione delle mie parole, non posso che far presente la mia scarsa dimestichezza con i titoli accademici e le relative suscettibilità. Questo è un altro degli inconvenienti di chi non ha poteri. Non mi scuso però dell’offesa, che è tutta nella sua interpretazione. Semplicemente, ho obbedito alla richiesta della Dott.ssa Policastro di documentarsi sui suoi titoli, e ne ho fatto filologico uso. Ripeto: le insinuazioni non appartengono al mio repertorio, né mi sembra di essere stato qui io quello che fa uso di falsi argomenti.
@ Daniela Brogi
Legga tutti i commenti: si tranquillizzerà.
(E se non avesse tempo, il succo della questione è questo verso di Battiato: “C’è chi si mette degli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero”)
Ancora @Marchese: per Giunta, vedi sopra quanto ho detto alla Dott.ssa Policastro, ché vale anche per i maschietti. L’analisi linguistica e stilistica non basta: ci sono fattori che vanno oltre e insieme al testo, ma che non sono nel testo. Il problema, credo, della tua incomprensione è che siamo troppo abituati a farci trattare così dai docenti: ma su internet no, qui non va bene, altrimenti siamo nella solita ipocrisia. Almeno qui si dovrebbe partire da una parità in partenza fra gli interlocutori: non voglio la risposta come una concessione da parte di chi si piega gentilmente a fare divulgazione, voglio la risposta meditata di chi è realmente interessato al problema. La frase del professore significa: i docenti, dandoti del tu, non smettono comunque di farsi dare del lei, e quindi togliendoti la forma di cortesia non fanno che acuire in te la sensazione della tua subalternità; gli studenti dovrebbero desiderare un confronto alla pari coi professori (non in base a una parità di competenze che ovviamente non si dà, ma in base alla considerazione dell’eguale passione, dell’eguale interesse, dell’eguale – fino a prova (?) contraria – intelletto di cui dispongono). Mi dispiace che tu contravvenga questo auspicio.
in risposta a ciò, mi preme sottolineare come tu creda male. io non sono abituato a farmi trattare dall’alto in basso dai docenti. il rapporto paritetico è per me essenziale, tant’è che me ne sono andato dalla mia precedente università, fra gli altri motivi, perché mi sembrava che i professori non lo praticassero granché e vigesse invece una deferenza acritica nei confronti dei venerati maestri.
per inciso, mi sono trasferito a pisa: quindi ho la vaga impressione che frequentiamo lo stesso ateneo, visto che prima hai decantato la benedetti.
pour conclure, non contravvengo affatto al tuo auspicio, che anzi applaudo e applico ogni giorno, per quanto la mia parola possa valere. ma gli interventi che ho visto finora mi parevano seguire questa linea: se non sei d’accordo, amen: non sarò certo io a convincerti, magari c’hai anche ragione e io non lo so=) rispettosamente
@Lorenzo: mi piacerebbe conoscerti a questo punto, visto che potenzialmente seguiamo addirittura gli stessi corsi. Se ti va, scrivimi tranquillamente a roberto.gerace@email.it per un caffè o altro. Giuro che di persona non sembro né sono così violento come mi dipingi!
@Marchese hai una fantastica sintassi rum e pera!
@Brogi lasciali perdere, ma ti quotiamo
Raffaele, scrivi: “Se dico: mi piace da matti il gelato alla crema, lei può obbiettarmi che ci sono gelati alla crema da schifo, che persino io sputerei alla prima leccata”. L’esempio mi pare inappropriato. Quello appropriato è: “Mi piace da matti il gelato alla crema di certe gelaterie”. Al che io domanderei: “Quali?”.
Scrivi ancora: “Rimproverarmi di saltare le bibliografie e gli studi aggiornati è come scandalizzarsi perché sto in spiaggia in costume, anziché in completo di Calvin Klein e con la cravatta”. Perché mi attribuisci un “rimprovero” che non ti ho fatto? Qual è l’utilità di questa attribuzione?
E comunque: lo dici tu, che qui siamo in spiaggia. A me pare che una pubblicazione che si presenta come si presenta (qui) Le parole e le cose sia paragonabile più a un caffè triestino (il San Marco, ad esempio) che a una spiaggia.
Nel merito.
“In genere, tutti i blog aperti si presentano come democratici (escludo per questo le riviste on line sulle quali non si può intervenire – che so? Il primo amore)”. C’è qualcosa che mi sfugge. Come si distingue un blog “democratico” da uno “non democratico”? Sono forse “non democratici” i blog che non permettono commenti? “Aperto” e “democratico” sono in questo contesto pressoché sinonimi?
Cito da vibrisse: “I commenti in vibrisse funzionano così: la prima volta che inserite un commento, sarete messi in lista d’attesa. Una volta accettato un vostro primo commento, tutti i successivi saranno pubblicati immediatamente (a meno che non li firmiate con altri nomi, altre email, altri link). Tutti sono invitati a firmare i commenti per esteso. I commenti anonimi potranno non essere accettati. I commenti con email fasulle non saranno accettati. I commenti insultanti non saranno accettati. I commenti che contengano più di due link saranno automaticamente catalogati come spam. I vostri indirizzi elettronici non saranno mai resi noti, né ceduti a terzi.”
L’esempio da Nazione indiana mi sembra viziato da questo: che il punto di partenza della discussione era già – mi pare – un “prendere posizione in una rete di rapporti”. E’ comunque un ottimo esempio di ciò che succede nel campo letterario. Non mi turba il fatto che, dentro al campo, tanti stiano lì continuamente a definire e ridefinire, a contrasto con quelle degli altri, la loro posizione. Il campo funziona così. Non vorrei sembrare kleiniano, ma: c’è una vasta bibliografia in proposito.
Allora diciamo: forse le pubbliche discussioni in rete hanno portato alcune persone, abituate a giuocare il loro gioco di distinzione nella penombra, a giocarlo in pieno giorno. Non essendo abituate a tanta luce, tali persone hanno commesso qualche passo falso: si sono scoperte, hanno esibito il gioco, lo hanno reso trasparente; e molti se ne sono accorti.
Questo, se è così, è interessante.
La questione è dunque: come si può continuare il gioco alla luce del giorno, e tuttavia in penombra?
“Guardi le discussioni nate da «Sull’equivalenza narrativa terrorismo:oscurità» di Brogi, sempre su LPLC, o questa stessa. Non le pare che, a tratti, si incaglino? Non le pare che qualcuno faccia provocazione per la provocazione, cerchi la rissa, tenda al personalismo?”.
Oh, sì.
Poi, come va la discussione, dipende dalla capacità dell’articolista di influenzarla con la propria autorevolezza; di gestirla tenendo fuori i “teppisti” o smorzandone l’azione; di mantenere la calma (nel proprio cuore come nel blog).
“Vero”.
Bene. Distinguiamo dunque tra “scopo” (parola che implica un’intenzionalità) e “funzione” (parola che non ne implica alcuna).
Sento un po’ il pericolo che la questione della “critica 2.0” venga ridotta a una faccenda di “stile”. Dubito assai che “in rete si potrebbe discutere andando prima e meglio al sodo”: quanto più il pubblico (potenziale, almeno) è indifferenziato, tanto più bisogna – prima di “arrivare al sodo” – spiegare circostanze, fornire inquadramenti generali (anche solo sotto forma di rinvii ad altre pagine), eccetera.
Secondo me è opportuno riflettere piuttosto sull’aspetto etico. Scrivere e pubblicare nella rete è un’esperienza nuova, che comporta relazioni di nuova forma con chi legge. Leggere ciò che si pubblica in rete è un’esperienza nuova, che comporta relazioni di nuova forma con chi scrive. La sanità delle conversazioni dipende dalla disponibilità di entrambe le parti a cercare il comportamento più sensato, nonché nel considerarsi non del tutto competente nell’uso del mezzo. E così ho detta anch’io la mia banalità.
Scrivi: “Discuto con amici che mi dicono: sul web sono nate e si sono affermate personalità intellettuali o di scrittori nuove, che hanno cambiato il modo di parlare di letteratura. Mica tanto; o non ancora. Lei, o Genna, o Lagioia (TQ, M&M) eravate già Mozzi, Genna e Lagioia prima di arrivare al web. Avete fatto da traino voi al mezzo, non viceversa. I casi contrari che mi vengono in mente (es.: Michela Murgia) sono eccezioni”. I tuoi amici hanno senz’altro torto, per la ragione che tu adduci. Avrebbero qualche ragione se dicessero che “il modo di parlare di letteratura” è un po’ “cambiato” da quando alcune “personalità intellettuali o di scrittori” hanno deciso di provare a vedere cosa succedeva usando la rete; e se dicessero che ad esempio del Mozzi, chi lo seguisse in rete, vedrebbe qualcosa di piuttosto diverso da ciò che vede chi legge i suoi libri. Che relazione c’è tra il narratore romantico e sentimentale di Questo è il giardino (1993) e l’algido nevrotico che scrive il presente testo? Che c’entra la rete con questa evoluzione? (Ma già nel risvolto di copertina di Questo è il giardino fornivo il mio indirizzo di casa, mi rendevo reperibile – e fui reperito, infatti).
Sull’acrobazia. “e non le pare che io sia qui, sul mio filo teso, con sotto le bestie feroci pronte a sbranarmi, col pubblico pronto a prendermi a pomodorate? Spero di non cascare. A tratti, è una bella sensazione”. Ecco: questa immaginazione delle “bestie feroci pronte a sbranarmi” del “pubblico pronto a prendermi a pomodorate”, proprio mi è estranea. Io son qui che parlo, cerco di farlo meglio che posso, da qualche parte ci sono – spero, e l’esperienza conferma la speranza – di trovare degli amici con i quali parlare.
Ciascuno, poi, trova ciò che cerca.
@Policastro
Evito di infierire sul suo ultimo messaggio: solo leggendolo provo imbarazzo per lei. Vuole forse che sguinzagli qualche amico del Mossad per documentarmi adeguatamente del suo “percorso critico”? E nel frattempo con che titolo dovrei rivolgermi a lei? Onorevole, Sua Eminenza, Magnifica Rettore Policastro? O mi darà anche stavolta del sessista?
Si scordi di avere da me delle scuse. E soprattutto non si lagni di ricevere «giudizi non richiesti»: da quello che scrive si desume che lei fa il critico di professione e dare «giudizi non richiesti» è il suo mestiere. In queste pagine ha sciorinato liberamente tutti i giudizi non richiesti che riteneva opportuno dare e nessuno le ha mai chiesto di chiedere scusa a nessuno. Lo ha fatto con Sortino, Franzen, Veronesi, Manzon, Frasca, le case editrici Mondadori ed Einaudi, i «romanzi nostrani», Donnarumma, la signorina Else, Gerace, e tutti gli interlocutori privi della sua invidiabile cultura mediatica. Non è mai stata tenera, ma non l’ho mai vista scusarsi. Ora fa la permalosa, e pretende che gli altri bambini non tocchino il suo giocattolo e si scusino con lei. È sempre il suo percorso critico che glielo suggerisce? E’ per la reintroduzione dei titoli di nobiltà, Madama?
Forse il problema è solo culturale: noi arabi siamo tremendamente arretrati. Per esempio, nessuno tra di noi pensa che prima di rivolgere la parola a un’altra persona per controbattere ciò che ha detto o criticarla sia necessario essere informati su tutto il suo percorso critico. Pensi, da noi non è nemmeno necessario conoscere il nome anagrafico. E c’è addirittura qualcuno che chiama questo costume di rispondere senza badare al titolo e al «percorso critico» di chi ti parla «l’arte suprema», e gli ha dato un nome strano, che viene dal greco: «falsafa». In italiano: filosofia.
Vengo subito all’epiteto presuntamente “sessista”. Un tempo a scuola si insegnava la logica. E si insegnava anche che chi discute fa leva su di sé, sul proprio titolo, sulla propria esperienza, sul proprio «percorso critico», sulla propria persona e non sulle idee che è capace di esprimere autonomamente, non sta argomentando, non sta discutendo e non sta nemmeno pensando: sta barando, sta cercando di sedurre l’altro.
La seduzione può stare ovunque. E non ha nulla a che vedere con un’essenza femminile. Sta seducendo anche chi, per esempio, si trastulla col name dropping e invoca l’aura, il prestigio, il fascino misterioso del gruppo degli Altri a cui lei appartiene. Seduce, perché invece di spiegare in modo elementare quello che vuole dire vuole prova ad affascinare, intimorire chi gli sta di fronte: passa dal registro conoscitivo a quello erotico. Per questo chiunque seduca fa leva solo sul sex-appeal: il suo, quello dei suoi titoli, quello dei nomi misteriosi che evoca.
Ora, mi spieghi: dov’è in tutto questo il sessismo? È sessismo accusar qualcuno di voler sedurre invece di parlare? È sessista il termine sex-appeal? A me sembra spaventosamente sessista chi ascoltando il termine sex-appeal pensa immediatamente al fatto di esser donna o al (proprio) sesso femminile. No mi sbaglio, non è solo sessista: è rozzo, e mostruosamente ignorante. Lei ha davvero letto tutto come vuol far credere? Allora provi a ricordare Freud: si può erotizzare tutto. E provi anche a ricordare il nome di quel filosofo tedesco tanto di moda che nel secolo scorso parlava di «sex appeal dell’inorganico»: era forse sessista anche lui?
Ora chiudo definitivamente le comunicazioni. Ho provato più di una volta a chiederle una spiegazione su un punto molto preciso, su cui almeno tre persone diverse le hanno mosso obiezione. E ancora una volta in risposta ho ricevuto l’amabile consiglio di fissarmi sulla sua persona, sul suo passato, sul «suo percorso critico». Mi spiace molto, ma a me la sua persona, il suo passato, il suo percorso critico, non interessano. Mi interessavano le sue opinioni. Ma a quanto pare lei è la prima a esserne disinteressata. E un’ultima cosa: per favore non parli di «accerchiamento delle posizioni contrarie» o di strategie «riduzione a oggetto di scherno dell’avversario». Non sia così superficiale su queste cose. Nel passato la gente sul rogo c’è finita davvero perché si arrischiava a spiegare e dire chiaramente quello che pensava. Anche con uno stile maledettamente involuto.
Aveva proprio ragione @Donnarumma: questa sarebbe la nuova critica? «A me, lo confesso, un po’ di magone viene. Lo spettacolo dell’inconsapevolezza mi deprime».
@…
Ehm.
@ DFW vs JF
Scusi, io sarò confuso, ma se lei mette insieme i blog letterari e Youtube…
Legga questa discussione e vedrà che il mio «Blog!» è inventivo quanto una fotocopia in bianco e nero.
@ Gerace
Son qui per servirla: aboliamo le bibliografie (e le note) dai blog letterari. Però quassù niente dottori, professori, o cavalieri (quelli magari aboliamoli toto coelo).
@ …
Secondo me anche Averroè ha un suo sex appeal. Poi, chissà.
ot: cos’è la sintassi rum e pera? chiedo perché in realtà io sarei astemio, e invece così si aprono squarci di inconscio…
[@ Gerace
era del “lagnarsi” che parlavo.]
Trovo questo che dice Mozzi:
«Allora diciamo: forse le pubbliche discussioni in rete hanno portato alcune persone, abituate a giuocare il loro gioco di distinzione nella penombra, a giocarlo in pieno giorno. Non essendo abituate a tanta luce, tali persone hanno commesso qualche passo falso: si sono scoperte, hanno esibito il gioco, lo hanno reso trasparente; e molti se ne sono accorti.
Questo, se è così, è interessante.
La questione è dunque: come si può continuare il gioco alla luce del giorno, e tuttavia in penombra?»
molto interessante.
@ Mozzi
A Giulio Mozzi si può dire, perché immagino che con il suo senso del comico non se la prenda e non mi faccia lavate di capo. Però, a tratti, in questo dialogo mi sembra di sentire la voce della mia He: «Cosa intende Alef per ‘scritto’? La Divina Commedia è una scrittura? Dante uno scrittore? Che significa scrivere? Lo chiedo per chiarezza, e senza nessun intento polemico». Sui gelati: ma mica si può fare la réclame, qui in televisione! [GM: Non siamo in televisione. RD: E se, in realtà, io non amassi affatto i gelati? se tirassi di più al salato?]
Sui rimproveri: sì, avevo in mente qualcun altro mentre scrivevo. Succede. L’utilità di quella attribuzione era farla breve: in ogni caso, pardon.
Nell’elenco dei collaboratori di LPLC non leggo il mio nome. Se ne potrebbe supporre che non ho immaginato lo spazio di questo post come un caffè storico (sono belli, ma mi mettono a disagio e non ne frequento).
Ergo.
Democratici = aperti a tutti (la sinonimia l’ho decisa io, in un trip psicotico in cui mi sono sentito tutt’insieme Tommaseo, Bellini, Devoto & Oli). Le discoteche che selezionano gli accessi e le feste su invito non sono si spacciano per democratiche; i partiti a cui ciascuno può iscriversi, sì (e non è detto lo siano). Non credo serva documentare il mito della democraticità della rete.
LPLC non funziona come Vibrisse. Aggiungo: trovo giusto lasciare libero accesso a tutti, inclusi gli anonimi. Il mio problema è: si può evitare che sulla piazza ci si accoltelli una volta pro die? Guarda che a me piace un sacco la discussione, e non chiuderei la porta in faccia a nessuno. Ma si potrebbe far sì che la discussione fosse produttiva e decente? Mi rendo conto: sono massimalista e ingenuo, sogno la Città del sole nell’Italia del 2011.
Poi (e qui non parlo più a te: pazienta un attimo) io rispondo a tutti, perché penso che tutti abbiamo diritto di parlarmi: a te, che non conosco di persona ma di cui ho letto varie cose; a Policastro, che conosco anche di persona; a Gerace, che pare studi nella mia università, ma che non so che faccia abbia; ad Anonimo o a Signorina Else, di cui so solo quello che si desume dai loro post e che magari, a dispetto del genere grammaticale, potrebbero essere rispettivamente una modella ucraina e un cinquantenne coi baffi. L’argomento ‘ti rispondo solo dopo che mi hai favorito patente e libretto’ a me non piace, perché sembra escludere una discussione al cui centro stiano le idee, al di là dello status di chi le sostiene.
La discussione su NI: sono un bourdiesiano di ferro. Tutte le posizioni nel campo sono determinate, la mia per prima (e la mia, appunto, alla luce del sole). Però quella, come in molte discussioni sul web, è pura autorappresentazione: l’oggetto della discussione è vanificato, serve SOLO a prendere posizione. Scrivo un saggio di 27 pagine, e soldatoblu mi risponde: «L’equazione è questa: tutti gli scrittori che non mi piaciono e che, probabilmente, sono mediocri o pessimi scrittori, li metto dentro una scatola a cui appiccico l’etichetta: postmodernismo», e sotto si dichiara «scrittore “postmoderno”». Non so se soldatoblu ci faccia o ci sia; in ogni caso, non gli interessa nulla della discussione (il cui oggetto non ha capito), ma solo farsi vedere (e, dopo, flirtare coi suoi amici). Queste cose sono sempre accadute, anche a Torvajanica, al caffè Trieste o a Ballarò: ma sulla rete troppo spesso, e anzi: una parte delle rete è costruita per consentirle.
Ti seguo sino allo scoprirsi alla luce del giorno; dopo temo di essermi un po’ perso nella penombra.
Non credo che l’articolista abbia questo potere sovrano di indirizzare la discussione (su Vibrisse, forse, per la sua struttura; non qui, né su NI). Neppure ne sento il dovere categorico. Andare a dirigere il traffico è sempre stata una punizione e io, si sa, sogno il mondo in cui ciascuno si diriga da sé.
Distinguiamo (e rinuncio ai miei dubbi da lessicografo su scopo/funzione).
Uso sempre stile nel senso anche di stile di pensiero, non credendo si possa distinguere da stile di scrittura. Lo stile è l’uomo! E la donna. Certo che, con questi inquadramenti generali, non si finisce più: ogni volta che uno apre bocca è un incubo.
– Mi dai un bicchier d’acqua?
– Liscia o gassata?
– Gassata.
– Ma addizionata di anidride carbonica?
– No, Ferrarelle.
– La Ferrarelle non ce l’abbiamo.
– Dài, va bene l’altra.
– A che temperatura?
– Mah, meglio ambiente.
– Quale ambiente? C’è una bottiglia davanti alla finestra, al sole, e una là in dispensa, all’ombra.
– Quella all’ombra.
– Che bicchiere vuoi?
– Il santo graal.
– Non si trova.
– Bevo dalla bottiglia.
– Mi sembra un po’ da cafoni.
– Lo sono. Ho chiesto l’acqua frizzante così dopo mi viene pure da ruttare.
Aspetto etico. Hai ragione da vendere: sarà una banalità, ma è una bella banalità. Ma già è una fatica rifletta sulla mia, di etica, piuttosto periclitante. Non me la sento molto di disquisire sull’etica altrui, soprattuto qui (infatti, cerco di attenermi a un piano fenomenologico di attituidini, stili, posture: non è detto ci riesca).
I miei amici. Con gli un po’, i quasi e gli alcuni hanno ragione tutti. Persino se uno dice: bisogna radere al suolo la penisola italiana. Trasformalo in ‘bisogna radere un po’ al suolo la penisola italiana’ e vedrai (poi passiamoci le liste topografiche).
Io qui, di fronte a quelli che proclamano quanto il web ha cambiato le cose, facevo vedere quanto poco le cose possano essere cambiate. Poi l’esempio di Questo è il giardino è molto interessante e merita di essere studiato insieme ad altri con molta attenzione. Mi piacerebbe farlo – ma non ora, non qui.
Sull’acrobazia: eh, ma come sei cupo!
Ciascuno trova ciò che cerca: sei fortunato, Giulio. Giochi all’enalotto? E a proposito: ho sete, mi passi il graal?
Sono convinto che in Italia, nel carattere degli italiani, intellettivi compresi, l’attrazione che esercita l’autorità costituita sia un problema non secondario, maschile e femminile (di sex appeal, di libido, di volontà di soggiacere?). Penso per questo che insistere sulla propria autorità, a volte su quella di altri ai quali siamo affiliati o dei quali siamo stati o ci dichiariamo spontaneamente discepoli, sia una maniera di fare abbastanza funzionale al fascismo che c’è, ma più ancora a quello che verrà (quello di cui inascoltata parlò Veronica Arendt Lario).
Chi pensa che sia autolegittimante (dichiarare di) aver letto questo o quello, aver firmato questo o quell’articolo, questo o quel libro, ricever considerazione da questo o quel inarrivabile critico o scrittore, pensa a favore dell’autorità, lavora all’instaurazione di piazze chiuse, inaccessibili ai bifolchi privi di autorità stessa (a quando la revisione del diritto di voto?).
La rete fa schifo come tutto il resto, e bene si farebbe, tutti, a diffidarne, non foss’altro perché è una tecnologia inventata a fini militari (del resto subito scartata). La rete ci spinge tutti a uniformarsi al mediano, prima di tutto in termini di linguaggio e di stile, ma anche di più in termini etici. E’ l’etica mediana, quella che gira attorno ai capi carismatici, quella che assegna valore alla persona invece che al valore delle sue azioni e produzioni (che sono spesso di gruppo), il motivo per cui tanti vogliono avere a che fare con identità precise e non con contenuti precisi. Per questo ve la prendete con i nomi eteronimi invece che coi contenuti che manifestano, a partire da quello di minore incrostazione di soggettività. Ecco, il vero baco della rete è l’autoproduzione di soggettività. Più o meno questo mi pare fosse anche il cruccio di Donnarumma, che non a caso ha scatenato le reazioni che ha scatenato da parte di chi pare frequentar la rete per accrescere l’audience… per ora gratuitamente… per carità, tutto legittimo, ma non si offendessero se qualcuno pensa che sono più che altro MARKETING E DISTINTIVO…
@ Raffaele Donnarumma
prima di inserire il mio commento avevo letto più volte le cose che ha scritto lei, e la discussiossione seguente pure, magari non proprio tutti i commenti.
La serie di commenti che hai ( posso usare il tu? ) la si trova spesso nei commenti acclusi ai video su youtube, e il massimo della violenza verbale io l’ho trovato lì, per questo ne ho parlato. Tutta questa discussione mi pare incentrata sui commenti, o sbaglio? In questa discussione a me pare che molte cose che a te dovrebbero interessare sono state dette. Ci sono persone che stanno discutendo animosamente, ma non per la dinamica dei blog letterari, ma perché siamo umani.
La discussione in corso: 77 commenti; 27 commentatori; 8 anonimi o nick; 11 commentatori che hanno inserito un solo commento; commentatore più assiduo Raffaele Donnarumma con 15 commenti. A te che è sembrato fino ad ora?
ps
forse ho sbagliato a dire confusa
Il problema posto da @Larry Massino, finalmente centra il punto: autorità, dice lui, autorevolezza, correggo io. Rivendicare l’afferenza a dei contesti altri dalla rete, dall’università all’editoria al giornalismo culturale, non vuol dire fare esercizio muscolare o sbandierare il pedigree, ma solo provare a ragionare sulla differenza fondamentale tra chi ha una vita fuori dalla rete e chi non ce l’ha, o meglio ostenti di non averla come quanti adoperano un nick e rivendicano di voler essere riconosciuti come interlocutori solo in forza delle proprie idee. È una posizione che resta antidemocratica, perché delle idee che esprimo io mi assumo la responsabilità (anche giuridica perché no) e soprattutto se ne può valutare la coerenza col mio operato fuori da qui, mentre Averroè può dare del “banale” a Schiffrin e io non so né saprò mai da quale pulpito parla (è, faccio per dire, al soldo di Mondadori? Tante grazie che a Schffrin debba dare del banale, direi quasi per contratto). Ad ogni buon conto, afferire ad altri contesti che non siano il dibattito in rete vuol dire, soprattutto, accettare che le proprie idee vengano messe a confronto con quelle di altri e sottoposte a costante verifica, e cioè aver compiuto il passaggio decisivo dall’ “io” al “noi”. Non pubblico un pezzo su un giornale, un articolo su rivista, un libro per un editore, senza che ci sia stato il vaglio di una redazione, viceversa il singolo giudizio postato a mo’ di commento ha me e me solo come artefice e la sua esattezza e validità è esibita o urlata più che dimostrata. Vedi Averroè che mi dice: ”il tuo stile è oggettivamente involuto”. E se io gli ribatto: ”no, Averroè, nessuno, né all’università, né al giornale, né sulle riviste su cui scrivo me l’ha mai detto”, non è per dire, evidentemente: ”guarda Averroè che io sono più brava di te perché sto all’università, scrivo sulle riviste, pubblico sulle terze pagine, mentre tu, perlomeno a firma Averroè, no”. Voglio dire, invece, che esistono contesti in cui le competenze e le possibilità di emettere giudizi “non richiesti”, come lui li definisce, sono valutate e riconosciute da un numero di persone che supera in ogni caso la singola unità costituita dall’io-“Averroè” o dall’io-Gilda Policastro. (Mi pare di aver spiegato il principio dell’acqua calda, ma il mantra della Policastro che snocciola il cv credo fosse da interrompere già da un pezzo, e visto che nessuno si è premurato di arginare questa deriva, invito chi non sia in malafede, e ammesso che il tema sia di un qualche interesse, a giudicare sulla base della discussione tutta).
Però mi era sfuggito un passaggio di uno dei commenti precedenti di Donnarumma su cui mi preme ritornare. Dimostrare ciò che si dice non è solo questione di cortesia o di civiltà del dialogo ma di assunzione di responsabilità, appunto, e soprattutto di onestà intellettuale: Donnarumma da dove hai tratto che la mia presenza nei blog proceda ”con uno stile accademico”, e cioè (la consequenzialità è tua) a colpi di ”citazioni, omaggi, note, bibliografie, parole d’ordine, circonlocuzioni, diatribe, patenti di affiliazione, ascrizioni a scuole e riparo-all’ombra-dei-maestri”. Esempi concreti, per cortesia, di omaggi e parole d’ordine, visto che ti riferisci espressamente a me (tana per Donnarumma due volte, dunque: “il mio pezzo è datato”, ti inducevo ad ammettere, e ora “il mio pezzo ce l’ha con te”). ”Affiliazione”, poi, ne converrai, è parola ambigua, ma soprattutto sbagliata: non afferisco a nessun contesto istituzionale, al momento, e a nessun gruppo, in modo formalizzato e continuativo, se non a questo blog e alla rivista di cui sei redattore anche tu. Dunque? Quali maestri avrei citato, quali patenti rivendicato, ”senza entrare nel merito delle questioni” (e il mio primo ”commentone”, come qualcuno l’ha definito – se non altro per la lunghezza- cos’era, per te, aria fritta? Non mi pare, dalle risposte che hai dato. E allora, il mantra della Policastro che si sottrae al confronto deve andare avanti fino al commento 892?). Infine quali note e quale bibliografia? Due titoli citati a integrazione dell’unico che tu abbia chiamato in causa, per allargare un po’ la prospettiva ai soli ambiti che ci siano familiari? Ma comunque, era tempo di fermarsi già da un pezzo, e darò il mio contributo decisivo in questa direzione. Non senza aver precisato al tale che ha continuato a provocarmi indisturbato (perché qui il problema ho come l’impressione che non sia tanto di ruolo ma di genere, a dispetto dei sofismi di Averroè) e che fieramente ostenta la scarsa dimestichezza con i titoli accademici, di acquisirla, invece, e pure in fretta (se vuol definirsi non impropriamente ”studente”, perlomeno) con le modalità di ricerca bibliografica: a farsi un’idea anche solo basica delle pubblicazioni di chicchessia, anche senza recarsi personalmente nella “biblioteca più fornita d’Italia”, sono sufficienti l’opac sbn e il sito di italinemo (a tacere di google), che, sia pur non aggiornati, sia pur parziali, le diranno certo di più dell’alzata di spalla della sua bibliotecaria (ma nemmeno questo sono riusciti a insegnarle, all’università? Io personalmente me ne preoccuperei un po’ di più che dei giudizi impressionistici della blogger Fiorellino sull’ultimo libro letto, avendoci un ruolo istituzionale: il che, al momento, non è. A proposito di ”accademia”, e di questioni capitali).
@ Gilda Policastro
se uno dà del banale a Schiffrin non c’è bisogno di sapere da quale pulpito parla, perché è un’affermazione soggettiva. è la sua idea di schiffrin. che nel resto del mondo schiffrin non sia considerato banale non ha importanza. così come se uno dice che il suo stile è oggettivamente involuto, non è che c’è qualcun altro che può controbattere, perché lo stile non si può definire nei termini di oggettivo/soggettivo, come appunto la presunta banalità di schiffrin. l’autorevolezza e la credibilità che si costruiscono nel tempo non c’entrano niente con le idee espresse in questo caso. ma scusi, se lei pubblica un articolo o altro in rete, io lo leggo e non sono d’accordo in un punto, lei sarà più o meno in grado o no di capire se posso aver ragione o meno? c’è bisogno di sapere chi sono? leggendo i suoi commenti mi sembra di cogliere un fraintendimento di fondo: qua non stiamo componendo un testo critico e non sono in discussione le persone che commentano, ma appunto le idee. poi è chiaro che entrano in gioco le persone, ma basta darsi una regolata.
Raffaele, scrivi: “Non credo che l’articolista abbia questo potere sovrano di indirizzare la discussione (su Vibrisse, forse, per la sua struttura; non qui, né su NI)”. Sono d’accordo: nessun “potere sovrano”. Ma una capacità di influire, sì. Un’autorevolezza, visto che è stata usata questa parola. E l’effetto si valuta sul lungo periodo.
Si tratta anche, per l’appunto, di strutturare (fin dal principio) il modo di gestire il blog in modo che questa capacità di influire possa essere messa in azione.
@ Gilda
solo una cosa a proposito di quello che dici qui:
«provare a ragionare sulla differenza fondamentale tra chi ha una vita fuori dalla rete e chi non ce l’ha, o meglio ostenti di non averla come quanti adoperano un nick e rivendicano di voler essere riconosciuti come interlocutori solo in forza delle proprie idee. »
non è, dal mio osservatorio, così lineare. Intanto, tutti hanno una vita fuori dalla rete, può essere che non abbiano, o non abbiano ancora, una vita “pubblica”, come può capitare a una persona giovane o invece a un lettore appassionato che non ha nessuna intenzione di averla ma ha però voglia di discutere delle cose che legge. Questa persona, per molte ragioni, può decidere di usare un nick, – se non si vuole che venga usato basta porre delle regole precise nei blog – perché mai non dovrebbe avere il diritto, in rete, che è fatta come è fatta, di essere riconosciuto come interlocutore solo in forza delle proprie idee? Soprattutto quando usa un indirizzo di posta non taroccato – e anche questo è verificabile – un nick stabile e riconoscibile nel tempo e quello che dice in rete lo dice “solo in rete”, o a casa sua, cioè non confonde i piani, non intorbida le acque? Questo non mi è chiaro; a me sembra evidente, ma ovviamente è una mia valutazione personale, che nel momento in cui accetta – parallelamente – come interlocutori degli sconosciuti come lui, si pone su un piano abbastanza limpido. Molto unfair trovo invece usare l’anonimato per offendere e sparare a zero proteggendosi, ma questo attiene a un piano di civiltà personale che dovrebbe valere sempre, nick o non nick.
Le cose effettivamente cambiano, per questo mi pareva interessante quello che ha detto Mozzi, quando una persona entra in rete portando con sé il bagaglio della sua vita pubblica.
Per vita pubblica intendo una presenza costante nel discorso pubblico, nello specifico un intellettuale o un critico che abbia accesso a un giornale o a una rivista o ad altre sedi della stessa natura, se è così, parlare poi in rete nascosto da un nick, per creare subbuglio, non è fair. Ma se uno sceglie la rete come suo spazio privilegiato di intervento, non vedo il problema. Non l’ho mai visto.
Perciò, quando dici:
«afferire ad altri contesti che non siano il dibattito in rete vuol dire, soprattutto, accettare che le proprie idee vengano messe a confronto con quelle di altri e sottoposte a costante verifica, e cioè aver compiuto il passaggio decisivo dall’ “io” al “noi”.»
io vorrei ribattere dicendo che anche in rete si mettono le proprie idee a confronto con quelle di altri, anche in rete vengono sottoposte a verifica, una verifica diversa da quella scientifica, ma sempre una verifica, di coerenza di discorso, se non altro, anche in rete si compie il passaggio dall’ «io» al «noi», solo che si compie su un piano diverso.
Non è che io voglia attribuire alla rete chissà quali virtù, non ne ha, come non ne ha la piazza, è però un «altro» luogo, che usa regole leggermente diverse. L’unica differenza con la piazza (ne vedo poche, in effetti) è che in piazza ti scegli il tavolino del bar, in rete ti puoi scegliere il blog, ma una volta scelto, al tavolo si siedono tutti. Si può, tuttavia, non parlare con quello seduto al nostro fianco, se non ci interessa quello che dice. E nome o non nome, scegli di parlargli proprio perché lo riconosci come interlocutore in forza delle sue idee, meglio ancora, del suo stile. Non è che si possa chiedere a ogni piè sospinto, mi fornisca gentilmente il curriculum.
IMHO
complimenti a Policastro per la spudoratezza. Ci vuole un bello stomaco per scrivere certe cose e dirsi di sinistra. (Immagino che pensi di esserlo visto perché ho letto i suoi articoli sul Manifesto).
e, lo chiedo agli altri lettori: quanti di voi non hanno pensato almeno un istante seguendo questo blog che la cultura italiana sarebbe meno disperante (oltre che molto più divertente) se sui giornali ci scrivesse invece Donnarumma? Chi mi spiega il mistero per la voce di gente evidentemente meno autorevole e profonda risuona sempre più forte? Non sono proprio le cose contro cuideve esercitarsi la critica della cultura, e a cui può servire un blog?
Mi corregge… mica avevo dubbi che mi volesse correggere… Leggo che correggere vuol dire anche ” ammonir alcuno onde si emendi… ” La sua indole è quella… ce la vedo bene l’autorevole maestra Gilda Policastro a dirigere una casa di correzione per commentatori di blogghi privi della necessaria autorevolezza, i quali, evidentemente, non sono solo coloro che non usano il nome proprio, ma anche quelli che non scrivono (gratis?) su giornali e pubblicano articoli (gratis?) su riviste più o meno accademiche o posti (gratis?) su blogghi letterari. Dopodiché, immagino, la correzione toccherebbe a quelli che non pubblicano in luoghi autorevoli (naturalmente lo stabilisce lei quali sono). La cosa che colpisce di più, nella pessima autodifesa della sedicente autorevole Policastro, è che non si rende conto che quanto dice qui a danno dei commentatori peones, può essere in ogni momento ritorto contro di lei in ambiti editoriali e ancor più accademici. Boh, fatti suoi.
Invece, dove io cèntro, è nell’aspetto autoproduzione di soggettività, laddove l’autorevolezza supposta porta addirittura all’accusa di antidemocraticità nei confronti di chi fa meno sfoggio di identità (quando è assolutamente il contrario…). Ridicolo anche il richiamo alla responsabilità giuridica, perché in rete si è acchiappabili dalla polizia postale attraverso IP. In ogni caso, molti di noi commentatori abituali (non è reato, ancora…), sono ben identificabili attraverso i loro blogghucci, quindi responsabili non solo giuridicamente.
Rimane il fatto che culturalmente parlando è del tutto anacronistico ritenere che la propria soggettività aumenti la qualità e la veridicità dei propri enunciati. Semmai, di nuovo, è il contrario.
Le vedo lentamente affondare, quelle persone, e le seguenti parole / grido loro: vi vedo lentamente affondare. / Nessuna risposta. Su remoti piroscafi, lievi e coraggiose, / suonano le orchestre. Mi rincresce molto, non mi sta bene / che muoiano tutti così, infracidati, in questo clima piovigginoso, è / un gran peccato, mi viene da urlare, urlo: “Eppure nessuno sa”, / urlo, “in che anno sarà, ed è una cosa, ed è una cosa, / meravigliosa”. (H.M.E.)
Il blog come strumento arcaico: si, sono d’accordo con Averroè, e in parte per quanto riguarda la confusione dei codici in chi scrive: ma è anche chi scrive che non vuole creare codici adatti a determinati ambiti di dialogo. L’intenzione comunicativa, se presente, scavalca interferenze linguistiche. E quando questo non accade (come ritiene Donnarumma)?
I codici unici non nascono dal nulla: si fondano come le lingue Pidgin, a forza di dialogare “dal basso”, all’interno di comunità che vogliono essere tali: se questo non accade, però, ciò non è dovuto (solo) a Forme Comunicative imperfette, o (tanto) a meccanismi psicologici narcisistici, quanto ad una falsa corrispondenza di orizzonti, che corrisponde ad una eteronomia dei fini. A mio avviso una “Finta orizzontalità”.
Non si può pretendere che un blog (quale? tutti?) debba generare discussioni di “alto livello”, gente messa in grado di dire “la cosa migliore che possa dire”. Questo è un criterio da Istituzione; non facciamo il gioco della Gelmini quando parla di Meritocrazia. Perché i criteri del merito siano validi per dei gruppi devono essere decisi dal basso.
I blog, allo stato delle cose, ospitano discorsi. Punto. Non si può imporre loro dibattiti su principi di autorevolezza che arrivano da luoghi “altri”, di cui non fa parte la comunità stessa.
Ritenere i blog fintamente democratici è per me causato da questo errore di prospettiva, che determina aspettative e azioni (atteggiamenti, codici) divergenti: o si pensa che chiunque parli abbia titolo di parlare, e in seguito si fondano le regole comuni di convivenza; oppure si pensa che vi sia una legittimità a parlare, anteriore o contemporanea o laterale al discorso stesso (e al luogo in cui si esercita).
Se di legittimità parliamo, è evidente che quando essa viene decisa su criteri “istituzionali” (come quello di qualità, di picchi positivi, di interventi memorabili, di pubblicazioni) allora siamo davanti ad una finta orizzontalità: si accettano contributi di cui si sottopongono discorsi, linguaggi e intenzioni a un metro su cui esse non sono fondate. Soprattutto, quando questo/i metro/i siano forme ideologiche di darwiniana competizione individualista, presente a vario titolo nell’ambito italico, arricchite con un velato paternalismo (ma sì, parli pure, il ragazzetto) del terzo millennio.
Ecco quindi che, riprendendo gli esempi di Donnarumma, il professore parla in professorese, il lettore per passione rivendica l’anonimato, l’aspirante cattedratico o il blogger per passione mirino alla distruzione dialettica dell’avversario o ai 5 minuti di pubblicità. Ma di tutto questo il web è un enorme rifrattore, e il blog una tana del tesoro; non tanto la causa.
Dal canto mio, mi piacerebbe abbandonare ogni compromesso: o si parla di letteratura con la gente (non alla gente), si accettano e si negoziano valori dall’interno, si portano avanti le proprie idee con l’unica forza della loro correttezza; o si fa parte di Istituzioni (della critica letteraria come dei Giornali e così via) si stabiliscono criteri validi di legittimazione, ambienti filtrati in contesti di controllo e definizioni di qualità. E in entrambi i casi, si decide di quali siano le forme e i modi più adatti ad ospitare questi dibattiti.
Raffaele, rileggo e noto: “…l’oggetto della discussione è vanificato, serve SOLO a prendere posizione…”. Poi prendo in mano una rivista accademica (non di materie letterarie; ma sempre d’area “scienze umane e sociali”), e mi domando quanti degli articoli ivi pubblicati servano a qualcosa di diverso dal “prendere posizione”: nei confronti di un certo venerato maestro, di una certa corrente critica, di un possibile commissario di concorso, eccetera.
Sfoglio la rivista, leggo gli abstract, leggo le biobiblio degli autori (alcuni articoli li ho anche già letti; altri non toccano questioni che mi interessino), e mi rispondo: qui, tutto quel che è pubblicato serve SOLO a prendere posizione. D’altra parte, la rivista stessa (i.e. la corrente) è stata fondata per prendere posizione rispetto a un’altra rivista (i.e. la corrente): quella, ovviamente, dominata dai baroni anziani.
@ Massino
Nonostante una vernice nero-lucida sparsa su tutto il suo commento, sono molto d’accordo sulla sostanza. Purtroppo.
Ah, vorrei scrivere un pezzo dal titolo provvisorio: «La Piazza Affari delle citazioni».
@ DFW vs JF
La piccola statistica è istruttiva. Spero che il mio presenzialismo sia giustificato da circostanze oggettive, altrimenti mi scuso. Certo che sono state dette moltissime cose che mi interessano!
@ Policastro
Ero tentato di rispondere, punto per punto, alle tue rimostranze – comprese quelle in cui, rivolgendoti a me, ce l’hai non ho capito con chi. Ricordare a me il nesso responsabilità-dichiarazione del nome è un po’ buffo. Poi, posso comprovare, in questo stesso blog o anche solo thread, tutta la tiritera su «citazioni [Lanier: è il caso più gratuito], omaggi [a Mozzi e Alcor], note, bibliografie [14 ottobre 2011 alle 16:15], parole d’ordine [«stile»/ «non avere stile»: Un sintomo dello stato dell’opera, http://www.leparoleelecose.it/?p=727%5D, circonlocuzioni [oh, quante!], maestri [Sanguineti, ibidem]», ecc. L’unica eccezione sono le note in senso stretto (quelle con l’apice): però, nel senso lato, registrato dai vocabolari della lingua italiana, ci sono anche loro. La cosa che mi soprende è che, giuro!, non pensavo precisamente o solo a te. Del resto, tu verifichi il mio Blog! quasi in tutte le lettere (eccettuate Dalet e Kalef, direi). Se quello è inventato, forse tu pure sei un po’ una mia invenzione. Mi faccio paura da me.
In ogni caso, sta’ pure tranquilla: non crederai mica che io ce l’abbia con te sola? Anzi, soggettivamente, e conoscendoti, con te non ce l’ho più di tanto (un po’ sì: ti dai torto anche quando hai ragione). Ti cito perché sei qui, e puoi rispondere. Giocare alla rissa con gli assenti è anche più stolido che rissare coi presenti.
Però, se tutta la discussione deve mutarsi in un referendum pro o contro Policastro, mi astengo e spero non si raggiunga il quorum. Anzi, spero che non si arrivi neppure a raccogliere le firme per la richiesta. Chiudiamo l’ombrellone, mettiamo da parte il tavolino, riponiamo carte e penne, lasciamo Campo de’ Fiori: inizia a far freschino.
L’unico modo per dare un senso a questa deriva del discorso sarebbe passare a un grado di generalità cui tu spesso recalcitri, richiamando invece sempre alla stretta particolarità. Ripeto: sei un bel case study, sia perché pratichi diversi generi (la critica letteraria, in varie forme; la poesia; il romanzo), sia perché non so con quanto controllo e coerenza, ma produci un’interessantissima immagine di te in rete (blog forum fb – che aspetti a farti un blog tuo?). Che dici? Dovrei scrivere una Fenomenologia di Gilda Policastro, come la Fenomenologia di Mike Buongiorno? Visto che un nome ce l’hai, eccome!, sarebbe una simpatica idea-regalo per il tuo onomastico. Non potresti neppure dirmi che è un giudizio non richiesto: a caval donato… La differenza sarebbe che a Eco interessava anche e proprio Mike, io sarei costretto alla sgradevolezza di parlare di te individuo pensando alla specie di cui ti sceglierei a rappresentanza – nientemeno, il Giovane Critico nella Rete. Solo che adagiarti al tavolo operatorio e asportare tessuti come se tu fossi una cavia, via, non mi sembra mica carino (https://www.amherst.edu/media/view/38440/standard/caricature-flaubert.jpg). No no, davvero: meglio lasciar perdere.
Naturalmente, attribuirti del potere è risibile. Autorità… autorevolezza… autoritarismo… autorialismo… Chissà! quante bucce di banana! Le scanso, la mia forma del riso non è lo slapstick.
P.S. Sullo stile involuto: «nessuno, né all’università, né al giornale, né sulle riviste su cui scrivo me l’ha mai detto». Ehm.
@ Mozzi
Certo, il vizio sta nel manico. Però anche questo mestolo di LPLC tira su buona minestra. Il sistema Vibrisse è di sicuro più adatto agli scopi che indichi.
Non ho l’autorevolezza per influire.
Sulle riviste accademiche: sfondi una porta svelta dai cardini. Aggiungi che nella produzione accademica c’è la necessità pratica di produrre materia di concorso, l’accanimento non infrequente su temi di nessun peso, e talvolta la penosa esibizione di ossequio per i possibili giudici. Il discorso sarebbe lunghissimo, e in ogni caso non voglio assolutamente fare pasticci confusi e unirmi al conformismo anti-intellettuale. Ma vedi? Questo conferma che nei blog e nell’accademia tira la stessa aria…
@ Pasquino
La scongiuro! Policastro scrive dove vuole e dove la invitano a farlo, e spero la paghino come merita per il suo lavoro. E poi ci mancherebbe solo un referendum su Donnarumma: sono incostituzionale.
@Policastro
Un po’ accademica e pedante lo è stata:
“Di filologia in filologia, mi piace notare che (non) mi venga riconosciuto il merito di aver indotto Donnarumma a datare il suo pezzo, che a questo punto, dunque, Donnarumma stesso confessa superato rispetto alla enucleazione e descrizione di alcune modalità del dibattito in rete (sulle cui dinamiche complessive, peraltro, prima dell’articolo di Sisto e Guglieri, uscito su “Allegoria”, c’è l’ottimo Gherardo Bortolotti di ”Blog e letteratura”, postato su “Nazione indiana” il 3 dicembre 2008; e da tener presente è anche il capitolo di Emanuele Zinato, ”Tra vecchio e nuovo millennio: la crisi, lo stile e la critica nella rete”, in ”Le idee e le forme. La critica letteraria in Italia dal 1900 ai nostri giorni”, Carocci, 2010, oltre a qualche intervento senza falsa modestia non irrilevante della sottoscritta, a partire da ”Il critico nella rete”, uscito sul ”Manifesto” il 20 gennaio 2010, arrivando al pezzo dedicato a Facebook, e a ”Tu non sei un gadget” di Jaron Lanier, uscito su “Alfabeta” nel maggio 2011)”.
E anche stilisticamente un po’ involuta, come mostra la sua insistenza nell’utilizzare a sproposito i termini squisitamente burocratici “afferire” e “afferenza” (“3. ADESIONE O APPARTENENZA DI UNA PERSONA A UNA STRUTTURA DELL’AMMINISTRAZIONE DELLO STATO”, Treccani):
“Rivendicare l’afferenza a dei contesti altri dalla rete, dall’università all’editoria al giornalismo culturale, non vuol dire fare esercizio muscolare o sbandierare il pedigree”.
«non afferisco a nessun contesto istituzionale, al momento, e a nessun gruppo, in modo formalizzato e continuativo, se non a questo blog e alla rivista di cui sei redattore anche tu».
Infine, mi sorprende una tale fissazione normativa per sedicenti forme di autorevolezza il cui riconoscimento o rispetto non è, in questo blog, tutelato da alcuna regola scritta o non scritta. Se molti pseudonimi servono a mascherare l’Io di chi, come lei dice, “una vita fuori dal web non ce l’ha”, la presenza nel web di alcuni patronimici sembra solo funzionale all’espressione di un rigido Super Io.
@ Poliandro, e tutti
Davvero, per favore: non serve intervenire così su Policastro, o su chiunque. Se c’è qualcosa da dire sul merito, benissimo. Altrimenti, lasciamo perdere. Gilda Policastro, se ne ha voglia, ha tutti i diritti di replicare al mio commento precedente. Io ho detto pure troppo e mi scuso con lei se ho ecceduto o se ho dato occasione che altri lo facessero.
sì, il tono di alcuni commenti rivolti a Policastro è fastidiosissimo, lei è una polemista e a volte chiama alla replica accesa, abbiamo anche incrociato i temperini, per questo, in passato, e magari lo rifaremo in futuro, ma alcune cose che ho letto qui non si sopportano, sono rivolte alla persona, stucchevoli, inutili e in qualche passaggio semplicemente volgari.
Invitiamo tutti coloro che partecipano a questa discussione a moderare i toni. Il dibattito è stato aspro e interessante: cerchiamo di fare in modo che diventi meno aspro e ancora più interessante. In particolare, vi invitiamo a evitare attacchi personali – a persone con un nome e un cognome, ma anche ad anonimi o a pseudonimi. Siamo sicuri che capirete il senso di questo intervento e seguirete le nostre indicazioni.
Provo a dire cosa penso dell’argomento e sintetizzo a modo mio, mettendo da parte (tardi, me ne rendo conto, e me ne scuso) le sterili provocazioni di @Policastro.
Non credo che il blog sia destinato a morire. Non del tutto, quanto meno, e non a breve termine. Tra i mezzi di comunicazione diversi dall’esercitabilità acustica dell’aria, credo che sia quello che maggiormente si avvicina alla chiacchierata che si fa passeggiando in gruppo su argomenti di interesse comune. Sicuramente si inventeranno mezzi nuovi, che coinvolgano maggiormente gli altri sensi, ma non credo che potranno di molto migliorare la qualità dello scambio di idee: il blog, in più anche rispetto alla chiacchierata&passeggiata, dà la possibilità di riflettere un po’ più a lungo prima di parlare, di valutare più attentamente le idee degli altri interlocutori; toglie l’imbarazzo di dover sempre avere la risposta pronta, ma impedisce i tempi biblici dell’approfondimento bibliografico: mi sembra il compromesso migliore per andare prima e meglio al sodo, come dice @Donnarumma. Combatte contemporaneamente la cristallizzazione e l’emotività.
Ecco: quello che ho tracciato è un ritratto ideale, che dice più come dovrebbe essere un blog, o almeno come piacerebbe a me, che non come sia in realtà. Il fatto che così non sia è da una parte permesso (come dice @Averroè) dall’ambiguità del mezzo in questione (il suo essere, appunto, un compromesso), dall’altra favorito da cause contestuali, cioè esterne alla struttura in sé di esso: per usare la terminologia adottata da @Vincenzo Idone Cassone, esso mette insieme aspettative divergenti; come dice Donnarumma, tra le aspettative divergenti spesso ce ne sono due che si vengono incontro con particolare efficacia: quella del critico che si schiera pubblicamente, che guadagna in visibilità, stringe meglio i rapporti all’interno del suo schieramento, che sfoga la sua “angoscia di anonimato” guadagnandosi il suo posticino nella tabella dei “valori differenziali”, come li chiama Carla Benedetti; quella del “disperato blogger” che cerca a sua volta e schizofrenicamente visibilità per il suo pseudonimato, muovendo passi nervosi fuori dalla sua “penombra”, come l’ha chiamata suggestivamente @giuliomozzi.
Dopo aver detto banalità, la navicella del mio ingegno ne dirà altre apprestandosi a un aringo in cui per solito non entra: spero di non dire troppe fesserie parlando di comunicazione.
Parlando del blog mi viene in mente che si potrebbe usare, invece che mezzo ibrido o arcaico, la definizione di “genere non codificato”: ciò sottolineerebbe la possibilità di un’evoluzione positiva verso un modello migliore, invece della rottura integrale. I generi letterari, di solito, non nascono dopo la definizione del loro pubblico ideale, o almeno non dovrebbero: nei casi migliori, credo, nascono contemporaneamente al proprio pubblico, ne plasmano le coscienze aprendosi spazi di ricezione e allo stesso tempo ne ricevono input per rimodulare le proprie strutture comunicative. La linguistica storica, del resto, insegna che quelle che erano forme ibride un tempo (per esempio “vedetta”, etimologia popolare del più corretto e tecnico “veletta”) sono oggi forme normative. Per quanto mi riguarda, poi, il concetto stesso di “ibrido” è filosoficamente privo di fondamenti, ma si può non essere d’accordo. In un panorama di questo tipo, mi sembra giusto lottare perché i blog si avvicinino il più possibile al modello che noi ci facciamo di essi, aderendovi in prima persona. Educare se stessi per educare gli altri alla codificazione di un genere. Uso il concetto di genere perché fa più facilmente leva su fattori storici per affermarsi, che non su quello di stile che invece è legato più facilmente alla sensibilità individuale.
Ora, in questo momento storico, pseudonimato e anonimato sono un problema politico. Essi vanno di pari passo con la crescente parcellizzazione dell’esperienza, e anzi ne forniscono un grado ultimativo: la dissociazione delle proprie idee dalla propria persona politica, se non addirittura delle proprie parole dalle proprie idee. Come se potessimo iperliberalisticamente scegliere sempre e su tutto, e sempre in modo diverso, e quindi potessimo scegliere anche quali vestiti fare indossare al nostro pensiero, alle nostre parole, al nostro corpo, come se fossero aspetti totalmente individuati e indipendenti. Altro che individualismo: mi sembra una continua coazione alla dissociazione dell’io.
Questo, secondo me, è un problema politico perché investe la possibilità stessa del darsi della pòlis. Essa si dà solamente e completamente quando vi sia una percezione politica delle proprie scelte, cioè qualora ci si confronti il più possibile umanamente con tutta la società civile. Né possiamo in alcun modo permetterci di rifiutare il confronto profondo con la società civile: l’individualismo non è un coltello che teniamo dalla parte del manico, perché le potenze orientali sono capaci molto più di noi di rendere produttivo questo modello, al momento. Dobbiamo ricominciare da altre strade, e costruirci luoghi buoni per discutere il più possibile faccia a faccia, confrontarci totalmente, perché mai come adesso abbiamo avuto bisogno di considerare ogni cosa all’interno del rapporto che essa intrattiene con la totalità del vissuto e del cosmo.
Mi scuso per la prolissità e per le eventuali (probabili) banalità (ma ce le ricordiamo poi sempre?).
Cos’è, vi state esercitando nei commenti per dare una dimostrazione pratica della validità della tesi espressa nel testo?
@giuliomozzi
Quando immaginavamo il sito non pensavamo esattamente al caffè San Marco (neanche al peggior bar di Caracas, ma questo va da sé). Comunque bene, il San Marco è bellissimo. Non c’è internet ma c’è la Gazzetta; questo sì che è un luogo di cultura. Inoltre servono ottime paste. Al posto di Svevo c’è Magris, ma pazienza, anche la Triestina non è più quella di una volta.
Sto invecchiando, ero passata in velocità su questa frase di Donnarumma: «Raccogliamo intanto firme per un referendum in cui si chieda la proibizione a chicchessia di scrivere sotto falso nome.»
Un nickname non è un nome falso:
http://it.wikipedia.org/wiki/Nickname
http://it.wikipedia.org/wiki/Pseudonimo
Tra l’altro, lo pseudonimo è persino tutelato – credo però che in questo caso debba essere registrato – dalla legge italiana.
Prima che mi si imponga di abbandonarlo, mi toccherà registrarlo, affronterò delle spese. In ogni caso, spero che qualcuno avverta in tempo la Ferrante.
@ Alcor
Mi scusi, o è l’ora, o invecchio anche io, o un cracker si fa gioco di noi:
http://it.wikipedia.org/wiki/Nickname: «Nella cultura di Internet, un nickname o semplicemente nick è uno pseudonimo o “nome di battaglia”»
http://it.wikipedia.org/wiki/Pseudonimo: «Uno pseudonimo è un nome fittizio di persona (dal greco ψεῦδος = falso, + ονυμα = nome), diverso da quello anagrafico».
P. S. Non ho i caratteri greci, ma «onoma», non «onyma». Non ci si può fidare neppure di Wikipedia!
Certo, si può leggere anche in questo modo, ma lei se la sentirebbe di dire alla Ferrante che scrive “sotto falso nome”? O non direbbe invece che Elena Ferrante è lo pseudonimo di una scrittrice di cui non conosciamo il nome anagrafico? C’è pure una certa differenza, etimologia a parte, tra falso e fittizio. L’etimologia è appassionante, ma è l’embrione.
Se per ipotesi la sua idea di referendum venisse appoggiata e vincesse (tra l’altro io non avrei nessuna difficoltà a usare anche in rete il mio nome anagrafico, ma mi dispiacerebbe e un po’ di nostalgia la sentirei) non solo la Ferrante, ma per esempio Pincio e magari altri che ora non mi vengono in mente, dovrebbero abbandonare il loro nom de plume, o pseudonimo, o nome falso, se decidessi di seguirla (ma non sente come suona male? sembra piuttosto offensivo, anche se è assolutamente legale, a tutt’oggi).
Il fatto è che, a mio avviso, non è il nick, il problema, ma l’uso che se ne fa. Solo in un paese immorale come il nostro ci si può sentir spinti a cercare sempre nuovi vincoli per ripulire l’aria e limitare i danni, e infatti di leggi ne abbiamo una quantità. Mi creda, non sono gli pseudonimi, quelli che avvelenano i blog letterari, ma tutte le contraddizioni che in parte sono emerse anche qui sopra.
@ Alcor
Ma lei se la sentirebbe di dire alla Ferrante che scrive “sotto falso nome”?
Sì, naturalmente. («L’amore molesto» è un libro bellissimo. Pincio, ecco… magari anche no).
Deve perdonarmi, ci ho anche provato, ma proprio non ho resistito:
Dialogo tra Alcor e Jonhatan Swift.
– Reverendo.
– Signora.
– Ho letto quel suo libello, Una modesta proposta. Invero, triste assai.
– Mi dolgo le sia spiaciuto.
– Proporre di mangiar infanti!
– Beh.
– In Inghilterra!
– In Irlanda.
– Coi tempi che corrono!
– Neri, in verità.
– Non crede lei, con mostruosità siffatte, d’aggiungere confusione a questa iniquità della circostanza, di turbar le menti, di portare quest’infelice paese a maggior infelicità?
– No.
– Lei è strano.
– Dica pure queer.
– Anche quella palandranaccia nera…
– Sono dark. Goth, a essere precisi (http://it.wikipedia.org/wiki/Moda_gotica).
– Giovani d’oggi.
– Ho sessantadue anni.
– E comunque, le domando, come?
– Prego?
– Sì: è stato vago, ammetterà. Reticente. Equivoco. Cotti o crudi?
– Veda lei.
– Certo v’hanno di gran patate, lassù in quei paesi del Nord.
– Non a bastanza, creda.
– Ho una certa ricetta, che mi trasmise un’amica triestina. Si serviva dal barbiere di Bobi Bazlen…
– Ecco.
– Una cosa saporita ma leggera, deliziosa.
– Pensa.
– Sì. Lei prende un bambino, diciamo sui tre o quattr’anni, lo sgrassa (ma con quelli irlandesi non occorre, vero?), lo rosola in un trito di salvia, rosmarino e timo (l’aglio no, per carità!)…
– Guardi…
– Poi, mentre il fantolino cuoce in forno preriscaldato a 250 gradi, trifola funghi e lessa patate; diciamo: un mezzo di chilo di patate ogni chilo di bimbo…
– Senta, io sono vegetariano.
– Ma può sempre mangiare le patate!
Morale della favola:
Alcor ha ragione.
Anche s’io mi firmassi
Giavanni Sesquipedale
sarei un bischero
uguale.
Certo che lo scuserà, e sperando d’averla fatta, almeno per un istante, sorridere, la saluta compuntamente il suo
…
Donnarumma, Lei è il Luciano di questi tempi!
Sul problema dei nick darei ragione ad Alcor, anche se tra fittizio e falso non vedo la differenza. I nomi sono tutti convenzionali, dunque falsi. L’unica differenza è quella giuridica, che permette l’assunzione di responsabilità per azioni e discorsi.
Ho l’impressione che nella discussione sugli pseudonimi si stiano sovrapponendo due piani del problema – quello dell’etica della comunicazione (le informazioni sugli altri di cui abbiamo bisogno per comunicare con loro e per sentirci in posizione di parità) e quello del peso di fattori come fama, riconoscimenti mediatici e istituzionali, che rendono asimmetriche le comunicazioni anche in assenza di pseudonimi. C’è chi in nome della democrazia si appella alla responsabilità giuridica delle proprie opinioni, ma poi fa di tutto per far pesare il prestigio del proprio marchio già diffuso sul mercato, e c’è chi, sempre in nome della democrazia si difende da questo atteggiamento con l’arma della pseudonimia, istituendo a sua volta una forma di ineguaglianza (in questo caso, l’interlocutore si sente più debole perché privo delle informazioni identitarie che gli permetterebbero, ad esempio, di contestualizzare e relativizzare le critiche che gli vengono rivolte, o di fare attacchi ad personam). E’ una vecchia strategia della critica satirica del potere, un po’ “immorale”, certo, come è scrivere frasi incazzate sui muri, ma indubbiamente efficace. Considerato che una comunicazione su un piano di completa parità è impossibile, trovo che la piega che ha preso la discussione negli ultimi due giorni faccia molto pensare.
E, poi, per fortuna, non c’è solo il potere, ma anche il gioco. Chi non ricorda, sul blog di Atelier, gli interventi di Ramona, la badante di Luzi? Fu la migliore critica letteraria di quegli anni.
Leggere questa discussione è un po’ come assistere alle sedute del consiglio comunale, ma Donnarumma ha un notevole sex appeal. Se nei prossimi mesi mi capita di ripassare nei pressi della mia vecchia Alma Mater mi sa che lo invito a bere qualcosa e tento di sedurlo.
Swift originally published all of his works under pseudonyms—such as Lemuel Gulliver, Isaac Bickerstaff, M.B. Drapier—or anonymously.
Signorina Else, le responsabilità giuridiche sono sempre della persona, anche se non si firma, – è quello dell’estensore della lettera anonima lo spettro che aleggia qui – ma il nick che commenta stabilmente su un blog ed è riconducibile sempre a uno stesso IP, e ancor più il nick riconducibile al link di un blog, tecnicamente non è affatto anonimo e può essere chiamato a rispondere giuridicamente senza tante difficoltà.
Credo che lo spettro dell’estensore di lettere anonime, di quello che gioca sporco, sia lo spettro inquietante per cui chiunque, in rete – non solo Donnarumma, ma anch’io o la signorina Else, che potrebbe tranquillamente essere un uomo -, può chiedersi, ma con chi starò mai parlando? con il mio nemico mortale? dietro al nick non si teme il ragazzino che fa i pernacchi, ma il conoscente, il collega che grazie al paravento dello pseudonimato può in qualche modo, se non esplicitamente danneggiarci, prendersi malevolmente gioco di noi. Tuttavia se una persona ha obiettivi di questo genere ha parecchi strumenti a disposizione, e anche più efficaci di un thread sotto un post.
Ma come dicevo sopra, e altri con me, si possono mettere i paletti ed esigere dati anagrafici certi; quasi nessuno lo fa, perché questo tiene lontani molti commentatori e il blog deperisce. Infatti nessuno qui mi ha obbligata a postare con il mio nome anagrafico, lo avessero fatto, lo avrei fatto. Mentre, anche chiedendo i dati anagrafici, dai cretini è difficile liberarsi. IMO, con le asimmetrie è meglio imparare a giocare.
Tra l’altro la signorina Else ha ragione, ci sono stati anonimi, e anche troll, deliziosi, dotati di una capacità di gioco straordinaria, oltre che di intelligenza. Chi erano? chi lo sa, hanno lavorato gratis per il nostro piacere.
[visto, Donnarumma? è un blog :D]
buona giornata a tutti
On Nicknames.
Three Sketches, or Little Dialogues Between Jonathan Swift, Dean of St. Patrick’s Cathedral, Writer, and Alcor, Dame de Lettres, Blogger.
I.
– Alcor, allora.
– Sì, reverendo.
– Ganzo. Mi piaceva un sacco Goldrake.
– Prego?
– Ma sì! Alabarda spaziale!
– Spaziale?
– Venusia, la ricorda Venusia?
– Mi perdoni, ma io… in verità…
– O era Mazinga?
– Non la seguo.
– Lei mi fa venir certi dubbi…
– Il dubbio è una risorsa di saggezza.
– Mica solo! Venusia… Certi missili!
– Ripudio ogni forma di violenza.
– Signora, l’eros è violenza.
– Padre!
– Ma che padre! Si metta comoda! Lo sai che noi protestanti ci possiamo sposare?
II.
– Alcor…
– La prego! Non insista!
– Non sia crudele.
– Guardi, mi son documentata: http://it.wikipedia.org/wiki/Alcor_(disambigua). Lei ha equivocato.
– Sul serio?
– Sì. Come ha potuto pensare che io attingessi ai cartoni animati giapponesi?
– Ma il suo nome…
– Alcor è il nome di una stella!
– Mia Stella!
III.
(Festa mascherata. Notte)
– Buonasera.
– Buonasera. Bizzarro, il suo déguisement (http://www.serateotaku.it/goldrakeS.html). Cos’è? Un vichingo? Un alabardiere?
– Più o meno.
– E con chi ho l’onore?
– Mi chiami Antoine.
– È francese? Strano, dall’accento non si direbbe.
– Oh, io son della comune patria delle anime amanti.
– Allora, siam anime fraterne.
– Spererei non vi fossero legami di sangue fra noi, ma belle guerrière.
– Sarebbe improbabile, sebbene, tra le maschere… Ma del resto, perché mai?
– L’incesto è un peccato abbominoso.
– Che dice!
– Madame, io l’amo.
– Swift! Ancora lei! E scenda la mani!
[Per le cose serie, più tardi.]
:–) esatto! Come ha potuto pensare che io attingessi ai cartoni animati giapponesi?
sono quella stellina dalla luce quasi inavvertibile. un nick oftalmico.
@Signorina Else: considerato che una comunicazione su un piano di completa parità è impossibile, bisogna tuttavia impegnarsi perché a questa irraggiungibile parità ci si avvicini. Considerato che il Sant’Uffizio non ha più lo stesso potere di quattro secoli fa, forse se ci rimbocchiamo le maniche qualcosa in più della satira immorale si riesce a cavarla. E’ vero che esiste anche il gioco, ma non solo quello. Siccome io credo nella forza del dialogo, mi chiedo perché ci si debba degradare in partenza allo pseudonimato o all’anonimato. Sono proprio necessari questi giochetti d’identità per non subire l’autorità dell’interlocutore? O si può credere abbastanza nelle proprie idee per tentare di convincerlo attraverso di esse, e di esse soltanto? Lo pseudonimato è una risorsa per mettersi sullo stesso piano dell’interlocutore indebolendolo, dice lei. Io credo che in fin dei conti, nel quadro che traccia lei, l’unica cosa riesce indebolita sia proprio il dialogo. Si sottintende in un modo o nell’altro che il dialogo non sia la cosa più importante, che non sia possibile riflettere insieme su un argomento e cambiare idea; che sia invece più importante essere in qualche modo alla pari, non importa tanto come, purché la forza muscolare messa in azione al momento del proprio schierarsi sia la stessa (e qui secondo me Donnarumma ha ragione da vendere).
Mi si dirà: proprio perché credo nelle mie idee e in esse soltanto il nome con cui mi firmo non conta. Ma io credo che proprio non firmandosi lei aderisca in qualche modo, o in qualche modo dia potere a quel gioco d’autorità a cui vuole con la sua mossa sottrarsi. Diversamente da come dice lei, l’arma della pseudonimia non agisce “in nome della democrazia”, perché in democrazia le idee hanno nome e cognome: e nome e cognome sono una convenzione, sì, ma quella convenzione che unisce ogni giorno le nostre idee al nostro agire, e che fa in modo che ciò che io adesso dico qui, io sia portato a tentare di metterlo in pratica anche fuori. Nel quadro che dipinge lei, parole e azioni, in quanto scollegate, risultano entrambe indebolite. La sua mi sembra una delle tante identificazioni con l’aggressore di cui siamo pieni fin troppo: il mio interlocutore mi impone l’autorità come mezzo d’accesso alla discussione, e io me la devo guadagnare in qualche modo (non foss’altro che postulandola dietro un nome falso). Perdere il nome non è dire che il nome non conti, è affermare due volte che esso conti molto più dei contenuti.
Ha presente? “Se dici che questo bastone è reale, ti colpisco. Se dici che non è reale, ti colpisco. Se non dici nulla, ti colpisco.”
La discussione letteraria in Internet e’ stata pionieristica fra il 1995 ed il 2000, quando la forma di aggregazione pubblica era la mailing list (ci si iscriveva con la propria mail ad un indirizzo mail comune verso il quale e dal quale si inviavano/ricevevano tutte le comunicazioni del gruppo, che venivano lette da tutti) o il forum (come quello di Clarence). Per quanto mi e’ stato possibile, ho reso di nuovo pubblici la webzine Pseudolo (1998-2002) e il sito statico nabanassar (2002-2009).
Qui si cita un articolo da Nazione Indiana sulla verifica dei poteri 2.0 che e’ in realta’ la dichiarazione di morte storica di tutto quel c’e’ stato prima della forma blog, perche’ non censito e gia’ sorpassato dalla civilizzazione che ne e’ seguita. A me pare tuttora inopportuno discutere di rete partendo dai blog letterari odierni. Dopo il periodo pionieristico, in effetti, l’internet e’ stata resa alla portata dei piu’ prima attraverso i blog e poi i social network, ma i pionieri della prima ora si sono spostati a fare altro, continuando il discorso su altri tipi di aggregazione (ad esempio nei forum dove si programmano apps per gli smartphone o in aggregazioni che fanno comunicazione virale e cosi’ via).
Un approccio piu’ fedele per inquadrare la questione, dunque, mi pare quello antropologico-sociale: esploratori (quelli che hanno fisicamente costruito la prima rete, dunque scienziati/tecnic), pionieri (quelli che l’hanno popolata all’inizio, in genere giovani svegli e curiosi), intraprendenti (quelli arrivati dopo i pionieri, curiosi anche loro), massa (quando e’ divenuta una moda). C’e’ pero’ una curiosa sfasatura: i critici letterari sono arrivati in rete, da pionieri, quando questa era gia’ di massa (diciamo nel 2003-4-5), e sono stati sdoganati da piattaforme intraprendenti a loro vicine, come Nazione Indiana che ospitava Cortellessa & C. e gli offriva sempre piu’ spazio, fino a venirne divorata nei toni e nell’impostazione, ora politica prima che letteraria.
In tutto questo, il prof. Donnarumma non fa una gran figura oggi, con questo post in un nuovo blog nell’anno 2011, se non forse quella del professore in libera uscita, in ritardo rispetto alla fase di spinta dell’internet ed in ritardo rispetto alla discesa in campo dei suoi pari ruolo piu’ intraprendenti, come Cortellessa. Insomma, siamo alla massa dei praticanti ufficiali del discorso letterario. Quelli che dunque sembrano problemi generali, presentati in questo post, sono in realta’ i problemi dell’ultimo newcomer.
Se il livello antropologico della discussione letteraria ufficiale e’ questo, o se la discussione letteraria ufficiale si debba occupare del tempo delle masse, nei modi e nei tempi consumistici da questa praticate, e’ ancora la questione fondamentale ma gia’ molto dibattuta in internet prima di questo post del prof. Donnarumma. A suo uso mi permetto di citare un sito aggregativo virtuoso del discorso letterario praticato da accademici-pionieri del ramo, nella forma del sito http://www.sguardomobile.it/ molto attivo fra 2005 e 2009, ora quasi del tutto abbandonato.
Ho letto attentamente tutti gli interventi di questo post (fino al 20 ott. 2011 ore 02:10) e imparato molto da opinioni, analisi e ipotesi di persone colte e più preparate di me in fatto di letteratura e Web. Eppure temo che la questione centrale posta da Donnarumma («a) per chi si scrive sulla rete? b) di che cosa scrivere sulla rete? c) come scrivere sulla rete?») sia rimasta alla fine inevasa. Perché? Tento una mia spiegazione: perché un po’ tutti mascherate i termini politici della crisi di questa democrazia, restate nel vago o al massimo li riconducete alla micropolitica dei rapporti professionali o costruiti nel Web come “volontari”. Non è un caso che gli unici due post apparsi su LPLC d’argomento politico “generale” («Una crisi del Capitalismo» di Bellofiore ; «Sulla manifestazione del 15 ottobre a Roma»;) abbiano ricevuto pochissimi commenti: psicologismi e sociologismi hanno preso il posto di ragionamenti politici d’ascendenza marxiana o gramsciana o fortiniana, per me ancora fondamentali, ma assenti penso dalle vostre bibliografie.
E, dunque, la crisi «sotto il bel cielo d’Italia» della democrazia (e non solo dei blog o del Web) la vivete “dall’interno”, prigionieri del suo orizzonte fattosi sempre più ristretto, un po’ (troppo, secondo me) da snob, da clown, da scettici, che pur si concedono la distrazione di mescolarsi e parlar male della plebaglia incolta che, in assenza di meglio, si è rifugiata nel Web.
Il ritratto – psicologizzante, impressionistico, nei dettagli anche veritiero, ma sempre malignetto e sprezzante del frequentatore tipico dei blog, che Donnarumma ha disegnato, risente di questa miopia e ingenerosità politica. Mille volte meglio una seria inchiesta sociologico-politica di questa intellettualità inquieta. Ma chi la potrebbe fare? Chi ne ha tra voi voglia? La critica al Web e ai blog si fonda sulle bibliografie della Policastro (grazie, ma quanti le conoscono e, soprattutto, sono state digerite?). E perciò oscilla: ora pensierini da democrazia liberale («La democrazia non dovrebbe essere un posto dove tutti dicono la prima cosa che gli passa per la testa (quello, si chiama carnevale), ma dove tutti sono messi in condizione dire la cosa migliore che possano dire»); ora antipopulismo generico («Il web, invece, sdogana il principio del «dite anche voi la vostra», che è populismo in genere becero»); ora difesa ad oltranza del “nuovo” solo perché “nuovo”. E sempre – lo ammetto – con lessico appropriato, citazioni non banali, stoccate e allusioni polemiche calibratissime.
Ma poi, arrivando al dunque, al che fare? Quale misera (politicamente dico) proposta:
« E allora? Raccogliamo intanto firme per un referendum in cui si chieda la proibizione a chicchessia di scrivere sotto falso nome. Anzi, strafacciamo: chiediamo l’immediata abolizione dei forum, che dico?, dei blog letterari»( Donnarumma).
Si chiede in sostanza ai blogger di chiudere la bottega appena aperta e di suicidarsi. A me fa pensare alla proposta del «suicidio degli intellettuali» di moda nel’68 in vista della rivoluzione proletaria. Ma qui di rivoluzioni non si ha sentore. E allora – mi chiedo – perché non mantenere almeno la distinzione tra ruolo e funzione che faceva Fortini? Se non riconoscete neppure un’ambivalenza ai processi che in Rete possono o potrebbero avvenire, se siete convinti che in essa non solo non ci sia attualmente democrazia (cosa su cui concordo), ma neppure possa nascerne una d’altro tipo, quelle domande cruciali Donnarumma a chi le pone? Tanto vale, come ha fatto notare qualcuno, tenersi la Rete così com’è, con la sua spazzatura e le sue perle. Come accade per la “nostra” democrazia. O cercarsi selve per fare gli eremiti. Che il Web sia oggi soprattutto “valvola di sfogo” è vero, ma gli impedimenti ad una sua reale democratizzazione, che sono poi gli stessi di altre istituzioni più longeve operanti nelle nostre capitalistiche società, vanno e possono in qualche modo essere abbattuti? Donnarumma e Averroè sono (giustamente) scettici verso il valore antagonista della Rete. Ma in assoluto o relativamente all’uso che oggi se ne fa? È possibile organizzarsi POLITICAMENTE, invece che disperdersi o neutralizzarsi a vicenda, babelicamente, tra i lazzi da “ridi pagliaccio” o l’“attendismo” (“i blog passeranno perché ibridi etc. e verrà fuori quello che ci meritiamo”)? Poco condivido anche le altre due ipotesi che ho colto nei commenti: quella “impolitica” o “conviviale” di Mozzi: usare la Rete o i blog per «trovare degli amici con i quali parlare» (vabbè, parliamo, ma per quale obiettivo?); e quella combattivamente “riformista- antagonista- pluralista” della Policastro, che in nome della “bibliodiversità” contro l’«omologazione» sgomita per passare (individualmente) dalla marginalità o dalla perifericità alla “visibilità” (ovviamente”democratica”). Tutto qua. Queste le mie amare considerazioni che metto nel loculo-commento.
P.s.
Se «le discussioni nate da «Sull’equivalenza narrativa terrorismo:oscurità» di Brogi, sempre su LPLC, o questa stessa» si incagliano, non è perché dei teppisti (come il sottoscritto con nome e cognome o altri con nickname vari, su cu tanto ricamate) le sabotano.
Vorrei che su LPLC non passasse questa sorta di leggenda nera, per cui io avrei INSULTATO la Brogi. Leggenda, che vedo ripresa come fosse un’evidenza scientificamente provata da Donnarumma e persino da Averroè. Vedete che mi è stata appiccicata addosso e in fretta, interrompendo la discussione sotto quel post, impedendomi di replicare e di spiegare perché avevo pubblicato (tra le altre cose) anche una scandalosa lettera anonima. Una volta cose del genere rientravano nel campo della critica, le si discuteva approfonditamente; e non arrivavano subito i probiviri o i moderatori ad azzittire, facendo passare per universali i valori magari condivisi dalla maggioranza dei frequentatori di LPLC. Ringrazio, infine, Capastina per le buone intenzioni, ma non accetto neppure l’etichetta di «grillo collodiano». Preferisco quella di dissidente.
@ Abate
«Che il Web sia oggi soprattutto “valvola di sfogo” è vero, ma gli impedimenti ad una sua reale democratizzazione, che sono poi gli stessi di altre istituzioni più longeve operanti nelle nostre capitalistiche società, vanno e possono in qualche modo essere abbattuti?»
Io direi che non possono. Noi non usiamo piattaforme virtuose e davvero libere, usiamo piattaforme che al di là delle eventuali intenzioni virtuose degli esploratori e dei pionieri, come li definisce bene Giusco, rispondono alle esigenze del capitale. Detto brutalmente, noi le usiamo, ma servono ad altri per far denaro facendo circolare la comunicazione, quale che sia. E anche rendendola innocua, quando è possibile. E credo che di questo siamo tutti consapevoli. Le piattaforme, e soprattutto quelle dei socialforum, organizzate in modo molto più rigido dei blog, non sono nelle nostre mani.
Nelle nostre mani ci sono i discorsi che ci si possono fare, e forse è di questo che parlavi, ma anche qui, è nelle nostre mani far convergere l’attenzione su un post o un altro? o su un blog o un altro? o su una linea politica o un’altra? Poco. Sia in rete che fuori. E questo poco sfiora il niente. Organizzarsi politicamente è possibile, ma non meglio di “fuori”, solo più rapidamente e comunque in parallelo al fuori. Se fuori non c’è niente, neppure in rete ci sarà niente.
Io non ho mai creduto nella funzione salvifica della rete. E’ uno strumento del nostro tempo, uno strumento in più, ma che non ha modificato i rapporti di forza dall’interno o dal basso, li ha velocizzati. E in alcuni casi di emergenza sociale questa velocità è servita e può servire.
E ha allargato la piattaforma di chi può prendere la parola. Questo potrebbe essere in effetti il vantaggio, il lato democratico della questione. Ma “quale” parola?
Scusami, ma la stessa domanda avrebbero potuto farsela i primi utilizzatori del telegrafo, del telefono, della rete ferroviaria. E’ aumentata la velocità delle comunicazioni, e perciò anche delle azioni, è aumentato anche il numero di persone che hanno avuto accesso a questi strumenti, ma poi i meccanismi politici, rapidità della comunicazione e numeri a parte, mi pare non siano molto cambiati.
L’unica differenza è che qui stanno parlando persone che difficilmente senza la rete avrebbero parlato tra loro – che poi è il massimo che io personalmente ne ho ricavato, in questi anni – cioè in fondo proprio quella “impolitica” o “conviviale” di Mozzi.
Se politicamente la rete non offre altro che una piazza più numerosa e variegata, è perché politicamente la situazione del paese è quella che è, non il contrario.
Poi c’è anche l’altro lato della questione, l’autopubblicazione, per esempio. Che a qualcuno può sembrare estremamente democratica. Oggi ho letto della ulteriore mossa di Amazon negli USA, contro la quale si sono rivoltate le catene librarie (catene, notare). Da noi arriverà in ritardo, ma le prime avvisaglie in tono minore mi pare di poterle vedere nella politica della Newton Compton. E’ quasi commovente vedere tutti noi, me compresa, discutere qui di nick e differenze di rango tra commentatori, quando sopra le nostre teste succedono cose che manderanno a gambe all’aria tutte le nostre categorie.
IMO, come sempre, ovviamente.
@ Il fu GiusCo
Scusi, ma il fatto stesso che un pioniere come lei, che dovrebbe spendersi esplorando nuove frontiere, senta il bisogno di venircelo a dire qui, smentisce la sua posizione, e dimostra che questo sito è attraente, per quanto i suoi contenuti possano sembrarle superati (che le idee si superino con dibattiti definitivi è poi tutto da dimostrare, altrimenti critici non staremmo ancora ad accapigliarci su questioni aperte da Platone).
Forse è vero che Donnarumma, riponendo “vecchie” questioni, si è rivolto a dei “generalisti”: ma, se interpreto lo spirito delle Parole e le cose (è la ragione per cui io le frequento, e spero di non sbagliarmi) proprio questa è la scommessa. Ciò che conta è anche il genere di pubblico: non nicchie di sperimentatori dal linguaggio iniziatico, ma lettori e scrittori, specialisti di campi diversi (e non certo solo di critica in rete) che abbiano voglia di discutere problemi trasversali e di interesse comune. Si chiama “discussione pubblica”, o “critica”, è un genere nato nei caffé settecenteschi, se non con Socrate, ha la polemica nel suo codice genetico e, quando funziona bene, può servire a produrre la rivoluzione francese.
A contare, inoltre, non è solo la novità di singole posizioni, quanto la “formula” per dibatterle al meglio: ed è di questo, in sostanza, che stiamo discutendo da giorni, tutti d’accordo, pur nella diversità di opinioni, che il blog sia un medio dalle potenzialità interessanti. Ho fatto un giro sul “sito aggregativo virtuoso” da lei consigliato, e, mi lasci dire, mi è sembrato decisamente vizioso. A cominciare dal sottotitolo ingrato e dalla grafica triste. Forse lo avete abbandonato perché non piaceva neppure a voi.
@Gerace
Ma sono d’accordo con lei, e apprezzo molto il coraggio nel difendere le proprie opinioni. Ma il suo, di gioco, non esclude il mio, e le garantisco che in tutti gli altri aspetti della mia vita pubblica difendo fieramente la mia firma. Questa, che è nata un po’ per caso, è solo una possibilità in più, di cui sto esplorando e apprezzando le potenzialità in tempo reale.
(Poi, l’ho già scritto in un altra discussione, e mi scuso per la ripetizione: anche quello dell’eroismo a tutti i costi è un po’ un luogo comune, non certo nella valutazione morale degli uomini (massimo rispetto per i martiri della coerenza) quanto per il bene delle cause intellettuali. Mentre Giordano Bruno moriva sul patibolo, i “vigliacchi” Cartesio e Galileo (vedi Brecht) facevano andare avanti la scienza moderna, per non parlare della letteratura critica clandestina (tutti trattati anonimi) e delle tradizioni di contestazione satirica del potere. Ma mi rendo conto che tutto questo è sproporzionato rispetto alla discussione presente e per i compiti di un blog. Volevo solo porre il problema ).
@Ennio Abate
La leggo al momento di postare il mio intervento, ma le dico: bentornato!
Leggo ora, a risposte già preparate, quanto scrive la signorina Else, con cui concordo e che, anzi, è più limpida di me. Mi viene impossibile rispondere a tutti, e me ne scuso. Vorrei tornare in futuro su alcuni problemi che sono emersi o stanno emergendo dalla discussione – anche perché, altrimenti, diventa faticosissimo seguire tutto il thread.
@ Il fu GiusCo
Mi spiace che lei intervenga così tardi: alcune delle questioni che solleva sono già state discusse. Come vede, a inseguire l’aggiornamento, si finisce un po’ sempre ritardatari. Devo registrare, in lei come in altri che hanno frequentato e frequentato la rete con assiduità (e che, anzi, l’hanno fatta), un atteggiamento un po’ supercilioso e scostante: «Che ne sapete voi, profani!, di noi che collezioniamo francobolli da una vita? Io c’ho pure il Gronchi rosa». Naturalmente, se dovete fare tutte le vostre cose fra voi, vabbè: io che c’entro? Però, se ci teneste a parlare anche a qualcun altro (voglio dire, anche a qualcun altro oltre ad Andrea Cortellessa)…: «Son qui, m’ammazzi» (I promessi sposi).
Lei è informatissimo, e l’ho letta con grande interesse (non conoscevo, p. es. http://www.sguardomobile.it/). Però non credo – come spero di poter argomentare anche in futuro – che il suo tono esoterico-corporativo sia quello che ci vuole in una discussione come questa. Meglio i professori in libera uscita, che quelli che rimangono professorali sempre (peggio ancora, se non sono professori davvero). Quanto a http://www.sguardomobile.it/, perdoni il giudizio estremamente superficiale e affrettato: a naso, direi che non è il tipo di cose che mi interessano di più perché gli accademici (pionieri, indiani, o confinati nelle riserve) li incontro semmai in accademia. Rendere pubblica una discussione che si svolgerebbe molto meglio in un’aula di seminario può essere utile, ma, forse, è anche un modo per sottoutilizzare il mezzo. Guardi che i professori (come me) parlano con gli studenti, mica solo fra di loro: perciò imparano che la prima cosa che occorre è farsi capire, anche da chi li fissa con occhi vuoti.
Infine, lei riterrà «inopportuno discutere di rete partendo dai blog letterari odierni»; ma che vuole? Taluno non riterrà così contrario all’opportunità parlare dei blog letterari su un blog letterario nato da poco (e per lei già morto, par di capire). Poi, mi auguro che lei voglia darci i suoi contributi antropologici-sociali, senza costringere ogni suo interlocutore a fare l’antropologo-sociologo, specie se le ammette serenamente che non è il suo mestiere.
P. S. Mi è venuta da immaginarla così, ma non se la prenda.
GiusCo
20 ottobre 1721 alle 16: 21
@ Montesquieu
Leggo ora, fresche di stampa, le sue Lettres persanes. Lei arriva tardi, signore: l’abate Galland ci ha regalato un’ottima traduzione delle Mille e una notte or sono diciassette anni. Oltretutto, lo sappia: il romanzo epistolare è un genere morto. Tempo un paio d’anni, e nessuno più si ricorderà cos’era. E poi scusi? Ma che vuole ne capiscan, quei persiani lì, della Francia? Ci hanno messo appena piede, ancora fetidi di cammello, le menti ottenebrate di pregiudizi orientali, e si permettono di dire a noi cosa pensar di noi stessi? Desista da queste turcherie, lavori a qualcosa di serio (che so? la filosofia politica! lo spirito delle leggi!), e si documenti, che è meglio.
GiusCo
20 ottobre 1831 alle 16: 35
@ Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Un po’ tutto.
Ma via! è dai tempi di Platone, che se ne parla… E ora, arriva lei, Herr Professor, per di più da una sede decentrata come Berlino, con tutti quei nomi, e balbuziente!
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@ Abate – Lazzaro (in quanto uscito fuori dal «loculo-commento»)
Leggo sempre con attenzione quel che lei scrive. È vero: ci si può girare intorno, ma senza dubbio il problema del web è quello politico della crisi delle democrazie. Affrontarlo a partire da «Aboliamo i blog letterari», magari, non è il caso. Aggiungo (e non ce l’ho con lei) che non amo chi si impanca a disquisire delle Sorti del Mondo per ogni foglia che cade, nella grottesca autopromozione dell’intellettuale (scalzato) a Coscienza del Secolo.
Poi, non può pretendere analisi ortodossamente marxiane o gramsciane o fortiniane da chi non è ortodossamente marxiano o gramsciano o fortiniano. Se crede, ce le offra lei (dico sul serio). Quanto ai pensierini da democrazia liberale: tolto il fatto che io potrei essere (e non sono affatto) un popperiano, e questo non delegittimerebbe in partenza quel che dico – guardi, è già tanto con l’aria che tira. Spero non pensasse a me quando parlava degli spregiatori della plebaglia incolta: sebbene l’arroganza degli ignoranti mi urti (ma meno di quella dei colti, o degli informati), e proprio perché faccio il professore e non il pierocitati, forse sto con la testa da tutt’altra parte.
Sul suicidio dei blogger, mi scusi: ma che fa? mi prende alla lettera? pure lei? Andiamo…
Io credo che quelle che lei generosamente definisce le questioni centrali poste da me (a chi parlare in rete? come e di cosa scrivere?) non abbiano ricevuto nessuna risposta (né attenzione) per moltissimi motivi. Ho delle idee in proposito, e vorrei argomentarle un po’ in un prossimo post (e non si aspetti certo lo studio serio da rivista di sociologia ecc. ecc.: il perché, lo scoprirà leggendomi in futuro. Nel thread comunque ci sono le famose bibliografie). Azzardo qui giusto un paio di cose. In rete si tende a far gruppo e ad autolegittimarsi, ricostruendo i legami del fuori. Quindi: accademici con accademici, exsessantottini con exsessantottini (non se la prenda!), aspiranti scrittori con aspiranti scrittori, ecc. Porsi il problema di parlare ad altri, quello, no: troppa fatica, in effetti. Lei sarà deluso che non ne faccia una questione di egemonia. Però, altro che egemonia! Qui non sappiamo neppure in che lingua parlare! Ogni discussione rivela che non abbiamo un alfabeto concettuale comune. Il carattere autoriflessivo o autoreferenziale di moltissime discussioni rivela che la prima occupazione è prendere posizione nel campo, indipendentemente dal tema. Importa far vedere che si sa tenere la scena (e qui concordo con molte cose scritte da Averroè).
Ammetterà che parlare a lei, a Giulio Mozzi e a Alcor insieme è difficile – precisamente perché io vorrei (ma non credo siamo poi in tantissimi) parlare insieme ad Alcor, Giulio Mozzi e lei. Non nel senso che cerchi un’insensata concordanza fra tutti: ma nel senso che mi piacerebbe ci fosse un terreno davvero comune sul quale impiantare il contrasto delle idee. In genere, invece, uno dice mela, e quello intende pesca, un altro tela, un terzo ti accusa di essere antisemita.
Debbo dire, poi, che trovo un po’ buffo che qualcuno (lei, certo, molto meno di altri) non si accorga o faccia finta di non accorgersi che io credo moltissimo nella discussione e nella discussione in rete e che, mentre faccio lo spiritoso e lo sdegnato, in realtà penso ai mezzi non per correggerla autoritariamente, ma perché ci autocorreggiamo da noi. Questo, spero, non le parrà pallido liberalismo – perché è semmai illuminismo.
Perdoni la brevità: ma per risponderle sul serio, come dicevo, ci vuole ben altro spazio.
P.S. Intendo il riso come un modo, anzitutto, per grattar via una certa vernice di sussiego intimidatorio e di frammassoneria intélo, e come uno strumento retorico di persuasione. Quanto più vedo reucci, dottoroni, principini, tanto più mi viene da esser clown. Alla lunga stufa, ma non intendo rinunciare.
@ Donnarumma
In verita’ ripongo buona fiducia in questo sito, che mi pare -dal colophon, dal manifesto e dai primi post usciti- composto da validi operatori e praticanti in proprio. C’e’ oggi molta confusione nei ruoli e sui confini fra partecipazione e rappresentativita’ nella vita pubblica. Come scrive alcor, molti subiscono il mezzo e ne vengono agiti. Il modello sguardomobile a me appare, a questo punto, piu’ significativo e rispettoso delle masse del modello Nazione Indiana e spero che leparoleelecose tenda a quello. In ogni caso, in bocca al lupo a lei per la sua attivita’ telematica.
Non so esattamente quali sono i blog letterari di cui si parla in questo post e di cui si desidera l’abolizione: quelli che seguo io sono scritti in maniera pacata, con nomi e cognomi, scritti con gran competenza e curiosità intellettuale.
E poi non capisco poi perché abolirli, anche se così non fossero!
Sfoghi, voglia di protagonismo, eccesso di egocentrismo? Tutto vero, e allora?
Ognuno segue quello che vuole seguire, che problema c’è?
In rete non stanno rubando “spazio mediatico” come invece succede con i media tradizionali.
Anche in tv fanno delle trasmissioni orribili con “sciocchezze madornali, asinerie da arrossire, mostruosità diaboliche”.
Personalmente non li seguo, anzi cambio canale in maniera repentina perché provo persino vergogna nell’essermi incrociato con questo marciume.
Ci sono però altre trasmissioni interessanti, ben fatte, culturalmente valide.
Buttiamo il bambino con tutta l’acqua sporca?
Del resto un effetto benefico ce l’ha comunque tutta questa sovrabbondanza: eliminare la sacralità dei giornalisti e degli scrittori!
Oggi tutti hanno la possibilità di esprimersi, la differenza la fa solo la competenza e non la dipendenza economica o gerarchica di cui soffre la cultura cartacea.
Sinceramente mi sembra un appello abbastanza irrilevante: la rete viaggia parallelamente su milioni di binari.
Volerne chiudere alcuni per imbecillità è solo intolleranza e incapacità di comprendere i cambiamenti.
Sarebbe meglio cercare di allevare meno imbecilli; la società ne avrebbe dei vantaggi e molta letteratura-spazzatura scomparirebbe per difetto di lettori.
Un blogger letterario, professionista orgoglioso di potersi concedere il lusso della carriola
@ GiusCo
Grazie! Anche a me LPLC piace. Lei a Alcor avete ragione: spesso il mezzo ci agisce.
@ Savarino
«Buttiamo il bambino con tutta l’acqua sporca?»
No no: buttiamo il bambino, l’acqua, la tinozza, la mamma che lo lava, appicchiamo le fiamme alla casa e quando torna il papà lo deportiamo in un gulag – così poi voglio vedere se si azzarda ad avvicinarsi a un lavandino per rinfrescarsi.
Perdoni: anche una persona così garbata e così illuminata dal buon senso come lei mostra quanto male possa funzionare questo trabiccolo. Se leggesse qualcuno dei commenti quassù, vedrebbe che ci siamo già interrogati sulle questioni che lei pone giustamente. La mia tesi è che i blog non abbiano affatto eliminato «la sacralità dei giornalisti e degli scrittori» (e le sono grato per l’eleganza e l’anticonformismo con cui non ha aggiunto: dei professori). La risposta «cambiate canale» è un po’ fiacca. È come se mi proponessero di emigrare, visto che ci sono al governo Berlusconi & C.
Per Giulio Mozzi:
“La questione è dunque: come si può continuare il gioco alla luce del giorno, e tuttavia in penombra?” Questa è forse una di quelle frasi che lei rimarcherebbe scrivendo: Che cosa significa esattamente? Che questione è “come si può continuare il gioco alla luce del giorno, e tuttavia in penombra?”
*
“Che relazione c’è tra il narratore romantico e sentimentale di Questo è il giardino (1993) e l’algido nevrotico che scrive il presente testo? Che c’entra la rete con questa evoluzione? (Ma già nel risvolto di copertina di Questo è il giardino fornivo il mio indirizzo di casa, mi rendevo reperibile – e fui reperito, infatti).” Questo sarebbe notevole saperlo direttamente da lei. Sicuramente fornire il proprio indirizzo di casa è cosa immensamente diversa dal discutere in un blog. Questo è certo.
*
“Io son qui che parlo, cerco di farlo meglio che posso, da qualche parte ci sono – spero, e l’esperienza conferma la speranza – di trovare degli amici con i quali parlare.” Questa qui appare essere una grande cosa. Ed è la cosa che è, senza penombre, alla luce del giorno.
Un cordiale saluto
Adelelmo Ruggieri
Più esattamente: Che questione è “come si può continuare il gioco alla luce del giorno, e tuttavia in penombra?”?
Traduco, Ad.: in che modo si possono continuare a fare in pubblicazioni alle quali tutti possono accedere (come Le parole e le cose) i giochi di corteggiamento, intimidazione, adulazione, smarcamento, eccetera, che fino a non molto fa si potevano fare nelle riservatissime pubblicazioni accademiche?
Non riuscirò mai a capirlo: in Italia chi si dovrebbe occupare di politica mette in scena saporose commedie di costume, si dà alla farsa, intesse faticosamente con la propria vita la materia dei romanzi dei prossimi quattro secoli. Insomma fa letteratura nel senso più nobile e concreto del termine.
Chi invece si dovrebbe occupare di letteratura, di leggere, studiare commentare, romanzi, racconti, poesie non fa che parlare di democrazia, potere, autorità, libertà, mercato, rivoluzione. Insomma fa quello che almeno da noi fa la politica. Perché fate così?
Perché tra di voi il parlamento si sente in concorrenza con il teatro dei reality-shows e si sforza di trasformare la vita pubblica in un magnifico palcoscenico e il dibattito politico in una sequenza di indimenticabile tableaux vivants, e invece i giornalisti letterari non fanno che discutere di rapporti di dominazione, di proletariato, di rivoluzione? C’è qualcosa che mi sfugge…
E un’altra cosa è difficile da capire per noi arabi rozzi e primitivi: da noi, chi scrive di romanzo, poesia, teatro sui giornali si chiama giornalista, ed è semplicemente un giornalista. L’arabo è una lingua molto elementare. Qui invece tutti si piccano di essere “critici militanti”. All’inizio pensavo che si trattasse di critica nel senso dell’arte del giudizio estetico. Poi però leggendo i vostri interventi mi sembra di capire che in realtà si tratta di un giudizio portato necessariamente contro la società. Per questo, mi pare di capire, trasformate il giornalista in un guerriero. Ma contro chi sta combattendo? A chi fa sta facendo la guerra chi chiosa in una pagina un romanzetto appena uscito?
Scusate le mie ingenuità: l’arabo che è in me è un po’ disorientato! Nel nostro paese l’unica forma di critica letteraria permessa è la teologia! E non riesco più a seguire gli ultimi sviluppi della discussione…
@Savarino
Continuo a non capire, ma dipende sicuramente dal mio ottuso retroterra arabo. Perché dovrebbe essere uno scopo «eliminare la sacralità degli scrittori»? E che bisogno c’è di mettere sullo stesso piano un giornalista e uno scrittore? E ancora, un giornalista, uno scrittore e un blogger? Capisco ogni aspirazione alla democrazia, ma cchi è riuscito a scrivere qualcosa come la Recherche non può essere nemmeno lontanamente paragonato a un giornalista. Non è un problema di giudizi soggettivi: un romanzo resta, un articolo si sbriciola dopo qualche mese.
Fantastici i due interventi di Averroè: come sempre, ci vuole qualcuno dall’esterno – qualcuno con gli occhi imparziali e la mente sgombra dai fumi di chi sta dentro ad un sistema – per dire che il re è nudo.
@ Averroè
«A chi fa sta facendo la guerra chi chiosa in una pagina un romanzetto appena uscito?»
Le rispondo in arabo:
Al senso frustrante, e terribile, della propria irrilevanza; e a prendere le armi è la nostalgia dei bei tempi in cui c’era l’intellettuale legislatore.
“C’è qualcosa che mi sfugge…”, è inevitabile, Averroè, per tutti quanti è così; e qualcosa sfuggirà anche alla teologia (al divino in quanto tale)… …. Comunque sia, che sfugga o meno, disanima letteraria e teologia non sono la stessa cosa. E qui, su questa colonna, ci sono delle persone che stanno discutendo tra di loro, che stanno cercando di farlo il meglio che possono, con gli argomenti di cui dispongono. I miei per fare un esempio molto pochi: leggo e cerco di capire ciò che sto leggendo, come uno studente di cinquantasette anni, tutto qui; e continuo a leggere perché mi ha interessato ciò che ho letto, perché ciò che sto leggendo mi istruisce – mi dà delle istruzioni. Ma forse ha ragione… meglio il divino in quanto tale, che l’umano in quanto tale… anche se non credo che questa sia la sua tesi. Di sicuro c’è un fatto: quando eravamo, siamo, sui banchi di scuola e ci stavamo, ci stiamo, formando era fondamentale tanto l’insegnamento della Lingua e Letteratura Italiana tanto quello che ci stavamo dicendo, ci diciamo, tra di noi. Le due cose stanno insieme, inevitabilmente, perché siamo vivi. In una qualche maniera è come dire che l’esistenza precede l’essenza, ha perfettamente ragione Abū l-Walīd.
No, non li aboliamo i blog letterari.
Un cordiale saluto, felice sabato e felice domenica
Adelelmo
«L’arabo è una lingua molto elementare. Qui invece tutti si piccano di essere “critici militanti”. All’inizio pensavo che si trattasse di critica nel senso dell’arte del giudizio estetico. Poi però leggendo i vostri interventi mi sembra di capire che in realtà si tratta di un giudizio portato necessariamente contro la società. Per questo, mi pare di capire, trasformate il giornalista in un guerriero. Ma contro chi sta combattendo? A chi fa sta facendo la guerra chi chiosa in una pagina un romanzetto appena uscito?» (Averroè)
Non è forse «critica militante» sostenere che i giornalisti facciano i giornalisti, gli studiosi di estetica gli studiosi di estetica, i teologi i teologi, i blogger i blogger e così via? Non traspare una corposa ideologia della Letteratura in una frase come questa: «chi è riuscito a scrivere qualcosa come la Recherche non può essere nemmeno lontanamente paragonato a un giornalista»?
Certo è in arabo, non è dichiarata, non si presenta con una sua etichetta DOC. Ma ai miei occhi lo è. Non dico che rientri nel mainstream ideologico dei vincenti d’oggi, per carità. Noto però che nel suo pluralismo tollerante e olimpico non v’è spazio per chi non vorrebbe limitarsi a una «critica nel senso dell’arte del giudizio estetico» per portarla invece «contro la società». Chi una tale critica (delle parole, delle cose, della società, della politica) ancora tentasse sarebbe da squalificare immediatamente come «intellettuale legislatore»? Donnarumma non ama «chi si impanca a disquisire delle Sorti del Mondo per ogni foglia che cade». Ma possiamo far finta di nulla? Qui non cadono solo foglie. Cadono stati, dittatori “canaglie” per mano di dittatori “democratici”. Dovremmo parlarne. Non per autopromuoverci a «Coscienza del secolo». Semplicemente per non cedere all’indifferenza e non chiuderci nei loculi predisposti per professori o blogger. Non pretendo «analisi ortodossamente marxiane o gramsciane o fortiniane da chi non è ortodossamente marxiano o gramsciano o fortiniano». Non pretendo nulla. Dico la mia con la passione e l’allarme che mi assale appena ascolto un telegiornale o apro un giornale. E preferirei 1000 giornalisti “guerrieri” (non ne senso di far la guerra chiosando un romanzetto appena uscito, ma capaci, e magari con il rigore dei romanzieri di una volta, di dire verità che nella società in cui viviamo devono essere occultate per farla apparire “democratica” ) a un Proust.
Mi sento più vicino ad Alcor, che dice: «E’ quasi commovente vedere tutti noi, me compresa, discutere qui di nick e differenze di rango tra commentatori, quando sopra le nostre teste succedono cose che manderanno a gambe all’aria tutte le nostre categorie».
Poi, d’accordo, con l’aria che tira, che è davvero bruttissima, a degli illuministi come Donnarumma e Averroè tanto di cappello. Certi spifferi oscurantisti li riescono a tappare. Ma basta?
Ne «Il Tarlo della Libia» che neppure LPLC ha voluto pubblicarmi, concludevo così:
« Oh, ma Il Tarlo non la smette! Dopo aver fatto la predica ai “sinceri democratici”, continua a farla anche agli esodanti come me e a quei noi, simili a me, non rassegnati all’esistente democratico e che – inquieti, utopici, carbonari, donchisciotteschi, estremi, radicali, borderline – vorrebbero ancora “fare qualcosa”, “cambiare il mondo”, “fare una rivoluzione”. E in blog, siti, riviste, fanzine, scrivono manifesti più o meno fuori riga e gridati, che cominciano all’ingrosso così: noi popolo; noi classe operaia; noi intellettuali; noi giovani; noi donne (e femministe); noi omosessuali; e ora, persino, noi sessantenni (http://www.alfabeta2.it/2011/08/22/manifesto-per-i-sessantenni/). E a loro e a me Il Tarlo dice: Quando rifletterete meglio sulla consistenza effettiva di questo noi, di questo pronome plurale, che dite Soggetto? È davvero un noi? O un io-noi ? O ancora più io che noi? E se foste fuori gioco, masse di manovra, che – entusiasticamente, invidiosamente, narcisisticamente, artisticamente – si parlano e si scrivono addosso? E se tutto questo parlare fosse chiacchiera, rumore di fondo (come appare all’occhio clinico e cinico dei capi di stato, dei generali, dei banchieri, dei politici, dei manager)? E se non aveste più , come diceva il vecchio comunista B. Brecht il difetto di pensare? E se i pensierini che producete si ponessero – spontaneamente, automaticamente, istintivamente, liberamente, logicamente – dalla parte dei più forti e più ricchi, pur snobbandoli a ogni più sospinto? E se solo pochissimi pensieri (da Tarlo!) vi ponessero – un secondo, due secondi, faticosamente, anormalmente – di fronte alla orrida Realtà? E se nessuna rivoluzione fosse più possibile? E ai venti di guerra nulla più potessero opporre i pacifisti veri e finti, i politici di destra o di sinistra, i grandi e i piccoli statisti, chini tutti dinanzi al Paese Liberatore per eccellenza (come hanno dimostrato, in occasione di questa ennesima guerra in Libia, l’Italia, la Russia, la Cina, la Turchia, l’Iran stesso, per calcolo, per tattica, per salvare affari, per preparare nuovi piani e, appena possibile, nuove guerre anche loro)? E se i movimenti – gli indignados, i riots inglesi, le “primavere arabe” – non riuscissero mai più a farsi indipendenti e rivoluzione vera? E fossero schiuma di onde, tsunami deboli, che si sollevano ma mai sommergono gli eserciti, i burocrati, i poteri occulti, le banche che dovrebbe sommergere? E se non dovesse più spezzarsi la gabbia d’acciaio, in cui la maledetta storia ha rinchiuso questa umanità mezzo disumana, questa civiltà sempre in fondo semibarbara? Volete una buona volta chiedervi che fare? che non sia aspettare un Dio che vi salverà, un Capo che vi guiderà? E, se solo poteste usare la parola su un blog, un sito, un giornale, una rivista, in un partito politico, in una facoltà universitaria, un laboratorio di ricerca, volete chiedervi come usarla al meglio, come non sprecarla, privatizzarla, agitarla in un bicchier d’acqua, farne scolastica, commercializzarla, lasciarla appesa come una cetra a uno dei Grandi Miti (a piacimento della Tradizione antica, moderna, della neoavanguardia, del postmoderno)? Ammesso che possiate o dobbiate ancora scrivere sulla sabbia di questa Democrazia…».
Io resto inquieto e vorrei che lo foste anche voi.
@ Ennio Abate
Non conosco la sua biografia, ma deduco che lei sia un letterato: ma se davvero pensa quello che scrive, e se una frase come quella su Proust non è solo un simpatico paradosso a scopo polemico, perché, nella vita, non ha fatto proprio il politico o il giornalista?
Averroè ha ragione: questa confusione di compiti tra attività profondamente distinte per fini e linguaggi è deleteria e, mi perdoni se faccio una considerazione generazionale, anche datata: a molti di noi che non abbiamo fatto il Sessantotto suona come un insopportabile, ininterrotto lamento per l’epoca dorata e ormai perduta di una militanza “totale”.
E non perché lei non abbia ragione sulla centralità della politica: tutto lo è, comprese la letteratura, la filosofia, la musica o la pittura. Ma ognuna di queste vie di accesso alla verità ha la sua forma di immanenza. Proust è per qualcuno il prototipo dello scrittore esteta e disimpegnato (ma già Adorno derideva quest’idea come “filisteismo”), eppure ci insegna verità profondissime sulla realtà sociale. Ci insegna, ad esempio, che una classe ghigliottinata da un secolo può sopravvivere ed esercitare violenza sociale perché detiene quella strana forma di egemonia che si chiama prestigio o capitale simbolico. E la tradizione marxista avrebbe molto da imparare da questa semplice lezione, perché chi capisce, grazie a Proust, come funzioni la messa in scena dei Guermantes, capirebbe meglio anche la nostra società dello spettacolo, della pubblicità e del marketing. Non è Proust che deve confermare il materialismo storico, ma è il materialismo storico che deve imparare da Proust. Che è politico solo nella misura in cui fa molto bene il suo mestiere di scrittore.
Le rimando la palla.
Gliela rimando subito. Credo di essere letterato (di formazione) più o meno quanto lei o altri frequentatori di LPLC. E non ho fatto il politico o il giornalista (ma l’insegnante) per circostanze biografiche qui trascurabili.
Attenendomi al discorso pubblico, ben più importante, preciso che non sono un difensore nostalgico o ad oltranza del ’68 né di una militanza “totale”. Ci ho sputato di mio su entrambe a sufficienza in questi anni. Ne ho difeso, invece, l’iniziale empito ribelle da quanti, pentitisi, sono divenuti sputacchiatori di professione del loro passato “sessantottino” o “settantasettino” d’incendari per piazzarsi come pompieri nelle università e nel sistema dei media.
Per cui telegraficamente:
1. lungi da me vedere Proust come «scrittore esteta e disimpegnato»;
2. non faccio però della Letteratura un feticcio (o un’ideologia compensatoria) da porre gerarchicamente al di sopra dei “gazzettieri” (o dei blogger);
3. ne vedo le ambivalenze rispetto al potere politico (qui resto “fortiniano”: poesia al massimo “promessa di felicità”, letteratura come campo dove il conflitto – o “la verità” – s’affaccia nel linguaggio ma non può trovare soluzione o “certezza”, ecc.);
4. il “materialismo storico” è per me oggi largamente logorato quanto la letteratura;
5. perciò quel che Proust (letteratura) potrebbe insegnare onorevolmente al “materialismo storico” (politica) non basta (come dicevo anche dell’illuminismo di Averroè e Donnarumma);
6. essendo approdati in una situazione profondamente mutata e difficile da decifrare, il problema non è dialogare “tra vecchietti”(Proust e Marx o magari aggiungendo Freud, ecc.) ma discutere tra “vecchietti” e “giovani” viventi per afferrare qualcosa di questa inedita (e orrenda per me) realtà, anche tenendo conto di quelle loro lezioni;
6. altrettanto non basta fare nei “loculi” predisposti e persino molto bene il proprio mestiere (di scrittore, insegnante, giornalista, o poeta ecc.), per le ragioni (direi di impossibile convivenza tra armi e mestieri) espresse nella mia poesia del 2007 (Cfr. mio commento a MORTE IN DIRETTA di Zinato (23 ott.2011):
Uno ha detto: non si sentano in obbligo i poeti
di scrivere versi contro la guerra. Giammai!
In democrazia sono uomini come tutti gli altri, i poeti!
Nessuno pretenda di più da loro.
Facciano bene quel che sanno fare, le poesie.
Uomini come tutti gli altri sono pure i guerrieri.
Pur essi quello che sanno fare, ben fanno.
Addetta l’una al massacro permanente
l’altra orgogliosa del canto suo sciancato
maîtresses entrambe di democrazia
– oh strano accoppiamento! – guerra
e poesia assieme dunque procedano
@ Abate
Il discorso si è ormai spostato su temi che non hanno ha che fare (solo) con il web. La faccio breve.
La letteratura non mi interessa in sé, ma perché mi interessa altro. Le allegorie, però, non sono pretesti.
Quando non sono le foglie a cadere, non vedo perché non parlarne direttamente (con sensatezza). Anzi, parliamo direttamente pure delle foglie. E discutiamo di Gheddafi, avendo qualcosa da dire, ma non in questo thread.
Le pare che io voglia la chiusura della letteratura su di sé, e dei letterati nella corporazione?
Registro che lei ha bisogno di mille giornalisti guerrieri per un solo Proust. Io però mi tengo pure Proust.
Perdoni, ma sentirsi vicini ad Alcor per la frase che cita mi pare un po’ facile. Di questo passo, arriveremo a dire che non ha proprio senso parlare di blog, o di letteratura, perché c’è sempre ben altro; e neppure di Gheddafi, perché pure lì c’è ben di più.
Va bene il patto generazionale, ma un po’ di sano conflitto? Se vuol farmi da padre (culturale), a me sta bene: da quel che leggo, la stimo. Ma guardi che sono inguaribilmente edipico.
Basta? Non basta. Nulla basta.
A lei la poesia, a me (descensus!) i dialoghetti:
– Sono stato al mare.
– Bravo. E non lo sai che è inquinato?
– Veramente sotto Livorno l’acqua è pulita.
– Capirai: il porto. La Solvay.
– Ero a Castiglioncello: c’è la bandiera blu.
– Immagina il giro di soldi che c’è dietro le bandiere blu.
– Comunque non ho fatto il bagno.
– Ma hai preso il sole.
– Beh…
– Così tu ti esponi al cancro alla pelle, e a noi toccano le spese della sanità pubblica per curarti.
– Ma avevo la crema!
– Le multinazionali della cosmesi torturano gli animali.
– Ne ho messa poca! erano le cinque!
– Dalle cinque alle?
– Sette.
– Sai quanti esseri umani muoiono in due ore?
– Che dici? facciamo ancora a tempo?
Suvvia, leggiamo Proust perché è Proust, e smettiamola con questa storia che la letteratura sarebbe consolatoria (devo dire Michelstaedter? Devo dire Wallace?), e anche con questa storia che Proust avrebbe da insegnare al materialismo storico. Quand’è che la finiremo di leggere Proust perché è bello? Quand’è che la finiremo di leggere Proust perché è intelligente? Forse chiedo troppo: meno letterati, meno politici, un po’ più di uomini.
“Basta? Non basta. Nulla basta.”
@ Ennio Abate
il problema non è dialogare “tra vecchietti” (Proust e Marx o magari aggiungendo Freud, ecc.) ma discutere tra “vecchietti” e “giovani” viventi per afferrare qualcosa di questa inedita (e orrenda per me) realtà, anche tenendo conto di quelle loro lezioni”
sono d’accordo (anche ciò che precede), e le dedico questo:
@ Gerace
Piano, piano…
Una certa letteratura (non tutta) E’ autoconsolatoria.
“Un po’ più uomini”? Ma uomini ( anche se a volte ci conviene parlare di loro come “bestie”) sono i letterati, i politici, i militari, gli assassini… E’ quel ‘più’ che andrebbe precisato…
@ Donnarumma
Nulla basta. Ma lei la mette sul ridere (e va anche bene per un po’). Io me ne dispero (e va anche bene per un po’). Finché non troveremo il coraggio per dire: Basta! ( e agire di conseguenza…)
Il suo dialoghetto è simpaticissimo, ma mi pare sul ritmo della “cattiva infinità”…
No, padre culturale proprio no. Possibilmente, se si verificassero certe situazioni, “compagno” (debitamente virgolettato, perché oggi la parola è ambigua e va sussurrata, come del resto è d’obbligo fare per “critica militante”).
P.s.
Avevo chiesto alla redazione di LPLC di avere il suo indirizzo mail o di darle il mio, perché volevo inviarle un mio scritto sugli anni Settanta, che partiva appunto dalle sue considerazioni sulla narrativa del terrorismo (in “Per Luperini”). Le è stato riferito?
Mi scusi se già l’argomento era stato già affrontato; gli interventi in questo blog sono tanti, ne ho letto qualcuno ma onestamente tutti sono troppi per il tempo a mia disposizione.
Mi limito alla risposta di due questioni, una sua e l’altra di un lettore del blog.
@Averroè
Non so cosa intende con il suo “ottuso retroterra arabo” che limiterebbe la comprensione del concetto di “sacralità di giornalisti e scrittori” (l’accostamento onestamente mi sembra più che appropriato e…anche se non lo fosse?).
Mi limito a prendere atto di una situazione che non so se non riguarda anche “voi” arabi (la distinzione, mi scusi, proprio non mi appartiene: nelle varie parti del mondo a mia esperienza esistono soltanto uomini o ominicchi, ecc., giusto per citare L. Sciascia) ma in Italia funziona così: i giornalisti e gli scrittori saccentemente si credono possessori di un alone di potere o di verità perché hanno (avevano) un accesso privilegiato all’informazione e ai mass-media (il cosiddetto quarto potere).
@ Raffaele Donnarumma
“La mia tesi è che i blog non abbiano affatto eliminato «la sacralità dei giornalisti e degli scrittori»”.
Ebbene, sono d’accordo con lei se si rimane ancorati all’analisi della situazione attuale, non lo sono invece in prospettiva.
Nel futuro forse i giornalisti e gli scrittori continueranno ad averla, ma sicuramente si ridurrà la loro sfera di influenza e azione.
” La risposta «cambiate canale» è un po’ fiacca. È come se mi proponessero di emigrare, visto che ci sono al governo Berlusconi & C. ”
Non sono così ottimista da pensare che tutto quello che ci circonda sia ininfluente alla formazione della propria opinione, quanto non anche della propria personalità.
L’argomento è sicuramente spinoso e alquanto opinabile, qualsiasi conclusione se ne possa trarre.
Di sicuro gli agenti esterni sono molteplici, l’ambiente è parte, anche conflittuale, dell’individuo e le reazioni di quest’ultimo sono imprevedibili.
Solo una annotazione di “logica”: “cambiare canale” implica una scelta senza particolari conseguenze e facile da eseguire; cambiare nazione (quanti oggi sono tentati, io per primo!) direi che è un po’ più difficile, per usare un eufemismo.
Sul buttare il “bambino con tutta l’acqua sporca” credo che ci voglia un po’ più di pazienza e tolleranza: significherebbe sacrificare la libertà all’efficienza e alla competenza e per quanto mi riguarda sarebbe un grande danno, più del beneficio che si vorrebbe ottenere.
@Donnarumma
Lei parla arabo meglio di me, mi inchino al suo stile e alla sua eleganza.
Ma è davvero solo nostalgia, malinconia per una grandezza perduta? O l’orgoglio ferito nasconde solo un’atroce, rabbiosissima invidia?
Il potere (anche legislativo) degli intellettuali non è mai stato così forte come oggi. E soprattutto, non ci sono mai stati così tanti intellettuali come oggi. Attori, registi, giornalisti, presentatori televisivi, professori universitari, editori, ministri, cantanti e musicanti di tutti i tipi, scrittori, redattori, bloggers (che siano lurkers o meno), parlamentari, artisti, economisti, poeti, designers, sacerdoti cardinali e papi, curatori di musei, maestri elementari, magistrati, architetti, urbanisti, sociologi e tuttologi vari, ecc. ecc.
Ciascuna di queste figure legifera e dispone di un potere enorme. Certo, spessissimo non ne sono all’altezza. Spesso non sanno nemmeno di averlo. A volte sono talmente ingenui da scambiare una bomba a mano per un grazioso soprammobile dell’artigianato tardo-ittita o frigio. Ma il potere in mano a tutti costoro è enorme.
E’ normale che tra le infinite figure del potere intellettuale esistano molte invidie, soprattutto perché esistono enormi barriere tra le une e le altre, spesso fatte solo di snobismo, altre volte invece cementate da una vera e propria separazione sociale (chi appartiene allo spettacolo frequenta endogamicamente solo chi appartiene allo spettacolo, i dinosauri accademici si frequentano, si leggono e si capiscono solo tra di loro ecc.). Le lamentele sulla scomparsa dell’intellettuale legislatore appartengono solo a una frangia minoritaria e più “antiquata” degli intellettuali, quella dei professori universitari o di chi si è visto oggettivamente ridotto il suo prestigio sociale. Ma è ingenuo scambiare prestigio o visibilità sociale con il potere realmente esercitato. Tanto per fare un esempio un po’ stupido Cuccia era un uomo privo di visibilità sociale (specie se comparato a mille altre figure “intellettuali” italiane), ma il suo potere sul paese è stato enorme.
Un maestro elementare ha un prestigio sociale pari a zero. Ma continua a disporre di un potere incredibilmente ampio, che un giornalista, una cantante, e persino un presentatore televisivo non avranno mai e non potrebbero nemmeno sognarsi. Vedere per cinque anni di seguito, quasi tutti i giorni una ventina di ragazzi che sono più o meno costretti a considerare quanto gli si dice come verità a me sembra un potere enorme. Anche perché a differenza del potere di un giornalista (il cui effetto nella mente del lettore svanisce dopo una ventina di minuti dalla lettura) il potere delle parole di un maestro (o di un qualsiasi professore) ha una efficacia lunghissima. Le sue parole possono restare come ibernate per anni, risvegliarsi un giorno ed avere effetti: io ne ho fatto esperienza spessissimo, e non credo di essere il solo. Questa efficacia segreta, duratura, quasi infinita, come quella della radiazione atomica è una delle forme più devastanti del potere intellettuale, in senso positivo. Bisogna solo sapere che armi si sta usando.
A me sembra che il problema più grande sia la strana posizione della sinistra europea, che da mezzo secolo si bea a scrivere i suoi stupidi sonetti contro il potere, a fare critica, come si dice, e al tempo stesso muore di invidia per chi ha più potere di lei. Non si accorge di tutto il potere di cui dispone e lo spreca tutto per imbrattare muri. Ma questo meriterebbe tutto un altro discorso
@ Averroè
Ahimè, quanti cattivi maestri abbiamo avuto in Italia per ritrovarci una classe dirigente così…
@ad.
Grazie per gli auguri, che ricambio (per il prossima fine settimana).
Solo una precisazione: io non ho mai parlato di “divino” nei miei interventi. Come sa nel mondo arabo la teologia è stata sempre più vicina a quello che in Occidente viene chiamato diritto che non alla libera contemplazione filosofica di Dio.
Non giurerei invece sul fatto che teologia e critica letteraria siano sempre assolutamente separati. Di là dagli evidenti legami storici, ci sono molte analogie: esistono moltissimi critici militanti per esempio che parlano di letteratura in modo più bigotto e moralista di un curato di campagna degli anni cinquanta.
@Abate
La saluto con molta cordialità innanzitutto. Sul punto:
«Non è forse «critica militante» sostenere che i giornalisti facciano i giornalisti, gli studiosi di estetica gli studiosi di estetica, i teologi i teologi, i blogger i blogger e così via?»
Chi spiega il significato di una parola (anche in italiano) si chiama grammatico; non vedo perché si debba usare un altro nome tanto complicato. E poi se basta spiegare il senso delle parole per fare il critico militante, dovremmo ammettere che De Mauro è stato il più grande critico militante italiano del secolo scorso. Francamente esagerato, non trova?
«Non traspare una corposa ideologia della Letteratura in una frase come questa: «chi è riuscito a scrivere qualcosa come la Recherche non può essere nemmeno lontanamente paragonato a un giornalista»?»
No, nello stesso senso in cui chi spiega che l’agricoltore non è un politico non sta professando certo una corposa ideologia della Agricoltura. Poi possiamo tutti disquisire sul fatto che l’agricoltura ha immensi significati politici, che è il punto di nascita di ogni cultura, che è il gesto attraverso cui l’uomo si appropria della natura ecc. ecc. Ma non basta fare l’agricoltore per fare il politico. Così come non basta scrivere romanzi per essere un buon politico (cattivi o buoni che siano). Altrimenti accontentiamoci di Veltroni per i prossimi tre decenni.
@Else l’ha detto nel modo più preciso: «ognuna delle vie di accesso alla verità ha la sua forma di immanenza».
@Savarino
«La distinzione […] proprio non mi appartiene: nelle varie parti del mondo […] esistono soltanto uomini o ominicchi». A me invece la distinzione pare una banale evidenza: per esempio il gusto dell’ironia è distribuito in modo molto diseguale nel mondo.
Sul punto preciso: l’arroganza di cui parla non è certo una prerogativa dei giornalisti e degli scrittori. Molti politici, per esempio, sono arroganti. E lo sono spesso anche i poveri e gli ignoranti. Così come molti bloggers. Ed è arroganza anche pensare che postare un paio di pensierini in rete abbia il medesimo valore che scrivere un romanzo.
A me le differenze quando sono vere, piacciono molto anche quelle gerarchiche. Il potere non c’entra nulla, la gerarchia è la vita naturale del desiderio. Un bravo regista o un bravo scrittore può far sognare per dieci anni, un giornalista al massimo per una ventina di minuti. Per riuscire ad amare il secondo quanto il primo bisogna castrarsi un po’.
Gentile Averroè,
«la fiamma del sol fervente e chiara» è ormai tramontata su questo post e abbrevio di molto la mia replica. Forse ho sbagliato a tradurre il mio pensiero in arabo. Ma ribadisco che lei PER ME in questa discussione ha parlato da «critico militante», pur se ora tende a presentarsi negli abiti rigorosi e apparentemente neutri del «grammatico». Certo che un grammatico, un agricoltore o un romanziere (tranne Veltroni) non sono dei politici, ma le loro attività hanno risvolti o effetti politici più o meno significativi sui quali lei mi pare sorvoli.
Riconosco facilmente che la Recherche di Proust straccia diecimila articoli di gazzettieri dall’Ottocento ad oggi. E posso anche concordare con la sua affermazione:«Un bravo regista o un bravo scrittore può far sognare per dieci anni, un giornalista al massimo per una ventina di minuti». E tuttavia il mio punto di vista “militante”, che mi fa preferire a Proust «1000 giornalisti “guerrieri”[…] capaci […]di dire verità che nella società in cui viviamo devono essere occultate per farla apparire “democratica”», non mi pare del tutto campato in aria. 1000 verità messe in circolo dai suddetti 1000 giornalisti, decisi a volere la luce piuttosto che le tenebre, non sarebbero una cosa da nulla, specie oggi in tempi di giornalismo embedded, anche se tutti insieme non raggiungessero l’altezza di Proust. Perché – qui forse una differenza di sostanza tra noi – la mia aspirazione non è quella di sognare per una ventina di minuti o dieci anni, ma quella di uscire da certi (cattivi) sogni che anche una certa Letteratura continua ad alimentare, funzionando appunto da soporifera ideologia.
Per ultimo. Del suo ordinamento auspicabile (e un po’ dantesco) dei saperi tracce in giro non ne vedo. Vedo molti – Veltroni compreso – che hanno doppi o tripli incarichi e fanno mille cose insieme (guadagnando mille volte più di altri); e tantissimi bravi giovani con lauree specialistiche in regola, che penano nei gironi infernali del precariato come factotum. A me questa realtà di gerarchie fasulle e privilegiate (comprese certe nicchie accademiche) non garba e farei di tutto per sparigliarle. Lei forse vuole accontentarsi di mettere i romanzieri al di sopra dei giornalisti, senza curarsi del resto perché non compete a un grammatico? Non credo e cordialmente la saluto io pure.
La discussione si è allargata: forse sarebbe meglio continuarla altrove, per esempio nei commenti a Giunta e Pellini.
@ Averroè, Abate [certo siete una strana coppia, così: uno dei due dovrebbe cambiare nick]
Bisognerebbe fondare una specie di psicologia, o meglio psicoanalisi, dei comportamenti culturali e degli intellettuali. Però, lo vedete subito, è un’impresa calamitosa: psicologia da noi diventa subito psicologismo, e designa derive intimiste, autocontemplazioni ombelicali, sbadigli piccoloborghesi. Mettiamoci dentro anche un po’ di genealogia nietzscheana, che non guasta. Per questo, accolgo senz’altro la diagnosi averroista di invidia.
Forse, però, Averroè usa intellettuali in senso un po’ largo (io ho in mente un’accezione gramsciana). Ha certo ragione: siamo di fronte a un’espansione; che, però, coincide con il declassamento (in atto da un secolo abbondante, e non mancano gli studi) – eccettuate poche promozioni divistiche. In questo senso, gli intellettuali hanno perso potere legiferante, poiché non hanno alcuna capacità imperativa, o la loro legiferazione si esercita in ambiti ridicolmente esigui, e sottoposta a concorrenze che li sbaraglia. Non solo il maestro ha venti alunni; ma la sua voce è sovrastata da quella dei Pokemon.
Ma (e lasciando da parte i Pokemon): è un male? L’intellettuale legislatore è un maestro, un’autore, un’autorità: roba da antico regime, da patriarchi barbuti e risorgimentali, da stato-chiesa-esercito. Sebbene ci sia una pressante richiesta sociale di figure di quel tipo, è una richiesta regressiva, e che va respinta: mi rendo conto che, per come sono messe le democrazie, voliamo verso l’utopia iperurania, ma questo rimpianto di maîtres-à-penser-prêt-à-porter è appunto un sintomo del dissesto delle democrazie (sulle quali, penso quello che pensava Churchill). Soggettivamente, cioè come intellettuale, mi sentirei di sbugiardare la falsa coscienza di chi, scrivendo uno studio sulle lezioni di Foscolo presso l’Ateneo di Pavia, crede di compiere opera politica e di riforma del secolo.
L’umanesimo tradizionale ha sempre preteso l’universalità – e oggi, che l’universale non si sa più dove stia di casa, ci sono gli intellettuali di settore (l’esperto di criminalità organizzata, l’ecologo, chi ha a cuore le sorti dell’ebraismo…) che cercano un’udienza trasversale. È pur sempre un modo di far politica, ma certo non può essere pensato con le categorie dell’impegno in senso proprio, decadute dagli anni Sessanta. Ne vedo tutti i rischi, ma ne prenderei il buono. Confesso poi che, con tutta la stima per Averroè e l’ammirazione per il suo magnifico turbante, la parola grammatico mi allarma, sebbene sappia che la usa appunto in arabo: i grammatici che conosco io sono, loro sì, legislatori cattivissimi, presi da un furore scientista castrante e immeschinente. Alla fine,, resto molto affezionato all’idea che ci possiamo muovere nei fatti culturali con una certa libertà e insofferenti di chiusure disciplinari – e, si capisce, sotto l’assillo superegoico di non sparare castronerie e di non smerciare vacuità generali sul corso del mondo (visto che il mondo non ha uno solo corso).
Anche «la mia aspirazione non è quella di sognare per una ventina di minuti o dieci anni, ma quella di uscire da certi (cattivi) sogni che anche una certa Letteratura continua ad alimentare, funzionando appunto da soporifera ideologia». Perciò milito, come soldato semplice, e dove ne vale la pena – cioè senza sgolarmi per il romanzo x o contro le prose di Y. Aggiungo che non ho mai creduto nella letteratura come istituzione di valori, sebbene ci abbiano creduto signori degni di rispetto, come Dante o Tolstoj. I valori si fanno fuori, e siamo noi ad averne responsabilità, non delegabili a Maestri o a Grandi Opere. La politica della militanza è, anzitutto, critica. E non mi sembra affatto un’attività solo negativa – fermo restando che, oltre alla falce e al martello, fa sempre comodo una bella ramazza.
p.s.
I grammatici veri, comunque, servono, come dimostrano gli strafalcioni del mio commento di sopra. Sono sprofondato vari metri sottoterra – e scrivere da quaggiù non è niente comodo. Oltretutto, il collegamento internet neppure prende.
@Donnarumma
«L’intellettuale legislatore è un maestro, un’autore, un’autorità: roba da antico regime, da patriarchi barbuti e risorgimentali, da stato-chiesa-esercito. Sebbene ci sia una pressante richiesta sociale di figure di quel tipo, è una richiesta regressiva, e che va respinta»
Io non credo che possa esistere una cultura “libera” dal potere e dall’autorità. Se fosse così non servirebbero né le università né i parlamenti, né sarebbero mai esistiti i giornali, le case editrici, la pubblicità: costruendo una scuola, eleggendo un parlamento, si istituiscono dei maîtres à penser, e viceversa, diffondere la verità ha sempre significato esercitare potere e autorità. Se poi non lo si vuole riconoscere e si preferisce pensare che la ricerca di maître à penser sia una «pressante richiesta sociale» è un’altra questione. Ma questo è snobismo, non critica militante. Come è snobismo credere che si tratti di roba da antico regime: il potere è una dimensione umana, necessaria e, per quello che ci racconta la storia, eterna. Io non ho mai letto di società prive di autorità, di maestri, di autori. Che non sono certo «patriarchi barbuti e risorgimentali»: vestono invece molto bene, e le case di moda farebbero di tutto per vedere un proprio capo su di loro.
Quello della fine dell’intellettuale legislatore è il mito consolatorio che una parte degli intellettuali (i vinti, gli umanisti) continua a raccontarsi per non ammettere di essere stata sconfitta, e di essere destinata all’estinzione. Oggi un regista qualunque riesce a raggiungere milioni di persone, a influenzare il loro modo di pensare, di parlare, di vestire. E le assicuro che non somiglia per nulla a un patriarca risorgimentale.
«Non solo il maestro ha venti alunni; ma la sua voce è sovrastata da quella dei Pokemon»
Maestri e professori mediocri sono stati sempre giustamente sovrastati dalle diverse forme di letteratura popolare. Nel medioevo c’erano i poemi cavallereschi (che potevano essere molto mediocri, non tutti erano Chrétien de Troyes), oggi ci sono i Pokemon e Harry Potter. Non vedo dove sia il problema. La scuola e l’accademia è sempre stata in concorrenza con altre forme di cultura. Se non riesce ad imporsi è anche e soprattutto colpa sua.
@Abate
«Ma ribadisco che lei PER ME in questa discussione ha parlato da «critico militante»»
La ringrazio di nuovo per la sua generosità. Ma io non sono un critico, in nessun senso della parola: non scrivo di letteratura, non ho mai amato Adorno e i suoi eredi e non organizzo crociate contro il mio tempo e il mondo in cui vivo. La curiosità è il contrario della militanza. Però se questa espressione se le piace così tanto mi chiami pure critico militante, io non mi offendo.
«Certo che un grammatico, un agricoltore o un romanziere (tranne Veltroni) non sono dei politici, ma le loro attività hanno risvolti o effetti politici più o meno significativi sui quali lei mi pare sorvoli»
Tutto ha effetti politici, anche un’alluvione. Ma da questo non segue che le alluvioni debbano preoccuparsi dei loro effetti politici: chieder loro queste cortesie sarebbe troppo. I romanzi alluvioni linguistiche. Perché mai bisognerebbe chieder loro di rispettare le leggi di uno stato? Chiedere a chi scrive o a chi pensa di preoccuparsi dell’effetto politico della propria immaginazione è una forma di censura preventiva.
«1000 verità messe in circolo dai suddetti 1000 giornalisti, decisi a volere la luce piuttosto che le tenebre, non sarebbero una cosa da nulla, specie oggi in tempi di giornalismo embedded, anche se tutti insieme non raggiungessero l’altezza di Proust»
Ci sono già molti buoni giornalisti in Italia. E di giornalisti, in generale, ce ne sono fin troppi. Io mi auspicherei piuttosto di poterne vedere 1000 di meno. Non si illuda in ogni caso: non saranno certo i giornalisti a darle la verità che sta cercando. In Europa la verità è sepolta sotto una immensa coltre geologica di senso di colpa. Ci vorranno almeno tre generazioni perché qualcuno arrivi a toccarla di nuovo.
@ Averroè
Per risponderle, ci vorrebbe un volume di quattrocentocinquanta pagine esclusi bibliografia e indice dei nomi. Temo debba accontentarsi di quattro battute allusive. Mi scuso con lei e con chi ci legge.
Si figuri se penso che la cultura si sottragga al potere e sia il libero passatempo degli spiriti! Ho scritto qualcosa in proposito sotto il post di Giunta (http://www.leparoleelecose.it/?p=1559). Ma non tutte le forme di potere sono legittime o fondate; nello scontro alcune soccombono; e la velleità di potere non coincide con il Wille zur Macht, figuriamoci con il suo esercizio effettivo. Combattere per imporsi, anche ora che l’arte non ha poi molto carattere imperativo, non significa affatto avere forza, tantomeno legiferare: quanti agli intellettuali di oggi, un discreto numero non combatte affatto, ma se ne sta lì dove la storia lo ha deposto, faccia intrattenimento o severi studi filologici.
Devo ribadire, poi, che collegavo l’intellettuale legislatore non solo alle società premoderne o di antico-regime, ma anche a quelle moderne (i barbuti risorgimentali: Hugo & Carducci); sebbene sia proprio con la modernità che quel modello viene messo in crisi (Baudelaire & Flaubert). Certa avanguardia e molta cultura del Novecento si sono inventati nuovi tipi di intellettuali-legiferatori; poi, è stata la volta del postmoderno: e giù botte da orbi contro l’arroganza totalitarista dell’umanesimo o del marxismo, mentre qualcuno affogava nel riflusso (esofageo, visti i risultati), qualcuno si rintanava nello specialismo, qualcun altro ancora si dava un gran da fare nel mettere a punto modelli alternativi, i più vari (gli esempi si sprecano: da Barthes, a Foucault, a Pasolini, al gender critic, e non si finisce più). Mi pare che, però, in quella fase fossimo in genere fuori della volontà di legiferare. Oggi, credo, l’aria è cambiata, come dimostrano le tante forme di partecipazione civile cui assistiamo al cinema o in letteratura: una cosa sulla quale, a differenza di alcuni miei colleghi, non ho pregiudizi, anche se vedo bene che dalle buone intenzioni al calcolo per l’audience il passo può essere breve. Legiferano, questi scrittori e questi registi? Mah; semmai, in modi impliciti e indiretti. Anche per questo, sognerei oggi almeno modi di fare cultura che non invochino il potere (cui non si sfugge), ma cerchino forme di persuasione e di consenso sottoposte a verifica, controllo, smentita, discussione.
La richiesta sociale con cui polemizzavo è solo quella che va a forme di potere patriarcale, o paternalistico, o divistico, cioè moralistiche o estetizzanti: diteci cosa pensare, fateci vedere come vivere, offriteci Maestri o Eroi, ma comunque Modelli più o meno esplicitamente autoritari (non autorevoli: che, invece, è quello che ci si augurerebbe). Davvero le sembra una polemica snob?
Spero che così si allontani l’equivoco sull’etichetta di intellettuale legislatore: la uso in senso anni Cinquanta-Sessanta, legato al mandato sociale, alla delega, ai partiti di massa ecc. ecc.; molto meno spesso, in senso romantico («Was bleibet aber, stiften die Dichter»); quasi mai in senso profetico-didattico e premoderno (Dante, per non dire Omero o Mosè). Nulla a che vedere con il regista che riempie le sale, o la pop star, poiché la loro investitura non viene dalla politica o dall’ideologia o dalla teologia, ma semmai dal mercato (prenda questa parola con le molle, perché mi rendo conto della sua parzialità e insufficienza: parliamo di un mercato degli stili di vita, delle idee, dei modi di essere). In ogni caso, la Legge, quale che sia, non è la coazione al consumo cui oggi si sfugge anche meno che al potere. Le leggittimazioni locali degli specifici campi di potere (l’università, l’editoria, le majors discografiche e del cinema…) sono altrettante delegittimazioni alle pretese universalistiche che la mia accezione di intellettuale legislatore invoca sempre. Il problema è oggi passare dalle proprie competenze di specialisti (uso apposta questo vocabolario infame) alla possibilità di dire qualcosa di sensato che ci riguardi un po’ tutti.
Certo, la concorrenza – come pure l’osmosi – fra la «letteratura popolare» e quella di «maestri e professori» ci sono sempre state; ma il problema è che già nel Medioevo o nel Seicento la cosiddetta cultura popolare era tale solo per modo di dire, e che oggi non c’è neppure per metafora (semmai, per truffa linguistica). Da più di centocinquant’annni, del resto, i rapporti tra il cosiddetto basso e il sedicente alto sono, per qualità e quantità, imparagonabili a quelli dei secoli precedenti.
I duchi d’Este avevano in biblioteca poemacci sbilenchi in cui un endecasillabo su otto era zoppo, e intanto Boiardo o Ariosto (che quella roba la leggevano anche loro, e abbastanza di gusto) eran lì a architettare storie e a cesellar versi; però, credo che i piani fossero distinti quanto l’amante puttana e la moglie – entrambe consentite o, forse, imposte. Oggi, siamo alla moglie puttana: e parlo di puttane, perché molti professori e maestri flirtano con il pop, ma sempre vergognandosene un po’. Molto meglio, allora, essere convintamente avantpop, o piuttosto credere che il pop imponga un’occupazione armata del Parnaso, la cacciata delle Muse-babbione, la sostituzione della cetra con il campionatore. Eppure, questa secondo possibilità non mi pare troppo praticata, né in Italia, né fuori: i maggiori scrittori e aristiti della seconda metà del secolo prendono dalla cultura di massa solo con le virgolette, Wahrol e Jeff Koons in testa. (Certo, ci sono eccezioni). E soprattutto, non siamo in società ristrettissime, con un accesso incalcolabilmente limitato alla cultura; ma in società in cui, sebbene il prestigio continui a pesare, le barriere o sono crollate, o fanno acqua da tutte le parti. Altro è la corte, o il salotto, o il circolo; e altro la piazza, o il villaggio globale. Altro la cultura ‘popolare’ (di riflesso, per censure e mediata); altro mass e mid cult. E altro il prestigio garantito e circoscritto in cui operavano gli scrittori dell’antico regime, e quello più difficile ma immensamente più ambizioso della modernità, rispetto a quello non garantito e periclitante di un intellettuale di oggi. C’è gente, appunto, che crede De Andrè il più grande poeta italiano del Novecento (italiano, suppongo): e lo chiama proprio poeta, come Montale o Zanzotto.
Detto questo, preferisco i Pokemon alla Trabisonda, poema in ottave del secolo decimoquinto; e non c’è paragone fra Lady Gaga e una villotta contadinesca – posto che, ripeto, oggi, non esiste nessuna cultura popolare, ma semmai una cultura pop o per il massimo consumo, a volte molto scaltrita, a volte solo furba, a volte proprio scema, e che può fare cose interessantissime (la qualità va vista di volta in volta). La rete (ed è da lì che eravamo partiti) potrebbe accelerare e acuizzare questi fenomeni; ma paradossalmente consente la sopravvivenza di modi di vita culturale archeologici, mentre sbandiera l’euforia ipermoderna.
Se poi Lady Gaga è un intellettuale legislatore… beh, deponga il suo turbante! disciolga il caftano! e calzi quegli zatteroni con tacco 15, si metta gli occhiali da sole total face e si pianti una piastra di metallo sul mento. (Ma poi: lei come se la cava a cantare?).
Non sopporto lo storicismo televisivo, che addita una svolta epocale a ogni variazione dell’indice delle borse. Perciò, lei fa benissimo a leggere anche il presente sulla lunga durata, e a confrontare l’oggi coi poemi cavallereschi. Ma appunto: secondo lei, Chrétien ascoltava le leggende bretoni e i miti celtici con lo spirito con cui Aldo Nove naviga in rete alla ricerca di siti porno? Boccaccio leggeva favolelli e cantari come DeLillo guarda la CNN o legge il New York Times?
«Quello della fine dell’intellettuale legislatore è il mito consolatorio che una parte degli intellettuali (i vinti, gli umanisti) continua a raccontarsi per non ammettere di essere stata sconfitta, e di essere destinata all’estinzione». Se vuol dire che è giusto quella forma di intellettuale si estingua, insieme alle «donne a casa» e all’ideale dell’ostrica, sì, sono d’accordo.
P.S. «Diffondere la verità ha sempre significato esercitare potere e autorità »: dev’essere per quello che, in questa frase, la parola «verità» mi fa un po’ paura. Ma magari c’è un problema di traduzione dall’arabo.
@Donnarumma
La ringrazio della sua risposta, che ha chiarito molti miei malintesi. Le rispondo molto velocemente.
«In questa frase, la parola «verità» mi fa un po’ paura. Ma magari c’è un problema di traduzione dall’arabo»
No, no ha capito benissimo, non c’è nessun problema di traduzione: la parola “verità” significa la stessa cosa in tutte le lingue del mondo. E sta qui il nodo della questione, ed è a questo che mi riferivo quando parlavo di vinti. E’ inutile combattere se si ha paura di pronunciare questa parola. Ci si è sconfitti da soli.
«Se poi Lady Gaga è un intellettuale legislatore… beh, deponga il suo turbante! disciolga il caftano! e calzi quegli zatteroni con tacco 15, si metta gli occhiali da sole total face e si pianti una piastra di metallo sul mento. (Ma poi: lei come se la cava a cantare?)»
Vede, poco dopo la mia morte, l’intellettuale-legislatore più importante da voi in Europa fu un italiano, tale Tommaso. Si occupava di cose molto curiose e soprattutto era ossessionato da strani racconti, i cosiddetti vangeli. Nelle sue opere più di una volta difese strani banchetti antropofagici che a suo dire garantivano la perfezione morale. Ed era convinto che il compito supremo della scienza fosse dimostrare che preso un tozzo di pane non lievitato e pronunciate un paio di parole in latino, quel tozzo si trasformasse improvvisamente nel cadavere (anzi no, se non mi ricordo male proprio nella carne viva) di un uomo morto dodici secoli prima. Non è che queste sottili follie siano meno barbare del paio di zatteroni con tacco 15 della sig.rina Gaga. Voi europei avete costretto gli studenti di almeno sei secoli a studiare sui libri di questo pazzo pieno di genio, e ora vi allarmate se qualcuno vi impone di occuparvi di una ragazzina un po’ scosciata? La cultura è sempre folle, ma è bello che sia così.
In fondo anche questo Tommaso era riuscito a far collidere e coincidere e confondere l’alto e il basso, il colto e il “pecoreccio”, il pop di allora e il sublime. E’ riuscito a mettere assieme senza troppi snobismi l’esotico e divino Aristotele con i miti popolari di allora. E questo è sempre la grande prestazione degli artisti di tutti i secoli no? Gli snob cercano di cavalcare l’opposizione di cui lei parla tra l’alto e basso (che come ha dimostrato Huyssen è stata la vera ossessione delle avanguardie), e molti giovani di allora lo facevano. Ma i veri grandi artisti non sanno nemmeno di cosa si tratta. Prenda la grande arte del vostro secolo, per esempio, il cinema: come si fa a fare la distinzione tra alto e basso, colto e popolare, cultura di massa e cultura di élite? O prenda le grandi serie televisive degli ultimi anni: la loro è proprio un’operazione di collisione di orizzonti e di sfere tra l’alto e il basso, tra il pop e il sublime. E se il cinema, oggi, è più interessante di Tommaso è anche perché è riuscito a compiere questa operazione in un temo in cui, come lei dice, «i rapporti tra il cosiddetto basso e il sedicente alto sono, per qualità e quantità, imparagonabili a quelli dei secoli precedenti».
Vorrei dire al signore Averroe che la sconfitta relativa è meglio della vittoria assoluta, e che se c’è una cosa di cui aver paura, ai complessi giorni nostri, è la verità, in particolare dei sedicenti autorevoli che si sentono di essa donatori.
A Donnarumma, che secondo me, pur da accademico, non me ne voglia, ragiona bene, vorrei suggerire di usare Mario Schifano, come esempio del pop: non per nazionalismo, ma una volta tanto… dato che è anche un artista più importante di quelli citati… E poi che tricher avec la langue fu uno degli ultimi suggerimenti dell’intellettuale legislatore Roland Barthes http://egophelia.free.fr/pouvoir/barthes.htm (forse lo disse anche Luigi Malerba)
@Massimo
E io vorrei chiedere al sig. Massimo se ha paura anche delle verità su di sé e «ai complessi giorni nostri» preferisce raccontarsi balle sulla propria esistenza. E vorrei chiedergli se ha paura del mondo, «sedicente autorevole che si sente donatore di verità» sé quando gli sbatte in faccia la verità, e allora preferisce fuggire e consolarsi con presunte “sconfitte relative”, perché vincere è sempre pericoloso. E vorrei anche chiedergli di spiegarmi il concetto di “sconfitta relativa”.
Non avevo capito che gli europei fossero così paurosi e soprattutto così rassegnati. Eppure appena un secolo fa’ voi stessi avevate coniato un termine per chi si sforza di fuggire dalla verità per difendere un presunto (falso) ideale di sé. Parlavate di “rimozione”. E spiegavate che era l’origine di molti mali, individuali e sociali. Avevate messo a punto una terapia per curare una simile patologia. Oggi difendete le vostre piccole menzogne a spada tratta (ma attaccate quelle degli altri), vi beate dei vostri mali, e soprattutto considerate chi parla di verità come un pazzo un po’ scemo, un ingenuo, un uomo non abbastanza maturo per «i complessi giorni vostri». Cosa vi è successo? Perché avete così tanta paura del mondo?
Mi scusi per l’errore di digitazione: volevo dire @Massino
C’ènno tante maniere d’essere europei: ” Che cosa è verità? Inerzia; l’ipotesi che ci rende soddisfatti; il minimo dispendio di forza intellettuale ” ( Nietzsche , La volontà di potenza).
Per il resto, io ‘un ho paura di nulla nulla, a parte i somministratori di verità.
Questa ” Massimo se ha paura anche delle verità su di sé e «ai complessi giorni nostri» preferisce raccontarsi balle sulla propria esistenza ” non l’ho capita. Se voleva essere un’offesa, non mi sono offeso. D’altra parte, lei che ne sa? Però offenda pure, se questo la solleva, ma sappia che potrebbe anche essere che la mia realtà è addirittura peggio di così…
Infine le domando a mia volta, per curiosità: gli arabi la studiano l’autoironia?
Lungi da me l’intenzione di offenderla. Volevo solo invitarla a riflettere sul fatto che rifiutare la verità significa condannarsi alla rimozione e mille altre meschinita’. E parlavo degli europei, non di lei.
Quanto al resto, gli arabi conoscono molto bene l’autoironia. Ma conoscono anche molto bene il limite che la separa dal senso del ridicolo. E citare un filosofo come un’autorità per rassicurarsi che la verità non esiste o per accusare i “somministratori di verita” non e’ ironia. Si chiama contraddizione.
Non mi paro didietro a Nietzsche, ne a nessun altro, ma stante lui e gran parte del ‘900 filosofico e scientifico, parlare ancora di verità è veramente per davvero ridicolo. Lei si era rivolto agli europei nel secondo capoverso, ma nel primo direttamente a me. Controlli (si). Mi stia bene.
Sig. Massino, fa parte degli innumerevoli artifici retorici di una lingua partire da un caso specifico per allargare il discorso verso l’universale. Sono partito dal suo esempio per parlare agli europei urbi et orbi. Ma mi rendo conto di aver offeso la sua e la vostra sensibilità di devoto seguace della Religione Occidentale. Che non sapevo contasse così tanti adepti.
Eviterò di provocarvi: non voglio ingiuriare il Dio degli altri. Semplicemente non avevo capito che da voi parlare di verità fosse un tabù religioso. Perché, per tutti gli altri popoli è una cosa ovvia, e nessuno mai si ritiene offeso, nessuno ha paura della parola. Qui invece appena pronunciata la parola gli spiriti estraggono le spade e si inizia a recitare le litanie dei Santi. Santo Nietzsche, Santo Novecento Pater philosophiae, ecc. e giù giù fino al Beato Giovanni de Augusta Taurinorum. Chiedo umilmente perdono.
Comunque, ammetterà che dover ricorrere ad un «stante lui e gran parte del ’900 filosofico» è un po’ poco per fermare la curiosità di un filosofo: noi non siamo abituati a farci impaurire dalle auctoritates, anche a costo di renderci ridicoli. E’ curioso: da un certo punto di vista questo atteggiamento è molto più medievale di quanto pensiate. Di fatto in risposta all’invito a parlare di verità ho solo ricevuto solo diversi «ipse dixit» e qualche «nefas est». Che puzzano più di religione che di discussione.
Mi hai chiarito le idee!
Questo è uno dei post più inutili e snob che abbia mai letto in vita mia.
Ho riletto oggi questo intervento di Donnarumma, e l’ho trovato geniale, ancora più pertinente. (Lo dico da frequentatore ingenuo dei blog letterari.)
Complimenti Donnarumma. E grazie a LPLC per averlo riproposto.
mp