a cura di Massimo Gezzi
[La rubrica dedicata ai poeti nati negli Ottanta ospita oggi alcune prose di Jacopo Ramonda (Savigliano [CN], 1983), di cui è appena apparso il libro d’esordio Una lunghissima rincorsa (Bel-Ami Edizioni, 2014), con una prefazione di Andrea Inglese e illustrazioni di Ilaria Bossa. Le prose brevi che presentiamo sono tratte da questa pubblicazione].
CUT-UP N. 97
Mi sono svegliato con una gran sete e ho notato il leggero chiarore che proveniva dal corridoio e filtrava attraverso il vetro satinato della porta. (L’abbiamo coperto con una tenda sottile, ricavata da un tessuto di recupero, per impedire al sole di svegliarci, visto che abbiamo entrambi bisogno di un’oscurità pressoché totale per riuscire a dormire.) Ho sentito che non c’eri ancora prima di girarmi e accendere la luce. Ho subito pensato che ti fossi di nuovo addormentata sul divano, con la tv accesa, come fai nelle notti in cui l’insonnia ti tiene sveglia fino a farti passare la voglia di restare a letto. Ho spostato le coperte e mi sono alzato; in tre passi ho attraversato il brevissimo corridoio che divide la nostra camera dal salotto, dove ti ho trovata seduta sul tappeto, con la schiena appoggiata al divano, a guardare la legna bruciare nel camino che non accendevamo da anni. Appena mi hai sentito arrivare, ti sei voltata e mi hai fatto cenno di sedermi accanto a te.
UNA DISTANZA RELATIVAMENTE BREVE (cut-up n. 134)
Nonostante la distanza che la separa da quel periodo sia ancora relativamente breve, i grandi cambiamenti affrontati da L. dilatano il tempo trascorso, dandole l’impressione che quegli eventi appartengano ad un passato remoto, totalmente superato. In quel periodo sentirsi sopraffatta era diventata un’abitudine; il silenzio era l’unica reazione di cui si sentiva capace. Sostanzialmente si stava esercitando a scomparire, in una sorta di prova generale della sua morte. La consapevolezza di indugiare troppo a lungo sulle occasioni sfumate serviva solo ad abbatterla di più, facendogliene sprecare di nuove, e rendendo l’impasse sempre più difficile da superare. Quando ci ripensa, L. si sente davvero grata di essere riuscita a chiudere quel capitolo. Il sollievo non è tuttavia sufficiente a renderla immune alla nostalgia, una nostalgia appena accennata, ma comunque percettibile, nei confronti di quelli che considera gli anni peggiori della sua vita. Di tanto in tanto le manca quel senso di mancanza, e ha il sospetto di essere diventata indifferente. A volte teme che il suo ritrovato benessere provenga da una perdita di sensibilità, come quando ci si addormenta su un braccio.
STRATI (cut-up n. 131)
Oggi sono rimasto a casa dal lavoro, con l’intenzione di scrivere tutto il giorno, ma fino ad ora non ho fatto altro che guardare le foto ritrovate nell’appartamento di mia nonna. Cinque scatole, piene zeppe di fotografie. Dopo il funerale, mia madre e le sue sorelle si sono prese il compito di sgombrare l’alloggio, scovando un sacco di cose, tra cui alcuni reperti della mia infanzia, delle vacanze estive che trascorrevo soprattutto a casa dei miei nonni.
(Oggetti che apparentemente erano stati dimenticati da tutti noi, in realtà si trovavano al di sotto della crosta di informazioni d’uso quotidiano che ricopre lo strato superficiale della nostra memoria. Credevamo di averli dimenticati, ma non sono invecchiati per niente: appena si sono rifatti vivi, li abbiamo riconosciuti. Ognuno di questi superstiti ha portato con sé la sua testimonianza, richiamandoci alla mente aneddoti concatenati tra loro che nemmeno ci rendevamo conto di ricordare. Un’eredità di usi e costumi, fotogrammi e memorie di un’epoca personale.)
Al termine dei lavori, mia madre e le sue sorelle hanno fatto un inventario dei loro ritrovamenti e se li sono spartiti. Ieri sera sono andato a mangiare a casa dei miei; imbattermi nei resti inediti della mia infanzia, estrapolati dal loro contesto e inseriti nell’arredamento di sempre, mi ha fatto uno strano effetto. Ho avuto l’impressione di aver subito un furto, come se la mia memoria fosse stata saccheggiata per allestire una sorta di museo dell’anonimato, una collezione di oggetti comuni, privi di particolare rilevanza storica. Mi sono sembrati estremamente diversi rispetto a come li ricordavo, e questa discrepanza mi ha reso sospettoso nei loro confronti. Per quanto assurdo, ho avuto la sensazione che fossero riproduzioni. Il fatto di vederli con i miei occhi, di poterli toccare, paradossalmente li ha resi più irreali, palesemente finti; un po’ come quando ho visto dal vero i costumi usati nei film di Tim Burton. Mentre sfoglio le foto, ripenso a ieri sera e a molto altro; sapendo che ho a disposizione ancora l’intero pomeriggio per scrivere, rallento ulteriormente il ritmo di questo diversivo, lasciando per una volta che il tempo passi, senza porre resistenza.
CRONOMETRO (cut-up n. 151)
Il peso del tempo che sto sprecando grava su di me e amplifica il mio senso di colpa. Sento la pressione di ogni singola ora. In questa fase della giornata, il ritmo è scandito da una ragazza che fa footing intorno al parco, cronometrando i suoi tempi sul giro. Le dimensioni contenute dei giardini pubblici in cui ci troviamo fanno di lei una comparsa che ricorre frequentemente, al punto da instillare il sospetto che possa assumere un ruolo meno marginale nel corso della narrazione. Un sospetto infondato, dal momento che il suo transito è un evento ciclico neutrale e privo di significato, come la rotazione dei pianeti. Ad ogni passaggio in prossimità della panchina su cui sono seduto, mi sorprende occupato in un’azione interlocutoria diversa – guardare il mare, sfogliare gli appunti che non sto leggendo, osservarla – una delle tante declinazioni dell’attesa fine a se stessa.
CUT-UP N. 54
Ho deciso di seguire il consiglio di tua moglie e sono passato a trovarti al lavoro. Ho attraversato un lungo corridoio fino al tuo ufficio, che ho identificato con facilità, grazie ad una targhetta appesa accanto allo stipite della porta chiusa. Ho bussato e sono entrato. Mi hai accolto sfoggiando una disinvoltura inedita, senz’altro frutto di grandi sforzi, ma – come una coperta troppo piccola – insufficiente a nascondere i residui di un disagio congenito, osteggiato con ogni mezzo. Per aggiornarci sulle rispettive vite, sui vari sviluppi e collassi, ci affidiamo a formule collaudate: binari saldi su cui la conversazione può procedere in sicurezza, senza correre il rischio di deragliare. Mentre parliamo, presto particolare attenzione a quello che non mi dici. Mi chiedo di quanti decenni siamo invecchiati quest’anno; immagino di tagliarti a metà, all’altezza della vita, per contare i cerchi concentrici.
ENNE (cut-up n. 95)
Mi ero svegliato con quasi un’ora d’anticipo, riemergendo da un sogno che non riuscivo a ricordare, ma di cui sentivo ancora il peso. Mi ero appena vestito e mi stavo preparando per andare a lavorare, quando il telefono ha iniziato a squillare. Mentre mi avvicinavo sapevo già quello che avrei sentito non appena alzata la cornetta. R. e il suo tono di voce sono state altre due conferme. Come immaginavo, mi è stato detto che N. era morta nella notte. Per qualche motivo ho deciso di cambiarmi e farmi la barba, poi ho chiamato in ufficio, dimenticando che era ancora troppo presto perché qualcuno rispondesse. Quando ero ormai pronto ad uscire, già con le chiavi di casa in mano, è scattata la sveglia. Sono andato a spegnerla e ho sentito la necessità di stendermi un attimo sul letto, con scarpe e cappotto. Sono rimasto lì per qualche minuto a guardare il soffitto e mi è tornato in mente il sogno.
CUT-UP N. 91
Quando mi hai invitato a passare da te per prendere un caffè e parlare di quello che è successo, ho tirato un sospiro di sollievo, ma ora che siamo seduti al tavolo non riesco a raggiungerti, a scavalcare la tua indifferenza. È una barriera trasparente, velata da un sottile strato di condensa e intuizioni a cui non ho accesso. C’è una calamita che attira la tua attenzione. Per tutta la sera i miei alibi rimbalzano su di te, come se fossi fatta di gomma, e cadono a terra, formando un mucchietto sul pavimento.
Mentre mi accompagni alla porta, alzo lo sguardo: il soffitto è una nuvola nera, carica di pioggia e presagi. Dopo averti salutata con un abbraccio, mi volto e scendo la prima rampa di scale lentamente, sentendo la porta che si richiude alle mie spalle; poi mi siedo su un gradino e ti spio dalla mia immaginazione. Sei tornata in cucina, hai aperto l’anta sotto il lavandino per prendere una paletta. Con la scopa raccogli il mucchietto che si è formato sulle piastrelle e lo versi nella stufa. Poi fai un passo indietro e ti appoggi al tavolo, soffermandoti con lo sguardo su un punto imprecisato davanti a te, prima di spegnere la luce uscendo dalla stanza.
[Immagine: Thomas Demand, Embassy (gm)].
@ Gezzi
Non capisco perché pubblicare delle prose in una rubrica titolata “nuovi poeti”.
Quale il criterio?
La domanda non è rivolta a me, ma direi lo stesso criterio che porta a pubblicare le prose di Bortolotti nella collana di poesia di Transeuropa o Cronaca perduta di Tiziano Rossi per Lo specchio di Mondadori, giusto per citare due esperienze in prosa piuttosto diverse tra loro, ma analoghe sul piano della collocazione editoriale. (E questo lo dico facendo le debite proporzioni tra me e i due autori che ho citato).
La questione per cui sempre più prose campeggino in poesia è interessante. Crisi del verso? qui nemmeno è prosimetro, sono tutte prose e mancano quegli elementi formali ricorrenti che definiscono il verso. Ci si chiede (mi chiedo) allora i perché della sfida a scrivere così ‘asceticamente’, per questo intendendo la deliberata rinuncia a ogni modulo espressivo caratterizzante in senso autoriale o almeno individuale, alla ricerca di una neutralità che sarebbe facile scambiare per sciatteria o mancanza d’ambizione.
Non mi sembra che il proposito sia una impersonalità che trascende e riassume chi legge; piuttosto, mi sembrano vigere direttive “oggettualiste” (il titolo ‘cut-up’ è una spia in merito) che svuotano gli stessi personaggi rappresentati. Perché ancora una volta far passare il messaggio postmodernista che siamo agiti anziché agire, perché mimare una piattezza trattando se stessi alla stregua di recipienti o registratori di sensazioni minime? Quando l’io (qualunque esso sia) diventa parte attiva, si hanno i momenti migliori, come questo:
“Mentre parliamo, presto particolare attenzione a quello che non mi dici. Mi chiedo di quanti decenni siamo invecchiati quest’anno; immagino di tagliarti a metà, all’altezza della vita, per contare i cerchi concentrici.”
Qui c’è qualcosa che posso sentire e che mi fa vibrare, perché è denso, Tornando al fatto che spesso ‘manca il punto’ (o il punto è il narrare stesso, lo spogliarsi di ogni utilitarismo?), non è un caso che ogni possibilità allegorica è soffocata, mancano importi simbolici (a tal proposito, ricordo che Inglese, che ha prefato il libro e che molto apprezzo sia come critico che poeta, rimproverava in un recente pezzo a Sereni proprio questo: la ‘stilla simbolista’: come se fosse una malattia!). Però i lettori hanno proiezioni, le persone hanno connaturato un bisogno (per me positivo) di ‘finzione’ e ‘slancio’, per quanto il postmoderno abbia voluto decostruire le metafisiche. Mi chiedo allora se abbia senso obbedire a una poetica, o una postura che oggi trovo comune in certe aree sperimentali (prendendo la parola con le pinze, e ascrivendola non alla devianza del linguaggio ma alla sua lotta contro ogni prospettiva simbolica e gerarchica) a scapito dei lettori, perché trovo difficile trarre qualcosa da questi testi, se non spunti per un dibattito a monte dei testi stessi.
Tutto questo per dire che queste prove mi lasciano tiepido, e sarei felice di sentire il parere di lettori che la pensano diversamente da me, nonché il punto di vista dell’autore.
errata corrige: “campeggiano”, scusatemi.
Davide, ti ringrazio per il tuo commento. Ti rispondo a caldo, e al termine di una giornata eterna, per cui perdonami se non sarò chiaro ed esaustivo.
Il fatto che le mie prose ti lascino tiepido è lecito, naturalmente, ma non sono troppo d’accordo sull’argomentazione.
Prima di tutto non credo proprio che evitare il verso comporti la “deliberata rinuncia a ogni modulo espressivo caratterizzante in senso autoriale o almeno individuale, alla ricerca di una neutralità che sarebbe facile scambiare per sciatteria o mancanza d’ambizione.”
Considero le mie prose brevi dei testi di confine tra prosa e poesia, tra racconto e poesia: uno spazio di libertà dall’intenzione ritmica della scrittura in versi e dallo sviluppo di una trama della narrativa tradizionalmente intesa; a favore di una scrittura ibrida, sospesa tra questi due generi, che punta sulla densità e sulla concisione.
Il fatto di non essere vincolato al verso, alla metrica, mi permette di scegliere ogni singola parola senza dover tener conto dell’aspetto ritmico, concentrandomi quindi sulle sfumature di significato (e ti garantisco che si tratta di un processo lungo, portato avanti per mezzo di un numero imbarazzante di revisioni).
“Perché ancora una volta far passare il messaggio postmodernista che siamo agiti anziché agire, perché mimare una piattezza trattando se stessi alla stregua di recipienti o registratori di sensazioni minime?”
Io non scrivo in questo modo per passare un messaggio post modernista, ma semplicemente perché è così che mi sento. In letteratura, ma soprattutto nella vita, mi interessando i particolari, i micro-eventi che sono solo apparentemente secondari, marginali e che, secondo me, rivelano molto della psicologia delle persone coinvolte.
In tutto ciò la metafora ha ovviamente un ruolo centrale e, visto che parli di ambizioni, ti rispondo dicendo che la speranza è quella di dire molto nello spazio di poche parole.
“Mi chiedo allora se abbia senso obbedire a una poetica, o una postura che oggi trovo comune in certe aree sperimentali a scapito dei lettori”
A quali aree sperimentali ti riferisci esattamente?
Io non penso di attenermi ad una poetica precisa, né come autore né come lettore.
Ho scritto parte delle prose brevi incluse nel mio libro prima di leggere Inglese, Bortolotti, Broggi, Mazzoni, e tanti altri prosatori con cui ho trovato dei punti di contatto successivamente. Leggere tutti questi autori è stato esaltante perché ho subito empatizzato con la loro scrittura: mi ha coinvolto, ma a livello emotivo, non intellettuale.
Della poetica mi importa fino ad un certo punto.
Le poesie prosastiche di Carver sono state importanti per me, e Carver non ha nulla di sperimentale. Francesca Genti è lontanissima sia da Carver che da Prosa in prosa, ma mi ha influenzato. Lo stesso vale per Alessandra Carnaroli: le sue poesie e le sue prose mi parlano, con urgenza. Magari è un’influenza meno evidente, ma a livello di approccio alla scrittura mi sento molto vicino a lei.
Insomma, mi piacciono autori abbastanza diversi tra loro, a prescindere dalla poetiche, e vorrei incorporare tutte queste influenze in uno stile personale.
“Il fatto di non essere vincolato al verso, alla metrica, mi permette di scegliere ogni singola parola senza dover tener conto dell’aspetto ritmico, concentrandomi quindi sulle sfumature di significato” (Ramonda).
Va benissimo. Si è in tanti oggi a fare i “contrabbandieri” tra poesia e prosa ( o viceversa). Ma ci si può limitare a insistere sulle proprie pratiche e trascurare non solo i problemi (teorici, ahi noi!) che esse – nolenti o volenti – pongono, ma anche il fatto (storico!) che esistono i generi (prosa, poesia, teatro, ecc.), esiste ancora (per quanto ignorata o rimossa o dichiarata inefficace…) una tradizione o delle tradizioni?
Si può andare avanti con tanta disinvoltura senza farei conti con l’impianto spesso positivistico e avalutativo di certe prose/poesie o poesie/prosa?
Si può giocare a rimpiattino dicendo in una riga che tutto o quasi nasce dalla scrittura *on line* (che sarebbe *post* per eccellenza e che avrebbe sostituito la “tradizione”) e nella successiva svelare che un qualche aggancio anche i *post-post* con una *certa tradizione* comunque lo mantengono, magari senza troppo dichiararlo?
Questo per ora. Poi, se la discussione decolla, aggiungo altro.
Caro Jacopo,
ti ringrazio per la risposta. Ora posso dirlo: tra gli autori che ho letto, nelle tue prose-poesie, mi sono venuti in mente proprio Carver e Mazzoni (non lo dico perché li hai citati ora, ma mi sono trattenuto prima perché è sempre discutibile affibbiare discendenze o echi a meno di sentirlo in maniera inequivocabile). E quello che in Mazzoni ho criticato in un altro post apparso qui su LPLC (e che in Carver accetto forse perché meno contemporaneo e più distante) è proprio la visione di fondo: quello di una solitudine e di un’inazione che sembra vista come la sola possibilità oggi, o meglio quella che riflette lo stato attuale delle cose, sul filo pericoloso tra scontento e sollievo (di nuovo: mancanza di moti d’orgogli, di una tensione romantica verso l’oltre, che secondo me non si chiude con un dato movimento letterario ma può essere insita in noi: altrimenti avremmo rinunciato a desiderare). Mentre non credo che sia così, non credo che il ripiegamento (che esiste, ovviamente) vada magnificato o se ne debba far sola ragione d’arte. Da qualche parte ho letto – era una sorta di battuta, ma significativa – che i letterati sono pessimisti, gli scienziati ottimisti: lasciando da parte la semplificazione manichea, non vorrei che ci fosse un fondo di verità per cui la propositività manchi negli autori unicamente letterari (ma Fortini, nutrito d’altro: “Quando è passata, è passata l’estate. Però l’estate non è tutto”, con un moto che rende tutto nuovamente possibile).
Insomma, probabilmente il mio restare tiepido (che magari diminuirà nelle riletture) sia dovuto a un motivo ‘etico/ideologico’, che poi ovviamente si riflette in uno stile asciutto e spoglio, minimalista ma senza nervatura allegorica, mi verrebbe da dire.
Personalmente, forse cerco una scrittura che muova a risollevarci, che esca in qualche modo dal limbo, che sia ‘ricostruttiva’ piuttosto che unicamente ‘constatativa/esperienziale’, che ‘esca di casa’, per così dire. Per questo apprezzo, come ho detto prima, i passaggi in cui il personaggio non è mero recipiente di azioni, ma diventa parte dialettica di un processo. So che tutto questo sembra confuso, e forse in effetti lo è. E giustamente ciascuno di noi reagisce emotivamente a scritture diverse – e in effetti l’importante è che ci sia una parte di trasporto anche emotivo al fondo della propria scrittura, perciò grazie delle precisazioni.
Un “cut-up” dovrebbe essere una sorta di collage, che rompe e riordina qualcosa che già esiste, distorcendone/rafforzandone/decostruendone il messaggio. Qui l’ordine è anche eccessivo, è una prosa tenuta a bada, senza scarti linguistici. Non si crea attrito, poche figure che rimandano a una generica tangibilità delle emozioni (il mucchietto di polvere degli alibi del 91, i cerchi concentrici dell’albero a simboleggiare l’invecchiamento nel 54). Non si riesce a leggere il testo che c’è dietro al “ritaglio”. Condivido l’opinione di @Castiglione, sembra un po’ ripetersi un senso di postmoderna passività, di livellamento emotivo, nonostante la ricerca di questo tono da registrazione sia senza dubbio uno stile. Mi piacerebbe comunque sentire dall’autore qualcosa di più sulla scelta di questo titolo.
Sulla prosa pubblicata come poesia credo pesi un’equazione editoriale: lungo : romanzo = breve : poesia, ma in effetti è un problema interessante: una poesia in prosa dovrebbe avere certe cadenze ritmiche, certe pronunciate densità semantiche o figurali che ristabiliscano la “musica” (so di essere molto, troppo, approssimativo) che si perde senza il metro. Eppure, se non ci sono, che succede? E poi abbiamo ancora strumenti per dire che cosa è “metro” e cosa è “andare a capo a casaccio”? (Sono domande vere, senza alcuna polemica).
Mi correggo subito. Non avevo visto che il sottotitolo del libro in questione è ineccepibilmente “prose brevi”.
Il fatto che stiamo a discutere sulla distinzione prosa/poesia indica che il problema non è ancora risolto. Da una parte verrebbe voglia di dire che la distinzione è arbitraria, cioè dovuta a fattori esterni (editoria) o di pura nominazione. Reagirono allo stesso modo i critici americani quando Ashbery pubblicò mi sembra Three Poems, che erano in prosa (ma la critica americana Perloff ha avanzato l’ipotesi che queste si appoggino alle brevi pieces di Beckett). Molta prosa c’è in Giovenale e Frasca, tra gli altri. Ma mentre in quei casi ci sono attributi che saremmo portati ad affibbiare alla poesia (densità, ellitticità, narrazione quasi impedita, senza contare che in Frasca ogni frase sottostà a un computo sempre uguale di sillabe), qui non vedo, a livello formale. Vero che molti testi in versi, nel medioevo, erano scritti in prosa: ma in quel caso c’era evidenza formale (allitterazioni, metro, ecc.) che il testo era poesia e la prosa era solo una convenzione di trascrizione, dato che la poesia era orale soprattutto. Mi chiedo quanto di tutto questo si applica al caso sopra, dato che non mi sembra mai si faccia riferimento al genere dei ‘poème en prose’ (Baudelaire, Rimbaud), dove la poeticità è probabilmente a livello ritmico e figurale.
Uso questo post e i relativi commenti come trampolino per alcune constatazioni/osservazioni.
La prima è che sono contento di vedere pubblicati altri testi di Ramonda, autore che per ora mi interessa molto. Testi che mi piacciono, ma ai quali forse ne preferisco altri, letti sempre online, leggermente più incisivi. Vedrò comunque di procurarmi il libro per un giudizio complessivo.
La seconda osservazione è che sì, purtroppo “il fatto che stiamo a discutere sulla distinzione prosa/poesia indica che il problema non è ancora risolto” (@Davide Castiglione). Eppure in questi casi mi viene da pensare a quando Barthes, in Il grado zero della scrittura, parlava di come la poesia da un certo momento in poi smettesse di essere “prosa + a + b + c” per diventare una cosa “a sé stante”, sostanziale : ecco, credo che oggi si stia facendo un passo ancora oltre, e cioè che la poesia tenda sempre più ad essere “prosa (o poesia) – a – b – c”. Ovviamente, il primo bersaglio di questa sottrazione non può che essere lo stile nudo e crudo (e con lui il verso libero), perché sentito non più, come poteva essere per buona parte del Novecento, come “personale” ma come mera scelta tra le tante, soprattutto dopo la musealizzazione della neoavanguardia. Da qui, e cioè da uno stile “sottozero” al “mimare una piattezza trattando se stessi alla stregua di recipienti o registratori di sensazioni minime” il passaggio non è scontato, ma mi sembra che su questo Ramonda abbia già fatto le giuste precisazioni. (Che poi, nella dura realtà, noi siamo davvero non altro che “registratori di sensazioni minime”, è un altro discorso, ma la poesia dovrebbe appunto favorire lo scarto).
Ultima osservazione, sperando di non dilungarmi troppo, stimolata sempre da Castiglione: io considero la scarsità di immagini (e forse anche di allegoria) come un punto di forza in un testo, perché mi dimostra una disposizione seria nei confronti dell’oggetto che non viene semplicemente “evocato” tramite suggestione ma “enunciato”, con una forza che ha solo la poesia. La strada dell’enunciazione è più rischiosa, come dimostrano i testi dell’autore, perché il pericolo di appiattimento è sempre dietro l’angolo, ma mi sembra l’unica strada in grado di opporsi a un tempo storico i cui imperativi sembrano essere esclusivamente quelli di “provare sensazioni” e “indorare la pillola”. Con questo non voglio dire che sarebbe da annullare lo strato simbolico, anzi, l’uomo per natura si interfaccia al mondo attraverso simboli e immagini, ma la lingua, soprattutto nel lessico e nella sintassi, ha un potere simbolico sotterraneo che troppo spesso viene tralasciato in favore di una più facile suggestione figurale.
@ Ennio (ma anche agli altri, a proposito della questione sui generi letterari)
Ennio, tu ti chiedi:
– “ci si può limitare a insistere sulle proprie pratiche e trascurare non solo i problemi (teorici, ahi noi!) che esse – nolenti o volenti – pongono, ma anche il fatto (storico!) che esistono i generi (prosa, poesia, teatro, ecc.), esiste ancora (per quanto ignorata o rimossa o dichiarata inefficace…) una tradizione o delle tradizioni?”
– “Si può giocare a rimpiattino dicendo in una riga che tutto o quasi nasce dalla scrittura *on line* (che sarebbe *post* per eccellenza e che avrebbe sostituito la “tradizione”) e nella successiva svelare che un qualche aggancio anche i *post-post* con una *certa tradizione* comunque lo mantengono, magari senza troppo dichiararlo?”
Prima di tutto, quello che tu chiami “insistere sulle proprie pratiche”, io lo chiamo dedizione quotidiana alla scrittura (pur essendo consapevole che la dedizione non è di per sé garanzia di qualità).
Inoltre, se un autore non ha nemmeno il diritto di scegliere la forma che, coerentemente con le proprie esperienze di lettore, reputa adatta ai contenuti che vuole esprimere (in un determinato stile), spiegami che cosa gli resta. Trasformare i generi letterari in barriere anti-creative non mi sembra produttivo, e ritagliarsi un piccolo spazio di libertà creativa tra i generi letterari non vuol dire fregarsene della tradizione.
Ennio, ora mi risponderai che un autore ha certamente il diritto di scrivere nel modo che preferisce, ma se non fa i conti con la tradizione sarà la tradizione a fare i conti con lui.
Io non ho mai detto che tutto nasce da una scrittura “post” che avrebbe sostituito la tradizione (e nemmeno gli autori a cui presumo tu ti possa riferire hanno semplificato la questione in questi termini). Non ho né la formazione né la vocazione del critico letterario, ma mi considero un lettore appassionato e, nei limiti della mia esperienza e delle mie capacità, mi sono imbattuto spesso in testi ibridi, piuttosto ambigui sul piano della collocazione di genere (o dovrei dire editoriale?).
La natura ibrida di un certo tipo di prosa breve sicuramente mi affascina, ma non ho scelto questa forma a tavolino, con l’intenzione di fare un’operazione sui generi letterari: la forma per me non è il fine, ma il mezzo.
@ Davide Castiglione
“Personalmente, forse cerco una scrittura che muova a risollevarci, che esca in qualche modo dal limbo, che sia ricostruttiva”
Trovo il tuo discorso molto interessante e la tua esigenza più che condivisibile. Credo si tratti semplicemente di aspettative diverse, di esigenze diverse.
Non ti nascondo che, come lettore, mi sento più in cerca di empatia che di spinte ricostruttive. O meglio, ho la sensazione che l’empatia sia già di per sé una soluzione, perché, anche se non risolve concretamente i conflitti, mi risolleva, per me è una spinta indiretta alla ricostruzione. Quest’idea, che ovviamente non è una scelta, si riflette nella mia scrittura (e non solo).
@ Jacopo
Grazie per l’interessamento.
In effetti la mia è una versione fortemente rivisitata e personalizzata della tecnica del cut-up.
Il mio commento sta diventando chilometrico, quindi perdonami se – solo per brevità – ti rimando a questo post su NI, in cui ho parlato del mio approccio al cut-up (nell’ultima parte del secondo commento): http://www.nazioneindiana.com/2011/11/28/prose-brevi/
@ Simone
Mi fa piacere sapere che alcune delle mie prose brevi hanno catturato il tuo interesse, anche perché, a mia volta, conosco e apprezzo il tuo lavoro (ovviamente sono sincero, non sto semplicemente ricambiando il complimento).
@ Jacopo Ramonda
Velocemente solo per dire che avevo scritto “Benissimo” a commento della tua frase da me stralciata. Il resto del discorso era in generale e non rivolto a te. Ci tornerò.
Lo dicevo a Giovenale a Torino, quando è venuto per la rassegna diretta da Francesco Forlani: il riuso di materiale interte non produce emergenze inattese (tipo il volo a formazione dei gabbiani) ma è un accumulo fine a se stesso, come il garage di un robivecchi. E’ una via “flawed”, come dicono in UK, che in UK ha senso perché lì c’è una gran massa di gente inerte per classe ed ordine sociale, mentre qui in Italia è del tutto fuori contesto (potrebbe salvarsi il flarf, nel popolare). Peraltro, Giovenale una sua via ce l’ha, perché le sue scritture a mezzo fra meccanismo e lirica producono effetti singolari, quindi lui si salva, ma moltissimi discepoli no, voci senza vitalità e slancio, fatte a stampo e del tutto dimenticabili. Se volete scrivere a questo modo, dovete prima produrre testi canonici, forme chiuse e versi tradizionali, perché le emergenze che vedete e dite voi non esistono, se non le vede Ennio Abate -il pubblico elettivo di questo straniamento formale- significa che non ci sono e stop.
“Giovenale una sua via ce l’ha, perché le sue scritture a mezzo fra meccanismo e lirica producono effetti singolari, quindi lui si salva, ma moltissimi discepoli no, voci senza vitalità e slancio, fatte a stampo e del tutto dimenticabili. Se volete scrivere a questo modo, dovete prima produrre testi canonici, forme chiuse e versi tradizionali, perché le emergenze che vedete e dite voi non esistono, se non le vede Ennio Abate -il pubblico elettivo di questo straniamento formale- significa che non ci sono e stop.” (Il fu GiusCo)
Io nutro un grande rispetto per il lavoro di Giovenale, ma non penso proprio di essere un suo discepolo, né trovo nelle mie prose particolari punti di contatto con la sua scrittura.
Comunque, GiusCo, appurato che sono inerte, mi trasferirò in UK. :)
Sono una semplice lettrice. Pur non possedendo strumenti adeguati di critica, capaci di valutare impianti metrici, cut-up e tutto ciò che è inerente la tecnica e il genere usati da Jacopo Ramonda, mi permetto di inserirmi nei dotti commenti che mi precedono per esprimere il profondo coinvolgimento che hanno suscitato in me le prose brevi dell’autore. Ho riconosciuto in esse qualcosa che mi riguarda e mi appartiene; momenti di esperienza, vissuti di persona, ma rimasti allo stato latente e informe e che, attraverso le parole scelte da Ramonda, hanno trovato la via per emergere alla coscienza e farsi contenuto esplicito e consapevole. Il “ripiegamento” (come lo chiama Davide Castiglione) o la ricerca di Ramonda mi ha dato l’opportunità di sentire prima una forte emozione e poi di tradurre l’emozione in un pensiero cosciente che fa luce su alcuni aspetti della mia psiche. Questo per me è un processo di trasformazione, un cambiamento che modifica la mia condizione attuale e mi permette, per così dire, di uscire di casa con un barlume in più di conoscenza.
Dice Jacopo Galavotti ” Non si riesce a leggere il testo che c’è dietro al “ritaglio”. Personalmente non mi interessa sapere cosa c’è dietro al ritaglio. Io sento che il momento descritto è compiuto così com’è, quel che sottende non ha importanza, e comunque , volendo, con l’immaginazione posso tentare delle ipotesi.
Aggiungo per concludere che percepisco il ritmo di queste prose poetiche come la cadenza lenta e lunga del respiro nella quiete, senza sussulti o strappi, e anche di questo sono grata all’autore oltre che dei preziosi stimoli che la sua opera mi ha dato.
@filo
se con “dotti commenti” si riferiva al mio appunto mi lasci ritirare nella misura del semplice lettore, che mi si addice di più.
Mi sono limitato a sollevare un’obiezione riguardo al fatto che il termine cut-up si riferisce a una tecnica particolare, per cui si prendono parole ritagliate da un testo e le si risistema in un nuovo spazio. Qui mi sembrava piuttosto che a essere ritagliato fosse l’intero “reperto”, l’intero spezzone di vita trasposto e in qualche modo sterilizzato in una prosa molto asettica.
Ramonda in altra sede ha spiegato che si tratta di appunti sparsi e risistemati affinché assumessero una fisionomia che non permettesse di vedere le giunture, pur mantenendo un titolo che recasse segno di quell’origine.
Ma al di là delle questioni sul genere, questi pochi testi non mi hanno convinto. La pausa, la quiete, quasi apatia, che ne traspare sembra sospenderle in attesa di un evento che ha qualcosa di troppo privato.
Comunque sia, convinto no, ma incuriosito sì. Dovrò leggere il libro per intero per potermi fare un’idea chiara.
@ filo
Grazie, il tuo commento mi fa davvero piacere, non solo per l’apprezzamento in sé.
@ Jacopo
Al di là dei pareri sui testi, la tua obiezione riguardo all’utilizzo del termine cut-up nel titolo delle mie prose è più che ragionevole: dato che lo “scheletro” di ogni mia prosa nasce effettivamente dal cut-up, mi sono sentito legittimato ad utilizzare il termine, ma mi rendo conto che può creare equivoci ed essere spiazzante (ma anche provocatorio, il che non mi dispiace).
Ringrazio Jacopo Galavotti e Jacopo Ramonda per le gentili risposte. Ne sono veramente lusingata. Sono una appassionata lettrice di poesia, purtroppo però ,per me, certa poesia contemporanea è di difficile lettura e comprensione, mentre i testi di Ramonda suscitano una emozione immediata e un dialogo col lettore.
Grazie a te, filo. Se ti va di proseguire la chiacchierata, mi trovi qui: jacoporamonda@gmail.com
Intervengo in ritardo, dopo aver letto e riletto.
Non capisco il criterio con cui si scelgono questi scrittori in versi. Anche in queste poesie manca del tutto la poesia (tralasciamo che siano in prosa). Certamente saranno persone attente alla studio dei metodi poetici, peraltro male utilizzati, ma non riesco a vedere la realtà che è dietro ad ogni composizione. Per che cosa scrivi? per pubblicare e fare leggere o perché hai investito nella poesia? credo sia questa la mancanza in tutti i poeti che vedo scritti in questa rubrica. Vorrei mi rispondesse anche il curatore che sceglie.
Senza investimento nella poesia non si va troppo oltre al principiantismo (neologismo). Grazie
“Non capisco il criterio con cui si scelgono questi scrittori in versi”
“Certamente saranno persone attente alla studio dei metodi poetici, peraltro male utilizzati, ma non riesco a vedere la realtà che è dietro ad ogni composizione. Per che cosa scrivi? per pubblicare e fare leggere o perché hai investito nella poesia? credo sia questa la mancanza in tutti i poeti che vedo scritti in questa rubrica. Vorrei mi rispondesse anche il curatore che sceglie. Senza investimento nella poesia non si va troppo oltre al principiantismo (neologismo). Grazie” (manuela)
REPETITA JUVANT (sed UBI Ramondarepetita NE juvant)
ok, apprezzo l’onestà intellettuale di Ramonda, la sua “curata medietà”, la sua quasi naturalmente ricercata myricaetudine di fondo (se non altro ne è cosciente dell’importanza per la fortuna in termini di consensui di questo suo lavoro) . Però è proprio che Ramonda qua “tira il sasso e nasconde la mano”, o meglio “pensa di tirare il sasso per poi nascondere la mano”, cosa a mio avviso più grave che nasconde una spaventosa superficialità ed ignavia, resa ancora più spaventosa ed orribile proprio perché negata fin dal principio con la giustificazione “empatica empasse” nei confronti delle persone e delle cose, quasi come se tutto e tutti fossero LA STESSA COSA IN SE’ AUTOMATICAMENTE. Nel senso che questi testi scrivono e collassano, accadono, appuntano, registrano e muoiono. Sono “tuttocuore”. Sono fiaccamente umani. Solo un animo infiacchito può apprezzarli e rimanerne colpito. Allora, io sono infiacchito, molle, colpevole, impaurito, chi di noi non lo è?? Voilà, colpito! Colpito come appunto quando “ci si accorge” di calpestare un tappeto oppure aver messo il piede in una pozzanghera. E’ una tristezza di fondo che ognuno farebbe bene a tenere per sé. Quando qualcuno la tira fuori (e bene, pure, diciamolo!), gridiamo al miracolo “simpa/empa” dell’esistenza. Attenzione, qua non è nemmeno una questione di stile, ma di IDEOLOGIA proprio! Ramonda fa sfoggio caricaturale della sua chiaroveggenza (“Non ti nascondo che, come lettore, mi sento più in cerca di empatia che di spinte ricostruttive”; aggiungiamoci pure ANCHE COME SCRITTORE) Come se fosse tutto lì, bell’è pronto, come se la corruzione non esistesse, come se fosse “facile e semplice” ritrovare “la direzione delle cose”. Come se dire “mi cutuppo” sulla “direzione delle cose”, diriga REALMENTE le cose, intoni l’essere umano automatico al suo controllore. Per fortuna (o per sfortuna) non è così e l’inganno dura poco. E il MALE di ciò che esiste continua a fare indifferentemente il suo corso, e la “lunghissima rincorsa” non è che “come quando Fantozzi prende il bus al volo… ”
Sarebbe bene che queste cose che scrive Ramonda nessuno ce le racconti, se non altro perchè non servono a nessuno e poi perchè sono davvero pericolose.