di Lorenzo Marchese

 

[Una versione più lunga di questo saggio è in uscita su «Rifrazioni»].

What is honour? a word. What is in that word honour? What is that honour? air.
(Falstaff, Henry IV, William Shakespeare, Parte 1, Atto V Scena 1)

 

Con questa breve lettura di Touch of evil di Orson Welles (1958, in italiano tradotto liberamente con L’infernale Quinlan) vorrei provare a fornire una guida interpretativa per via indiretta, ragionando su due parole ricorrenti nel film: reputation (reputazione), honor (onore). Reputazione e onore, da soli, possono essere nomi senza contenuto, inconsistenti, ma in questo film rappresentano una sola cosa per i personaggi della vicenda: l’unica moneta con cui è possibile arricchirsi in una città di provincia senza alcuna ricchezza, e insieme l’unica arma con cui si possa restare vivi, compressi in un luogo di confine. In effetti, si respira in Touch of evil una puzza di bruciato e di guerra “tutti contro tutti” che viene condotta per lo più, vorrei mostrare, con gli strumenti della diffamazione sistematica (ai danni dell’unico protagonista positivo, Miguel Vargas) e della mistificazione difensiva: in breve, com’è arcinoto da una qualsiasi sinossi del film, il capitano Hank Quinlan incastra ad arte i presunti colpevoli dei casi su cui investiga, senza risparmiare una vera e propria invenzione delle prove, e grazie a ciò costruisce la propria reputazione di infallibilità. Che la reputazione guidi le scelte di quasi tutti i personaggi della pellicola, tranne il protagonista Miguel Vargas e la moglie Susan, è significativo soprattutto se si tenta di incasellare Touch of evil nel genere che sembrerebbe adattarsi meglio a esso: il noir, genere cinematografico eminentemente americano ma teorizzato dal francese Nino Frank nel 1946. Purtroppo, oltre ad avere un bel nome il noir è anche notoriamente “una delle categorie più amorfe nella storia del cinema”[1] e una delle più ardue da decifrare.

 

È problematico definire la natura di questa etichetta, i suoi confini, la sua possibile estensione spazio-temporale, insomma la sua identità. La difficoltà di partenza sta nello scegliere una serie di elementi comuni a decine di film girati fra gli anni ’30 e ’50, se ci limitiamo a ricondurre classicamente il noir a sessant’anni fa o più[2]; la seconda complicazione, nel trovare il modo di “fare sistema” e decidere se gli elementi accomunanti siano da scegliere nella struttura (spezzata, aggrovigliata, rifiutante uno svolgimento lineare, piena di flashbacks e racconti di secondo grado), nello stile di ripresa (allucinato, con esasperati chiaroscuri e debiti pesanti del cinema espressionista tedesco) o nei personaggi. Per reputation e honor, tuttavia, è preferibile far partire l’indagine dai personaggi di Touch of evil, per vedere come, nel caso specifico, essi manipolano la reputazione loro e altrui, e con essa s’innalzano o vanno incontro alla loro rovina. In ossequio alla sequenza iniziale del film, ormai citata pressoché ovunque, vorrei tentare una sorta di maldestro analogo del “piano-sequenza”: ripercorrere velocemente gli eventi del film, focalizzandomi sulla “reputazione”, senza mai staccare la cinepresa dalla vicenda mostrata né dal concetto sottolineato (reputazione). Poche parole sulle tecniche usate, poca teoria e molta attenzione all’intreccio, alle parole e alle azioni delle persone in scena.

 

Cominciamo. Touch of evil è una storia di frontiera, prima di tutto: una storia che si svolge, come precisa Vargas a Susan andando in automobile verso il motel dove la deve nascondere, su una frontiera di 1400 miglia priva di controlli (“1400 miles and not a single machine-gun” – 1400 miglia e neanche una mitragliatrice), che separa il Messico e gli Stati Uniti ma non sembra appartenere davvero a nessuno dei due Stati (“This isn’t the real Mexico, you know that! Border towns bring out the worst in a country” – Questo non è il vero Messico, lo sai! Le città di confine tirano fuori il peggio di un paese; lo dice ancora Vargas alla moglie). Los Robles è un concentrato negativo dell’idea della frontiera. Consiste in due portici anticheggianti con capitelli corinzi, in cui regnano il disordine e l’incuria (nel piano-sequenza iniziale vediamo anche un gregge di capre al pascolo sull’asfalto) e un misto di non-luoghi abbandonati (il ponte del finale, le pompe di benzina) e interni impersonali (la casa di Sanchez) o soffocanti nella loro esuberanza decorativa (la casa di Tanya)[3]. L’impressione complessiva dell’ambientazione è quella di un claustrofobico pasticcio[4], amplificato dalla predilezione, studiata fino alla nausea, per i piani-sequenza[5]; in questo caos criminali messicani e poliziotti americani si combattono, non certo per ottenere grandi ricchezze, anzi, in apparenza per pochi spiccioli e alcuni bocconi di micro-potere su una zona ingrata. I gangster Grandi architettano il loro attacco a Vargas per ottenere il rilascio di un capofamiglia, altri due capi sono morti, il clan sembra alquanto disordinato, né il capo provvisorio, lo zio Joe, appare una figura davvero temibile: non si fa rispettare da Quinlan, che lo uccide noncurante senza stare troppo a rifletterci, né dagli altri poliziotti, né da Susan, che dovrebbe essere una sua vittima eppure, nel loro primo colloquio, non fa che prendersi gioco di lui e tenergli testa. Eppure, per lo zio Joe è capitale apparire bene, garantire l’apparenza alla cui base sta un nodo razziale non risolto e sentito dolorosamente, in una zona di frontiera in cui si viene giudicati male solo perché messicani: ne è riprova il trattamento da foreigner e “invasore” riservato senza complimenti a Vargas da Quinlan e dalla sua squadra.

 

Nel primo incontro con Susan, zio Joe si offende perché lei ha chiamato il nipote con un nomignolo razzista (Poncho), ci tiene a negare le sue origini (“The name Grandi ain’t mexican” – Il nome Grandi non è messicano), nel corso del film si dichiara più volte american citizen, e il parrucchino che porta è solo l’emblema più evidente della sua smania di apparire diverso da com’è (cioè molto messicano). Pure i Grandi della nuova generazione si presentano con un aspetto ultra-americano: parlano un inglese pressoché impeccabile (un aspetto che nel doppiaggio si perde un po’), nei vestiti e nella pettinatura ricordano moltissimo Elvis Presley e per niente un tipo latino. In un mondo profondamente xenofobo, in cui i messicani vengono diffidati e tenuti lontano, anche se rivestono posizioni di potere (sulla diffidenza razzista di Quinlan e i suoi colleghi per Vargas è stato scritto diffusamente), i Grandi cercano il potere costruendosi una reputazione opposta. E anche quando vanno all’attacco, mirano allo stesso punto.

 

Non si può neanche dire che Quinlan e i suoi colleghi lavorino per soldi o per il potere, che scarseggiano: è questa la spina più dura per Quinlan, grave almeno quanto la morte impunita della moglie (da parte di un messicano, ancora). Dopo quelli che Quinlan definisce irosamente “30 years of dirt and crummy pay” (Trent’anni di feccia e paga scadente), non ha ottenuto altro che “a little turkey ranch (…) a couple of acres” – una piccola fattoria con dei tacchini (…) un paio di acri (lo rimbrotta a Pete nella scena finale). Quello che di grande gli resta in mano, l’unico premio sostanziale, è soltanto una cosa impalpabile come la reputazione, la forte e indiscussa aura che i colleghi e i malavitosi gli hanno creato, la fama che lui stesso si è costruito incastrando presunti innocenti. Quinlan è particolarmente sensibile su questo punto: il punto di svolta è la scoperta da parte di Vargas dei candelotti di dinamite piazzati da Quinlan in casa Linnekar per incastrare Sanchez. Quando Vargas fa capire a Quinlan di aver compreso il suo tentativo di incastrare il ragazzo, Quinlan ribatte che Vargas vuole ignorare la realtà e difendere un suo compatriota. Così facendo, Quinlan ribadisce la sua estrema diffidenza per l’investigatore intruso, in quanto messicano[6], e al contempo accusa Vargas della colpa di cui egli stesso si sta macchiando: ignorare la realtà e rimpiazzarla con un’altra a proprio uso e consumo. Che poi tale “realtà costruita” finisca per coincidere con la “realtà effettiva” (Sanchez è davvero il responsabile dell’esplosione dell’auto di Mr. Linnekar, dalla quale si avvia la storia di Touch of evil) è niente di più di una burla finale, irrilevante ai fini della vera storia, il conflitto fra Vargas e Quinlan, a tal punto che l’indagine su Linnekar è stata definita un vero e proprio MacGuffin[7].

 

Ma ciò che importa è che, all’accusa di Vargas, Quinlan reagisce male, si pone sulla difensiva e mostra un atteggiamento complessivamente infantile, acuito dal suo stesso aspetto di bambino mostruosamente cresciuto, goloso di dolciumi e, dalla mezz’ora in poi, anche senza barba. Pone i suoi colleghi di fronte a una scelta netta e irrazionale: o con lui, persona fidata e arcinota, o con i messicani, cioè gli stranieri, i nemici. Mentre Vargas si allontana, Quinlan arriva vicino a perdere il controllo e urla: “I got a position in this town, a reputation! Who’s Vargas? (Ho una posizione in questa città, una reputazione! Chi è Vargas?). Da questo momento, Quinlan decide di oltrepassare il confine della legalità in modo più deciso rispetto a quanto avesse mai fatto. Joe Grandi gli propone un accordo per incastrare Vargas colpendo sua moglie Susan, e nella proposta si mostra più scaltro di quanto non apparisse prima, una specie di Jago ribassato. Difatti lo convince dicendo: “Somebody’s reputation’ll be ruined, why not Vargas?” – La reputazione di qualcuno sarà danneggiata, perché non quella di Vargas?. La frase scardina le difese di Quinlan, lo scuote a tal punto da fargli decidere prima di allearsi con Grandi (Pete li vede andare via insieme e per la prima volta dubita dell’integrità del suo amico, cosa che gli permetterà di allearsi nel finale con Vargas) e poi di suggellare la sua dannazione ubriacandosi con Grandi in una bettola (Quinlan è un ex-alcolizzato).
Pur convinto che Vargas non possa creargli nessun problema, il capitano dà il suo avallo al piano di Grandi. Dunque, agisce in accordo con i messicani; e mentre quelli rapiscono la moglie di Vargas e la drogano, Quinlan sviluppa la sua parte di piano con diligenza, e alla fine passa a dirigerlo, insofferente di condividere la regia della finta colpevolezza con altre persone. Rivela ai suoi colleghi che Vargas e la moglie sono due tossicomani, garantendo addirittura di essere un testimone oculare. Poco dopo, di notte, porta a compimento il suo progetto con l’uccisione di Joe Grandi in una sequenza giustamente celebre, alla presenza di Susan che dorme, stordita dalle droghe, tanto che il montaggio alternato del sonno inquieto di Susan e del frenetico strangolamento di Grandi suggerisce una dimensione da incubo, quasi che Susan (e lo spettatore) stia sognando quell’omicidio inaudito. Ma al di là della dimensione onirica costruita per la fascinazione dello spettatore, l’omicidio è più spiegabile di quanto non paia: Quinlan è un demiurgo con brame di onnipotenza[8] e non sopporta a lungo alleati nelle sue macchinazioni per accrescere la sua stessa immagine.

 

Quando Joe Grandi non gli serve più, Quinlan se ne sbarazza e procede da solo a incastrare Vargas, facendo leva sulla xenofobia che accomuna tutti i personaggi americani di sesso maschile, tranne l’assistente al procuratore Al Schwartz, che si allea da principio con Vargas. Pete, pur cominciando a dubitare di Quinlan, è il primo a dar contro a Vargas: “This Mexican’s bringing charges against a respected police officer!” (Questo messicano sta accusando un rispettabile poliziotto!), seguito da altre offese più generali tipicamente xenofobe come: “He’s smearing hundreds of fine men” – [Vargas] sta calunniando centinaia di persone per bene. La generalizzazione sarà ripresa in un’amara constatazione finale, quando nell’ultima scena Quinlan confesserà a Pete: “I blame Vargas for everything” – La colpa di tutto è di Vargas.

 

Tuttavia, il piano messo a punto per incastrare Vargas non funziona, anzi si ritorce contro Quinlan nei modi che gli spettatori sanno. Più interessante è notare che “colpire Vargas nella reputazione” non sembra scalfirlo: risiede in ciò la maggiore eccezionalità del protagonista. I Grandi sono criminali che infrangono la legge, ed è chiaro che, tranne la nazionalità, Vargas non ha niente in comune con loro. Ma neppure ha a che fare con Quinlan: la presunta somiglianza dei due, che alcuni hanno trovato nell’adozione di metodi poco ortodossi del messicano, non è molto forte. Vargas, quando scopre l’attacco a sua moglie, non esita a entrare in un bar pieno di gente, fare il pazzo e passare per un violento teppista messicano come quelli contro cui lotta (in questa scena parla spagnolo) di fronte a tutti: è la prova che l’immagine che dà di sé non gli interessa affatto. Non tesse trame, non agisce di nascosto, non architetta, gli importa solo della moglie. Il suo personaggio acquista dignità (e simpatia) solo quando è un legislatore inflessibile o un marito affettuoso[9]: forse è proprio il fissare una scala di valori su enti più stabili della reputazione che determina la vittoria finale di Vargas.

 

Concentriamoci sul finale. I colleghi di Quinlan decidono di non lanciare alcuna accusa formale a Vargas. Questo, non appagato, decide di incastrare Quinlan con l’aiuto di Pete[10], che ha cominciato da tempo a dubitare del capitano. Pete, dotato di un microfono nascosto, cammina conversando con Quinlan, che si lamenta della sua povertà, del suo nome offeso e dell’intrusione dello “straniero” Vargas. Infine, Quinlan scopre l’inganno di Pete e gli spara. Poi, esausto sulla riva di un fiumiciattolo, tenta un ultimo colpo di mano, dicendo a Vargas (accorso sulla scena, un ponte, luogo di “passaggio” per eccellenza in questa storia di frontiera) che lo accuserà di aver sparato a Pete. È più che altro un autoinganno senza efficacia (“They always believe me. They’d never believe I killed him” – Mi credono sempre. Non crederebbero mai che l’ho ucciso io), giacché Vargas sorride scettico e si allontana, ma Quinlan vuole auto illudersi una volta di più.

 

Pete, in un ultimo soffio di vita, spara a Quinlan, e di rimando il personaggio interpretato da Welles, per tutta reazione, gli si avvicina e gli dice: “Pete, that’s the second bullet I stopped for you” (Pete, è il secondo proiettile che prendo al posto tuo). La frase apparentemente non ha senso (Pete ha mirato a Quinlan e a nessun altro, ci è mostrato con chiarezza). A meno che non la si interpreti così: Quinlan si illude di essere ancora l’eroe che aveva preso una pallottola in una gamba al posto di Pete, si vuole convincere che la sua reputazione non sia distrutta[11]. Ma rivela in realtà di essere un omicida. Le sue mani sono sporche di sangue, metaforicamente e concretamente[12]: il sangue di Pete gli sgocciola sulle dita, e gli fa l’effetto di un risveglio scioccante. Senza più sorridere, Quinlan retrocede sconvolto, e cade morto nel fiume. Il suo onore, distrutto, ormai non è più uno strumento di difesa efficace contro il “nuovo” o “l’estraneo” che avanza. Al contrario lo ha portato al tradimento degli amici e alla morte. È a partire da questo che la sentenza finale di Tanya potrebbe essere interpretata non come una considerazione generale, ma come un preciso giudizio sulla deperibilità della reputazione, valore centrale in un vecchio mondo, ma fallace in quello che verrà: “He was some kind of a man. What does it matter what you say about people?” (A modo suo era un grand’uomo. Ma che importa ciò che dici delle persone?).

 

Fine di questo improbabile “piano-sequenza” critico. Nel mondo del noir, è d’obbligo presentare personaggi ambigui, spesso doppiogiochisti, inseriti in una vicenda in cui è difficile per il personaggio come per lo spettatore capire dove stia il vero. La giustizia, connessa alla verità, è una sterile utopia in cui cadono gli attori più ingenui della vicenda (qui, spesso, Vargas e Susan). Per sopravvivere bene, sembra nel noir che non si debbano avere valori, che ci si debba costantemente adeguare al nemico: in effetti, Vargas non riesce veramente a sbrogliare la matassa e a sconfiggere Quinlan finché non decide di giocare sporco, mettendo una microspia addosso a Pete. E anche perciò, molto probabilmente, non è per lui che parteggiamo: non perché sia stupido, ma perché non riesce con naturalezza a muoversi in un mondo in cui il valore più grande (l’onore) si costruisce con l’inganno e la spietatezza: un mondo esecrabile e parecchio avvincente. Il capitano Quinlan invece, così come i malavitosi messicani della famiglia Grandi, rappresenta un vertice di genio (del male, poco importa), perché orienta le sue azioni alla costruzione e alla difesa del suo “buon nome”, agisce di nascosto, confonde le acque e si comporta sempre in modo da risultare inattaccabile, oltre che sul piano giuridico (compie per lo più azioni criminose), sul piano sociale. Quinlan non si fa scrupolo di affermarsi, lui stesso, come la Verità, di sovrastare, per il tempo illusorio di mezzo film, la vicenda, e quindi di elevare illusoriamente anche, per una mezz’ora, la nostra capacità di conoscenza, salvo poi farci sprofondare insieme a lui nella melma finale. Insieme, egli mostra la sua natura di personaggio noir[13] e di manipolatore quasi shakespeariano, mette i buoni contro i cattivi e scredita i buoni per farli sembrare cattivi. Il risultato è eminentemente noir: Welles, attraverso un cinema di schietto antinaturalismo, arriva, facendo il giro lungo, a imitare fedelmente una realtà in cui non esistono confini se non arbitrari e in cui accidentalmente si può arrivare al trionfo del bene passando per la strada sbagliata[14], dove anzi bene e male sono opinioni pericolose, che può riuscire a maneggiare con un certo rischio solo un regista diabolico.

 

 


[1] J. Naremore, Il Noir in Storia del cinema mondiale, (a cura di Gian Piero Brunetta) vol. 2 Gli Stati Uniti (tomo secondo), Einaudi, Torino 2000, p. 1216.

[2] C’è un infinito e ragionevole dibattito sulla prosecuzione del noir fino agli anni ’70 e oltre, su cui per ragioni di spazio non mi soffermo. Una sterminata bibliografia sulla pagina certificata di Wikipedia in inglese: http://en.wikipedia.org/wiki/Film_noir .

[3] In tal senso, alla luce della nota 4, si può dire che Touch of evil abbia alcuni elementi, pervertiti e criticizzati, del genere western, soprattutto intorno al tema della frontiera.

[4] “Se questi avvenimenti generano talvolta una certa confusione, è soprattutto perché l’azione ha luogo in una terra di confine volutamente indistinta e mutevole, in cui il pubblico tende a perdere l’orientamento”, J. Naremore, Orson Welles. Ovvero la magia del cinema, Marsilio, Venezia 2012, p. 204.

[5] “Le riprese lunghe tendono a dare la claustrofobia. Ecco una cosa che non si può fare con il montaggio: per la claustrofobia ci vuole la ripresa lunga”, O. Welles – P. Bogdanovich, Io, Orson Welles, Baldini&Castoldi, Milano 1993, cap. Carefree, p. 315.

[6] L’intero confronto fra Vargas e Quinlan è d’altronde imperniato sull’odio razziale provato dal secondo verso il primo, acuito, paradossalmente, dal fatto che Vargas non sembra messicano. L’apparente somiglianza etnica e intellettuale fra Quinlan e Vargas mette Quinlan sulla difensiva, secondo il vecchio principio razziale per cui popolazioni molto simili che vivono a stretto contatto fra loro sono portate a odiarsi di più. Un principio simile è, prima che razziale, shakespeariano (e Touch of evil è profondamente shakespeariano). Ricordo solo l’incapacità di Amleto di distinguere, sulla base di un ritratto, il padre dallo zio perché troppo simili,, e quindi la frustrazione nel portare a termine la sua vendetta, mentre il suo odio senza sbocco aumenta. Per questa interpretazione, v. R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Adelphi, Milano 1998 (part. capitolo su Amleto).

[7] Lo ha notato J. Naremore, Orson Welles, op. cit.

[8] Serve menzionare a riguardo Une Histoire immortelle, di e con O. Welles (1968)?

[9] Lo dice anche prendendo per il collo uno dei giovani Grandi: “Listen, I’m no cop now, I’m a husband” (Senti, non sono qui come poliziotto, ma come marito).

[10] Solo in questo passaggio, effettivamente, Vargas si avvicina ai modi di Quinlan.

[11] Da questo punto di vista, mi sento di definire Touch of evil un’opera davvero shakespeariana. Si pensi solo al timore dominante di Amleto di lasciare un “nome offeso” (wounded name) alla sua morte (W. Shakespeare, Hamlet, Atto V, Scena III).

[12] Utile il rimando a Macbeth di Shakespeare e alla versione filmica di Welles, il che ci ricollega all’esergo del mio pezzo: Touch of evil come uno dei film più shakespeariani di Welles. Il topos delle mani lorde di sangue lì era centrale, e non solo quello.

[13] “Nel Noir, come in altri generi d’azione, l’eroe appare come una vittima in un mondo di violenza inusitata. Il suo sembra un comportamento difensivo: deve lottare con tutti i mezzi in difesa di un’immagine di sé (…) La coscienza di lottare non per qualcosa, ma in difesa, contro qualcosa, diventa più evidente”, G. Muscio, Cinema e guerra fredda, 1946-56 in Storia del cinema mondiale, op. cit., p. 1444. Interessanti anche queste considerazioni: “Intorno agli anni cinquanta però, l’aggressività dell’eroe cresce; ormai sa che il nemico è potente (l’atomica russa è del 1949) e che la lotta attraverso i propri intermediari non è più possibile: è giunto il momento di appendere la pistola al chiodo, come desidererebbe (Il romantico avventuriero, King, 1950, Mezzogiorno di fuoco), ma deve affrontare il duello. Il mondo sembra semplificarsi: egli può vedere il volto del suo nemico e usare le sue stesse armi, perché ora sono alla pari. Non si deve più macerare nei sensi di colpa, nascondere la propria aggressività in un’autodistruttività latente. Davanti a un nemico dichiarato l’eroe può riorganizzare le forze ed esigere la cooperazione dei “buoni”. La vena di isteria compressa nei gesti permane però, a segnalare che non tutto è risolto, anzi: le nevrosi si moltiplicano, nell’eroe e nei suoi antagonisti”, Ivi, p. 1445.

[14] Nell’ultima scena di Touch of evil, veniamo in effetti a scoprire che il colpevole individuato da Quinlan attraverso un’accusa pretestuosa era effettivamente colpevole. Ma questa notizia, che in un film poliziesco classico sarebbe un annuncio di lieto fine, sortisce qui l’effetto contrario. Lo spettatore, dopo aver conosciuto il potere mistificatorio di Quinlan, è spaesato dalla colpevolezza perché sospetta, non sappiamo quanto a ragione, che Quinlan sia davvero il più vicino alla verità.

[Immagine: Orson Welles, Touch of Evil (L’infernale Quinlan) (gm)].

 

7 thoughts on “Orson Welles e il noir. L’infernale Quinlan

  1. Giusto qualche osservazione:
    – Joe Grandi può darsi che soffra per un “nodo razziale non risolto”, ma non è quello che Marchese pensa: quando Joe dice che il suo cognome non è messicano e lui è un cittadino americano, non lo fa per “negare le sue origini” nella “sua smania di apparire diverso da com’è (cioè molto messicano)”. Sta solo ricordando a Susan che lui è un mafioso italoamericano, mica un messicano dilettante.
    – I giovani della famiglia Grandi, secondo Marchese, hanno paradossalmente “un aspetto ultra-americano: parlano un inglese pressoché impeccabile (un aspetto che nel doppiaggio si perde un po’), nei vestiti e nella pettinatura ricordano moltissimo Elvis Presley e per niente un tipo latino”. Evidentemente Marchese non ha mai notato, ad esempio, che in Happy Days quello vestito così si chiama “Arthur Fonzarelli”.
    – Dire che il fatto che Sanchez sia davvero colpevole “è niente di più di una burla finale, irrilevante ai fini della vera storia” vuol dire travisare un punto fondamentale: Quinlan, come d’abitudine, aveva ragione, mentre Vargas non aveva capito nulla. Senza questo, il film varrebbe molto meno.

  2. @un lettore

    Grazie anzitutto dei commenti. Provo a rispondere alle sue osservazioni:

    – Joe Grandi può darsi che soffra per un “nodo razziale non risolto”, ma non è quello che Marchese pensa: quando Joe dice che il suo cognome non è messicano e lui è un cittadino americano, non lo fa per “negare le sue origini” nella “sua smania di apparire diverso da com’è (cioè molto messicano)”. Sta solo ricordando a Susan che lui è un mafioso italoamericano, mica un messicano dilettante.

    Sa che a questo non avevo mai pensato? è stupido da dire, ma mi è sfuggito completamente, forse per difetto di attenzione. I nomi dei Grandi suonano più italiani che messicani, ma se ben ricordo nel film non si parla esplicitamente di mafia italoamericana, la connotazione italiana, se c’è, è parecchio labile, i Grandi sembrano appartenere più a un imprecisato sud di frontiera che non a una località precisa. Forse per questo non ho colto la caratterizzazione italoamericana, ma solo messicana, sbagliando. Devo ricontrollare perché ho la sensazione di aver preso un abbaglio.

    – I giovani della famiglia Grandi, secondo Marchese, hanno paradossalmente “un aspetto ultra-americano: parlano un inglese pressoché impeccabile (un aspetto che nel doppiaggio si perde un po’), nei vestiti e nella pettinatura ricordano moltissimo Elvis Presley e per niente un tipo latino”. Evidentemente Marchese non ha mai notato, ad esempio, che in Happy Days quello vestito così si chiama “Arthur Fonzarelli”.

    Giusto anche questo, per quanto secondo me non siano solo i latini a vestirsi in questo modo. Per inciso, Fonzarelli (Fonzie, per gli amici) con Happy Days viene quindici anni dopo Touch of evil, se ben ricordo, quindi ci andrei cauto a usare un materiale degli anni 70 per interpretare una pellicola di fine anni ’50. Può darsi che reinterpretando il proprio passato, in Happy Days, ci si sia concessi qualche libertà (pura ipotesi).

    – Dire che il fatto che Sanchez sia davvero colpevole “è niente di più di una burla finale, irrilevante ai fini della vera storia” vuol dire travisare un punto fondamentale: Quinlan, come d’abitudine, aveva ragione, mentre Vargas non aveva capito nulla. Senza questo, il film varrebbe molto meno.

    Secondo me, è un po’ schematico dire semplicemente che Quinlan aveva ragione mentre Vargas non aveva capito nulla: è quello che ho cercato di spiegare -temo non benissimo, me ne scuso- nella conclusione di questo intervento e nella nota 14.

  3. @ Lorenzo Marchese

    Mi scusi per le osservazioni un po’ brusche: è uno dei miei film preferiti e questo mi ha reso suscettibile.
    In effetti anch’io ho sempre trovato strana questa famiglia di mafiosi italiani trapiantati in Messico. A quanto pare (ho controllato ora) nel libro originale i gangster si chiamavano Buccio ed erano semplicemente italiani, mentre Welles decide di trasformarli in un ibrido italo-messicano. Il motivo di fondo, credo, è che negli anni ’50 non esisteva una criminalità organizzata messicana come si deve. Da allora, bisogna dire, hanno fatto molti progressi.
    Gli stereotipi razziali nei film americani sono spesso sfumati e impliciti, quindi per noi non è facile individuarli, specie se ci riguardano. Ma negli USA degli anni ’50, la tipologia “greaser” con brillantina, giubbotto e aria macho era specialmente (ma non solo) italoamericana. L’equivalente attuale (più nettamente marcato come italiano) si chiama “guido”.

  4. Si figuri, non mi è parso brusco :-) il film è straordinario, non si discute. Invece il mio intervento è bene che venga criticato, quindo grazie ancora. Rifletterò sulla pista italoamericana

  5. Analisi molto profonda e stilisticamente brillante. Sono d’accordo sulla questione della trama di fondo come secondaria, come McGuffin: di sicuro il fatto che Quinlan avesse ragione alla fine non influisce, è semplicemente una beffa ironica che mette ancora più in risalto la cointeressenza, del tutto casuale, fra giustizia e ingiustizia, bene e male.
    Complimenti.

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