cropped-Angeli.jpgdi Valerio Magrelli

[Questo articolo è uscito sull’ultimo numero di «il Reportage»].

A partire dal 2001, ogni 26 settembre viene dedicato alla celebrazione delle lingue europee. L’Europa possiede infatti un tesoro linguistico, tanto che si possono contare ventiquattro lingue ufficiali e oltre sessanta comunità autoctone che parlano una lingua regionale o minoritaria (senza dimenticare le lingue parlate dai cittadini originari di altri Paesi). Per attirare l’attenzione su questa immensa ricchezza, l’Unione europea e il Consiglio d’Europa decisero che il 2001 fosse proclamato Anno europeo delle lingue. Dal successo dell’iniziativa è nata dunque la Giornata europea delle lingue, un appuntamento con cadenza annuale e con il triplice obiettivo di sensibilizzare il pubblico al plurilinguismo in Europa, coltivare la diversità culturale e incoraggiare l’apprendimento delle lingue da parte di tutti, dentro e fuori il contesto scolastico.

Non può, tuttavia, passare sotto silenzio il fatto che, pochi giorni prima della felice data, ha avuto luogo un altro evento, in questo caso assai più problematico. Venerdì 6 settembre 2013 si è infatti celebrato il Settantennale del cosiddetto “discorso-manifesto di Harvard”, in cui Winston Churchill (in occasione della laurea honoris causa) spiegò i piani volti all’affermazione di un imperialismo “per via linguistica”, ossia basato sulla capillare diffusione dell’inglese. Come segretario dell’Associazione radicale “Esperanto”, Giorgio Pagano ha di recente denunciato questa sorta di invasione culturale, parlando di un autentico genocidio dell’italiano: a suo parere, sin dal 1943, americani e inglesi puntarono alla dominazione linguistica, più che all’antica e screditata pratica dell’occupazione coloniale. Ma ascoltiamo i passi salienti della breve ma incisiva conferenza in questione.

Proprio mentre si avvia al termine, Churchill si degna di menzionare il grande Bismarck (perché una volta, precisa, “c’erano grandi uomini in Germania”). Secondo il primo Cancelliere tedesco, il fattore più potente nella società umana, verso la fine del XIX secolo, fu il fatto che i popoli britannici e americani parlassero la stessa lingua. Da qui il commento del politico inglese, secondo cui il dono di una lingua comune costituisce un’eredità inestimabile, tanto da potersi tradurre nel fondamento di una cittadinanza comune. L’intervento prosegue segnalando la proposta, inoltrata al governo britannico, di costituire un comitato di ministri per studiare e riferire sull’Inglese Basic (che sta per Britannico americano scientifico internazionale commerciale): “Eccovi il piano, composto da un totale di circa 650 nomi e 200 verbi o altri parti del discorso – non più, comunque, di quello che può essere scritto su un lato di un singolo foglio di carta”.

Una volta presentato il nuovo strumento di colonializzazione, descritto come “un potente fertilizzante e il fiume dell’eterna giovinezza”, Churchill conclude: “Questi piani offrono guadagni ben migliori che portando via le terre o le provincie agli altri popoli, o schiacciandoli con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono gli imperi della mente”. Appunto di questi “Imperi della mente”, ha osservato Pagano, siamo oggi noi tutti gli schiavi consenzienti. Prova ne sia che già diverse università italiane, sia pure fra contrasti e riserve, propongono di erogare i loro corsi in inglese. Resistere? Desistere? Il minimo che si possa fare è almeno interrogarsi, documentarsi e mantenersi in allerta. Insomma: “We must be extremely vigilant”.

E forse sarà bene concludere con un sonetto del grande poeta spagnolo José Bergamín, che già nel 1962 culminava nell’invenzione del termine “cocacolìo” (da Coca-Cola…).

L’Europa non parla greco, che parla inglese
credendo che stia parlando l’europeo:
babelico belato e balbettio
che si americanizza da vichingo.

Mai un impero carolingio sognò
un così incontinente cocacolìo.
Né mai Bonaparte trovò al suo desiderio
una tale risposta, responso, né resistenza.

Risposta che è scommessa perduta.
Responso alla defunta Gran Bretagna.
Resistenza di chi più vuole essere più alto.

E mentre si ignora e si sente la mancanza
di un’Europa che, quando lo fu, fu latina,
non si parla più cristiano neanche in Spagna.

[Immagine: Franco Angeli, Half Dollar (gm)].

10 thoughts on “Sull’uso imperialistico della lingua inglese

  1. Riflessione dovuta, ma un po’ datata, caro Valerio. Certo potrebbe estinguersi l’italiano sotto i colpi di un inglese imposto, è anche vero che neppure l’inglese esiste più ma si “imbastardisce” e stratifica. L’impero ai suoi confini è già il suo crollo, magari nasceranno nuove lingue anglo-sino-tecnologiche, pfui! Simpatico articolo, cosa fare perché l’italiano non scompaia? Continuare e insistere sulle sue capacità comunicative, resistere, potrebbe un giorno parlarsi un nuovo italiano come oggi si parla anche un altro inglese, walcott docet. Annovi, mi sembra, faccia un tentativo in questa direzione, anche se intellettuale e non certo vitale: lingua mortuaria riesumata da una persona costretta a parlarla per necessità. Penso però che nel territorio italiano anche alcuni nativi possano contribuire alla sopravvivenza di questa lingua per te in deficit. Un saluto

  2. La proposta di rendere obbligatorio all’università l’insegnamento delle discipline in lingua inglese è stata giustamente definita un atto di servilismo da Claudio Magris, uno dei pochi esponenti lucidi e sensibili di un mondo della cultura, qual è quello italiano, che sembra aver ormai rinunciato, in larga parte, ad esercitare una funzione, non dico di orientamento ma anche solo di testimonianza, nei confronti dell’opinione pubblica nazionale. La proposta è l’esatto corrispettivo, in campo linguistico e culturale, della crescente alienazione di sovranità nazionale, della colonizzazione economica e finanziaria e della tendenziale vanificazione dell’indipendenza politica, che segnano questa fase infelice della storia del Bel Paese. Così, la condizione della nostra lingua di fronte all’avanzata di quel bulldozer della globalizzazione linguistica che è il ‘basic english’ fa venire in mente, per analogia, la tragica sorte di quel popolano che, nel romanzo “La pelle” di Curzio Malaparte, viene travolto e schiacciato da un carro armato americano, mentre festeggia l’arrivo delle truppe alleate in una città dell’Italia centro-meridionale.
    Orbene, se è vero che sia la Francia sia la Germania, l’una sempre attenta alla difesa del prestigio della sua cultura e l’altra quanto mai cauta (per comprensibili ragioni) nel rivendicare una propria identità, hanno promosso importanti campagne per la salvaguardia e la valorizzazione delle rispettive lingue, è difficile, per converso, scorgere nel nostro paese una sensibilità diffusa per questo problema e, quindi, una capacità di iniziativa che sia all’altezza delle sfide e delle insidie che provengono dal progetto di ‘snazionalizzazione’ perseguito dall’imperialismo euro-americano. Eppure la necessità di rispondere alle une e alle altre con un’azione energica e multiforme di difesa e valorizzazione della lingua italiana è riconosciuta da studiosi non solo delle discipline umanistiche, ma anche delle cosiddette ‘scienze dure’. Né è mancata l’individuazione del punto archidemico di una politica linguistica che ostacoli l’avvento di un “medioevo prossimo venturo”, in cui la comunicazione corrente sia assegnata al linguaggio tendenzialmente non-proposizionale degli ‘sms’ inviati con i cellulari e la comunicazione culturale al ‘basic english’.
    Non si tratta di restaurare il purismo lessicale, si tratta invece di garantire la centralità e l’efficienza della sintassi, vero sistema osseo di qualsiasi linguaggio, seguendo in ciò gli esempi di una lingua chiara, precisa ed elegante, che ci hanno offerto in questi ultimi decenni scrittori, poeti, saggisti e filosofi come Moravia, Calvino, Fortini e Bobbio, ciascuno dei quali ha mostrato di quali grandi potenzialità e di quale straordinaria versatilità sia dotato il dèmone che ci fa parlare e scrivere.
    Certo, come ebbe ad affermare Saverio Vertone in un appello diffuso alcuni anni fa per sostenere e promuovere la lingua italiana, la nostra lingua non è così lessicalmente ricca e duttile come l’inglese, non è così geometrica e apodittica come il francese, non è così produttiva di parole e di concetti come il tedesco, non è così magmatica e melodiosa come il russo; anzi, è una lingua un po’ rigida e non particolarmente ricca di sfumature espressive nella descrizione delle sensazioni, perché è una lingua fortemente controllata dall’intelletto. Tuttavia, se si sa usarlo, l’italiano può diventare espressivo, geometrico, sensuale, nitido, semplice e tagliente come nessun’altra lingua. E si dimostra di saperlo usare quando si rispetta la linearità, che è l’autentico nume tutelare della nostra lingua, la forza che fa di essa, una volta eliminate le ridondanze auliche, i vezzi snobistici e le oscurità burocratiche, una lingua dura, lucida e consequenziale: una spada, non solo un fodero.
    Pertanto, la fedeltà al genio segreto della nostra lingua e alla sua vocazione profonda e perenne, che è la sintassi, e la consapevolezza che i problemi linguistici sono, nella loro essenza, problemi che coinvolgono il ‘logos’, il ‘pathos’ e l’‘ethos’ (vale a dire il ragionamento, le emozioni e la moralità), debbono essere il lievito di quella rinascita di interesse e di amore per la lingua italiana cui sono chiamate a contribuire tutte le istituzioni e, in particolare, la scuola. Non solo per impedire che, a causa della solidarietà antitetico-polare fra idolatria del globale e idolatria del locale, con la degenerazione della lingua degeneri la vita stessa, ma anche e soprattutto per contribuire, pur in un periodo così irto di spinte regressive, alla difesa e al rilancio dell’identità nazionale, che nella lingua di Dante, di Machiavelli, di Galileo e di Manzoni ha il suo presidio più saldo e il suo stimolo più potente.

  3. Caro Giovanni, mi compiaccio per la Sua attenzione, ma “repetita juvant” (almeno spero).

  4. A parte le considerazioni ottocentesche sul carattere delle lingue, che lasciano il tempo che trovano, penso che la volgarizzazione dell’inglese in realtà faccia male solo all’inglese. Nei contesti multilinguistici in cui l’inglese è la lingua veicolare, il prezzo da pagare per i parlanti madrelingua è il fatto che sono costretti ad adeguarsi al basic english degli stranieri, e questo porta casomai a un appiattimento della loro lingua, e non delle lingue non veicolari, che invece continuano ad essere parlate nei contesti monolingue, tra l’altro arricchendosi (e non impoverendosi) grazie ai prestiti dell’inglese e di altre lingue.
    Insomma per me la situazione di una lingua come l’italiano è tutt’altro che preoccupante.

  5. “Insomma per me la situazione di una lingua come l’italiano è tutt’altro che preoccupante”, scrive giorgio, il quale, con apprensione degna di miglior causa, lungi dallo stigmatizzare gli usi imperialistici della lingua inglese va in soccorso del vincitore e stigmatizza la creolinizzazione dell’inglese di Oxford compiangendo addirittura gli anglofoni della madrepatria poiché “nei contesti multilinguistici” sono costretti ad adeguarsi al ‘basic english’ degli stranieri… Un atteggiamento non molto diverso, nella sostanza, da quello, fra il condiscendente e lo sprezzante, che gli ufficiali britannici manifestavano, durante “il passaggio in India”, nei confronti di quei colonizzati che si impegnavano con molta buona volontà nello studio e nella pratica della lingua inglese.
    Approfitto quindi dell’occasione, che questo approccio sciovinistico al problema della comunicazione interlinguistica mi porge, per invitare a riflettere sulle conseguenze grottesche generate da una postura non verticale di sudditanza mimetica. L’esempio è cospicuo e perspicuo, giacché si riferisce ad un episodio minore, ma assai sintomatico, del dibattito che accompagnò la riforma scolastica della Moratti, allorquando venne introdotto nel lessico pedagogico il termine inglese ‘portfolio’ (da cui taluni ricavavano, con patetica diligenza, perfino il plurale ‘portfolii’…). Un anglicismo davvero patetico che non solo attestava la declinazione mercantile dell’impianto di quella riforma (esattamente come era già avvenuto nel campo della valutazione con l’introduzione della coppia ‘debiti-crediti’ ai tempi della riforma Berlinguer), ma si configurava anche, per soprammercato, come un fenomeno iperbolicamente grottesco di provincialismo, dal momento che quel termine altro non è che il calco dell’italianissimo ‘portafoglio’, termine, quest’ultimo, con tutta probabilità scartato in quanto ritenuto poco elegante e quindi sostituito con… il calco di un calco! “E posti a questa zuffa, / qual ella sia, parole non ci appulcro”, direbbe il padre Dante a questo punto.

  6. José Bergamín Gutiérrez (1895-1983)

    ECCE ESPAÑA

    […]

    Europa no habla griego, que habla gringo
    creyendo que está hablando el europeo:
    babélico balido y balbuceo
    que se americaniza de vikingo.

    Nunca soñó un Imperio Carolingo
    tan incontinental cocaleo.
    Ni encontró un Bonaparte a su deseo
    tal respuesta, responso, ni respingo.

    Respuesta que es apuesta y desatina.
    Responso a la difunta Gran Bretaña.
    Respingo que lo da quien más se empina.

    Y mientras se la ignora o se la extraña
    a una Europa, que, al serlo, fue latina,
    ya no se habla en cristiano ni en España.

  7. Ma… io ho la netta impressione che campagne simili abbiano senso se intese a conservare l’uso della lingua italiana in contesti come i documenti ufficiali legati all’Unione europea e alle sue istituzioni, ma penso non abbia alcun senso impedire ogni “contaminazione” della lingua italiana da parte degli idiomi stranieri: di fatto nei secoli passati l’italiano ha preso prestiti prima dalle lingue germaniche con le invasioni barbariche (parole come “bianco”, “guerra”, “ricco”…), poi dall’arabo (“ammiraglio”, “magazzino”, “limone”…), poi nel medioevo e nell’età moderna arrivarono gli “imperialismi” spagnoli (“caramella”, “maniglia”, “appartamento”…) e francesi (“grammo”, “bretella”, “ragù”…) prima ancora di quelli inglesi. Ma poi che senso ha parlare di “contaminazione” e “degenerazione” nelle lingue? Dovremmo a questo punto, per portare il ragionamento all’estremo, non solo evitare tutti questi prestiti, ma addirittura tornare a parlar tutti latino, dato che l’italiano sarebbe una sua “degenerazione”? Non vorrei inoltre che appelli del genere finissero per far risorgere certe visioni di “autarchia” non solo linguistica risalenti ad epoche da non esaltare troppo… Non vorrei sembrare uno che grida al fascismo ogni volta che non sono d’accordo su qualcosa, però non bisogna negare che la lingua è qualcosa di vivo, che non si deve ingessare per nostalgia di una purezza dei “bei tempi andati” quando in realtà quella purezza non esisteva neanche ai quei tempi.

    Ciao.

  8. “A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità. E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta, che pochi sono quelli che siano da esse liberi.” Così scrive Dante nel “Convivio” (l. I, cap. 11) e, per quanto il tema polemico non sia interamente sovrapponibile a quello della presente discussione, diversi aspetti, non solo socio-linguistici ma anche etico-civili, richiamati dal “sommo poeta” fanno riflettere e, secondo il mio sommesso giudizio, pur avendo “sapor di forte agrume”, vanno tenuti ben presenti nella congiuntura storica che stiamo vivendo.
    Resta fondamentale un tema: la necessità di una politica linguistica. Ad esempio, qualche tempo fa l’agenzia governativa cinese incaricata di controllare la stampa e le pubblicazioni ha annunciato che le parole e le abbreviazioni in inglese saranno “vietate” per “salvaguardare la purezza” del Mandarino, precisando che “le parole straniere mischiate con quelle cinesi danneggiano gravemente la purezza della lingua cinese e turbano l’altrimenti sano e armonioso ambiente culturale”. Il decreto del grande paese asiatico, chiaramente ispirato da preoccupazioni non solo linguistiche ma anche politico-ideologiche, ricorda i tempi in cui la proscrizione lessicale era una delle manie dei puristi italiani, che a questo proposito solevano pubblicare lunghe liste nere o interi dizionari di parole meritevoli, a loro giudizio, di essere bandite dall’uso.
    Nel 1933, per fare un altro esempio, lo scrittore e giornalista Paolo Monelli diede alle stampe un libro cui non sarebbero mancati apprezzamenti e popolarità, con un titolo rivelatore: “Barbaro dominio”. Sennonché, nella seconda edizione del 1943, malgrado la politica linguistica di segno autarchico e neopuristico perseguita dal regime fascista, gli “esotismi” erano già saliti a 650. Nella prefazione l’autore si esprimeva in questi termini: «Ho fatto di questa campagna soprattutto una questione di orgoglio e di dignità. I popoli forti impongono il loro linguaggio, i loro modi di dire, le loro sigle, non raccattano ogni foresteria con balorda premura. L’inquinazione [?] del linguaggio è opera generalmente di ignoranti, di presuntuosi, di schiavi; per questo solo dovrebbe suscitare reazioni.» Nel 1933, ad esempio, lo scrittore e giornalista Paolo Monelli diede alle stampe un libro cui non sarebbero mancati apprezzamenti e popolarità, con un titolo rivelatore: «Barbaro dominio». Sennonché, nella seconda edizione del 1943, malgrado la politica linguistica di segno autarchico e neopuristico perseguita dal regime fascista, gli “esotismi” erano già saliti a 650. Nella prefazione l’autore si esprimeva in questi termini: «Ho fatto di questa campagna soprattutto una questione di orgoglio e di dignità. I popoli forti impongono il loro linguaggio, i loro modi di dire, le loro sigle, non raccattano ogni foresteria con balorda premura. L’inquinazione del linguaggio è opera generalmente di ignoranti, di presuntuosi, di schiavi; per questo solo dovrebbe suscitare reazioni.» Dopo il 1945 l’inglese sostituisce naturalmente il francese quale bersaglio contro cui si indirizzano gli strali dei puristi. Toccherà nuovamente a Paolo Monelli, in un’intervista pubblicata dall’”Espresso” del 13 settembre 1970, commentare nel modo che segue i servizi dedicati a uno scandalo: «Il mio giornale [il «Corriere della Sera»] non fece che scrivere killer, killer, killer. Allora io mandai un piccolo telegramma alla direzione: “Ricordo umilmente che chi uccide su commissione in lingua italiana si chiama sicario”. Il giorno dopo il giornale mise sicario nel titolo, ma tra virgolette come se fosse una strana parola che si dovesse spiegare a chi conosce benissimo killer».
    In conclusione, quali che siano stati gli eccessi, talora comici, in cui essi sono incorsi, occorre tuttavia riconoscere ai puristi il merito di averci ricordato, in forma per così dire indiretta e involontaria, che l’alternativa all’imitazione passiva e spesso balorda di modi, espressioni e vocaboli tratti da altre lingue non è l’isolamento autarchico, ma un’apertura intelligente, curiosa e selettiva verso le opportunità e le risorse che il mercato mondiale offre dal punto di vista linguistico. Senza mai dimenticare che una sana dialettica richiede anche in questo campo, pena la schizofrenia, tanto lo sforzo di appropriarsi ciò che è estraneo quanto la capacità di non estraniarsi da ciò che è proprio.

  9. Nel mio ultimo commento ho ricordato come una delle manie dei puristi italiani consistesse nel pubblicare lunghe liste nere o interi dizionari di parole meritevoli, a loro giudizio, di essere bandite dall’uso. Segnalo, comunque, una lista di traducenti italiani di ‘barbarismi’ (per adoperare il termine usato da Paolo Monelli) reperibile al seguente indirizzo: http://www.achyra.org/forestierismi/list.php

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