di Georges Didi-Huberman
[E’ uscito in questi giorni, per DeriveApprodi, Che cos’è un popolo?, un volume che raccoglie saggi di Badiou, Bourdieu, Butler, Didi-Huberman, Khiari, Rancière. «Cos’è un popolo di fronte alla crisi delle democrazie rappresentative e all’emergere di forme vecchie e nuove di populismo?», si legge nel risvolto di copertina. «Cos’è un popolo oltre a un termine che rimanda a una stagione che pare ormai trascorsa di lotte per l’emancipazione? Cos’è un popolo senza una nazione e senza uno Stato? Di cosa è fatto un popolo?». Presentiamo i primi due paragrafi del saggio di Georges Didi-Huberman, intitolato Rendere sensibile].
Rendere sensibile
Popoli rappresentabili, popoli immaginari?
La rappresentazione del popolo si scontra con una duplice difficoltà, se non persino con una duplice aporia, che deriva dall’impossibilità di sussumere ciascuno dei due termini, rappresentazione e popolo, in un unico concetto. Hannah Arendt diceva che non si arriverà mai a pensare la dimensione politica finché ci si ostinerà a parlare dell’uomo, poiché la politica si occupa precisamente di qualcos’altro, cioè gli uomini, la cui molteplicità si declina ogni volta in modo diverso, sia essa conflitto o comunità1. Allo stesso modo si dovrà dire, e ribadirlo, che non si arriverà mai a pensare la dimensione estetica – o il mondo del «sensibile» al quale costantemente noi reagiamo – finché continueremo a parlare di rappresentazione o di immagine: poiché ci sono solo delle immagini, immagini la cui stessa molteplicità, che sia conflitto o complicità, resiste a qualunque tentativo di sintesi.
Per questo si può dire che il popolo, «il popolo» come unità, identità, totalità o generalità, semplicemente non esiste. Ammesso che da qualche parte vi sia ancora una popolazione integralmente autoctona – come si vede nelle immagini del documentario First Contact (probabilmente una delle ultime testimonianze) in cui sono ripresi i primi contatti, nel 1930, tra un gruppo di avventurieri e una popolazione della Nuova Guinea tagliata fuori dal resto del mondo dall’alba dei tempi2 –, non esiste «il popolo»; perché, persino in un tale caso di isolamento, «il popolo» presuppone un minimo di complessità, di contaminazione, quale è rappresentata dalla composizione eterogenea di quei popoli molteplici e differenti che sono i vivi e i loro morti, i corpi e i loro spiriti, quelli del clan e gli altri, i maschi e le femmine, gli umani e i loro dèi o i loro animali… Non c’è un popolo: ci sono solo dei popoli coesistenti, non solo tra una popolazione e l’altra, ma anche all’interno – l’interno sociale o mentale – di una stessa popolazione, per quanto omogenea la si voglia immaginare, cosa che, d’altronde, non si dà mai3. È, comunque, sempre possibile ipostatizzare «il popolo» come identità o generalità: ma la prima è fattizia, votata all’esaltazione dei populismi di ogni risma4; mentre la seconda è introvabile, come un’aporia imprescindibile di tutte le «scienze politiche» o storiche.
Non stupisce che Pierre Rosanvallon abbia intitolato la propria indagine storica sulla rappresentanza democratica in Francia Il popolo introvabile5. Fin dall’inizio, questo libro accusa un «malessere», scritto chiaramente: malessere di una democrazia – ovvero, letteralmente, il «potere del popolo» – divisa tra l’evidenza del suo orizzonte di «bene politico» e l’incompiutezza lampante, spesso scandalosa, della sua realtà di «delusione politica»6. È molto interessante, d’altra parte, che questo malessere o questa parte di «oscurità» inerenti alla nostra storia democratica siano rimandati, come a un modello necessario ma quanto mai spinoso, alla questione della rappresentazione: «È intorno alla questione della rappresentazione, nelle sue due accezioni di mandato e di raffigurazione, che si annodano le difficoltà»7. Ma appare curioso – per non dire preoccupante – che Pierre Rosanvallon, che parla di democrazia, non evochi questa dialettica della rappresentazione se non attraverso un riferimento diretto a Carl Schmitt per il quale, infatti, la rappresentazione politica come Repräsentation o «raffigurazione simbolica», e la rappresentanza politica come Stellvertretung o «mandato» dovevano essere ben distinte8.
Si sa che Carl Schmitt non poteva, nella sua nostalgia del potere monarchico, far altro che servirsi della raffigurazione simbolica contro il mandato democratico. Nella Verfassungslehre del 1928 – una delle sue opere fondamentali –, Carl Schmitt non ha omesso di precisare che la rappresentazione «non è possibile con qualsiasi specie di essere, ma presuppone una specie particolare speciale (eine besondere Art Sein). Qualcosa di morto, qualcosa di scadente o privo di valore, qualcosa di basso (etwas Totes, etwas Minderwertiges oder Wertloses, etwas Niedriges) non può essere rappresentato. Ad esso manca la specie sviluppata di essere (gesteigerte Art Sein) che è capace di una progressione nell’essere pubblico di un’esistenza (Existenz). Parole come grandezza, altezza, maestà, gloria, dignità e onore cercano di cogliere questa particolarità (Besonderheit) del-l’essere accresciuto e capace di rappresentazione»9.
Non si capisce, quindi, come, in tale ottica, «il popolo» o «i popoli» sarebbero in qualche modo rappresentabili. Carl Schmitt, si sa, ha voluto unificare il concetto di popolo a partire dalla sua stessa negatività e impotenza: il popolo, per lui, non è. Non è né questo (una magistratura o un’amministrazione, per esempio), né quest’altro (un attore politico in senso proprio); tutto ciò che sa fare, secondo lui, è acclamare la rappresentazione del potere che gli viene presentata come Führertum, come «guida» suprema10. Pierre Rosanvallon si mantiene evidentemente agli antipodi rispetto all’avversione ostentata da Carl Schmitt nei riguardi dell’«evidenza democratica»11. Ma si ritrova come prigioniero del modello disgiuntivo, stabilito dall’autore della Teologia politica, tra Stellvertretung e Repräsentation: probabilmente ne rovescia la gerarchia – dato che il mandato prevale ormai sul simbolo –, ma lo fa per scagliare ancora una volta la rappresentazione dei popoli contro loro stessi. Come se, raffigurati, i popoli necessariamente divenissero immaginari; come se, votati all’immagine, divenissero per forza illusori.
Tre «popoli immaginari» compaiono così davanti agli occhi di Pierre Rosanvallon: il popolo-opinione, che si ha quando l’opinione pubblica è definita come quella «maniera inorganica con cui si dà a conoscere ciò che un popolo vuole e ritiene»12 (secondo Hegel) o come la «forma moderna dell’acclamazione» (secondo Carl Schmitt, ancora una volta); il popolo-nazione da cui è ossessionata la «celebrazione populista» che arriva a farne un operatore di esclusione, dal barbaro all’immigrato13; infine il popolo-emozione dove si esprime, «in una modalità patetica, la ricerca di identità delle masse moderne. Povere di contenuto, queste comunità di emozione non instaurano alcun solido legame. Esse non fanno che realizzare un’unione passeggera e non comportano obblighi tra gli uomini. Esse, allo stesso modo, non implicano alcun futuro. Lungi dall’incarnare una promessa di cambiamento o una potenza di azione, come un tempo il popolo-evento della Rivoluzione, il popolo-emozione non si inscrive in una storia. È solo l’ombra fugace di una mancanza e di una difficoltà»14.
È probabile che Rosanvallon qui prenda anzitutto di mira gli «stadi», gli «schermi televisivi» e le «colonne dei giornali»15. Ma la sua stessa espressione, «popoloemozione», impiegata pari pari in una diagnosi così severa, non è priva di conseguenze sui due concetti, quello di popolo e quello di emozione, che lui collega tramite questo terzo che è, appunto, la rappresentazione. È evidente che la rappresentazione può veicolare le emozioni fattizie degli schermi televisivi e delle colonne dei giornali; ma può anche, senza dubbio, veicolare i grandi «ducismi» che Carl Schmitt sottoscriveva nel 1933. Eppure la rappresentazione è, appunto, come il popolo: è qualcosa di molteplice, eterogeneo e complesso. La rappresentazione – lo sappiamo un po’ più precisamente dopo Nietzsche e Warburg – è portatrice di effetti strutturali antagonistici o paradossali, che potremmo chiamare «sincopi» al livello del loro funzionamento semiotico, o «strappi» sintomali a un livello più metapsicologico o antropologico16. I popoli e le loro emozioni ci richiedono dunque molto di più di questa critica condiscendente con valore di destituzione: una destituzione filosoficamente accettata – fondamentalmente platonica – del mondo sensibile in generale, delle sue specifiche mozioni e dunque delle sue possibili risorse.
Stropicciarsi gli occhi di fronte alle immagini dialettiche
Occorrerebbe, allora, riprendere con un po’ meno sufficienza – o disprezzo – ciò che Hegel chiamava, riferendosi al popolo, quella «maniera inorganica con cui si dà a conoscere ciò che un popolo vuole e ritiene» o ciò che Carl Schmitt concedeva alle masse nella forma dell’«acclamazione» (evidentemente Carl Schmitt parlerà molto meno della protesta dei popoli, delle loro sofferenze, delle loro imprecazioni, delle loro «manifestazioni» o dei loro appelli all’emancipazione). Se il popolo-emozione è un popolo immaginario, come Rosanvallon afferma, ciò non vuol dire, tuttavia, che sia «povero di contenuto», «senza alcun legame solido», votato all’«unione passeggera» e che «non ipotechi alcun futuro [né alcuna] potenza d’azione». Non vuol dire che «non si inscriva nella storia» – e la ragione più semplice di questo è che le emozioni stesse, come le immagini, sono iscrizioni della storia, i suoi cristalli di leggibilità (Lesbarkeit), per riprendere qui un concetto comune a tutta una costellazione di pensatori che hanno riconsiderato, tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo, in un contesto di lotta al fascismo, le fondamentali relazioni tra storicità e visibilità dei corpi (penso a Walter Benjamin, Aby Warburg, Carl Einstein, Ernst Bloch, Siegfried Kracauer o Theodor Adorno)17.
Perché le stesse emozioni – come le immagini, sulla scia dell’idea magistrale di Benjamin –sono dialettiche. Ciò significa, tanto per cominciare, che intrattengono un rapporto alquanto particolare con le rappresentazioni: rapporto di inerenza e di disgiunzione allo stesso tempo, rapporto di espressione e di contrasto contemporaneamente. Nello stesso momento in cui Aby Warburg cominciava a osservare le dinamiche di «polarizzazione» e «depolarizzazione» delle «formule di pathos»18 nella lunga durata delle immagini, Sigmund Freud insisteva, nella Traumdeutung, su un punto di importanza capitale, che aveva già riconosciuto nell’osservazione dei sintomi dell’isteria: il fatto che vi sia un inconscio implica che vi sia una dialettica complessa — qui espressione e lì conflitto, qui congruenza e lì discordanza – tra gli affetti e le rappresentazioni19. Se è vero che la storia delle società non procede, a sua volta, senza inconscio, allora occorre arrendersi all’evidenza formulata da Walter Benjamin nel suo I passages di Parigi: «Nell’immagine dialettica, ciò che è stato in una determinata epoca è sempre, al tempo stesso, «il sempre già stato». Esso, però, si manifesta di volta in volta come tale solo agli occhi di un’epoca assolutamente determinata: quella in cui l’umanità, stropicciandosi gli occhi, riconosce come tale proprio quest’immagine di sogno (Traumbild). È in quest’attimo che lo storico assume il compito dell’interpretazione del sogno (die Aufgabe der Traumdeutung)»20.
Quando l’umanità non si stropiccia gli occhi – quando le sue immagini, le sue emozioni e i suoi atti politici non si vedono divisi da niente –, allora le immagini non sono dialettiche, le emozioni sono «povere di contenuto» e gli atti politici stessi «non investono alcun futuro». Ciò che rende i popoli «introvabili» è, dunque, da ricercarsi tanto nella crisi della loro raffigurazione quanto in quella del loro mandato. È ciò che Walter Benjamin aveva compreso con chiarezza nel suo saggio del 1935 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: «L’attuale crisi delle democrazie borghesi – scriveva – implica una crisi delle condizioni determinanti per l’esposizione di coloro che governano»21. Là dove «il campione, la star e il dittatore escono vincitori»22 negli stadi o sugli schermi del cinema commerciale, occorrerà dunque dialettizzare il visibile: creare altre immagini, altri montaggi, guardarli in un modo diverso, introdurre al loro interno tanto la divisione quanto il movimento, la coniugazione di emozione e pensiero. Stropicciarsi gli occhi, insomma: sfregare la rappresentazione con l’affetto, l’ideale con il rimosso, il sublimato con il sintomale.
Una rappresentazione dei popoli torna a essere possibile quando accettiamo di introdurre la divisione dialettica nella rappresentazione dei poteri. Non è sufficiente, come fa Pierre Rosanvallon, ripercorrere la storia del mandato politico partendo dalle premesse democratiche di Tocqueville; né è sufficiente, come fa Giorgio Agamben, ripensare l’archeologia del «regno» e della «gloria» partendo dalle premesse teologiche dei Padri della Chiesa e dalle premesse antidemocratiche di Carl Schmitt. Per Walter Benjamin, al contrario, dialettizzare consisteva nel far apparire in ogni frammento di storia quell’«immagine» che «guizza via», che «balena, per non più comparire, proprio nell’attimo della sua conoscibilità»23 ma che, nella sua stessa fragilità, investe la memoria e il desiderio dei popoli, ovvero la configurazione di un futuro emancipato. Un modo per ammettere che, in tale ambito, lo storico deve essere in grado di conciliare il proprio sguardo con le minime «fugacità» o fragilità le quali, in contropelo al «senso della storia» – al quale la nostra «attualità» vuole tanto credere –, sorgono come se provenissero da molto lontano e svaniscono subito, come segnali portatori di una storicità fino a quel momento impensata.
Questi segnali o «immagini dialettiche» sono fragili, certo. È la stessa fragilità delle emozioni collettive, eppure è la loro risorsa dialettica: «Giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili»24. Non era forse un modo, molto probabilmente «affettivo», per far esplodere il «tempo omogeneo e vuoto» e sostituirlo, tramite questo segnale interposto, con un modello di «materialismo storico» caratterizzato dallo smontare e rimontare l’intera temporalità?25 È questa, comunque, la fragilità dei popoli stessi: la distruzione di qualche orologio in piazza e la morte dei circa ottocento insorti di luglio non impediranno la ripresa borghese e monarchica del movimento. Ma Walter Benjamin – che scriveva queste righe nel momento del maggior pericolo per se stesso, ovvero nel 1940 – avrà voluto far sorgere questa «immagine da sogno» in cui tutti gli orologi sono presi a fucilate per stropicciarsi gli occhi di fronte a essa e per riformulare, in questo stesso gesto del risveglio, il compito dello storico, che ancora oggi ci tocca, in frasi che da tempo non mi stanco di ricopiare:
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «proprio come è stato davvero». Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevista al soggetto storico nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari. Per entrambi il pericolo è uno solo: prestarsi ad essere strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla26.
Questa insistenza sulla «tradizione» – distinta da qualunque «conformismo» culturale – non deve sorprenderci in un contesto seppur dominato dal pericolo immediato e dall’urgenza di risponderne politicamente. Benjamin condivideva con Freud e Warburg l’acuta coscienza di un’efficacia antropologica dei sopravvissuti; condivideva con Bataille o Eisenstein la viva percezione di una efficacia politica dei sopravvissuti, che fosse stropicciandosi gli occhi davanti alle carcasse animali, ai mattatoi della Villette o davanti agli scheletri in movimento di una processione messicana, e che, più tardi, cineasti quali Jean Rouch, Pier Paolo Pasolini o Glauber Rocha avrebbero mostrato con grande chiarezza. Ma questa percezione storica – e ugualmente trans-storica, poiché accorda un posto decisivo alle lunghe durate e ai missing link, alle eterocronie e ai ritorni del rimosso – non procede senza la divisione sulla quale si regge qualunque rappresentazione dei popoli. Laddove Carl Schmitt non ha altri interessi che per la tradizione del potere, Benjamin oppone energicamente la tradizione degli oppressi: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato d’eccezione» in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo»27.
È meglio comprensibile perché Walter Benjamin abbia, contemporaneamente, definito il compito dello storico – e con ogni probabilità anche dell’artista – attraverso la volontà di farvi figurare i popoli, ovvero dare una degna rappresentazione agli «esseri anonimi» della storia: «È più difficile onorare la memoria dei senza nome (das Gedächtins der Namenlosen) che non quella degli uomini famosi [e celebrati, ivi compresi i poeti e i pensatori. Alla memoria dei senza-nome è dedicata la costruzione storica]»28. Questo compito è insieme filologico – o «micrologico», termine caro a Benjamin – e filosofico: impone di esplorare gli archivi in cui i «conformisti» della storia non mettono mai il naso (o gli occhi); e impone allo stesso tempo un’«armatura teorica» (theoretische Armatur) e un «principio costruttivo» (konstruktiv Prinzip) di cui la storia del positivismo è del tutto priva29.
Ora, questa «armatura teorica» presuppone di non asservire le immagini alle idee, né le idee ai fatti. Quando Benjamin, per esempio, parla di «tradizione degli oppressi» (Tradition der Unterdrückten), utilizza certamente un vocabolario marxista che rimanda direttamente alla lotta di classe; ma è anche consapevole che il termine Unterdrückung fa parte del vocabolario concettuale della psicanalisi freudiana. Tradotto con il termine «repressione», indica un tipo di processo psichico nel quale la rimozione (Verdrängung) appare sotto una specie particolare: la repressione può essere conscia mentre la rimozione è sempre inconscia; la repressione si applica agli affetti, mentre la rimozione opera soltanto sulle rappresentazioni30. Sarebbe quindi compito dello storico rendere i popoli «rappresentabili» facendo figurare esattamente ciò che si trova «represso» nelle loro rappresentazioni tradizionali o, per meglio dire, conformiste. Laddove ciò che è «represso» in simili rappresentazioni riguarda non soltanto il loro statuto di invisibilità sociale – ciò che Hannah Arendt, per esempio, ha voluto studiare nella Tradizione nascosta, attraverso la figura del paria31 –, ma anche ciò che Hegel aveva chiamato la «maniera inorganica con cui si dà a conoscere ciò che un popolo vuole e ritiene» esprimendo fenomeni emotivi tramite gesti del corpo e interposti moti dell’anima.
________
Note
- H. Arendt, Che cos’è la politica?, a cura di U. Ludz, Edizioni di Comunità, Milano 2001.
- B. Connolly, R. Anderson, First Contact, 1982. Vedi F. Niney, L’Épreuve du réel à l’écran. Essai sur le principe de réalité documentaire, De Boeck Université, Bruxelles 2000, p. 283.
- Ho già provato a giustificare questo plurale nel mio Peuples exposés, peuples figurants. L’oeil de l’histoire, 4, Les Éditions de Minuit, Paris 2012.
- Si veda il numero speciale della rivista «Critique», LXVIII, 2012, nn. 776-777 («Populismes»).
- P. Rosanvallon, Le peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France, Gallimard, Paris 2002.
- Ivi, p. 11.
- Ivi, p. 13.
- Ibid. Con un rimando all’articolo di O. Beaud, Repräsentation et Stellvertretung: sur une distinction de Carl Schmitt, «Droits. Revue française de théorie juridique», n. 6, 1987, pp. 11-20.
- C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffré, Milano 1984, p. 277.
- Ibid. Nel mio libro Come le lucciole: una politica della sopravvivenza, trad. it. C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2010 (cap. VI «Immagini»), ho analizzato l’uso che di questi testi ne ha fatto Giorgio Agamben nel suo Il Regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo: Homo sacer, II, 2, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
- C. Schmitt, Parlamentarismo e democrazia e altri scritti di storia e dottrina dello Stato, trad. it. a cura di C. Marco, Marco Editore, Cosenza 1998.
- G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. F. Messineo Laterza, Roma-Bari 1979, p. 453.
- P. Rosanvallon, Le peuple introuvable, cit., p. 445-446.
- Ivi, pp. 447-448.
- Ivi, p. 447.
- Per le «sincopi» vedi L. Marin, Ruptures, interruptions, syncopes dans la représentation de peinture (1992), in D. Arasse, A. Cantillon, G. Careri, D. Cohn, P.-A. Fabre, F. Marin (a cura di), De la représentation, Le Seuil-Gallimard, Paris 1994, pp. 364-376. Per gli «strappi» vedi G. Didi-Huberman, Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art, Les Éditions de Minuit, Paris 1990, pp. 169-269 («L’image comme déchirure»).
- Vedi G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, trad. it. S. Chiodi, Bollati Boringhieri, Torino 2000. E il più recente numero della rivista online «Trivium», n. 10, 2012 («Lisibilité/Lesbarkeit»), a cura di M. Pic e E. Alloa.
- Vedi G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, trad. it. A. Serra, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
- S. Freud, L’interpretazione dei sogni, trad. it. F. Pogliani, Rizzoli, Milano 1986.
- W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I «Passages» di Parigi, a cura di G. Agamben, Torino, Einaudi, 1986, p. 1095.
- W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, trad. it. E. Filippini, Einaudi, Torino 1966, p. 53.
- Ivi, p. 54.
- W. Benjamin, Sul concetto di storia, trad. it. G. Bonola, M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 25-27.
- Ivi, p. 49.
- Ivi, p. 27.
- Ibid .
- Ivi, p. 33.
- Materiali preparatori delle tesi, ivi, p. 77.
- Ivi, p. 51.
- S. Freud, Metapsicologia, trad. it. R. Colorni, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
- H. Arendt, Il futuro alle spalle, trad. it. V. Bazzicalupo, S. Muscas, il Mulino, Bologna 2006.
[Immagine: Spencer Tunick, Ring (gm)].