cropped-image001.pngdi Andrea Cortellessa

[Quello che segue è un estratto dalla postfazione al volume Romanzi di Luigi Di Ruscio, che esce oggi – a cura di Andrea Cortellessa e Angelo Ferracuti – nella collana «Le comete» di Feltrinelli. Il volume comprende tre testi in prosa pubblicati una prima volta rispettivamente nel 1986, Palmiro; nel 2009, Cristi polverizzati; e nel 2010, Neve nera (col titolo La neve nera di Oslo). In appendice il più breve Apprendistato, uscito sulla rivista «Il garofano rosso» di Fermo nel 1977 (e già riproposto da «Nuova Prosa» nel 2010).
Il volume verrà presentato, insieme ai curatori, da Giorgio Falco e Alberto Rollo nell’ambito del Festival LibriCome domenica 16 alle 18, al Parco della Musica di Roma nello spazio Officina 3; e da Peppino Buondonno, Massimo Raffaeli e Alberto Rollo, al Palazzo dei Priori di Fermo, venerdì 21 alle 18.30].

la verità può essere detta solo se a forza di stile è resa incredibile
Cristi polverizzati

l’estraniazione è assolutamente necessaria per vedere il mondo da un punto di vista non infame. La Terra pianeta nostro è bellissimo se fotografato da un oggetto spaziale, si ha l’impressione che la Terra, bellissima azzurrata sia diventata un cielo, il luogo della salvezza, per capire le cose bisogna essere fuori. Ghiaccio, scivolo precipito e mi pongo in salvo aggrappandomi all’ombra più vicina.

Così si trova scritto alla fine di una delle ultime prose di Luigi Di Ruscio. E uno sguardo dal di fuori è quello da lui rivolto alla sua terra, alla sua vita, alla propria stessa opera. «Per capire le cose» – quali le può capire solamente uno come lui – davvero «bisogna essere fuori».

Fuori, in seguito a una scelta tante volte raccontata ma mai davvero spiegata fino in fondo, si è trovato fisicamente, esistenzialmente, Di Ruscio a partire dal 1957. È stato un esilio in piena regola, quello vissuto nei restanti cinquantaquattro anni della sua vita: una «spatriazione», come la definisce nelle sue poesie, nel corso della quale, come per gli esuli di tutti i tempi e tutte le nazioni, a tornare e reinsediarsi in patria, nell’impossibilità di farlo col proprio corpo, ha mandato le sue parole. […] Manifestamente alieno, sin dall’aspetto fisico, nella terra da lui scelta per viverci, la Norvegia; ma tanto più alieno, sin dal primo approccio, coi conterranei quando finiva per rincontrarli. Un’estraneità che allora prescinde dalle proprie circostanze materiali; e connaturata, in verità, al suo modo di essere […]. Tanto è vero che Di Ruscio ne fa esperienza da subito; in ogni caso, ben prima dell’esilio.

Eloquente l’episodio raccontato in Cristi polverizzati della visita alla musa del neorealismo “ufficiale”, l’autrice dell’Agnese va a morire Renata Viganò. Siamo nel 1953 e Luigi ha da poco pubblicato con Arturo Schwarz (che l’anno seguente terrà a battesimo anche Elio Pagliarani e, nel ’56, un Antonio Porta a quel tempo ancora Leo Paolazzi) la sua prima raccolta poetica, con un titolo lancinante scelto dal prefatore Franco Fortini: Non possiamo abituarci a morire. Ha appena vinto il premio indetto da «l’Unità»: niente male, per un giovanotto della Marca sporca. Ma da subito – al suo esordio nella società letteraria, diciamo – si capisce che c’è qualcosa che non va in lui, o in tutto il resto […].

Finisce che viene messo alla porta: «non ci saremo mica sbagliati, questi sono comunisti o fascisti?». Sin da questo episodio chiave, Di Ruscio prende coscienza che il suo caso è «la vergogna delle lettere italiche» (come dirà di sé in Neve nera). In due sensi una vergogna. Da un lato per la costante inadeguatezza indotta dalla vera e propria nevrosi linguistica dalla quale si scopre affetto, e che tanta parte si prende di Cristi polverizzati: il quale si rivela così anche l’autobiografia paradossale d’una sgangherata vocazione letteraria (quasi un Dedalus narrato dal punto di vista di una diversa provincia, di una diversa «letteratura minore», per dirla con Deleuze e Guattari; oppure il racconto, e insieme la performance, di un’autodidassi imperfetta, un Martin Eden senza successo ma, anche, senza finale tragico) […].

Ma anche in un altro senso il suo “caso” è stato, davvero, la vergogna delle lettere italiche. Rivelatasi incapace, sino alla sua scomparsa, questa res publica che tante volte ha dato e dà prova d’essere di bocca così buona, di digerire una differenza durissima come quella di Di Ruscio: una differenza irriducibile a qualsiasi convenzione, prima che letteraria, sociale e di costume. Viganò a parte, nessuno dei nostri salotti poteva lasciar passare indenne un tipo come lui. […]

L’altro episodio ormai noto, mitobiograficamente parlando, appartiene alla serie già più canonica dei rifiuti editoriali (quella portata a dimensioni di a sua volta nevrotico epos, assai più di recente, dall’Antonio Moresco di Lettere a nessuno). Se non il primo rifiuto il più plastico, per così dire, di una lunga serie: da parte di colui che si può ben considerare il perfetto antipode letterario di uno scrittore come Di Ruscio. Nel 1969, chissà per quali vie, arriva sul tavolo di Italo Calvino, all’Einaudi, un manoscritto dal titolo Il verbale. Com’era prevedibile Calvino (in una data, 1° aprile, che nel destinatario non mancherà di destare qualche ironia) rinvia lo scartafaccio al mittente, motivando il suo giudizio negativo con argomenti che peraltro, capovolti di segno, possono apparirci oggi tra i più penetranti la specificità di questa scrittura:

mi sono addentrato nel Suo Verbale e riconosco [che] questo Suo scrivere cominciando non importa dove e andando non si sa dove ha una sua forza. In certi momenti ricorda Céline, per la volontà di scaricare nel flusso delle parole una cupa aggressività. Lei lavora come molti pittori, specialmente della scuola astratto-espressionista e informale: comincia a riempire la pagina di segni fitti fitti e lascia che questi segni s’organizzino da sé in una forma, con qualche ricorso al collage di materiali esterni.
L’idea generale mi sembra buona: sarebbe (se ho capito bene) un verbale di riunione in cui il verbalizzatore si distrae durante ogni intervento e scrive qualsiasi cosa, dando fondo se non all’universo a una visione del mondo, con squarci d’una specie di romanzo d’azione. E neppure mi dispiaceva l’inizio, con quella ricerca di simbologie mistiche: ma certo sarebbe un altro libro.
La verità è che io sono un maniaco dell’ordine e della geometria, e nel Suo eroico disordine mi raccapezzo poco. Per fortuna, in Italia oggi abbiamo molti lettori qualificati (e autori) di testi informali e collage verbali e romanzi aleatori: Balestrini, Di Marco, Testa, che sono anche autori, per non parlare di Sanguineti, e Balestrini è anche consulente d’una casa editrice, e così Filippini, Davico. Insomma, qualcuno che La legga e consigli “dall’interno” dovrebbe trovarlo. Perciò Le rimando il manoscritto, e ho fiducia che il Suo lavoro approdi a qualcosa di concreto.

[…] Che solo attraverso la lingua viva del corpo si possa esprimere la “vera storia d’Italia”, di contro alla menzogna espressa con un italiano illustre, è convinzione che Di Ruscio condivide con lo Stefano D’Arrigo che in Horcynus Orca mette in scena un memorabile alterco fra il protagonista ’Ndrja Cambrìa e il Guardiamarina Monanin, portavoce del monolinguismo purista (e fascista) che insiste a chiamare «delfino» la bestia che la comunità dei pellisquadra ha sempre chiamato «fera»: lui «testimoniando per sentito dire» contro loro che «testimoniavano […] col visto degli occhi». Una disputa linguistica che ne adombra una sociale, e ovviamente politica: e che ritroviamo pari pari nel duello fra l’ineducabile scolaro e il suo maestro fascista, che lo picchia con la copia arrotolata del «Corriere della Sera» ed è preso in una «lotta disperata» con un «dialetto che risultava indistruttibile».

Cosicché fra tante altre cose è stato, Luigi Di Ruscio, il paradossale historicus della terra in cui non ha vissuto: sulla nostra Ytaglia (come aveva finito per chiamarla un altro espatriato geniale, Emilio Villa), da lui in tutti i sensi così lontana, ha detto cose tragiche e grottesche, allegre e visionarie, ma sempre paradossalmente esatte: a dispetto di, e in effetti grazie a, l’eroico disordine di cui aveva parlato Calvino. […] La più urgente vocazione della prosa di Di Ruscio, sin da Palmiro ma con piena consapevolezza e strapotente efficacia in Cristi polverizzati, essendo di natura appunto testimoniale:

Insomma noi del 1930 ne abbiamo fatte pochissime ma ne abbiamo viste praticamente tante. Abbiamo visto tanti fascisti, abbiamo visto due re, uno era perfino imperatore, poi verranno i tanti presidenti e perfino una serie di catastrofi e miracoli economici e questo averne fatte pochissime e averne viste tante è stato come uno stare a teatro, abbiamo visto tutto mangiando i semi di zucca seccati salati e abbrustoliti […] E che ne sarà di tutto questo reale quando non ci sarà più l’ultimo neorealista a descriverlo? Il reale e l’irreale erano a confronto continuo con tutto questo ovvio è difficilissimo scrivere cose non ovvie ed anche la noia va scritta in maniera divertente e la disperazione va iscritta in maniera allegra.

[…] Questa testimonianza – disperata quanto divertente, ostinata quanto paradossalmente fiduciosa nel contaminare reale e irreale – viene addotta contro i troppo sbrigativi protocolli della storiografia “ufficiale”: «Scrivere questi romanzi è scrivere un’altra storia non presa in considerazione da nessuno storico». Sarà questa, allora, una «storiografia espressionista», come definisce certi esemplari narrativi secondonovecenteschi Gabriele Frasca: una narrazione che «spazzola la storia contropelo», cioè, come nella settima tesi Sul concetto di storia predicava Walter Benjamin […]

Una vocazione tuttavia, questa del Verbalizzatore-Historicus, di continuo messa in scacco, oltre che costantemente sollecitata, dalla propria nevrosi linguistica. È un doppio legame in piena regola, allora, quello che a ogni momento si mangia la scrittura e chi la scrive. Sicché proprio lo scacco inevitabile, date le premesse, della “missione” testimoniale finisce per rivelarsi uno dei temi più profondi di Cristi polverizzati. […]

Connotato più evidente della storiografia espressionista, della verbalizzazione straziata di Di Ruscio – anche in questo caso sin da Palmiro, ma sistematicamente in Cristi polverizzati – è la coesistenza di due procedimenti opposti e, in apparenza, fra loro incompatibili. Da un lato la coazione a ripetere che, nelle micro-strutture narrative all’interno di un medesimo testo […], replica e moltiplica quella da un testo all’altro […]. Se l’azione del Verbalizzatore – col più espressivo e insistito dei suoi lapsus – non è quella di scrivere bensì di iscrivere, è perché questo suo scrivere è in effetti un insistere, l’impuntarsi maniaco su un luogo e un tempo cui si è crocifissi psichicamente: tanto più quanto la pratica esistenziale della fuga, da quel luogo e da quel tempo, abbia in effetti allontanato il protagonista. […]

D’altra parte spesso compresente è il sistema delle prolessi che, all’interno del flusso memoriale rimasto per lo più bloccato all’altezza dei primi anni Cinquanta (cioè alla vigilia della fuga in Norvegia), improvvisi incastona lampeggiamenti di un futuro solo immaginario (come quando in Palmiro si vagheggia un 1975 a venire in cui esploda finalmente «la crisi catastrofica del sistema capitalista») oppure, viceversa, artatamente inserisce ex post profezie auto-avverantisi alla maniera della Commedia dantesca (come la lunga lassa su Stalin, dove ci si spinge a “prevedere” l’invasione sovietica dell’Afghanistan). Queste «immagini al futuro», ricorrenti soprattutto nel repertorio poetico di Di Ruscio e senz’altro da ricollegare all’esempio di Fortini, vanno intese – scriveva nel ’93 Massimo Raffaeli nel saggio che si può dire abbia rifondato l’interpretazione critica del nostro autore – quali «calchi secolari e mai estinti degli uomini derelitti nell’incoscienza e nella depressione dello sfruttamento». «Non una volontaristica speranza», dunque, «ma un senso». Proprio il senno di poi (o la preventiva ostinazione del comunque vada a finire) – sempre dalla cruciale settima tesi di Benjamin – è del resto a sua volta indicata quale prima stimmate del «materialista storico», colui che rifiuta di «immedesimarsi con il vincitore».

Una caratteristica, questa, che accomuna i testi dall’autore più a lungo lavorati, Palmiro e Cristi polverizzati appunto, ad altri capolavori di una storiografia espressionista la cui lavorazione, per i motivi più diversi, si sia estesa nel tempo sino a occupare parte della storia che raccontano: penso, fra gli autori delle generazioni immediatamente precedenti (non a caso quasi tutti da questo discorso, in un modo o nell’altro, già incrociati), al Gadda di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, al D’Arrigo di Horcynus Orca, al Roversi dell’Italia sepolta sotto la neve, al Pagliarani della Ballata di Rudi. Tutte opere che recano su di sé le macchie, gli urti, le ferite della storia: termometri sempre in azione, segnavento che non si fermano mai; e che, così a lungo esposti all’infuriare degli eventi, si rivelano anche accumulatori, giacimenti, immensi archivi viventi d’una storia che continua a passare senza essere mai passata del tutto.

Esito di questa irrisolta dialettica temporale, a livello stilistico, è il fremito incontenibile che qualunque lettore della prosa diruscesca avverte ad apertura di pagina: questo fermentare continuo che mai lascia la scrittura ferma, ininterrottamente fibrillandola in una tensione spasmodica, elettrica, mareggiante (Giorgio Falco ha potuto paragonare questa scrittura al gioco del rugby: per il suo «procedere con percussioni, a folate, attraverso piccoli passaggi all’indietro che la compattano pur aprendosi allo stupore di infiniti rivoli digressivi»). Ma soprattutto, a livello espressivo, il risultato più sorprendente – di questa continua, micro- e macroscopica, intersezione di piani temporali – è il senso straordinariamente icastico del presente che così spesso si affaccia in una testualità, come questa, ossessivamente volta al passato. […]

È questo a conferire al testo una veemenza che si fa ribalda, brutale, persino minacciosa quando inveisce e maledice; nelle rare ma memorabili volte in cui invece si ripiega e s’intenerisce, questa stessa veemenza diventa sensuale, fragrante e (bisogna dir così) straordinariamente felice. Si respira allora una letizia danzante e stralunatamente francescana (a sensual world in cui ci si avventa colmi di desiderio su ogni oggetto del creato, come nella mirabile conclusione di Palmiro), capace anche di rendere con esplosiva immediatezza l’intimità vibrante, la tenerezza efferata dei trasporti della carne quando siano vissuti con vera libertà. È quanto accade in Palmiro, nell’episodio dell’amore con Nunziata, ma soprattutto – amplificato a dismisura – in quello di Cristi polverizzati con Palmina alias la Palmira […].

Quella stessa confusione di realtà e di immaginazione, di cronaca e delirio, che nel resto del libro contrassegna come stimmate dolorosa la condizione esacerbata e stritolata del Verbalizzatore, qui al contrario lo benedice, lo santifica, lo rende insomma poeta […]. Sono citati «i Fioretti di San Francesco», al culmine dell’estasi con «la Palmina deliziosa»; e si ricorderà come proprio lo studio e la passione per la personalità di Francesco siano stati decisivi nell’elaborazione da parte di Erich Auerbach della categoria di «realismo creaturale» che innerva il suo capolavoro critico, Mimesis: il senso di una fragilità dell’umano di fronte a una trascendenza misteriosa ma dalla presenza sempre palpabile, e di fronte all’immanenza di una finitudine mortale che si rispecchia in quella di tutte le altre creature. […]

Un mondo sensuale, carnale e perfettamente tangibile, nella sua esibita irrealtà, è quello che si sprigiona irresistibile dalla pagina diruscesca: consegnandosi a chi lo percorre, leggendo, con energia travolgente. Davvero un accrescimento di vitalità (come suona la citazione leopardiana mutuata dall’introduzione ai «nuovissimi»). Si produce così il miracolo di una scrittura del tutto soggettiva, e quasi sempre ossessivamente autoriferita, che nondimeno a ogni riga mai cessa di rivolgersi a noi: a tutti noi, e anche a tutto il resto. In una delle Poesie operaie si legge questa clausola emblematica: «ritorneremo tranquillamente nel niente da dove siamo venuti / è già tanto che il miracolo della mia esistenza ci sia stato / riuscendo perfino a testimoniarvi tutti». È proprio così. Capiamo allora che la dimensione dell’apprendistato non rinvia tanto alla crescita e all’apprendimento di chi scrive: bensì, e ben più alla radice, alla rinascita e alla redenzione di chi legge. Che è poi quello che fanno sempre, a noi che li leggiamo, i grandi scrittori.

[Immagine: Foto di Thomas Demand (gm)].

 

2 thoughts on “La vergogna delle lettere italiche. Su Luigi Di Ruscio

  1. Il titolo del post («La vergogna delle lettere italiche») mi è parso a prima vista promettente, ma poi che delusione.
    Povero Di Ruscio! E poveri, assieme a lui, tutti i suoi «cristi polverizzati» (meridionali per lo più, s’intende) dalla cultura nazional-popolare dei Palmiro!
    Povero Di Ruscio trattato a pesci in faccia (altro che pesce d’aprile!) dal Calvino, che già si faceva le ossa per tenere le sue «lezioni americane» al ceto medio internazionalizzatosi sotto le bandiere a stelle e strisce invece che a quelle rosse!
    La somma ipocrisia di quella letterina di ripulsa andrebbe analizzata politicamente riga per riga.
    «Questo Suo scrivere […] ha una sua forza»! Eh, sì, i proletariacci, anche quando scrivevano, una certa forza l’avevano ancora in quel 1° aprile del 1969, mentre Calvino stilava, compìto, il suo parere editoriale.
    « L’idea generale mi sembra buona», ma sa « io sono un maniaco dell’ordine e della geometria, e nel Suo eroico disordine mi raccapezzo poco». Ma non si scoraggi. In Italia di questi tempi ci sono anche i “maniaci del disordine”, sostenuti persino da «una casa editrice», che fa concorrenza alla Einaudi-PCI. Vada a farsi consigliare da loro.
    Ora (2014) Cortellessa è un critico fine e sa che i tempi sono mutati. E allora mica insiste su queste questioncelle politico-letterarie. T’incasella, invece, il Di Ruscio nel «sistema delle prolessi». Gli dà una patente di nobiltà anticata e fuori moda («queste “immagini al futuro” […]senz’altro da ricollegare all’esempio di Fortini»). Tira fuori dal cilindro « la cruciale settima tesi di Benjamin», che fa sempre un certo effetto, anche se la «stimmate del «materialista storico» – colui che rifiuta di «immedesimarsi con il vincitore» – non la porta più nessun padre Pio della sinistra odierna. E poi un pizzico di « letizia danzante e stralunatamente francescana». Un altro di «tenerezza efferata dei trasporti della carne». E arriviamo all’ultima stazione gloriosa: la contemplazione del «miracolo di una scrittura del tutto soggettiva, e quasi sempre ossessivamente autoriferita, che nondimeno a ogni riga mai cessa di rivolgersi a noi».
    A noi chi? E che cavolo essa dice oggi a questi noi da far rinascere o redimere?
    Forse sono due domandine che dall’ aldilà potrebbe fare lo stesso Di Ruscio.

  2. Mi manca la dimenzione poetica di Luigi. Un poeta che non può essere ridotto a “poeta operaio”. Un poeta che canta la storia di tutti i personaggi di una città, Fermo. Città amatissima da Luigi. Un poeta che descrive tutte le trasformazioni che continuamente avvengono tra gli immigrati. Un poeta che riscatta la dignità dei poveri, degli oppressi e dei disabili. Un poeta che combatte contro l’alienazione del lavoro in fabbrica, un poeta che descrive la gioia famigliare. Un grande poeta che aspetta ancora un grande critico che sappia rivalutare tutta la sua opera poetica.

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