di Gilda Policastro
[Questo articolo è uscito sull’ultimo numero di «Il Reportage»].
Ex TQ
Io e Andrea eravamo “TQ”, afferivamo, cioè, a un movimento di knowledge workers (lavoratori della conoscenza) tra i trenta e i quarant’anni, autoconvocatosi nell’aprile del 2011 presso la sede romana dell’editore Laterza con l’obiettivo di confrontare le esperienze professionali e di elaborare metodi per garantirsi una maggior forza sociale. Forza di resistenza, soprattutto, a un sistema produttivo che si rifiuta di integrare chi non offra contributi materiali all’avanzamento della civiltà, ma un ben più rinunciabile (nell’opinio communis) contributo culturale. Un portato di tempi in cui al conflitto tradizionale tra le scienze cosiddette dure e le scienze umane si è sostituito quello tra scienze astratte e scienze applicate, con assoluta preminenza delle seconde e crescente ostilità al sostegno tributato ad attività prive di immediate applicazioni pratiche. Esempio banale: nell’ambito della filiera che, quando scrivi di cultura per un giornale, va dalla stampa del libro al corriere che lo recapita, a nessuno si riserva il trattamento economico (per lo più inesistente) peculiare del recensore. A nessuno, cioè, si può dire, dallo stampatore all’imbustatore: «Non ti pago». A te, che del libro devi scrivere, a te, cioè che lo farai vivere, immettendolo nel discorso culturale, nel pensiero circolante, da prodotto o merce che era, a te sì, si può dire: «Non ti pago», oppure: «Ti pago, ma non ti ci abituare»; o ancora: «Ti pago, ma non dirlo a nessuno, se no si crea il precedente».
E però in ambito culturale esistono anche mestieri meno fumosi e invisi del critico giornaliero, come si usava dire una volta. Esistono i redattori, i traduttori, i piccoli editori (cioè gli editori non afferenti agli oligopoli commerciali, quelli che mettono in circolo, per intenderci, non più di 30/40 libri l’anno), i revisori, i correttori di bozze (sempre meno), esistono i recensori occasionali, i blogger culturali, esistono tanti di quei mestieri non remunerati, non riconosciuti, considerati accessori, volontari, voluttuari, che quasi non si sa più dove sia tracciabile il confine tra la passione, il velleitarismo e le competenze professionali. O meglio: si sa, ma si finge di no, in modo che a pontificare dalle colonne dei pochi superstiti supplementi culturali siano sempre i meno qualificati, quelli che non usano termini strani o troppo dotti, che non spaventano il lettore ma lo invogliano ad acquistare (il prodotto-giornale, e i prodotti che il giornale reclamizza). Così avere dei titoli, delle competenze e delle aspirazioni o ambizioni conformi e adeguate al proprio background diventa un lusso che ti puoi concedere se hai un patrimonio ereditato, oppure se i tuoi sono disposti a devolvere la pensione nel sostentamento dei figli ed eventuali nipoti annessi ad libitum. Non in altro modo, no.
Io e Andrea parliamo di questo, all’aperitivo dell’editore L’orma (dalla crasi dei nomi dei due fondatori, Lorenzo Flabbi e Marco Federici Solari), che ha appena ristampato per le cure di Nanni Balestrini e Andrea Cortellessa il Romanzo sperimentale del Gruppo 63, dibattito emblematico di una stagione e di una concezione letteraria rivoluzionaria quanto al genere di maggior consumo mondiale, concezione che si stenta tutt’ora però a far penetrare nella nostra letteratura sociologica e generazionale, ostentatamente e deliberatamente refrattaria al sabotaggio. E mentre ne parliamo, poi a un certo punto, inevitabilmente, ci ritroviamo a domandarci reciprocamente: «Ma tu ora che fai?». Rispolverato all’unisono il refrain morettiano («Vedo gente, faccio cose»), è Andrea a stupirmi veramente, raccontandomi di allevare cani. «Cani di salvataggio, gli unici cani da lavoro a vivere con il conduttore, e che dunque non si possono propriamente allevare: sono cani di famiglia, il mio si chiama Kali». Il tema lo appassiona ben più della nostra comune (e fallimentare) esperienza di “TQ” e quindi prosegue: «Kali e io siamo un’unità cinofila di salvataggio brevettata: abbiamo superato un esame nazionale che ci abilita alle operazioni congiunte con la Guardia Costiera, dopo aver frequentato un’apposita accademia. Unità cinofila vuol dire che queste operazioni possiamo farle solo lei e io insieme, cioè né io con un altro cane, né lei con un altro conduttore: molto bello, no?». «Sì, certo, ma l’università, il dottorato? L’hai poi finito? Cos’è che facevi, più, a Parigi?».
Il tono, inevitabilmente, cambia: «Dopo la laurea in filosofia (in tre anni e mezzo, per cavalcare la tigre), ho iniziato e abbandonato un dottorato pagato, perché mi si impediva di portare a termine in Francia le mie ricerche, come pure previsto dall’ordinamento: e però il mio tutor riteneva più utile che restassi a coadiuvarlo nelle faccende universitarie locali. Una volta partito per mio conto, ho ricominciato il dottorato all’Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne». «Ah, però!», mi lascio sfuggire. «Ti pensavo editore muffoso e di nicchia…». «Da quindici anni studio la biologia di Aristotele: Pierre Pellegrin, uno dei massimi storici della filosofia antica, ha scritto che i miei lavori aprono strade senza precedenti». «E poi, cos’è accaduto?». «Proprio in Francia, ho deciso di fare l’editore. Iscrivermi al dottorato mi serviva anche per poter fare uno stage nella casa editrice Allia, per la quale ho poi lavorato come consulente. Rientrato in Italia, coi due amici di scorribande letterarie underground ho fondato :duepunti edizioni». «Una casa editrice di nicchia, appunto». «Non tanto di nicchia, alla fine: il terzo dei cento libri che abbiamo pubblicato era di Le Clézio, che tre anni dopo avrebbe vinto il Nobel per la letteratura. Personalmente ho negoziato contratti con i più grandi editori d’Europa per alcuni dei più importanti scrittori e saggisti dei loro cataloghi, curando e supervisionando molte di queste traduzioni». «Dunque, tutto bene?». «A trentasette anni, sposato, una figlia, un cane, posso dire di aver tentato due carriere, e di essermi tutto sommato distinto in entrambe. Ma nessuna delle due mi dà un reddito, né mi assicurerà una pensione. Finora sono riuscito a tirare avanti solo grazie all’aiuto della mia famiglia, attingendo a risorse messe da parte da due generazioni, ma alla prima buona occasione andrò via dall’Italia».
Noi dei Gemelli
Io e Arminia ci conosciamo dall’infanzia: non eravamo propriamente amiche, ma piuttosto concorrenti. Di solito nelle recite scolastiche, dove lei era attrice protagonista, io ballavo. I Gemelli, si sa, sono un segno creativo: Gemelli era Dante, e pure noi due. Ad ogni modo, siamo diventate amiche tardi, dopo l’università, quando lei è partita per la Spagna, anzi, quando è tornata. «Ma perché, poi? Non ti eri trovata bene?», le chiedo a distanza di anni, quando confrontiamo per l’ennesima volta le rispettive esperienze anomale. Anomale per il paese da cui proveniamo, in cui la metà delle amiche d’infanzia, se non la quasi totalità, è ormai, come si suol dire, sistemata: ovvero ha un qualche lavoro adatto a una donna (insegnante di scuola, impiegata, commessa), è mamma. «Tutt’altro, ero molto appagata. L’esperienza di lavoro, in Spagna prima, più tardi in Germania, è stata assai gratificante. Vivere all’estero in principio è arduo: difficoltà ad ambientarsi, lentezza nella comunicazione, diffidenza da parte degli autoctoni nei confronti degli italiani. Ma a lungo andare riserva belle soddisfazioni, come ad esempio quella di riuscire a ottenere esattamente ciò che si merita: niente di più, niente di meno. Insomma, la meritocrazia esiste, a differenza che da noi. Perché sono tornata? La prima volta per problemi familiari, e la seconda pure. Perché non sono ripartita? Per un tentativo, infertile allo stato attuale delle cose, di partecipare insieme ad altre persone a una smossa culturale nel paesello d’origine. Nel 2014 riparto: destinazione estera, ovviamente».
Gli altri siamo noi
Gli Sparajurji sono un collettivo di ex ragazzi prodigio: poeti, performer, organizzatori di eventi culturali. Attualmente stampano l’unica rivista di ricerca letteraria in Italia: Atti impuri. «E per campare?», chiedo a Stefano, in arte Ade Zeno. «Faccio il barista». «Ma non avevi un dottorato?». «Sì, dopo la laurea in Lettere moderne con una tesi su Stefano D’Arrigo, ho vinto un dottorato con borsa in Dialettologia Italiana, Sociolinguistica e Geografia Linguistica, conseguendo il titolo nel 2011. Immediatamente dopo, grazie al curriculum ma soprattutto grazie all’esperienza maturata nella redazione dell’Atlante Linguistico del Piemonte Occidentale, ho ottenuto una borsa annuale, cui è seguito, l’anno successivo, un assegno di ricerca, sempre annuale. In questi due anni mi sono occupato di trascrizioni fonetiche, immissione e trattamento dati nel database dell’Atlante, curando nello specifico il modulo cartaceo (poi pubblicato) dedicato alle denominazioni dialettali della fauna. Competenze, come puoi immaginare, piuttosto settoriali, dunque difficilmente spendibili in altri contesti. Scaduto l’assegno mi hanno fatto sapere che i soldi erano finiti, stop, a casa». «E a quel punto?» «Nel periodo gennaio/marzo 2013 sono stato disoccupato, poi alcuni amici che avevano rilevato un locale mi hanno proposto di lavorare con loro, dunque eccomi a fare panini e a spillare birra in riva al Po. Contratto stagionale (il locale ha chiuso i battenti il 31 ottobre e forse riaprirà ad aprile), che mi dà diritto a un paio di mesi di disoccupazione: così potrò tirare il fiato fino a febbraio o giù di lì. Insomma la mia unica possibilità di sopravvivenza al momento sembra quella di scrivere un bestseller». «Ma perché non te ne vai (cioè, perché non ce ne andiamo?)» «Domandone! Da tempo mi sto guardando intorno e non escludo affatto di andar via, ma il vero problema al momento sono i miei due figli, piuttosto piccoli (una non ha ancora compiuto tre anni, mentre l’altro ha sette mesi). Qualunque scelta in questo senso condizionerebbe in modo decisivo la loro esistenza, insomma non possiamo permetterci salti nel buio. Tra l’altro la mia compagna è nella stessa situazione: identico titolo (dottorato conseguito con co-tutela francese, dunque a rigore un po’ meno farlocco del mio), medesimo intoppo nel mondo del lavoro (per ora si arrabatta con lezioni private e robe così)».
Quelli che (a volte) ritornano
Giuseppe è un fisico della Normale di Pisa. Se n’è andato dall’Italia a 23 anni: prima a completare il Perfezionamento all’NYU, poi a Monaco, a Cambridge, infine è approdato all’ENS di Parigi, dove ha conseguito la docenza a tempo indeterminato. Giuseppe è mio fratello. «Hai fatto bene», gli dico sempre, «ad andartene: qui non avresti combinato niente. Vedi i tuoi amici, vedi me». «Ci sono anche casi limite, prendi Sergio: lui aveva una carriera avviata, poi ha mollato tutto ed è tornato». E ora? «E ora vive come pokerista». «Come?». «Gioca a poker on line, vive di questo». Raggiungo Sergio attraverso il social network: la domanda è una ed una sola: Sergio perché l’hai fatto, avevi un posto. E ti è parso il caso, Sergio, in tempi così precari, di sputare sui conseguimenti meritocratici, di abbandonare una carriera sicura, di affidarti alla sorte?». E lui, di rimando: «Sì, sono/ero un fisico teorico, credo mediamente stimato, e con una carriera difficile ma ben avviata all’Imperial College di Londra. Alla fine del 2010 ho deciso di dedicarmi a tempo pieno al poker e ho smesso di fare domande in ambito accademico». «Per ebbrezza del rischio?». «No, è cruciale capire che il poker è uno skill game, alla stregua degli scacchi, del golf o del tennis. È vero che se si giocano poche mani vince chi ha più fortuna, ma se si giocano tante mani (la long run) vince il più bravo». «E cosa vuol dire essere bravi, in un gioco di carte?». «Avere una buona comprensione della componente tecnico-strategica del gioco (sono tanti, i tipi di poker che vengono giocati, e tutti diversi fra loro), avere una buona forma fisica per riuscire a mantenere un alto livello di concentrazione anche dopo migliaia di mani consecutive, avere un buon controllo delle proprie emozioni, mantenere la lucidità e farsi guidare dal ragionamento invece che dall’istinto anche nei momenti in cui la carte girano male (tilt control, in gergo), avere una buona capacità psicologica per capire in che mood si trova l’avversario in quel momento». «Tenuta psicologica e resistenza, insomma. E la fisica c’entra ancora?» «Il pokerista deve allenarsi, coprire i suoi punti deboli ed esaltare le proprie caratteristiche migliori, e deve essere pronto ad affrontare sfide ogni giorno. Io, tra l’altro, sono un ex atleta di livello regionale: correvo i 100 metri, e mi è sempre piaciuto competere con gli amici a skill games come scacchi, go o bridge. Avendo imparato le regole del poker nel 2007, mi è parso che il mio livello fosse sufficiente a guadagnare significativamente di più che come fisico; inoltre il poker mi dava più stimoli della fisica teorica, per la componente di ricerca di una «strategia ottimale» (esiste una branca della matematica chiamata game theory che si occupa anche di strategie per giocare a poker, iniziata negli anni ‘20 e ‘30 da matematici come Borel e von Neumann, e di cui sono diventato relativamente esperto), quindi ho deciso di fare il pro poker player per un po’». Allora buon allenamento, Sergio. E good luck a noialtri.
[Immagine: Isaac Cordal, Cement Eclipses (gm)].
Desolante
Sono lontani i tempi in cui l’informazione riguardava i più. Quando si parla di lavoro in Tv o altrove chissà perchè non si parte dall’analisi del pubblico: quanti sono i laureati? Quanti i diplomati? E quindi calibrare i contenuti di conseguenza. Ora non si ragiona più in che fascia di titolo di studio si concentra il magfgior numero di disoccupati?
Ha ragione Sergio, se si giocano tante mani vince il più bravo. Lo so per esperienza diretta, dato che mi sono mantenuto gli studi da scioperato autodidatta, quasi fino a 30 anni, giocando a carte. Sarebbe fantastico mettere insieme intelligenze per vincere sistematicamente al gioco (ma lo stesso credo valga nei mercati finanziari), per poi sostenere ricerca artistica e scientifica. Altro che TQ…
trovo desolante il rampantismo di certi aspiranti letterati totalmente integrali allo status quo di cui ricalcano l’arroganza
L’articolo mostra persone che in un modo o nell’altro stanno provando a sopravvivere, starei quindi attento a dare del disoccupato a chi fa il pokerista o lavora in un bar e ne trae un profitto. Per quel che vedo e ho visto in passato, il rapporto con il denaro e con la propria autonomia economica non dipende dal titolo di studio ma dal background familiare, dall’indole personale, da come e dove si è cresciuti e dal tipo di società con cui si è venuti a contatto. Anche in ambito umanistico c’è una discreta effervescenza che va ora sotto il cappello delle startup (si segua il gruppo facebook Italian Startup Scene), con iniziative a fini sperabilmente di profitto che riguardano arte, cultura, musei, turismo, ecc. Può essere uno shock, ma l’oggettiva sovrapproduzione culturale deve selezionarsi da noi, necessariamente, per via di mercato, perché non ci è più dato stampare moneta ed incrementare il debito pubblico.
Sergio ha abbandonato la matematica e gioca a poker, Gilda e Arminia sono del segno dei gemelli. Io mi chiamo Giovanni e sono ingegnere. Riassume il tutto Venditti di Nata sotto il segno dei pesci: ” Giovanni è un ingegnere che lavora in una radio, ha bruciato la sua laurea, vive solo di parole…”