cropped-Ninchi-Jacobini-Scala.jpgdi Stefania Carpiceci

[Proponiamo alcune pagine tratte dal libro di Stefania Carpiceci Le ombre cantano e parlano. Il passaggio dal muto al sonoro nel cinema italiano attraverso i periodici d’epoca (1927-1932), pubblicato dalla casa editrice Artdigiland. Come scrive Adriano Aprà nell’introduzione, l’autrice ha svolto la sua ricerca come se si trattasse di «costruire un documentario», così che i molti materiali di repertorio possano riprendere significato, facendo rivivere e capire, attraverso la rilettura della filmografia e degli archivi, come sia stata percepita, che reazioni, che spostamento di immaginario abbia suscitato la rivoluzione del cinema sonoro. A quest’ ultimo riguardo, lo studio di Carpiceci ha valore non solo per chi si occupi strettamente del cinema degli anni Trenta; può essere utile, per fare almeno un esempio, a ripensare le posizioni di Pirandello o Debenedetti sul personaggio. Al tempo stesso, il libro restituisce valore al suono come strumento chiave del linguaggio cinematografico. Il libro (a cui si accompagna un secondo volume di apparati) è organizzato in cinque parti, che hanno inizio dalla ricostruzione del dibattito teorico italo-europeo sul sonoro, per offrire successivamente una sorta di cronistoria tecnica delle modalità di produzione e distribuzione del cinema italiano agli inizi degli anni Trenta, e arrivare, nel capitolo conclusivo, all’analisi testuale di alcuni film paradigmatici – tra cui il primo film sonoro italiano: La canzone dell’amore, La tavola dei poveri, o La telefonista.
Il brano qui proposto è estratto, con tagli, dalla prima parte (dbr)].

Ufficialmente il dibattito teorico sull’avvento del cinema sonoro ha inizio in Europa nel 1928 con il Manifesto dell’asincronismo – il cui titolo esatto è in verità Il futuro del film sonoro. Dichiarazione – dei “tre russi” Sergej M. Ejzenštejn, Vsevolod Pudovkin e Grigorij Aleksandrov. L’evento è alquanto bizzarro se si pensa che è il primo rilevante intervento europeo e che proviene dall’Unione Sovietica, il paese che per ultimo e più lentamente degli altri nel vecchio continente assimila la nuova invenzione, mettendo in atto la transizione dal cinema muto a quello sonoro[1]. Nonostante l’inesperienza spettatoriale dovuta alla tardiva adozione del neonato sonoro cinematografico -registrato all’anagrafe americana del nuovo continente già dal 6 ottobre 1927[2] – e una sostanziale estraneità tecnica, i sovietici lanciano il loro grido d’allarme contro l’uso che oltreoceano si fa del nuovo progresso tecnico:

L’ideale lungamente vagheggiato d’un cinema sonoro è finalmente una realtà. Gli americani hanno inventato la tecnica del film parlato portandola a un livello che ne consente ormai un impiego pratico […]. In ogni parte del mondo si discute di quest’arte muta che ha trovato la sua voce. Noi che lavoriamo nell’URSS, non abbiamo piena conoscenza delle imperfezioni dei nostri mezzi tecnici attuali: essi non sono ancora sufficienti per ottenere successi pratici e rapidi in questo nuovo campo. Comunque può essere interessante formulare alcune considerazioni di natura teorica, soprattutto perché ci sembra che tale progresso tecnico venga erroneamente impiegato[3].

Scettici e contrari alla neo-invenzione, i tre russi sono convinti che erroneo sia soprattutto l’approccio degli americani nei confronti del sonoro, il cui utilizzo condanna ancora una volta il cinema ad un ruolo di pura attrazione. L’unico loro obiettivo sembra infatti quello di voler «soddisfare la curiosità del pubblico», il quale accorre in sala solo per gustare lo spettacolo di voci riprodotte acusticamente e aderenti ai «movimenti delle labbra» degli attori. Una novità certo affascinante, che genera però altri errori e timori a catena. Laddove la parola riconquista terreno togliendolo alle immagini, il rischio è che il cinema si ritrovi subordinato al teatro e alla letteratura, dai quali dipende la narrazione filmica, e che saccheggi selvaggiamente i repertori preesistenti. Insomma, quella americana è giudicata un’irresponsabile tendenza che, nel prestare attenzione soprattutto alla tecnica, si priva di una coscienza teorica che invece, almeno in questa circostanza, i sovietici provano a risvegliare e a sollecitare. Pudovkin, staccatosi dal trio, ci riprova nel 1933 pubblicando Asincronismo quale principio del film sonoro, all’interno del quale ribadisce – a distanza di un quinquennio dal primo manifesto sovietico e nonostante si sia ormai cronologicamente oltrepassata la fase iniziale e sperimentale del sonoro – l’evidente sproporzione che ancora intercorre tra il progresso tecnico-produttivo americano e le avveniristiche teorie sovietiche:

Dal punto di vista tecnico il film sonoro può essere considerato come già relativamente perfetto, per lo meno in America. Ma c’è una grande sproporzione tra il grado di sviluppo tecnico del sonoro e il suo sviluppo artistico-espressivo. Quest’ultimo è rimasto molto indietro alle possibilità tecniche. Io sostengo che dal punto di vista teorico noi nell’URSS siamo molto più avanti […] degli USA, benché possediamo dei mezzi tecnici ancora primitivi. Le impostazioni teoriche e le soluzioni ci son chiare[4].

Un disequilibrio, quello che persiste tra America e Russia, le cui ragioni risiedono probabilmente anche nel diverso approccio alla realtà e nel differente principio di realismo delle due cinematografie. Se agli statunitensi quel che maggiormente interessa è che, con la nuova «invenzione meccanica», si possa «aumentare la naturalezza riproduttiva dell’immagine», per Pudovkin – che è il fautore della disarmonia e dell’aritmia tra mondo oggettivo e percezioni umane – è solo affrancandosi dalla «servile imitazione della realtà» che il sonoro può aumentare davvero «la potenziale capacità espressiva del film». Ed è per questo che egli si fa paladino dell’«impiego contrappuntistico del suono rispetto all’immagine» e di quell’asincronismo che fa della non coincidenza tra audizione e visione il suo principio fondante. Mentre oltreoceano trionfano quindi i mediocri e banali «girotondi […] del “tutto sincrono”», è nel vecchio continente che si propaga l’eco delle riflessioni sovietiche, all’origine di quel vivace dibattito critico e teorico che nel triennio 1928-1930 vede fronteggiarsi le opposte fazioni dei partigiani e dei detrattori, ovvero di coloro che si schierano a favore o contro la neo-rivoluzione tecnica.

In Italia, come nel resto d’Europa, alcuni artisti e intellettuali, più o meno noti, si avventurano in una serie di disquisizioni sul fonofilm, di cui talvolta sono, però, ancora ignari spettatori.

Nel 1928, lo stesso anno del manifesto sovietico, Sebastiano Arturo Luciani – un musicologo interessato fin dagli anni ’10 al cinema, al quale dedica importanti scritti teorici – pubblica L’antiteatro. Il cinematografo come arte, che contiene un capitolo, La musica e la proiezione, rivolto in verità più al cinema pre-sonoro che sonoro, ovvero a quello che è diffusamente noto come il cinema muto, ma che sappiamo bene essere più afono e sordo che silenzioso.

Del resto, si sa, nel cosiddetto cinéma muet o silent cinema, gli elementi acustici preesistono. In esso gli attori parlano, anche se al movimento delle loro labbra non corrisponde l’emissione della voce o una vibrazione laringea. Più che muti, essi sembrano pertanto afasici, di fronte a spettatori che, se di certo non sono ciechi, sono comunque sordi a quei dialoghi che devono leggere in didascalia, presupporre o immaginare[5]. Ancora. Se è vero che sullo schermo si susseguono immagini silenziose e un po’ spettrali, non vi è dubbio che particolarmente caotica e rumorosa è invece la sala cinematografica, all’interno della quale il pubblico manifesta spesso ad alta voce, con urla, pianti, risa e bisbigli, le proprie emozioni. Un caos acustico, a cui si assommano il ronzio dei proiettori in cabina e i commenti sonori e musicali di pianisti, orchestrali e rumoristi. In generale è per scongiurare la paura del buio e del silenzio in sala, e pertanto per «necessità fisiologica», che l’«elemento fonico» viene affiancato alle primordiali visioni[6].

[…]

Introdotte inizialmente per evitare il silenzio in sala – o anche per riempire il vuoto, in attesa del cambio di bobina in cabina – le performances musicali con il tempo si trasformano. Dapprima sono autonome e improvvisate, poi man mano sempre più definite e correlate alla pellicola. Tant’è che se in origine ci si accontenta di saccheggiare arbitrariamente i repertori classici preesistenti, poi si diviene sempre più esigenti, ricorrendo ai cue sheets e ai pastiches musicali. I primi, di matrice hollywoodiana, sono dei manuali in cui vengono raccolte partiture idonee allo schermo, perlopiù appositamente composte. I secondi, cui accenna nello specifico Luciani, si avvalgono invece ancora di una certa dose di estemporaneità, rifacendosi comunque a due soli generi melodici, l’uno ritmico, l’altro lirico:

Riconosciuta […] la necessità fisiologica di un elemento fonico qualsiasi che accompagni la visione, resta da stabilire il genere di questo accompagnamento. Il quale non può essere che musicale […]. La musica che si esegue durante la proiezione dei films normali è di due generi: o è formata di suites di marcie e di ballabili, o è composta di brani di carattere lirico-drammatico, tolti dalle opere più in voga o improvvisati da un pianista qualsiasi. Nel primo caso la musica ha una funzione ritmica, nell’altro espressiva[7].

Oltre alla musica, Luciani spera che ben presto si adottino anche al cinema, come già in teatro, i rumori ambientali e naturali, per i quali si ispira agli intonarumori del pittore futurista Luigi Russolo, e in virtù dei quali aspira, anzitempo, ad un’arte totale in cui i suoni, mentre risalgono alle immagini, da queste finanche discendono.

Per Luigi Pirandello, autore nel 1929 del noto saggio Se il film parlante abolirà il teatro, il futuro del cinema sonoro risiede nella «cinemelografia»: una nuova forma d’arte audiovisiva che congiunge «pura musica e pura visione»[8]. Premesso che le note non sono accessorie alle immagini, Pirandello disquisisce intorno a un’estatica armonia tra ciò che si vede e quel che si ode, aspirando a delle «libere associazioni visive», perlopiù «evocate dalla musica» o affiancate ad una «composizione preesistente».

Ecco: pura musica e pura visione. I due sensi estetici per eccellenza, l’occhio e l’udito, uniti in un godimento unico. Gli occhi che vedono, l’orecchio che ascolta, e il cuore che sente tutta la bellezza e la varietà dei sentimenti che i suoni esprimono, rappresentata nelle immagini che questi sentimenti suscitano ed evocano […]. Cinemelografia: ecco il nome della vera rivoluzione: linguaggio visibile della musica.

Alla cinemelografia, in quanto arte incentrata sulla visibilità musicale o sulla musicalità visiva, Pirandello giunge però al termine di una serie di considerazioni che, ancor prima di indurlo a riflettere sull’adattamento della musica al film, o viceversa, lo allontanano dalla parola e di conseguenza dalla narrazione e dal romanzo, dal dramma e dalla tragedia, ovvero dal teatro e dalla letteratura. Pur riconoscendo che ormai il silenzio è rotto e che prima o dopo bisognerà dar voce alla nuova cinematografia, egli ritiene controproducente ricorrere alla letteratura, perché il danno sarebbe duplice, oltreché reciproco: la parola scritta finirebbe con l’essere sacrificata entro i confini visivi, mentre le immagini perderebbero l’autonomia linguistica fino a quel momento conquistata. Viceversa, pensa che sia sì nociva, ma non altrettanto allarmante, l’interrelazione fra cinema e teatro, alla quale dedica ampio spazio, tranquillizzando tutti coloro che temono uno schermo parlante e concorrenziale al palcoscenico:

In questi giorni di grande infatuazione universale per il film parlante, io ho sentito dire questa eresia: che il film parlante abolirà il teatro; che tra due o tre anni il teatro non ci sarà più, tutti i teatri […] saranno chiusi perché tutto sarà cinematografia, film parlante o film sonoro […]. Il teatro […] può star tranquillo e sicuro che non sarà abolito, per questa semplicissima ragione: che non è lui, il teatro, che vuol diventare cinematografia, ma è lei, la cinematografia, che vuol diventare teatro, e la massima vittoria a cui potrà aspirare, mettendosi così più che mai sulla via del teatro, sarà quella di diventare una copia fotografata e meccanica più o meno cattiva. [E] se io al cinematografo non devo più vedere il cinematografo ma una brutta copia del teatro, e devo sentir parlare incongruamente le immagini fotografate degli attori, con una voce di macchina trasmessa meccanicamente, io preferirò andarmene al teatro, dove almeno ci sono gli attori veri, che parlano con la voce naturale.

Affermando che, come recita il titolo del suo intervento, il film parlante non abolirà il teatro, Pirandello ribalta il problema, nella convinzione che a rischiare sia in verità proprio il cinema, il quale, una volta acquisito il verbo, regredirebbe a teatro fotografato, con l’aggravante di un’incongruenza: la sproporzione che si verrebbe a determinare fra l’attore vivo e in carne ed ossa, che recita durante le riprese, e la sua ombra in celluloide, immateriale e bidimensionale, proiettata invece sullo schermo:

La voce è di un corpo vivo che la emette, e nel film non ci sono i corpi degli attori come a teatro, ma le loro immagini fotografate in movimento […]. Le immagini non parlano; si vedono soltanto se parlano, la voce viva è in contrasto insanabile con la loro qualità di ombre e turba come una cosa innaturale che scopre e denunzia il meccanismo.

Allora la distanza e la disparità tra il corpo-ombra, impresso sulla pellicola, e la voce metallica, registrata su nastro, appaiono irrisolvibili e inconciliabili. Tant’è che Pirandello fantastica – in un soggetto cinematografico rimasto inedito e alquanto surreale – di una voce meccanica che, sfuggita al controllo del regista, abbandona il set, compromettendone le riprese. Un sabotaggio e un incubo, cui fa eco la favola di Esopo quale chiara metafora di tutti i timori e le perplessità pirandelliane cinesonore[9]:

Sta capitando al cinematografo quella stessa ridicolissima disavventura che in una delle sue più famose favole Esopo fa capitare al vanitoso pavone, allorché lusingato beffardamente dalla diabolica volpe per la sua magnifica coda e la maestà del suo incesso regale, aprì la bocca per fare udire la sua voce e fece ridere tutti.

Se beffardo è pertanto il presente, ancor più incerto è per Pirandello il futuro del fonofilm che non sappia rinunciare alla parola. Ma se invece, dopo aver «malamente navigato» nel «mare avverso» della letteratura e aver oltrepassato «le due colonne d’Ercole della narrazione e del dramma», esso riuscirà a riprendere a «vele spiegate» il viaggio «nell’oceano della musica», ebbene sì, allora non potrà che avere davanti a sé “nuovi orizzonti e approdi”.

È con una metafora marittima, molto simile a quella pirandelliana, che anche Giacomo Debenedetti – uomo di lettere particolarmente dedito, anche negli anni della transizione dal muto al sonoro, alla critica cinematografica – invita la musica a tuffarsi nel cinema, in quel cammeo che è La vittoria di Topolino, scritto nella prima metà degli anni ’30[10]. Qui, una volta introdotti i concetti di «materia» e «contenuto» – ossia di inquadratura passivamente immortalata dalla macchina da presa, da una parte e, dall’altra, intervento plasmante delle idee e dei sentimenti del suo cineasta-autore – egli suggerisce alla melodia di gettarsi nella prima per lasciare affiorare un messaggio «oscuro» e inaspettato che non illustri solo quanto «rivelato dal regista», ma ne esprima un senso nuovo, «cospirante» e complementare. Successivamente, nel 1937, Debenedetti pubblica su «Cinema» un altro saggio, La musica e il cinematografo, in cui, mescolando il presente con il passato, rievoca la questione del connubio tra musica e cinema, tracciando alcune delle sue principali tappe evolutive. Un tempo il commento musicale veniva approssimativamente eseguito in sala e distrattamente ascoltato «con la coda dell’orecchio» dagli spettatori, mentre è a seguito del rivoluzionario cambiamento sonoro che la musica, composta «per [un] film», instaura con esso una nuova armonia, anche senza essere del tutto parte integrante «del film stesso». Favorevole ad un’interrelazione tra le due arti – per le quali auspica un’autonomia dialettica – anche Debenedetti si dichiara contrario, al pari di Pirandello, all’immissione della parola al cinema. Esattamente come lo scrittore siciliano, anche lui avverte il pericolo dell’incongruenza che si verrebbe a creare fra verbo e visione. Solo Topolino, il celebre cartone animato disneyano prestato dal fumetto al cinema, può a suo avviso scongiurare questo pericolo. Privo di qualsivoglia ambizione naturalistica e fiero della propria bidimensionalità «senza corpo [e] senza volume», il cartoon può fare davvero a meno della parola ormai imperante senza risentirne, arrivando addirittura a sostituirla con una «vibrazione» corporea:

Il valore dimostrativo di Topolino come attore sonoro consiste […] in questo: ch’egli denuncia visibilmente le sue due dimensioni spaziali, senza neppure tentare di illuderci sulla presenza della terza e che la musica, uscendo da questo mondo scorporato, non ha più nulla di naturalistico, è tutta psicologia e lirica: è l’onomatopea di uno stato, di qualche cosa che fisicamente non può avvenire.

Mickey Mouse è insomma per Debenedetti il vero personaggio vincente della nuova cinematografia: l’unico simbolo e vessillo; il «solo attore […] sonoro» in grado di ricucire il conflitto fra ombra e suono, a differenza di quanti invece hanno già rinnegato il loro «mimico mutismo». E a lui davvero poco importa se questo avviene ricorrendo a un idioma illogico e irrazionale, gutturale e animale, perché anzi crede fermamente nell’onomatopea, in grado di evocare oggetti, azioni ed emozioni.

Alla parola nega il diritto di cittadinanza al cinema anche Alberto Cecchi, altro «fine dicitore del giornalismo letterario» italiano che, in trasferta nel mondo della critica cinematografica, diviene titolare, dal 1929 al 1930, della rubrica “Cinelandia” su «L’Italia Letteraria». Per lui «i films non diventeranno mai parlati», ma piuttosto saranno «rumoreggiati». Si limiteranno cioè a riprodurre «i rumori, le musiche, i canti», ma di certo non le parole. Non solo, in quanto «parzialmente muti, parzialmente parlati», nei movies di domani, egli prevede che «ci sarà il rumore e non ci sarà la parola», il che non esimerà la settima arte da una serie di assurdità e imprevisti, spesso esilaranti:

Ci figuriamo, per esempio, che la passeggiata di due innamorati lungo il mare verrà accompagnata dallo sciacquio delle onde sulla riva, che i boschi risulteranno pieni di gorgheggi e di fruscii, le stazioni rimbomberanno di strepiti e fischi […]. Avremo il frastuono delle città, la pace ventilata delle campagne, l’orrore delle bufere, i boati dei vulcani. Voci della terra, del mare, dell’aria. Starà bene. Sta bene. Ma […] il risultato si rivelerà bastantemente grottesco, per il contrasto inevitabile tra l’ambiente, che si esprimerà in quei modi che abbiamo detto, e l’uomo che rimarrà muto […]. Gli eroi dell’avventura [che rimarranno] mutoli, mutoli, silenziosi come pesci[11].

L’imprevisto maggiore risiede per Cecchi nell’effetto paradossale e grottesco – ricorrente ai tempi della transizione – che si viene a creare tra un ambiente acustico circostante, assai rumoroso, e i personaggi che lo popolano e attraversano, ma come affetti da un inspiegabile mutismo. In verità per Béla Balázs, noto coevo teorico ungherese, è proprio in questo paradosso che si insinua uno dei principi base della neo-alfabetizzazione cinematografica, per cui ora finalmente, dopo l’occhio, è anche l’orecchio degli spettatori ad essere educato. Ora finalmente il pubblico ha l’opportunità di esplorare il contesto acustico e di porsi in ascolto delle «voci delle cose» e del «linguaggio intimo della natura», fino adesso sconosciuto[12]. Ma per quanto raffinata, la riflessione è assai lontana da Cecchi, il quale ritiene invece il pubblico di allora più disorientato che consapevole e sostanzialmente a disagio, mentre assiste un po’ inerte e inebetito alla proiezione di pellicole più musicate e rumoreggiate che parlate. Il che è quanto effettivamente accade ai primissimi spettatori italiani nel corso della prima proiezione pubblica e nazionale de Il cantante di jazz[13], il primo film sonoro americano e internazionale di tutti i tempi, di fronte al quale è unanime il fastidio e lo stupore di quanti si ritengono costretti ad udire le canzoni e i gorgheggi del protagonista, Al Jolson, senza poterne però ascoltare dialoghi e parole:

Non è poi da dire il fastidio che dà l’inevitabile contrasto: che gli attori mandano voci dalla bocca solamente quando cantano, mai quando parlano; s’immagini un’operetta nella quale tenori, soprani e compagni diventassero improvvisamente muti – continuando tuttavia a muovere le labbra – ogni volta che avessero finito le loro romanzette[14].

L’esito è allora talmente deludente che per Cecchi i tempi non sono ancora maturi. Se l’imperfezione della neo-invenzione è tale, tanto vale a suo avviso eliminarla radicalmente e far sì che dalla cinematografia futura siano tolti anche i suoni e i rumori, in assenza delle parole. Drastica e integrale è pertanto la cancellazione che egli auspica del sistema di registrazione acustico appena nato.

[…]

Per Anton Giulio Bragaglia, autore nel 1929 de Il film sonoro, la nuova scoperta tecnica è come una «guerra» che scoppia all’improvviso nel «paradiso terrestre» e in quel «paese della cuccagna» che è a suo avviso il cinema. L’esito è per lui deflagrante. Eppure, ciò nonostante, dedica alla neo-invenzione un libro, nel quale continuamente oscilla tra la «netta repulsione» e la «cauta accettazione» del mezzo, che forse però assai poco conosce. Anzitutto, quel che preme a Bragaglia è placare – come già Pirandello – le ansie dei tanti drammaturghi italiani terrorizzati dalla bufera che ormai soffia dal cinematografo e che rischia di spazzarli via. Persuasiva è l’argomentazione a cui ricorre, mettendo a confronto – come già Pirandello – la voce naturale dell’attore di teatro, con quella registrata, sottolineando come il caldo e intimo contatto che dal palcoscenico si crea con lo spettatore in platea sia annullato dalla fredda e raggelante voce metallica riprodotta dallo schermo e in apparenza affetta da raucedine.

[…]

Contrario all’abuso della parola, sia al cinema sia al teatro, perché sinonimo di «anticinema» e di «antiteatro», il celebre drammaturgo e regista auspica pertanto un film sonoro più seguace del muto che emulo del palcoscenico. Un fonofilm che, invece di adottare le ignote sonorità del futuro, preservi quelle rassicuranti del passato, sia interne sia sottintese: da quelle grafiche dei dialoghi in didascalia a quelle musicali delle «immagini-simbolo» di tipo plastico-figurativo:

Perché non fare […] delle pellicole sugli elementi […] studiando a fondo il modo di rendere […] vento […] acqua e […] fuoco? Un film sul vento, estremamente pittoresco nelle realizzazioni ottiche, che potrebbero andare dalla foresta squassata e contorta al vecchio castello in rovina dove ululano le raffiche […]. Un film sull’acqua, dal filo gocciolante nell’acquaio al ruscello, al torrente […]. Un film sul fuoco, dallo scoppiettio allegro del camino al divampare dell’incendio, sarebbero eccellenti occasioni per un buon impiego dell’intonarumori.

L’ipotesi di una «trasposizione musicale dell’emozione ottica» è insomma per Bragaglia un’alternativa valida da difendere e contrapporre al diffuso e dilagante uso meccanico e realistico che del suono intende fare la cinematografia futura. La sola in grado di garantire alla nuova tecnica finanche una nuova poetica.

Massimo Bontempelli è un altro nome «della storia della cultura italiana fra le due guerre» che si affianca a quanti fin qui nominati. Caposaldo del novecentismo europeo, scrittore, saggista e drammaturgo, è anch’egli autore in quegli anni di alcuni scritti sul fonofilm confluiti, insieme ad articoli sullo sport, la moda, l’arte, la politica, l’architettura, la musica e lo spettacolo, ne L’avventura novecentista. In linea di continuità con il pensiero di molti altri intellettuali italiani ed europei, anche lui recepisce l’avvento del sonoro come un «evento pericoloso» e una «prova terribile» che occorre tuttavia affrontare senza pregiudizi ostili né facili entusiasmi, mantenendo semmai una «diffidenza meditata» e una sana equidistanza. Figlio del progresso tecnico-scientifico, il cinema sonoro non deve per Bontempelli intendersi come «un perfezionamento del muto», che si arricchisce di parole, rumori e musica, ma neppure quale risultato di un’ibrida alleanza tra cinema e teatro. Piuttosto a lui piace pensarlo come una sorta di «terzo idioma» di un’arte dall’imperfetto avvenire[15]. Il cinema, in quanto espressione artistica, non deve infatti a suo avviso aspirare ad una perfetta riproduzione della realtà, quanto semmai preservare l’imperfezione audiovisiva iniziale:

Mi dicono che eccellenti risultati abbiano dato i tentativi di sincronismo tra i movimenti delle figure filmate e i canti o le parole emessi di dietro lo schermo da attori o da cantori o da grammofoni. Quando tutta questa materia sarà […] regolata, il cinematografo sarà perfetto. Cioè non sarà più cinematografo. Mentre la meccanica si sforza d’imitare con la maggiore precisione possibile la realtà, sono spesso le sue imperfezioni che salvano il fascino dell’arte […]. Il fascino e il mistero del muto erano in gran parte dovuti all’aspetto fantasmatico delle figure a due sole dimensioni [e silenziose]. Nello stesso modo si osservi che le voci del parlato sono, come qualità di suono, ben differenti da quelle reali; e che appunto quella loro innaturalezza (dovuta a imperfezione meccanica) dà a esse […] un sapore, un fascino, che salva alquanto la possibilità della poesia, e che si andrà perdendo a mano a mano che la meccanica lo andrà perfezionando. Bisogna sempre ricordare che la consistenza di un’arte è fatta delle limitazioni materiali ch’essa incontra.

In conclusione di questa breve carrellata del pensiero allora circolante in Italia sul cinema sonoro, quel che emerge è il generale disorientamento che di fronte ad esso assale tanto i comuni spettatori quanto i noti intellettuali che ne dibattono. Un po’ tutti si ritrovano in quel momento a vivere una disavventura simile all’odissea dei protagonisti di Cecità, il romanzo di metà anni Novanta dello scrittore portoghese José Saramago, i quali, contagiati da un’epidemia che li rende tutti improvvisamente ciechi, si ritrovano a sopravvivere come fantasmi in un mondo esclusivamente acustico, resosi pertanto estraneo, ostile ed insidioso. E in effetti anche gli spettatori dei primi fonofilm, pur non perdendo del tutto la vista, si ritrovano di colpo catapultati in un inferno di rumori e di parole, popolato da attori che, se finora si sono aggirati sullo schermo come larve spettrali e pesci muti di un acquario, iniziano ora a blaterare discorsi spesso senza senso.


[1] Ejzenštejn, Pudovkin, Aleksandrov, Il futuro del film sonoro. Dichiarazione, in Ejzenštejn, La forma cinematografica, Einaudi, Torino, 1986, pp. 269-270, (ed. or. Film Form, Harcourt, Brace and Company, Inc., New York, 1949). Ma cfr. più in generale alcuni testi di Alberto Boschi: Ejzenštejn, Pudovkin, Aleksandrov: verso il contrappunto musicale, in Id., L’avvento del sonoro in Europa. Teoria e prassi del cinema negli anni della transizione, CLUEB, Bologna, 1991, pp. 10-11; Teorie del cinema. Il periodo classico 1915-1945, Carocci, Roma, 1998; Il passaggio dal muto al sonoro in Europa, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. L’Europa. 1 Miti, luoghi, divi, Einaudi, Torino, 1999, pp. 395-426; Dal muto al sonoro, in Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. Volume secondo. Gli Stati Uniti, Einaudi, Torino, 1999, pp. 465-485. In particolare, ne Il passaggio dal muto al sonoro, lo studioso afferma: «Isolata tecnologicamente e produttivamente dall’occidente capitalistico, l’industria cinematografica dell’Unione Sovietica, dove il primo lungometraggio di finzione sonoro, Putëvka v žisń (Nikolaj Ekk), fa la sua apparizione soltanto nel 1931, porterà a compimento con particolare lentezza la transizione al sonoro, continuando a produrre film muti fino al 1935» (pp. 404­405). Occorre peraltro precisare che, anche se ormai è comunemente acquisita, la definizione dei “tre russi” non è del tutto corretta, dal momento che Ejzenštejn nasce a Riga, in Lettonia, nel 1898. Più in generale in merito ad alcune altre ampie teorizzazioni italiane sulla transizione europea e mondiale dal muto al sonoro cfr.: Emilio Garroni, Per una teoria del film sonoro, «Filmcritica», 185, gennaio 1968, pp. 29-68; Due lustri di sonoro. Numero doppio dedicato al fonofilm in occasione del suo decimo anniversario: la sua storia, i suoi problemi estetici, tecnici e industriali, «Cinema», 108, 25 dicembre 1940; R. [Rick] Altman, A. [Alberto] Boschi,

W. [Wolfgang] Jacobsen… [et Al.], L’immagine acustica. Dal muto al sonoro: gli anni della transizione in Europa, «Cinegrafie», 5, novembre 1992, Transeuropa, Ancona, 1992; Rick Altman, Charles Wolfe, Martin Barnier… [et Al], L’immagine acustica. II. Il passaggio dal muto al sonoro in America, «Cinegrafie», 6, novembre 1993, Transeuropa, Ancona, 1993; Paola Valentini, Il suono nel cinema. Storia, teoria e tecniche, Marsilio, Venezia, 2006.

[2] È questa la data della prima proiezione newyorkese di The Jazz Singer (Il cantante di jazz) di Alan Crosland, con Al Jolson, con cui si conviene di solito indicare il giorno e «l’anno di introduzione del suono sincronizzato» ad opera della Warner Bros e con cui ha pertanto inizio «il processo di invenzione e diffusione della tecnologia sonora»: cfr. David Bordwell, Kristin Thompson, Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945, Il Castoro, Milano, 1998, p. 273 (ed. or. Film History: An Introduction, McGraw-Hill, Inc., New York, 1994). In verità la transizione dal muto al sonoro ha luogo in diverse date nel vecchio continente, sia pure tutte nel biennio 1929-1930, con eccezione come già detto dell’Unione Sovietica. Il 16 dicembre 1929 si proietta in Germania il primo film sonoro tedesco, Melodie des Herzens, di Hanns Schwarz, mentre in Italia, La canzone dell’amore di Gennaro Righelli viene presentato il 7 ottobre 1930. La Gran Bretagna apre nei dintorni londinesi, sotto l’egida della British International Pictures, gli stabilimenti sonori di Elstree negli stessi anni. Mentre la Francia non produce su territorio nazionale i suoi primi due film sonori: Les trois masques di André Hugon e La route est belle di Robert Florey. Ma su tutto questo cfr. ancora Boschi, Il passaggio dal muto al sonoro in Europa, cit. Infine, sempre di Bordwell e Thompson cfr. anche: Cinema come arte. Teoria e prassi del film, Il Castoro, Milano, 2003 (ed. or. Film Art: An Introduction, McGraw-Hill, Inc., New York, 2001); Storia del cinema. Un’introduzione, edizione italiana a cura di David Bruni ed Elena Mosconi, The McGraw-Hill Companies S.r.l, Milano, 2010 (ed. or. Film History: An Introduction, third edition).

[3] Ezenštejn, Pudovkin, Aleksandrov, Il futuro del film sonoro, cit., p. 269.

[4] A. Pudovkin, Asincronismo quale principio del film sonoro, in Id., Film e fonofilm, Le Edizioni d’Italia, Roma, 1935, p. 209, (tr. it. di Umberto Barbaro; ed. aggiornata Vsevolod Pudovchin, Film e fonofilm. Il soggetto. La direzione artistica. L’attore. Il film sonoro,a cura di Umberto Barbaro, Bianco e Nero Editore, Roma, 1950).

[5] Su questo cfr. Michel Chion: La voce nel cinema, Pratiche, Parma, 1991, (ed. or. La voix au cinéma, Éditions de l’Etoile, Paris, 1982); Le son au cinéma, Éditions de l’Etoile, Paris, 1985. Ma cfr. anche Lino Miccichè, Dal film “afono” al “fonofilm”. (Il cinema sonoro come spettacolo di massa), Convegno AGIS “Il grande schermo: ieri, oggi, domani”, Roma, 1995. Mentre sulle didascalie cfr. ancora, tra gli altri: Sergio Raffaelli, La lingua filmata. Didascalie e dialoghi nel cinema italiano, Le Lettere, Firenze, 1992; Francesco Pitassio, Leonardo Quaresima (a cura di), Scrittura e immagine. La didascalia nel cinema muto, IV Convegno Internazionale di Studi sul Cinema, Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali, Università degli Studi di Udine, Forum, Udine, 1998.

[6] Su tutto questo, come sulla paura del buio in sala, cfr.: G. W. Beynon, Musical Presentantions of Motion Pictures, Schirmer, New York, 1921; K. London, Film Music: A summary of the Characteristic Featuress of Its History, Aesthetics, Techniques, and Possible Developments, Faber & Faber, London, 1936; Theodor W. Adorno, Hanns Eisler, La musica per film, Newton Compton, Roma, 1975, (ed. or. Komposition für den Film, Rogner & Bernhard, München, 1969); Hugo Münsterberg, Film. Il cinema muto nel 1916, Pratiche, Parma, 1980, (tr. it. di Cecilia Rosso); Gianni Rondolino, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, UTET, Torino, 1991; Boschi, Ascesa, fortuna e declino dell’analogia -La musica come componente del film: il periodo muto, in Id., Teorie del cinema, cit.; Sergio Miceli, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano, 2000, (edizione ampliata e aggiornata, Bulzoni, Roma, 2010).

[7] A. L. Luciani, L’antiteatro: il cinematografo come arte, Roma 1928, pp. 55-56.

[8] Cfr. per queste citazioni e riflessioni, come per tutte le successive, Pirandello, Se il film parlante abolirà il teatro, in Francesco Callari, Pirandello e il cinema, Marsilio, Venezia, 1991, pp. 120-125, (già in «Corriere della Sera», 16 giugno 1929; «Anglo-American Newspaper Service», London-New York, giugno 1929). E insieme cfr. anche Boschi, Luigi Pirandello: il teatro non ha nulla da temere dal film sonoro, in Id., L’avvento del sonoro in Europa, cit. Infine cfr. anche l’intervista dello scrittore rilasciata a Oreste Rizzini, in una corrispondenza da Londra del 18 aprile 1929, dal titolo Contro il film parlato, pubblicata sul «Corriere della Sera» del giorno dopo, il 19, e ora sempre nel volume di Callari alle pp. 118-120.

[9] In particolare su questo cfr. Callari, Tra la fine del muto e l’inizio del sonoro, in Id., Pirandello e il cinema, cit., pp. 74-77. Lo studioso sottolinea bene le tante contraddizioni manifestate dallo scrittore siciliano nei confronti del cinema sonoro, contro il quale tuona spesso, ma con il quale instaura frequenti rapporti di lavoro, che ora lo spingono a far visita ai primi stabilimenti sonori europei, innalzati a Londra e a Berlino, e che ora lo attraggono in America, dove si presta come soggettista e sceneggiatore. Rientrato poi in patria, egli cede paradossalmente, un proprio soggetto, da cui nasce, come avremo modo di analizzare più avanti, il primo film sonoro italiano: La canzone dell’amore. Ancora, Callari riporta il passo di una lettera inviata, nell’aprile del ’29 da Pirandello a suo figlio Stefano, nella quale dichiara: «Farò un film parlante contro i films parlanti. Un’idea originalissima. L’uomo ha dato la sua voce alla macchina, e la macchina parla con una voce ch’è ormai diventata sua, non più umana; è come se il diavolo fosse entrato in lei; e con spirito diabolico commenta l’azione muta del film, arresta gli attori nelle loro azioni, li chiama, suggerisce loro questo o quell’atto, li incita, ride di loro, fa cose da pazzi». Dopodiché, per il brano che segue, cfr. ancora Pirandello, Se il film parlante abolirà il teatro, cit.

[10] Cfr. Debenedetti, La vittoria di Topolino, in Id., Al cinema, a cura di Lino Miccichè, Marsilio, Venezia, 1983, pp. 43-59. Il saggio, ritrovato nell’Archivio Casa Debenedetti, va datato, secondo il curatore della raccolta degli scritti cinematografici debenedettiani, intorno alla prima metà degli anni ‘30. Cfr. comunque anche l’introduzione al testo: Miccichè, Debenedetti e il cinema, pp. Ix -xL.

[11] Cecchi, I films sonori, in Id., Ombre bianche, cit., pp. 30-31, (già ne «L’Italia Letteraria», 7 aprile 1929).

[12] Balázs, Estetica del film, Editori Riuniti, Roma, 1975, pp. 141-144, (ed. or. Der Geist des Films, Berlino, 1931). In generale su Balázs e il suo pensiero teorico cfr. comunque anche la riedizione, curata da Leonardo Quaresima, de L’uomo visibile. Con un’appendice sulla ricezione critica e un’antologia di recensioni cinematografiche dell’autore (1923-1929), edita dalla Lindau di Torino nel 2008.

[13] Per l’esattezza da molti degli articoli d’epoca si apprende che la prima proiezione pubblica nazionale del Cantante di jazz ha luogo al Supercinema di Roma il 19 aprile 1929. A questa prima visione ne segue una seconda il 3 maggio al Salone Ghersi di Torino.

[14] Cfr. per questo brano, come per il successivo più avanti, Cecchi, Il cantante di jazz, in Id., Ombre bianche, cit., p. 38 e pp. 38-39, (già in «L’Italia Letteraria», 28 aprile 1929).

[15] Cfr. per queste e altre successive citazioni, Bontempelli, I miei rapporti col cinema (Documentario: montaggio del 1935). Secondo tempo: Parlato (1930), in Fabri, Simonigh, Termine, Il cinema e la vergogna…, cit., p. 134 e pp. 132-136. Così come cfr. ancora, per alcuni dei brani che seguono, sempre dello stesso autore e nello stesso testo, Lontano preludio (1922), p. 127 e p. 135.

[Immagine: Carlo Ninchi e Maria Jacobini in La scala (1931) di Gennaro Righelli (dbr)].

 

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