di Raffaello Palumbo Mosca
[È uscito il saggio di Raffaello Palumbo Mosca L’invenzione del vero. Romanzi ibridi e discorso etico nell’Italia contemporanea, Roma, Gaffi 2014. Questa è la premessa].
«Il romanzo è morto. Viva l’antiromanzo, ricostruito da zero» proclama gioiosamente David Shields nel recente Reality Hunger (Shields 2010, p. 215); «gli scrittori più interessanti, acuti e provocatori scrivono non fiction» e il romanzo è oggi «culturalmente irrilevante», gli fa eco Lee Siegel sulle pagine del New York Observer (cfr. Siegel 2010). Il tono cambia di poco se ci spostiamo in Italia: da Andrea Cortellessa quando proclama che l’Italia è «senza scrittori» ad Alfonso Berardinelli nella sua ultima fatica, emblematicamente intitolata Non incoraggiate il romanzo, fino a Filippo La Porta che esclama: «Meno letteratura per favore!», la schiera dei becchini e degli officianti il funerale della forma-romanzo sembra allungarsi giorno dopo giorno (cfr. Cortellessa e Archibugi 2010; Berardinelli 2011; La Porta 2010).
Si tratta di studiosi di formazione eterogenea, che motivano il loro rifiuto da prospettive differenti e secondo criteri a volte molto dissimili. Se, ad esempio, Cortellessa sembra talvolta guardare alla neoavanguardia quasi come «ad un canone unico» (Ficara 29 maggio 2011), Berardinelli propone uno sguardo diverso, più composito, che abbraccia Gadda e Tomasi di Lampedusa, Morante e Landolfi, ma giunge comunque, non sorprendentemente, ad affermare la sconcertante povertà culturale del romanzo contemporaneo. Genere «più editoriale e merceologico che letterario», esso avrebbe ormai perso (irrimediabilmente?) il suo «valore conoscitivo e documentario» (Berardinelli 2011, p. 9 e passim).
C’è poi, ça va sans dire, anche la schiera opposta, quella degli entusiasti, pronti a celebrare (quasi) ogni nuova opera come un capolavoro. Sempre sospettabili di connivenza con il mercato, tali critici certo sembrano seguirne il perverso meccanismo per il quale «il successo diventa sinonimo di significatività» e la linea di demarcazione tra significatività e qualità si fa, oggi più che mai, «sempre più sottile» (Casadei 2007, p. 9).
Falsificando il giudizio di valore verso l’alto, la critica diventa così (quasi) mera estensione degli uffici stampa, rinunciando alla sua stessa funzione giudicante: se, infatti, io critico parlo, in maniera più o meno interessata e capziosa, di Io uccido di Faletti come di «un capolavoro» non avrò più parole – né credibilità – per recensire, ad esempio, Le Benevole di Jonathan Littell, o Maggio selvaggio di Edoardo Albinati o, ancora, Tutti i bambini tranne uno di Philippe Forest. Tale indiscriminato «entusiasmo» non è, inoltre, moralmente neutro: come ha ricordato Massimo Onofri, infatti, quale è il primo, e irrinunciabile, compito etico del critico se non «difendere i più deboli […] dalla prepotenza, dalla protervia, del mercato»? (Onofri 2007, p. 66).
Da che parte dunque schierarsi? Se le ragioni dei primi – dei critici, cioè, dello strapotere del mercato e di coloro che sono convinti della stanchezza della forma romanzo – appaiono a prima vista inoppugnabili, è anche vero che il loro millenarismo manca, spesso, di una pars construens credibile. Non solo: ignora tutte quelle opere che invece – celebrate o meno – sono davvero importanti; opere di cui il critico deve parlare e che mostrano, a mio parere, come la forma- romanzo sia, oggi, in piena evoluzione. Troppo preoccupati – e non certo da tempi recenti – di celebrare la morte del genere, sembra che ci si sia dimenticati di chiedersi che cosa sia (che cosa è diventata) questa cosa che (eventualmente) muore. Inoltre: questo romanzo che muore – se muore – è qualcosa di cui, oggi, abbiamo ancora bisogno? Queste sono le due architravi del mio studio, le domande fondamentali alle quali cerco di dare una prima risposta.
Ho adottato quindi una «terza via» rispetto a quelle citate, una prospettiva mediana ma mai conciliante. Il romanzo è, a mio parere, tutt’altro che irrilevante o «morto». Le opere di puro entertainment sono sempre esistite (la differenza, oggi, è piuttosto nella quantità); non si tratta di denunciarne moralisticamente lo «scandalo» (perché scandalo non è) né di ergersi a paladini di un ideale umanistico perduto. Molto più modestamente, si tratta di capire come (e se) la forma-romanzo possa ancora essere lo strumento privilegiato per la conoscenza della realtà, e un elemento fondamentale per la formazione etica individuale. Sono convinto che la significatività delle narrazioni non sia garantita né dal successo commerciale né dal genere romanzo per se stesso: piuttosto essa è (deve essere) un obiettivo continuamente rinnovato.
Il mio punto di partenza è quel fenomeno spesso definito come il «ritorno alla realtà» della letteratura italiana. Il terminus a quo sono gli anni Novanta del secolo scorso. È a partire da questo momento, infatti, che nuovamente fioriscono narrazioni attente al tempo ed alla società contemporanei. Solo per citarne alcune: le Cronache italiane, così come il reportage narrativo Occhio per occhio. La pena di morte in quattro storie, di Sandro Veronesi sono del 1992; Fattacci di Vincenzo Cerami è del 1997; Maggio selvaggio di Edoardo Albinati è del 1999, mentre L’Abusivo di Antonio Franchini esce nel 2001; la punta dell’iceberg di tale fenomeno – e l’elemento che ha (un poco tardivamente) attirato l’attenzione critica su questa nuova stagione della letteratura italiana – è certo l’ormai celeberrimo Gomorra di Roberto Saviano, uscito nel 2006.
Si tratta, come è evidente, di opere assai dissimili, legate però da alcuni elementi fondanti: da un punto di vista tematico, sono tutte opere centrate sul presente, e che ripropongono – si vedrà in quali termini – una figura che sembrava ormai cancellata: quella dello scrittore «impegnato» o – con un termine meno storicamente (e ideologicamente) compromesso – «coinvolto» nella negoziazione pubblica dei problemi della polis. Da un punto di vista formale, tali narrazioni mirano a rivitalizzare la forma del novel classico attraverso una sua ibridazione con altre forme di prosa quali l’articolo giornalistico, il diario, o il saggio.
È chiaro: i due aspetti fin qui accennati sono strettamente conseguenti, poiché la ricerca di nuove forma narrative fa fronte anche alla progressiva perdita di centralità del discorso romanzesco nella società contemporanea a favore, soprattutto, dei mass-media. Il fiorire, in Italia ma non solo, di forme di narrazione che aumentano al massimo il loro grado informativo, rinunciando ad alcuni tratti tipici della narrazione romanzesca, in primis il suo carattere puramente finzionale, risponde all’esigenza di promuovere un tipo di conoscenza diversa da quella, degradata e semplificatoria, promossa nell’odierna società della comunicazione. Una conoscenza che, nei suoi tratti essenziali, mi sembra insieme espressione e causa del «non pensiero dei luoghi comuni», dell’«ideologia che resiste alla prova di realtà», insomma della bêtise di cui ha parlato lungamente, e da par suo, Gustave Flaubert (cfr. Rella 2006, p. XIV).
All’interno di un mondo che produce finzioni a getto continuo (e oltretutto finzioni capziosamente falsificanti) il compito dello scrittore appena avvertito non potrà quindi essere – lo ha ben visto Javier Cercas – costruire un’ulteriore finzione, se pure più raffinata e consapevole, bensì «conosce- re scrupolosamente quale sia la realtà e umilmente raccontarla» (Cercas 2010, pp. 21-22).
L’affermazione di Cercas sembrerebbe portare ad una completa identificazione tra narrazione storiografica (se non giornalistica) e narrazione romanzesca, a tutto svantaggio della seconda. Hanno dunque ragione i sostenitori della irredimibile inutilità del romanzo nella contemporaneità? Non credo. Innanzitutto, la narrazione romanzesca non è ancilla historiae, bensì sua rivale. Ripensando la storia da una prospettiva diversa, prettamente romanzesca – come ha scritto John M. Coetzee, secondo i suoi «paradigmi e miti» – il romanzo «demitizza la storia» mostrando come essa non sia la realtà, ma solo uno dei discorsi possibili su di essa. Anche quando parte da fatti oggettivi (cioè verificabili) la narrazione romanzesca è quindi sempre antagonista, poiché fornisce un’interpretazione non solo più complessa, ma essenzialmente diversa da quella vulgata o capziosamente messa in circolo dal potere. Inoltre: la verità cercata dal romanzo non è (non può essere) una verità semplicemente fattuale; scopo della narrazione romanzesca è, infatti, svelare le connessioni nascoste tra i fatti e un universale umano. Centro del discorso romanzesco è sempre l’uomo, e il suo problematico, misterioso rapporto con gli altri uomini e con i «fatti», siano essi interni (la coscienza), o esterni (la Storia, il mondo).
Un certo tipo di romanzo contemporaneo, quindi, non rinuncia a nulla: «non rinuncia del tutto ad essere letto come un libro di storia» (risponde alla realtà), ma cerca nel medesimo momento di recuperare il «potenziale simbolico» degli eventi per renderli «il più possibile intelleggibili» su più livelli (risponde anche a se stesso) (cfr. Cercas 2010, p. 23 e passim).
Ho cercato di dare allo studio una struttura aperta, nella quale ogni capitolo può essere letto a sé ma trova la sua compiutezza se integrato con gli altri. L’ideale è quello del mosaico, o della sinfonia, in cui i temi si richiamano vicendevolmente nei diversi movimenti, dove appaiono, di volta in volta, variati e a gradi diversi di sviluppo.
Nonostante la vastità, e complessità, del problema, ho cercato di limitare la mole dei testi citati e analizzati, procedendo per visioni d’insieme più che soffermarmi su minuzie e continui distinguo che sarebbero stati, mi pare, pesanti per il lettore e soprattutto inutili per il progetto generale. Quello, cioè, di iniziare uno studio – tutt’altro che esaurito – dell’evoluzione e della funzione della forma-romanzo nella contemporaneità. Mi sono concentrato in particolare sul romanzo italiano degli ultimi vent’anni, senza però limitare le sortite né a periodi precedenti né a testi di tradizioni diverse – il nonfiction novel americano, il romanzo francese, la letteratura post-coloniale di V.S. Naipaul – quando questo mi è sembrato necessario, o per indicare un rapporto intertestuale, o perché l’opera in questione meglio esemplificava un concetto più generale e condiviso.
A partire da un’analisi dell’esistente, e delle diverse possibilità aperte al genere, mi sono proposto di ragionare sul perché la forma del romanzo ibrido mi sembri oggi quella più auspicabile. La scelta dei testi qui proposti è quindi conseguente alla loro rappresentatività così come al mio gusto (alla mia idea di romanzo): sono i testi che meglio descrivono il fenomeno del «ritorno alla realtà» anche perché, a mio parere fra i più compiuti (fra i più «belli», se si vuole).
Molti dei commenti critici sulla letteratura italiana contemporanea (e non solo) appaiono oggi prima in rivista o su quotidiano e poi su blog e riviste letterarie online quali «minimaetmoralia», «le parole e le cose» e «nazione indiana». Ove possibile ho preferito rimandare alla pagina internet invece che all’originale edizione cartacea, spesso di difficile reperibilità.
Bibliografia
Berardinelli, Alfonso. Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana. Venezia, Marsilio, 2011.
Casadei, Alberto. Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo. Bologna, Il Mulino, 2007.
Cercas, Javier. Anatomia di un istante. Trad. Pino Cacucci. 2009. Parma, Guanda, 2010.
Cortellessa, Andrea, Archibugi, Luca. Senza scrittori. RaiCinema, 2010.
Cerami, Vincenzo. Fattacci. Torino, Einaudi, 2007.
Ficara, Giorgio. La verità, vi prego, sul romanzo. “Il Sole 24 Ore”, 9 maggio 2011.
Franchini, Antonio. L’abusivo. Padova, Marsilio, 2001.
La Porta, Filippo. Meno letteratura per favore!. Torino, Bollati Boringhieri, 2010.
Onofri, Massimo. La ragione in contumacia. La critica militante ai tempi del fondamentalismo. Roma, Donzelli, 2007.
Rella, Franco.”Introduzione.” Flaubert, Gustave. L’opera e il suo doppio. Dalle lettere. Ed. Franco Rella. Roma, Fazi, 2006.
Saviano, Roberto. Gomorra: viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra. Milano, Mondadori, 2006.
Shields, David. Reality Hunger. A Manifesto. New York, Knopf, 2010.
Siegel, Lee. “Where Have All the Mailers Gone?” New York Observer. 2010. www.observer.com/2010/culture/where-have-all-mailers-gone.
Veronesi, Sandro. Occhio per occhio. La pena di morte in quattro storie. Milano, Bompiani, 1992.
[Immagine: Foto di Arthur Meyerson (gm)].
Da un punto di vista formale, tali narrazioni mirano a rivitalizzare la forma del novel classico attraverso una sua ibridazione con altre forme di prosa quali l’articolo giornalistico, il diario, o il saggio.
Non mi sembra una cosa tanto nuova nella storia del romanzo: un ipotetico “romanzo puro” non esiste (e sull’esistenza di un romanzo italiano importante ha riflettuto proprio Casadei in un suo intervento in “Negli archivi e per le strade”). La novità potrebbe stare piuttosto nel contrario: comporre un articolo o un saggio dando ad esso un andamento narrativo, una forma “personale” e drammatizzata. Alcune forme di saggistica che Palumbo Mosca propone in questa pagina vanno in tale direzione: Veronesi, Saviano, o anche Pascale, Arminio, Trevi (che non scrivono romanzi, Trevi è quasi uno scrittore di anti-romanzi), o Wallace se usciamo dai patrii confini. Risiede qui secondo me il vero elemento di novità delle forme rispetto al passato, non nell’usare la forma-romanzo, con cui si è sempre fatto di tutto, per fare di tutto, anche esperimenti ultra-manieristici e mimetici di altre scritture fra cui quella autobiografica (parlo dell’autofiction, ma non solo).
A parte questo, leggerò senz’altro il saggio, ho letto scritti dell’autore in altre occasioni ed avevano spunti interessanti. Grazie della segnalazione!
Ringrazio Claudio Giunta per avere pubblicato la premessa di un libro che mi sembra molto interessante.
Già in questa premessa si mettono a fuoco molte questioni decisive. Ho solo un dubbio; avrei quindi un commento e una domanda per @ Raffaello Palumbo Mosca. Partirei da qui:
“si tratta di capire come (e se) la forma-romanzo possa ancora essere lo strumento privilegiato per la conoscenza della realtà, e un elemento fondamentale per la formazione etica individuale.”
Per me la risposta è “no” in entrambi i casi. Per motivi che sarebbe lungo spiegare, mi sembra molto importante abbandonare l’idea che leggere romanzi (o quello che oggi si chiama “letteratura”) dia accesso a dei privilegi conoscitivi o etici – evitando poi di assumere il tono luttuoso della perdita. Imposterei la questione in forma neutra – come farebbe un antropologo – : mi chiederei quali funzioni cognitive, etiche, emotive, sociali, ecc., possa avere oggi questa forma di intrattenimento – come scrive Sassoon, ci sono tanti modi di passare il tempo e la lettura di romanzi è solo un modo fra i tanti.
Vorrei chiederei a @ Raffaello Palumbo Mosca se può dire qualcosa di più su questo – senza anticipare magari troppo il suo libro, che leggerò molto volentieri.
grazie davvero della lettura Lorenzo Marchese e Alessio Baldini.
@Lorenzo: è vero che il “romanzo puro” non esiste e non è mai esistito; l’ipotesi del “romanzo ibrido” è esattamente quella di rilevare come l’elemento spurio che è in ogni romanzo, e a maggior ragione nel romanzo italiano (basti pensare ai Promessi Sposi e, ancor più, alla Colonna) sia uno degli elementi fondanti di alcuni fra i romanzi contemporanei che a me sembrano più interessanti. Non una novità né una rivoluzione, quindi, ma certo una ripresa e variazione di una possibilità sempre aperta alla scrittura romanzesca. Il tentativo è anche quello di rileggere il “ritorno al reale” della narrativa italiana da più parti rilevato non – o non solo – in termini di realismo ma, appunto, in termini di contaminazione, di ibridismo.
Poi, i saggi narrativi: anche qui sono perfettamente d’accordo, e infatti non solo nel libro si parla ad es. di saggi narrativi e “spuri” come “Italia 2”, ma anche di critica letteraria a forte componente narrativa (ad es. “Storie avventurose di libri necessari” di Scarpa, “Il principe Fulvo” di Nigro, “Riviera” di Ficara, la critica militante di Onofri, etc.) tentando di stabilire il legame tra queste prove e il saggismo del passato più o meno recente, ad es., di Macchia, di Garboli, Borgese…
@Alessio Baldini Sono d’accordo sulla necessità di evitare il tono luttuoso della perdita (e per questo, nel corso del libro, e nonostante un approccio che probabilmente è affine, cerco di evitare al massimo la prospettiva della pur ottima Nussbaum). Eppure, credo anche che un tono completamente neutro non avrebbe giovato al libro, che rimane un libro “militante”. La premessa è certamente emotivamente “carica” (per mera scelta retorica). Nel capitolo dedicato all’etica la domanda è formulata in termini credo più precisi, ovvero così: non si tratta di capire se il romanzo sia espressione di valori etici universali (e difficilmente definibili), bensì capire se esso possa essere uno degli agenti scatenanti il «tipo di riflessioni che le persone devono sviluppare quando si interrogano su ciò che è bene o doveroso fare» (Lecaldano 2010, 7). Ovvero, e molto in breve (ma rimango ovviamente assai disponibile per ulteriori chiarimenti) NON credo che il romanzo sia lo strumento per la comprensione della realtà, né sia sufficiente per la formazione etica individuale. Però: mi sembra che possa – e debba – essere uno degli strumenti a nostra disposizione per la comprensione della realtà e uno degli strumenti necessari (come, ma in modo diverso, l’arte, la cinematografia, e molto altro) per la formazione etica individuale. Necessario, non sufficiente.
Grazie della replica. Se si ragiona in termini di ibridismo e non di realismo, un termine pure interessante, anche solo per i fraintendimenti e le reinterpretazioni ideologiche di un concetto così “superlativo” e approssimativo, il discorso mi è parecchio interessante. Sulla critica letteraria a forte componente narrativa occorrerebbe una lunga riflessione, che la distingua dalla per molti versi simile storia della letteratura, da certi suoi esiti molto simili nel ripercorrere la vita, o alcuni segmenti, di scrittori o vicende intellettuali. Mi viene in mente anche Belpoliti, a riguardo, e il suo “Settanta”. Comunque, senz’altro leggerò il libro.
Solo una curiosità: non ho capito se lei ritiene la “Colonna infame” un romanzo, apparentabile perciò ai “Promessi sposi”.
@Lorenzo Marchese
La questione della Colonna è interessante, mi pare, proprio per il suo carattere ibrido e spurio. Nel progetto ‘originario’ doveva esser parte integrante del romanzo e venne poi espunta per diventare saggio storico. Dico espunta ma in realtà non del tutto, tanto che Manzoni volle poi porla immediatamente a seguito del romanzo: a suo completamento e, in un certo senso, a rettifica del – solo apparente, secondo me – “lieto fine” dello stesso. La Colonna non è quindi romanzo, ma è ad esso strettamente legato e per questo, mi sembra, ad esso apparentabile.
Per quanto riguarda invece il progetto generale del libro, sì, l’idea sarebbe esattamente quella di rileggere alcuni testi di questi anni molto più alla luce dell’ibridazione (iuxta Bachtin, il romanzo come genere che ‘cannibalizza’ tutti gli altri per essere pienamente se stesso) e meno, molto meno, in termini di realismo. Il problema, mi sembra, è la realtà piuttosto che la tecnica degli “effetti di reale” (argomento nondimeno interessante e che ovviamente viene trattato, ma che mi sembra comunque marginale rispetto al primo). Mi permetto di segnalarle – spero davvero non con un eccesso di protagonismo – un breve personal essay (almeno nelle intenzioni) che ho pubblicato nel numero scorso di “Nuovi Argomenti” sullo stesso tema. Lo trova anche, se vuole, sul mio blog: http://letteraturaevita.wordpress.com/2014/01/03/la-verita-vi-prego-sul-realismo/
Mi scuso se la mia prosa è questa sera un po’ faticosa (è stata una lunga giornata), ancora grazie per la lettura e, soprattutto, per il dialogo, che spero di poter continuare.
Un caro saluto,
Raffaello
Si figuri! (come diceva un altro personaggio dei “Promessi sposi”)
Anche a me la questione degli “effetti di reale” sembra marginale rispetto alla realtà, o come diceva Auerbach, la “realtà rappresentata”. E quando si parla di “effetti di realtà” bisognerebbe sempre circoscrivere il termine barthesiano, un po’ usurato per quanto è stato tirato in lungo e in largo, ma che per il suo autore indicava qualcosa di preciso e circostanziato.
Concordo con la notazione sulla “Colonna”: non è un romanzo, ed è legato strettamente a esso, alla tensione di scrittura che accompagnò Manzoni per tutta la vita, nel fare una rappresentazione romanzesca della storia. Tema spinosissimo: se le interessa, credo ne abbia parlato Paolo D’Angelo in un libro recente che si chiama “Le nevrosi di Manzoni”.
Grazie per la segnalazione del suo pezzo. L’avevo letto su Nuovi argomenti. Mi piace soprattutto quello che dice su Piperno: non è un autore per cui stravedo, ma porta avanti un progetto degno di rispetto, con una fiducia nella forza (e nella forma) del romanzo/novel di marca anglofona che, per l’Italia, è quasi eccezionale, benché come detto i risultati non mi facciano gridare al miracolo (meglio Il fuoco amico dei ricordi, però; e anche i saggi). Dalla somma dei suoi difetti esce una certa efficacia.
Ricambio il favore, visto che quel suo pezzo parlava anche di Siti, con una recensione che può trovare qui alla voce “Saggistica letteraria”, e che, avessi dovuto darle un titolo, chiamerei così: Il realismo è trasgressione.
http://www.lindiceonline.com/index.php/l-indice/maggio-2013
Cordiali saluti
Sì, anche io di Piperno ho apprezzato più “Il fuoco amico dei ricordi” e ho trovato i saggi di “Pubblici infortuni” (che ho recensito per una rivista torinese, “Fuori Asse” disponibile gratuitamente sul web) la sua cosa migliore. Ho letto D’Angelo qui su LPLC prima di comprare il saggio che poi non ho ancora avuto – ahimè – il tempo di leggere per intero (uno dei tanti, forse troppi, libri in attesa sulla scrivania).
Leggerò però subito con molto interesse il suo pezzo sull’Indice.
Grazie, e a presto!
@ Raffaello Palumbo Mosca. La ringrazio molto per la sua risposta, che è lucida e onesta. Rifletterò su quanto dice, anche grazie alla lettura del suo libro.