Legnano Ghirri

di Franco Buffoni

[È uscito in questi giorni il nuovo romanzo di Franco Buffoni, La casa di via Palestro (Marcos y Marcos). Ne presentiamo alcune pagine. Un altro estratto si può leggere qui]

 II. 1

(…)
Ma torniamo al civico 1 di via Volta dove abitava anche mia madre, nata nel 1923, quindi ventunenne quando la famiglia Servi, che viveva nell’appartamento accanto, sparì improvvisamente quel 12 maggio del 1944.
Il signor Servi era un modesto commerciante con grandi ambizioni di studio e di futuro per i suoi figli. La maggiore, Apulia, si era diplomata maestra all’Istituto magistrale statale di Varese nel 1937, mentre per i due ragazzi Italo e Manuel sognava la laurea in ingegneria.
Italo era anche una sorta d’innocente (come si usava allora) fidanzato di mia madre. Suonava bene il pianoforte e mia madre cantava: è documentata, con tanto di sbiadita fotografia, una loro esibizione alla Casa del Balilla di Gallarate (nei cui sotterranei era allora ospitata la palestra di pugilato) in occasione della festa di carnevale del 1939: Giuggiole e marameo il titolo della performance, per burlarsi di Shakespeare e della perfida Albione.

Sarebbe ingenuo domandarsi: ma non c’erano le leggi razziali? Perché tali leggi non vennero applicate subito e ovunque. E la popolazione in genere ci fece poco caso: praticamente non ci credette. La fascistissima signora Servi, per esempio, continuò a recarsi due volte alla settimana insieme a mia nonna e alle due ragazze (Apulia e mia madre) alla sede dell’Onmi (l’Opera nazionale maternità e infanzia, istituita da Mussolini) a prestare la propria opera di assistenza volontaria fino al 1942.
E’ il caso di ricordare che la grande maggioranza degli ebrei italiani era di estrazione piccolo-borghese e, come la grande maggioranza degli italiani di classe media e medio-bassa, appoggiò il fascismo? E continuò a sostenerlo persino dopo il 1938. Era come se non credessero alla realtà intrinseca del regime. Perché in quelle signore e in quei signori ebrei allignava lo stesso male che era nella maggior parte degli italiani. Che era nel preside Cardosi.

II, 2
Perché il male appaia nella sua sconvolgente banalità, è sufficiente leggere questa lettera del 1938 di Mussolini alla sorella Edvige, che aveva protestato con lui per il varo delle leggi razziali: “Che in Italia si faccia del razzismo e dell’antisemitismo è una cosa tanto importante nella sua apparenza politica quanto priva di peso nella sua sostanza reale. La purità della razza in questo popolo sul quale sono passate tante invasioni e che ha assorbito tante genti dai quattro punti cardinali, e il pericolo semita in una Nazione come la nostra dove persino l’alta finanza, e perfino se manovrata dagli ebrei, non può non diventare qualcosa di cattolico (io, tra parentesi, so che tu e altre persone della tua famiglia aiutate gli ebrei, e non me ne dispiace, e penso che così potete constatare l’assoluta labilità delle nostre leggi razziali) sono evidentemente fandonie da lasciar scrivere a certi zelatori. Ma se le circostanze mi avessero portato a un Asse Roma-Mosca anziché a un Asse Roma-Berlino, avrei forse ammannito ai lavoratori italiani l’equivalente fandonia dell’etica stakanovista e della felicità in essa racchiusa”.
Con le sorelle si vuole fare bella figura, e dunque si dice la verità. Anche a costo di apparire cinici e opportunisti. Ma la colpa è della “politica”.

II, 3
Che cosa salvò i Servi quel 12 maggio del 1944, se non il fatto d’essere ebrei puri, impossibilitati a contare su alcuna circolare della Repubblica Sociale?
Come raccontò Apulia a mia madre l’anno successivo, quando riapparvero, la sera prima il padre aveva impartito ordini precisi: una sola piccola borsa per ciascuno con l’indispensabile. Abbandono della casa la mattina alle cinque e un quarto, ma non insieme, uno per volta: prima la madre, poi i due ragazzi, poi Apulia, infine lui, che li avrebbe seguiti a distanza lungo il tragitto verso la stazione di Gallarate. Sarebbero saliti sul primo treno per Milano alle 5.35, ma in carrozze separate. E altrettanto avrebbero fatto a Milano sul treno per Lodi. I biglietti sarebbero sempre stati acquistati da ciascuno di loro singolarmente e separatamente.
Erano attesi in una casa colonica nella campagna verso Crema, dove era rimasta da sola una fidata amica “ariana” (conosciuta all’Omni) della signora Servi: avrebbero lavorato in campagna e si sarebbero mimetizzati da cattolici andando a messa la domenica. Tranne i due ragazzi, ovviamente. Che in giro non dovevano farsi vedere proprio, coi reclutatori di Salò sempre in agguato.
Se ci fosse stato un controllo, i Servi sarebbero stati i cugini che in un bombardamento avevano perso tutto, anche i documenti.
La cosa più terribile: “Se uno di noi, per strada o in treno, viene fermato, gli altri devono proseguire come se non lo conoscessero”.

II, 4
Mia madre non capiva molto di ciò che le accadeva attorno: non sapeva nulla di deportazioni e campi di sterminio. Giovane italiana educata dal cattolicesimo nel fascismo e dal fascismo nel cattolicesimo, per lei la fuga dei Servi era stata poco più di una bizzarria. E con Italo era arrabbiata perché non le aveva detto niente prima e non le aveva inviato neanche una cartolina.
Come tornò, lo accolse cantando “Una bambola rosa” e invitandolo ad accompagnarla al pianoforte.
Il leale giovanotto rinnovò anche l’offerta di matrimonio, inscindibilmente legandola però alla richiesta di lasciare subito l’Italia per emigrare insieme negli Stati Uniti.
Italo era anche molto cambiato: era diventato più duro e determinato, orgoglioso della religione dei Padri. Si presentò a mio nonno indossando la kippah (“quel ridicolo cappellino”, nel lessico materno), affermando che sarebbe diventato ingegnere e rabbino, e che avrebbe generato molti figli.
Mio nonno lo ringraziò, ma non prese nemmeno in considerazione l’offerta perché aveva capito che sua figlia comunque non l’avrebbe accettata.
Così Italo in giugno se ne partì da Genova con il fratello, destinazione New York. Dove per qualche mese lavò piatti mentre perfezionava la lingua, ma poi riuscì a vincere una borsa di studio, divenne ingegnere, rabbino e padre di molti figli.
Inviò a mia madre due cartoline, la prima il giorno della laurea, l’altra alla nascita del primo figlio.
E questo fu il primo dei miei mancati padri.

II, 5
Apulia invece restò a Gallarate, non si sposò, e nel 1948 fu lei ad annunciare a suo fratello Italo la mia nascita. Divenne poi la maestra di prima elementare di mia sorella Elena. “Sono così felice d’essere la maestra della tua bambina”, disse Apulia a mia madre, con lo sguardo velato delle grandi occasioni.
La vera innamorata di mia madre, nella famiglia Servi, era sempre stata Apulia. Innamorata e destinata all’infelicità. Perché mia madre era stata programmata per non accorgersene e per considerare l’amicizia con quella ragazza maggiore di lei per età, e tanto più matura culturalmente e umanamente, come un sentimento dovuto e ovvio.
Mio padre – istintivamente geloso, e molto più rigidamente cattolico di sua moglie – felice di quella insegnante ebrea per sua figlia non lo era per nulla. Trovò persino il modo di criticare il dettato dedicato al Natale, che a suo dire parlava unicamente di regali, e il relativo disegno sull’album, incentrato solo sull’albero e le decorazioni.
Anche la direzione della scuola dovette intervenire, stabilendo che un’altra maestra, di classe parallela, passasse nella loro un pomeriggio a settimana a insegnare religione (in realtà la religione cattolica, ma si diceva e si scriveva sulle pagelle “Religione” come se fosse l’unica). Apulia intanto transitava nell’altra classe a insegnare ginnastica.
Mio padre comunque pretese per l’anno successivo che a sua figlia fosse cambiata la sezione. E mia madre, imbarazzatissima, dovette dirlo all’amica. Per tutta risposta, Apulia l’abbracciò con una forza che mia madre non le conosceva, e il giorno dopo chiese il trasferimento. Non si videro più.

II, 6
Il 12 agosto del 1944 – tre mesi dopo la sparizione dei Servi e l’arresto di Clara Pirani – era un sabato. E verso le otto mia madre – insieme a sua sorella e a un’amica – in bicicletta da Gallarate, scese a Borgo Ticino, in Piemonte, sull’altra sponda del fiume (che occorreva attraversare col barcaiolo perché il ponte era già stato distrutto) per assistere al matrimonio di una cugina.
Nel pomeriggio, alla festa nuziale seguirono canti e danze, e le tre ragazze di Gallarate – le “cittadine” – furono molto corteggiate e ballarono con alcuni ragazzi del luogo. In particolare, mia madre ballò e si intrattenne con un ventiduenne, Cesare Cerutti, che era anche un suo lontano cugino, perché la nonna di mia madre era una Cerutti di Borgo Ticino. Non lo vedeva da quando erano bambini e la sorpresa dovette essere per entrambi molto gradevole… Baci e abbracci al tramonto e poi in tutta fretta al guado perché le ragazze dovevano assolutamente rientrare a Gallarate prima che facesse buio. La promessa di rivedersi prestissimo.

Mia madre – a distanza di più di mezzo secolo – ancora parlava di lui con trasporto. Trasporto che credo di poter condividere, visto che la foto di questo mio secondo mancato padre è facilmente reperibile in rete. Cesare Cerutti fu assassinato il giorno dopo, domenica 13 agosto 1944, ed è uno dei Martiri di Borgo Ticino.
Accadde che, partite le ragazze e conclusasi la festa, all’alba del giorno dopo, un convoglio tedesco fu attaccato da una formazione partigiana al San Michele, una località al confine tra Borgo Ticino e Varallo Pombia. Ci fu solo uno scambio di colpi di mitragliatore tra i nazisti e i “ribelli”, come la Repubblica Sociale definiva i Partigiani. Non vi furono morti, ma quattro soldati tedeschi rimasero feriti, uno gravemente.
Non passarono che poche ore e a Borgo Ticino giunsero quattro autocarri carichi di SS e di militari della X Mas. Che entrarono nella case sfondando le porte e costrinsero tutti, anche i malati e i bambini, a radunarsi in piazza.
Il capitano tedesco Krumhar – che comandava l’azione di rappresaglia insieme al tenente Ungarelli della X Mas – dapprima ingiunse alla popolazione di pagare una taglia di trecentomila lire. La somma venne subito raccolta, il tedesco la incassò, ma poi subito dichiarò che il denaro non bastava a “lavare il sangue tedesco”. E con una personale interpretazione della regola che imponeva dieci vittime per ogni tedesco ucciso, decise che per ogni soldato tedesco ferito tre giovani italiani dovessero morire, più uno, perché tra i feriti uno era grave.

Le vittime furono scelte a caso tra la folla tenuta in ostaggio in piazza, senza operare alcun controllo d’identità. Tanto che Ungarelli faticò non poco a sottrarre due camicie nere in borghese dal gruppo dei condannati all’improvvisata fucilazione. I due furono sostituiti e la scelta cadde anche sul Cerutti. Dei tredici giovani addossati contro il muro della farmacia, uno – Mario Piola – riuscì a salvarsi fingendosi già morto al momento del colpo di grazia.
Tedeschi e fascisti quindi si ritirarono minando e facendo saltare le case più belle del paese, e incendiandone altre, dopo avere – soprattutto i fascisti – percosso e rapinato il resto della popolazione terrorizzata.

II, 7
La notizia dell’eccidio giunse a Gallarate due giorni dopo, e mia madre cadde nella disperazione: Italo era sparito, Cesare glielo avevano subito ammazzato. Trovò conforto in Dante Pastorelli, uno studente di medicina che poi esercitò per decenni a Gallarate come oculista. Dante era carino, simpatico e gentile, molto gentile, se le sfiorava la mano chiedeva scusa o per favore. Non c’erano le parole, allora, per definire che cosa fosse Dante. O almeno mia madre non le conosceva. E quelle brutte che la lingua volgare possedeva per definire gli uomini come Dante, una giovane maestra educata dalle canossiane certo non le poteva usare.
Sua madre invece era ancora in grado di ricorrere alle metafore geniali di una lingua solo parlata, invisa al fascismo. Dante per lei era “un lendenon spiritüàl”: i lenden essendo i pidocchi, le zecche, qualcosa che si annida e non molla la presa. Spirituale, tuttavia…

Ricordo un incontro casuale con Dante – doveva essere il 1980, subito dopo la morte di mio padre – nel cimitero di Gallarate, dove appunto avevo accompagnato mia madre. Cominciarono a parlare in confidenza, proprio da vecchi amici, entrambi scuotendo sovente il capo lungo il vialetto centrale che si diparte dalla cappella Ponti.
Io li seguivo a pochi passi: erano proprio una coppia, mia madre per un attimo si appoggiò anche al suo braccio. All’uscita Dante mi fissò a lungo, stringendomi la mano; quindi sussurrò qualcosa all’orecchio di mia madre, mentre io ero già al volante e lei stava per infilarsi in macchina.
La neo-vedova poi sorrideva: “Sai cosa mi ha detto? Che bel figlio che c’hai, ti assomiglia tantissimo”. E questo fu il mio terzo mancato padre.

II. 8
Per fortuna che a mia madre l’Alberti proprio non piaceva. Lo trovava “untuoso”.
L’Alberti era la risposta vivente a una domanda: che cosa deve fare il figlio di un fedele custode morto di morte naturale nel gennaio del 45, se i padroni ebrei, deportati in Germania nel maggio del 44, nel giugno del 45 non ritornano? Aspetta luglio, poi agosto, ma a settembre comincia a vendere un po’ di quei tessuti e di quelle sete tanto scrupolosamente custoditi da suo padre nel grande magazzino. Che altrimenti potrebbero deteriorarsi, sbiadire nel colore.
Il negozio e la casa erano andati completamente distrutti nel corso dei bombardamenti alleati. Ma il magazzino no, quello era rimasto miracolosamente intatto. Una bella fortuna per il Giuseppe Alberti. Però bisognava fare in fretta, prima che a qualcuno venisse in mente di confiscargli il magazzino con tutta la merce dentro.

Al magazzino come edificio, certamente, prima o poi, quelli del comune avrebbero pensato: apparteneva ai padroni ebrei, svaniti così nel nulla, ed era accatastato. Ma la merce dentro, quella no, quella si poteva commercializzare, anzi si doveva, con la penuria che c’era in giro e la grande richiesta e i prezzi ormai alle stelle.
Così, nell’arco di poche settimane, Giuseppe Alberti – con la sua licenza di quinta elementare ma un amore smisurato per il teatro di Shakespeare – compiendo sforzi sovrumani, svuotò il magazzino ricolmo, vendendo una parte dei tessuti per affittare due o tre altri piccoli magazzini nei paesi vicini, dove trasferì il resto della merce. Acquistò a rate da mio nonno un furgoncino scassato scampato alle confische, e conobbe mia madre che teneva l’amministrazione della ferramenta di famiglia. Acquistò anche la licenza per un suo banco al mercato e tornò più volte a trovare mia madre. Che però non poteva sopportarlo: più lui si faceva avanti, raccontandole le trame delle opere di Shakespeare, più lei lo respingeva. Finché l’Alberti gettò la spugna, finì di pagare le sue rate e si rivolse altrove.

Nei suoi foglietti di appunti il disinvolto giovane aveva perfino ribattezzato Shylock il magazzino “ereditato” in corso di svuotamento; e Antonio, Bassanio e Porzia i tre piccoli depositi presi in affitto nei dintorni, ma in direzioni diverse per non dare troppo nell’occhio: uno a Sud verso Verghera, uno a Nord verso Cavaria e uno a Est verso Cassano Magnago. Poi una notte – guarda caso – un incendio distrusse Shylock ormai completamente svuotato… E Giuseppe Alberti sporse regolare denuncia, lamentando anche la distruzione della merce. Così se qualcuno fosse tornato a reclamare qualcosa… Ma non tornò nessuno.
Alberti sposò una ragazza figlia di ambulanti, ambiziosa e determinata, che lo aiutò non poco nel primo giro dei mercati; insieme misero su un commercio all’ingrosso di tessuti di proporzioni gigantesche e in breve divennero molto ricchi.
Guardato un po’ dall’alto dalle famiglie gallaratesi di più antica ricchezza – che ben conoscevano le origini della sua e stentavano ad accoglierlo in via Mercanti – l’Alberti emigrò a Busto Arsizio in una magnifica villa con giardino dove crebbero i suoi tre figli: Antonio, Bassanio e Porzia.
Fu il mio quarto mancato padre, ma non ho rimpianti.

[Immagine: Luigi Ghirri, Legnano, Museo Fioroni, 1989 (gm)].

 

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