cropped-berlinguerfoto3.jpgdi Rino Genovese

[È uscito nelle sale il documentario di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer. Questo intervento è apparso sul sito della rivista «Il Ponte»].

Enrico Berlinguer è morto trent’anni fa in circostanze drammatiche, come un attore sulla scena. E Walter Veltroni non gli rende certo un favore dedicandogli un film che più brutto non si può: un’insensata agiografia priva sia di stile sia di contenuti. Si pensi che l’unica “rivelazione” offerta dal film, in cui a un certo punto sono inquadrate le pagelle del futuro segretario del Pci, è che il piccolo Enrico, nato nel 1922, andava male a scuola: non si sa se per semplice asineria o per spirito ribelle contro i metodi educativi fascisti. Ciò che manca completamente – e pour cause, si direbbe, essendo Veltroni uno degli affossatori della storia del comunismo in Italia – è il tentativo anche minimo di un bilancio critico circa la sua figura. Che non fu, al di là della onestà e della simpatia umana universalmente riconosciute, quella di un uomo politico innovativo, quanto piuttosto quella di un gestore alla fin fine immobile di un patrimonio ideale, quasi un “italo Amleto” incapace di prendere la decisione che avrebbe  potuto davvero mutare la storia italiana: mi riferisco a una rottura formale e ufficiale con il mondo sovietico, anche a costo di spaccare il partito e di perdere voti.

Il Pci berlingueriano rimase uno strano ibrido: socialdemocratico, se non addirittura liberaldemocratico, nella sostanziale pratica politica e di amministrazione (ricordo qui che, per uno come lo svedese Olof Palme, tanto per fare il nome di un socialista europeo contemporaneo di Berlinguer, il superamento del capitalismo mediante una strategia di riforme era un obiettivo del tutto plausibile), e però ispirato al principio leninista del centralismo democratico, legato al mito della rivoluzione d’ottobre (che solo da ultimo, e con molte cautele, parve al segretario del Pci avere perso la “spinta propulsiva”). Un singolarissimo “né carne né pesce” che finì con l’incrementare il gioco degli specchi deformanti tipico della politica italiana in cui nessuno è mai quello che è, consentendo al Psi di Craxi (un personaggio di cui Berlinguer aveva chiaramente compreso le potenzialità distruttive per il più antico partito italiano) di stringere un’alleanza strategica con la Dc nella prospettiva dell’anticomunismo; laddove sarebbe stato logico e conseguente per Berlinguer, se non altro nell’ultima fase della sua vita, dichiarare una rottura che avrebbe potuto aprire il sistema, senz’affatto rinnegare quegli “elementi di socialismo” che – peraltro non si sa bene come – pensava d’introdurre nella vita nazionale.

 Del resto è proprio il senso di un’ “alterità” comunista che, sotto lo choc del golpe cileno, negli anni settanta dettò la proposta del “compromesso storico”. È infatti un partito collocato in una posizione molto delicata o, per dirla sommariamente, che ha ragione di temere l’etichetta di agente dello straniero, a essere obbligato a difendersi dalla violenza reazionaria con l’unità nazionale. Un partito del socialismo europeo non nutre timori del genere, può sviluppare la sua linea – perfino una linea di progressivo superamento del capitalismo – come una delle opzioni disponibili all’interno del sistema politico. Ma il Pci era proprio quel partito che mai e poi mai sarebbe potuto andare al governo, nella situazione internazionale data, senza provocare una reazione (come finanche la morte di Moro, voluta dai poteri oscuri e dalla stessa Dc dimostra e contrario): sicché il “compromesso storico”, ridotto poi di fatto a un ingresso nella maggioranza di governo senza neanche disporre delle sue leve (come invece fu, sia pure in minima parte, per il Psi nel centrosinistra dei primi anni sessanta), fu soltanto l’arrendersi a un’impasse – determinata senza dubbio anche dal terrorismo, sia da quello di sinistra, indirettamente, sia da quello della “strategia della tensione” elaborata più o meno consapevolmente per stabilizzare la situazione al centro.

In conclusione un nulla di fatto, un gigantesco buco nell’acqua: è questo l’impietoso giudizio storico sull’operato di Berlinguer, che non seppe imprimere alla sinistra quella svolta di cui aveva bisogno nel segno dell’antisovietismo e di un rinnovato socialismo. Il fatto che egli possa oggi apparirci un “grande”, solo in virtù del suo severo moralismo, indica a che punto sia arrivata nel frattempo la politica italiana.

[Immagine: Enrico Berlinguer].

 

41 thoughts on “Riparlando di Berlinguer

  1. Caro Genovese,
    ma sarebbe bastato recidere ogni legame con il PCUS per far accettare il PCI come possibile partito di governo, mantenendo fermo l’obiettivo di combattere e superare – o almeno trasformare – il capitalismo, in un paese profondamente conservatore come l’Italia, in cui la modernità ha sempre stentato ad affermarsi, in una situazione politica nazionale e mondiale – quella degli anni settanta – in cui proprio quello stesso capitalismo stava iniziando la sua rivincita contro il lavoro? In fondo non è successo da nessuna parte, neppure in quei paesi di consolidata tradizione socialdemocratica che lei cita. Bisognava venire a patti con l’arretratezza del paese e con il contesto mondiale, come poi in effetti hanno fatto gli eredi (sulla carta) del PCI, sporcandosi l’anima per sempre, senza nessuna seria intenzione di cambiare, in modo sostanziale, alcunché. Anzi, adeguandosi. Anche sulla questione morale le parole di Berlinguer furono un vano parlare al vento (e lo sono ancora).
    Rimane senza risposta la domanda che si legge in filigrana nel suo articolo: come rinnovare il socialismo, proprio adesso che, apparentemente, le cose dovrebbero essere più semplici, senza la contrapposizione tra blocchi della guerra fredda? Come riproporlo come idea egemonica, tenendo sempre fermo il proposito di superare il capitalismo (e non solo di trasformarlo, che tanto poi si ritrasforma da sé, e in modi sempre più vantaggiosi a se stesso)?

  2. Anch’io, come Genovese ma per motivi del tutto diversi, non ritengo attuali né il pensiero né l’azione di Enrico Berlinguer. Proverò pertanto nelle annotazioni che seguono a spiegare le ragioni storiche, politiche e ideali per cui Berlinguer ha rappresentato la penultima tappa di quel processo di involuzione revisionista del Pci che è sfociato, da ultimo, nella sua regressiva metaformosi, attraverso il Pds, i Ds e il Pd, in un partito (non socialdemocratico ma) social-liberista.
    In primo luogo, occorre tenere presente che, dopo il grande ciclo di lotte operaie, popolari e studentesche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durissima fu la reazione delle classi dominanti: la trama reazionaria (il ‘filo nero’ che percorre tutta la storia dello Stato italiano) si sviluppò attraverso le stragi, gli attentati, i tentativi golpisti, la repressione e le intimidazioni. La sanguinosa ‘strategia della tensione e del terrore’ fu l’arma con cui le classi dominanti cercarono di intimorire e disorientare il proletariato e le masse studentesche per fermarne il movimento di lotta. Il gruppo dirigente del Pci, intimorito dalla reazione borghese e dal colpo di Stato militare in Cile, che aveva dimostrato il fallimento delle teorizzazioni riformiste sulla ‘via pacifica al socialismo’, elaborò, a questo punto, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del ‘compromesso storico’, cioè del patto di governo con la Dc (l’attuale Pd è una versione ‘bonsai’, in chiave social-liberista, di tale strategia). Da Berlinguer partì la proposta, rivolta alla Dc, della politica di ‘solidarietà nazionale’, che, nel nefasto triennio 1976-1979, si tradusse dapprima nella ‘non sfiducia’ al governo Andreotti e poi nella partecipazione diretta del Pci alla maggioranza governativa. La politica berlingueriana di ‘unità nazionale’ modificò profondamente i rapporti di forza tra le classi in Italia, indebolendo il proletariato e i movimenti antagonistici, rafforzando lo Stato e la Dc, e creando le premesse per la controffensiva reazionaria scatenata negli anni ’80 dal capitalismo contro il movimento operaio. Da questo punto di vista, la trasformazione del Pci in ‘partito operaio borghese’ (secondo la classica definizione di Engels e di Lenin) e il suo passaggio dal campo del socialismo a quello dell’imperialismo, laddove la Nato era individuata dallo stesso Berlinguer come “l’ombrello sotto cui mettersi al riparo”, prima della finale liquidazione del Pci ad opera di Occhetto e di Napolitano, non è stata semplicemente l’opera soggettiva di un gruppo dirigente revisionista. È bene sottolineare, a tale proposito, che questo gruppo era l’espressione di una precisa realtà sociale, rappresentata dal crescente predominio, all’interno di quel partito, dell’aristocrazia operaia, della burocrazia sindacale, della piccola borghesia e degli strati intellettuali legati a queste classi e frazioni di classe. “Oggi”, osservava Lenin già nel 1916, “il ‘partito operaio borghese’ è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti”.
    La progressiva trasformazione (e, infine, liquidazione) del Pci è stata, quindi, un importante fattore soggettivo e oggettivo della involuzione e della sconfitta del proletariato e dei suoi alleati (piccola borghesia progressista e ceti intellettuali di sinistra). Tali forze restarono prive di un punto di riferimento politico, culturale e strategico essenziale nella lotta rivoluzionaria diretta a trasformare in senso democratico e socialista gli assetti sociali esistenti. D’altra parte, i diversi tentativi che furono compiuti dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Avanguardia Operaia, i gruppi marxisti-leninisti ecc.) per costituire un punto di riferimento alternativo al Pci attraverso la fuoriuscita dall’università e la ricerca di un rapporto con i nuclei più combattivi del proletariato di fabbrica, stretti come furono fra l’emergere della strategia della lotta armata (Brigate Rosse, Prima Linea ecc.) e l’incombere della ‘strategia della tensione e del terrore’, non si rivelarono all’altezza del compito, che si pose con forza ed urgenza negli anni ’70, di realizzare quella ‘massa critica’ che avrebbe potuto dare ad un partito comunista di tipo nuovo una vasta base sociale e un peso significativo nello scontro di classe. Accadde così che quei tentativi si risolvessero in un ‘mixtum compositum’ di soggettivismo, volontarismo ed economicismo, e si rivelassero (non come il superamento ma) come l’espressione politica e ideologica dei limiti e delle contraddizioni interne di un movimento di massa che presumeva di risolvere il problema della propria autonomia e del proprio consolidamento elevando il livello dello scontro, senza peraltro riuscire a sanare la scissione tra obiettivi immediati (le lotte rivendicative per la democratizzazione della scuola e della società) e obiettivi strategici (la lotta per il comunismo). Il problema strategico che la crisi economica, sociale, politica e ideale, in quanto crisi generale che ha investito l’intero Occidente capitalistico, pone oggi al proletariato e ai suoi potenziali alleati (piccola borghesia e ceti intellettuali di sinistra) è ancora una volta il problema del partito. Nella congiuntura critica presente assume pertanto una grande attualità (non il recupero in chiave socialdemocratica della eredità revisionista rappresentata da Enrico Berlinguer ma) l’indicazione comunista e rivoluzionaria di Gramsci sul “moderno Principe” e sull’“intellettuale collettivo”: sull’unico strumento efficace e risolutivo che possano costruire e adoperare le classi sfruttate e oppresse per organizzarsi e unificarsi non solo nella lotta quotidiana contro il potere del capitale, ma anche nella battaglia strategica per dischiudere la via al socialismo e al comunismo.

  3. Rino Genovese, tralasciando i problemi e i limiti del PCI che ormai tutti conosciamo (da quelle amministrazioni appunto liberaldemocratiche alla politica culturale spesso ottusa sino al centralismo democratico -questo non necessariamente un male), trovo che il tuo giudizio su Berlinguer sia impietoso e in parte scorretto; quasi rabbioso.

    Berlinguer non mi pare possa essere ricordato solo, ne lo sia, per la questione morale. Io credo che la sua figura venga ricordata sia per quello sganciamento progressivo da Mosca (la nascita dell’eurocomunismo, promossa soprattutto dal PCI), sia per quell’avvicinamento alle masse, per quella capacità di rendersi finalmente umano e presente di fronte ai lavoratori da parte di un dirigente.

    Infine, e non voglio appoggiarmi a complottismi ne voglio salvare una scelta politica che di principio ritengo sbagliata, forse quel compromesso storico che è stato in fin dei conti il “capo d’accusa” con il quale si è siglata la condanna a morte di Moro meriterebbe una maggiore attenzione.

  4. Caro Rino,
    nel complesso sono del tutto d’accordo. Il PCI ha avuto fino all’ultimo questa doppia anima togliattiana: pratica politica pragmatica, fin troppo aperta al compromesso, e teoria rivoluzionaria o comunque volta a improbabili prospettive di rovesciamento del sistema. Questo ha lasciato strascichi pesanti nella sinistra italiana. Da un lato, l’impossibilità di una tradizione riformista seria, radicata nel socialismo europeo; aver perso il treno del socialismo al momento giusto ha impedito di realizzarne le riforme; quando poi (anni novanta) si è abbandonato il comunismo era già tardi per quelle riforme, il mondo era cambiato, la sinistra è stata fagocitata dalle spinte liberiste. Dall’altra, la tendenza al compromesso, all’eccesso di mediazione, è rimasta proprio nella componente ex-comunista del PD. E’ paradossale che Renzi abbia dato l’accelerata per portare il partito nel PSE: la cosa era già stata preparata da tempo, certo, ma ci si trascinava perché si cercava, come al solito, di mettere d’accordo tutti.

    Caro Alberto,
    forse negli anni settanta era già tardi, ma come si dice “meglio tardi che mai”; e soprattutto, negli anni novanta era davvero troppo tardi, per trovare degli strumenti riformisti di tipo socialdemocratico (spesa pubblica e redistribuzione dei redditi). Quegli strumenti già non c’erano più, il ritardo l’abbiamo pagato carissimo.
    Quanto agli altri fattori che citi: nel contesto internazionale la sinistra italiana si sarebbe mossa con più tranquillità, se avesse maturato presto e con decisione il suo distacco da Mosca; l’arretratezza del paese e il carattere reazionario delle sue classi dirigenti sono un problema profondo (come è stato a lungo in Spagna, per esempio), ma la sinistra ha sempre perso quando ha opposto a tutto questo prospettive rivoluzionarie disancorate dalla realtà. A Milano, ai funerali per Piazza Fontana, non c’era l’elettorato rivoluzionario di sinistra, c’erano lavoratori e classe media che si potevano anche considerare moderati. La sinistra può vincere contro l’arretratezza culturale delle classi dirigenti se porta a sé queste classi.
    Infine, sul socialismo oggi: io credo che si debba partire dal basso, e non dall’alto. Mi spiego: invece di partire dal fallimento della prospettiva rivoluzionaria, o anche dal fallimento del socialismo europeo, partire dalla democrazia, già esistente, per farla muovere verso una nuova idea di socialismo, una qualche idea di che cosa significa un controllo politico (cioè sociale) sul sistema economico. Ma è un discorso molto lungo.

  5. Grazie a tutti per gli interventi molto pertinenti.
    Risponderò in modo collettivo, partendo da Mauro Piras e dalla sua idea (che è anche la mia) di uno sviluppo della democrazia “già esistente” per allargarla e farla muovere verso un controllo sul sistema economico. Per esempio, vi siete mai chiesti perché la democrazia debba arrestarsi alle porte dei luoghi di lavoro? Perché non possa entrare nelle fabbriche e negli uffici? Perché là debbano comandare sempre i soliti? Per alcuni brevi momenti le cose non sono andate così. Un’idea di gestione o di cogestione dal basso – da parte sindacale, ma non solo, anche da parte di delegati in quanto diretta espressione della base – c’è stata in Italia nel dopoguerra, con Morandi ministro del lavoro: qualcosa che rapidamente si è perso ma che trova espressione nell’art. 46 della Costituzione: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Ecco un articolo da sempre negletto che, se fosse stato applicato, avrebbe potuto oggi arginare l’arroganza di un Marchionne! Un successivo momento “alto” di questa storia non-storia (nel senso che non decollò mai veramente) fu data dai consigli di fabbrica del 1969, il “movimento dei delegati”: una bella riforma costituzionale, o forse semplicemente un intervento di legislazione ordinaria che si fosse agganciato all’art. 46, avrebbe potuto istituzionalizzare la loro funzione… Ma tutto questo non piaceva granché al Pci, oltre che trovare, ovviamente, delle profonde resistenze conservatrici (Ferrero ha ragione a considerare il nostro paese pressoché incapace di modernità). E sapete perché non gli piaceva? Per due ragioni: la prima – parliamo qui del periodo immediatamente postbellico – perché l’idea di una gestione-cogestione delle aziende è un’idea socialdemocratica (revisionista, direbbe Barone) in quanto non prevede una rottura rivoluzionaria ma solo un allargamento della democrazia in senso riformista. La seconda ragione (che vale in particolare intorno al 1968-69) è che il Pci aveva una visione tutta statalista della riforma politica: in altri termini, gli andava bene solo ciò che poteva essere diretto dall’alto. Anche da qui venne l’ossessione di collocarsi al governo in un compromesso con la Dc (oltre che da considerazioni non secondarie di ordine internazionale e di tenuta del sistema democratico). Ma non è strano che il Pci berlingueriano abbia proposto il “compromesso storico” nel momento migliore del suo “trend” elettorale, nel cuore degli anni settanta, e invece l’ “alternativa democratica”, quindi non più un accordo con la Dc, nel momento in cui la sua influenza cominciava a declinare? Pensateci: l’alternativa è proposta quando si sa che è impossibile realizzarla, soltanto per agitare una bandiera, insieme con la “questione morale”… Se al contrario Berlinguer si fosse liberato della sua etichetta “comunista”, se avesse avuto quel coraggio che gli mancò, avrebbe non dico potuto cambiare le cose, ma almeno mettersi in posizione per poterle cambiare in una prospettiva di autentica “alternanza” – senza contare che, iscrivendo il suo partito nel socialismo europeo, dopo il fallimento dell’ “eurocomunismo”, lo avrebbe ancorato a un’identità certa, rendendo così meno facile il compito dei successivi distruttori…
    Naturalmente molto ci sarebbe ancora da dire sulla storia di quegli anni difficili da cui prende origine il buio italiano in cui ancora viviamo. Ma il mio giudizio su Berlinguer non lo definirei “rabbioso” (come ritiene Matteo): piuttosto è carico del rimpianto per una speranza che fu e troppo rapidamente svanì, anche perché l’Italia si trovò, nel mezzo di una trasformazione epocale, priva di un coerente riformismo socialista – il quale, è vero, sarebbe poi entrato in crisi per suo conto, ma che avrebbe potuto avere nell’eredità del Pci, se questa ci fosse stata, uno dei punti di riferimento per una possibile ripresa.

  6. Per un punto di vista diverso su Berlinguer e il P.C.I. suggerisco la lettura di questo saggio del filosofo Costanzo Preve, recentemente scomparso: “Da Antonio Gramsci a Piero Fassino. Note introduttive per farsi una ragione e capirci qualcosa in ciò che è successo nel comunismo italiano.”

    http://ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=1207

  7. Caro Genovese, è un piacere dialogare con Lei, che personifica l”ideal-tipo’, anch’esso sempre più raro, del socialdemocratico nutrito di cultura laburista e non ignaro dei suoi debiti con la tradizione austro-marxista. Naturalmente, se fossi un commissario del popolo non esiterei, qualora Lei ostacolasse l’azione della dittatura del proletariato, a privarla della sua borghese libertà di opinione… ma per ora questa eventualità è quanto mai remota ed io e Lei possiamo, giustappunto, dialogare su questo blog. Rispondo a Lei e agli altri intervenuti circa la questione del revisionismo, di cui la figura di Enrico Berlinguer è stata la rappresentazione più patetica e più crepuscolare. Se con la dizione di marxismo-leninismo si suole indicare un preciso campo teorico-pratico di natura dialettica e rivoluzionaria, che ha, per l’essenziale, i suoi fondamenti nel pensiero di Marx, di Engels e di Lenin e le sue applicazioni concrete nelle esperienze storiche di costruzione di forme statuali di potere proletario, con la correlativa dizione di revisionismo si designa invece un campo teorico-pratico di natura eclettica e gradualistica, che deriva dalla decostruzione del pensiero marx-engelsiano e leniniano, dal suo adattamento alle leggi della riproduzione economica, politica e ideologica della società borghese-capitalistica e dalla liquidazione delle esperienze storiche del proletariato nella lotta per il socialismo (Comune di Parigi del 1871, rivoluzione russa del 1917, ‘biennio rosso’ del 1919-1920, rivoluzione cinese e guerra partigiana contro il nazifascismo in alcuni paesi europei).
    Orbene, quali sono i tratti costitutivi e costanti del revisionismo? quale l’‘ideal-tipo’ in cui esso rientra? I tratti che concorrono a definirlo mi sembrano i seguenti: a) la tesi che il socialismo possa essere perseguito e raggiunto senza una rottura di carattere radicale con il vecchio Stato; b) la tesi che tra democrazia e socialismo vi sia una continuità istituzionale; c) la tesi che premessa necessaria al socialismo sia una nuova direzione egemonica, senza un potere proletario organizzato in un nuovo Stato; d) la tesi che lo Stato borghese possa mutare di segno qualora il proletariato (o il suo partito o una coalizione che comprenda il suo partito) acquisisca il comando delle leve di governo in una struttura istituzionale immutata; e) la tesi, definitivamente abbandonata da Marx ed Engels nel 1871, che la classe operaia possa “semplicemente prendere possesso della macchina dello Stato [borghese] bell’e pronta e volgerla ai propri fini”; f) la tesi, ripresa da Genovese sulla scorta dell’articolo 46 della Carta, dell’esperienza dei Consigli di gestione e della teorizzazione morandiana, che sia possibile introdurre, ancora una volta berlinguerianamente, forme di “democrazia economica” o “elementi di socialismo”, caratterizzati dall’autogestione o, più modestamente, dalla cogestione operaia, nella struttura di una società capitalistica.
    Questa schematica elencazione è sufficiente per comprendere che le teorie revisionistiche, oggi imperanti in tutta la sinistra (moderata, antagonista e alternativa), sono nel migliore dei casi, come è stato detto con espressione icastica, ‘teorie della rivoluzione senza rivoluzione’. In esse al concetto di ‘rottura’ che è implicito in una concezione del potere proletario viene sostituito il concetto di ‘processualità progressiva’, che delinea, per l’appunto, un processo nel corso del quale le classi lavoratrici o le forze genericamente progressive acquistano una sempre maggiore influenza nella cosiddetta ‘società civile’, conquistano sempre più vasti alleati, ma non pervengono mai, per dirla con il Gramsci dell’«Ordine Nuovo» (1919-’20), alla “creazione di un nuovo tipo di Stato… e sostituzione di esso allo Stato democratico-parlamentare”. La “teoria della rivoluzione senza rivoluzione” è, nella storia del movimento operaio, un ininterrotto filo giallo che va da Kautsky all’ultimo Togliatti e ai loro epigoni, fra cui rientra Enrico Berlinguer. Questo filo è da spezzare.

  8. Va ricordato che oltre alle “teorie della rivoluzione senza rivoluzione” (Barone) imputabili al defunto PCI esistono le “teorie delle riforme senza riforme”.
    Il PD e i critici “dall’interno” del PD, come Genovese e Piras, ne sono i portavoce assidui su questo blog.
    E c’è poi da dire che a fermare le riforme, di solito ventilate sono quando ci sono state forti spinte che miravano – diciamo pure confusamente – a ben altro, non sono stati i rivoluzionari (spesso emarginati o brutalmente liquidati in anticipo dai vari Noske e Togliatti e Berlinguer) ma i capitalisti, ben coadiuvati dai riformisti fermatisi volentieri sempre agli inizi della loro strada, evidenziando spesso il loro cuore di tenebra affascinato dalla rivoluzione dall’alto capitalista. Salutamm’e!

    P.s.
    Piras poi che scrive: « A Milano, ai funerali per Piazza Fontana, non c’era l’elettorato rivoluzionario di sinistra, c’erano lavoratori e classe media che si potevano anche considerare moderati», dovrebbe spiegare quando mai le rivoluzioni si fanno ai funerali e con le elezioni. ( O forse non ho capito cosa c’entrano quei funerali nel suo discorso…)

  9. Caro Ennio Abate,
    lei ha ragione, sono stato un po’ troppo ellittico, in quella frase. Cerco di dire meglio la cosa.
    Alberto Ferrero parlava del carattere reazionario della nostra classe dirigente. Nella storia recente, questo si è visto con la strategia della tensione e l’eversione condotta da una parte deviata dello stato. Ora, l’opposizione efficace a queste forze non può essere quella rivoluzionaria, o del rifiuto delle istituzioni democratiche, perché questo destabilizza senza costruire una base di consenso. La reazione corretta è quella di allargare la base di consenso democratico alle istituzioni, e appoggiarsi a essa contro le forme di eversione di destra, antidemocratiche. Queste sono sempre emerse in periodi di allargamento democratico dello stato italiano (la crisi di fine Ottocento, gli anni 1919-1921, ecc.). Se si oppongono a queste spinte delle spinte eguali e contrarie che vogliono rovesciare la democrazia in nome della rivoluzione sociale, si fa il gioco di quelle forze. Così è successo infatti in Italia, a volte, e anche in Spagna.
    Ho preso la folla dei funerali di Piazza Fontana come una sorta di simbolo di un consenso popolare alla democrazia, che non ha bisogno di essere rivoluzionario. Ma forse la scelta dell’esempio è sbagliato, quello che conta è il discorso generale.

  10. Caro Piras,
    la sua ricetta sarebbe bellissima ma non tiene conto né della conflittualità delle società capitalistiche né della doppiezza del regime democratico capitalistico.
    La conflittualità, soprattutto quando le spinte democratiche trovano le occasioni favorevoli per espandersi (fu il caso di quelle alla fine degli anni ’60 in Italia e non solo), pone il problema di uno sbocco in un senso o nell’altro:o reprimerle o assecondarle dandogli una forma come minimo “più democratica”. Da noi il compromesso storico, secondo me, le ha represse e stop.
    La doppiezza del regime democratico capitalistico fa sì che anche le conquiste riconosciute sulla carta possono essere continuamente aggirate, minate, neutralizzate da lobby “reazionarie” ben inserite nei punti vitali e fondamentali della macchina statale. Sta di fatto che esse, però, hanno la patente della democraticità. Gli studi di Claudio Pavone sulla continuità tra fascismo e democrazia in Italia dovrebbero avvertire di quanto peso abbia avuto e ha quella che lei definisce blandamente «una parte deviata dello stato».
    Questa viene riconosciuta tale solo a compimento dei suoi più grossi misfatti. E non sempre. E senza che mai si possa arrivare ad una sua estirpazione radicale, perché ci si limita a liquidare solo qualcuna delle “mele marce” lasciando intatta la struttura che le riproduce. Dovrebbe chiedersi il perché.
    La mia spiegazione è, come accennato, nella doppiezza del regime democratico capitalistico. È palese che il complicato intreccio di forze (economiche, politiche, militari, culturali) che noi siamo soliti indicare con il termine generico di ‘capitalismo’ ha sempre due carte da giocare per conservarsi: sia quella della democrazia sia quella della reazione contro avversari ( i vari movimenti confusamente democratico-rivoluzionari che si affacciano sulla scena della storia), i quali ne hanno solo una e solo a quella possono appellarsi. Quindi a me pare parziale parlare del solo «carattere reazionario della nostra classe dirigente» e indicarlo come unico ostacolo da superare. Si dovrebbe, invece, illuminare e contrastare quella zona oscura “reazionario-democratica” (e quindi non pienamente reazionaria, ma mai veramente democratica; e abbiamo sott’occhio un suo esemplare, una sorta di Giano a doppia faccia: berlusconiana/renziana) che riesce a giocare su entrambi i tavoli per imporre i suoi interessi: mantenere il potere, usarlo contro le spinte genuinamente democratiche.
    E qui che entra in gioco l’ambiguo riformismo ( di cui ho detto nel precedente commento). Che copre e stabilizza questa doppiezza, continuamente esagerando le carote che ogni tanto vengono concesse ( alle “classi disagiate”) e minimizzando le bastonate che continuano ad essere menate sempre su quanti accennano qualche protesta o reazione. Esso impedisce o demonizza o svaluta ogni ricerca di una soluzione ai conflitti che non garantisca – in anticipo – di essere compatibile con l’assetto capitalistico.
    Ora, proprio perché lei vede bene che «in periodo di allargamento democratico dello stato» immediatamente si mobilitano – bisognerebbe dire – “le forze antidemocratiche del regime democratico”, salta ogni possibilità di una evoluzione ragionevole e non conflittuale ( o meno conflittuale) della democrazia (“progressiva” come si diceva nei tempi antichi) come lei auspica. Quello sviluppo potrebbe avvenire solo scardinando i veri ostacoli, presenti sia nella società che nello stesso Stato democratico.
    Che fare allora? Non contrapporre, come lei suggerisce, « a queste spinte [antidemocratiche] delle spinte eguali e contrarie»? Non « rovesciare la democrazia in nome della rivoluzione sociale»? A me pare che, così pensando, lei non veda questa doppiezza della democrazia. Che a lei sembra un dato assolutamente positivo in sé; e quindi da non “rovesciare”, da non intaccare mai e poi mai. E non s’accorge, secondo me, che, difendendo *questa* democrazia, lei difende anche le forze antidemocratiche o reazionarie che essa – strutturalmente (mi lasci usare questo termine fuori moda) porta in sé.
    Le rivoluzioni sociali non si possono fare col desiderio o in situazioni di confusione politica e di smarrimento di tutta una tradizione che ne pensava la possibilità ed era riuscita anche a delineare delle pratiche per realizzarle, ma i loro fallimenti passati non sono una prova della loro vanità in assoluto; né soprattutto provano che il riformismo sia la soluzione dei problemi delle nostre società.

  11. Credo che il significato del compromesso storico stia proprio nel volere mantenere la propria specificità, piuttosto che diluirsi all’interno della socialdemocrazia europea.
    In sostanza, si trasformava una coincidenza in un’alleanza. Io sono diverso da te, ma sono in grado di stabilire un compromesso con te. In questo, non ci trovo nulla di sbagliato, e direi che la storia dimostra l’esatto contrario, che all’interno di sistemi capitalisti, la socialdemcorazia non ha spazio, finisce per scivolare verso i partiti che non si dichiarano socialisti: è quello che abbiamo di fronte. Se si trattasse di un problema italiano, allora si potrebbe riconoscere una responsabilità del PCI di Berlinguer, mi pare che l’intero quadro della socialdemocrazia europea soffra della stessa malattia, appunto quella che alla stretta, la vedrà sempre assumersi le compatibilità che il sistema economico esistente gli impone. Il fatto che non vi sia un unico partito socaildemocratico che sia in grado di distinguersi minimamente dai suoi avversari non socialisti, qualcosa dovrebbe evidenziare.
    Tornando a Berlinguer, verso cui inveivamo a quei tempi dalla sinistra dura e pura, devo dire oggi che avevamo torto. Non avevamo capito che la battaglia era persa, che la scelta del compromesso storico era frutto della constatazione della sconfitta, un tentativo di resistere e conservare ciò che rimaneva, il PCI appunto che con il compromesso storico manteneva la sua specificità e tentava comunque di portare a casa qualche risultato conreto, ad esempio di tipo economico.
    Ed avevamo torto perchè pensavamo che piazza fontana fosse l’inizio di una guerra, mentre era il colpo decisivo che aveva definito la sorte del conflitto.
    A sua volta, ciò derivava dalla natura dei moti studenteschi del ’68 che, nel loro essere libertari, avevano già definito la fine di un movimento anche vagamente socialista, diventando invece un passo in avanti verso una società sempre più liberale, sempre più dominata dal monopensiero. Allora non ce ne siamo accorti, ma retrospettivamente le cose sono molto più chiare. Il movimento studentesco aveva due ispirazioni di fondo, una egualitaria ed una libertaria. Presto, rimase solo quella libertaria, mentre quella egualitaria finì presto.
    Secondo me, sta tutto lì il passaggio decisivo che permise al capitalismo non solo di continuare a dominare, ma di farlo in maniera sempre più forte, aprendo quella fase storica che c’ha portato ai nostri giorni. Berlinguer poverino fu travolto come tutti del resto da questa onda gigantesca, e non serve scriverlo, per salvarsi doveva diventare come i suoi avversari. Questa è un’ovvietà, il fatto è che c’è sempre qualcuno che decide di non arrendersi, non mi pare sia una colpa.

  12. @ Cucinotta

    OTTO APPUNTI SU BERLINGUER, IL COMPROMESSO STORICO E “NOI”

    Mi spiace ma non sono d’accordo:

    1. Che la battaglia in quegli anni (per la rivoluzione? per la modernizzazione? per l’ampliamento della democrazia? per le “riforme di struttura”?) fosse persa lo si è capito dopo; non si poteva capire allora o, se qualcuno l’aveva capito, a me non è arrivata la sua opinione;

    2. Che il compromesso storico sia stato «frutto della constatazione della sconfitta» non mi pare. Si presentava semmai come ideologia conciliante e vincente, una “mano tesa al nemico”, considerato invincibile e col quale il PCI poteva trattare da posizioni in quel momento (aggiungiamo col senno di poi: apparentemente) di forza;

    3. Più che « conservare ciò che rimaneva, il PCI appunto» (cosa che, come si è visto, non si è realizzata perché dopo il compromesso storico il PCI non ha mantenuto nessuna sua «specificità» ma s’è spappolato), il compromesso storico ha spalancato le porte al suo progressivo smantellamento e ad un suo spostamento, del resto già iniziato con le lodi all’”ombrello della Nato” che avrebbe dovuto farlo sentire più al sicuro, dall’egida sovietica a quella statunitense; e poi alla servile americanizzazione dei suoi eredi: dal Veltroni buonista al D’Alema aiutante in campo dei bombardamenti su Belgrado, etc.

    4. Insomma, non abbiamo avuto nessun compromesso (tantomeno storico), che è il chiodo fisso dei riformisti, ma un cedimento o l’inizio del cedimento; un cambio di campo o di casacca, per essere netti. La «specificità» del PCI era la sua ambivalenza di facciata: «partito di lotta e di governo», partito della “rivoluzione senza rivoluzione” o dei “riformatori senza riforme”. Quando il suo gruppo dirigente ha *consapevolmente* (se no, che dirigenti erano…) scelto, ma velandosi con la foglia di fico di un nobile compromesso storico, di passare dalla franante sponda sovietica alla luccicante sponda statunitense, si sapeva – come minimo – che si usciva per sempre dalla ambivalenza togliattiana/staliniana; e che, dunque, quella «specificità» tanto vantata sarebbe saltata e niente affatto salvata;

    5. Noi (poi sul *noi* bisognerebbe discutere; noi chi?…) non avemmo torto a rifiutare il compromesso storico. I fatti successivi hanno confermato che è stato un disastro (sia per i “rivoluzionari” che per i “riformisti”). Anche se si fosse trattato di una strategia difensiva, che voleva “salvare il salvabile”. E semmai fu proprio la variegata schiera dei contestatori del PCI e del compromesso storico che tentò di salvare il salvabile. Purtroppo in modi disordinati, confusi, ambigui o disperati – da “muoia Sansone con tutti i filistei” (le BR). Perché queste minoranze fuoriuscite dalle due Chiese ebbero in partenza una collocazione marginale o a volte parassitaria o continuamente tentata dall’estremismo (parolaio o armato). Nessuna di esse fece mai in tempo a diventare un vero partito. ( E non spiego qui cosa mancava loro per esserlo).

    6. Che Piazza Fontana fosse «l’inizio della guerra» fu opinione di pochi (magari delle BR). O opinione del tutto vaga di gente appena affacciatasi alla politica. E non è vero che quella strage sia stata «il colpo decisivo che aveva definito la sorte del conflitto». La risposta non era mancata, era stata vasta e non delle sole minoranze “rivoluzionarie” (qui Piras ha ragione quando dice che fu di massa, anche se poi torce il bastone a favore della sua “via riformista” ). Le “truppe” non erano scappate. Furono i “generali” che tentennarono e poi, proprio con la scelta del compromesso storico del PCI di Berlinguer, decisero il “tutti a casa” (e gettarono le premesse per una sconfitta che – si è visto – è stata senza freni).

    7. Tutti i moti sociali di protesta sono spuri e contengono spinte contrastanti. (Da soli non vinceranno mai o nulla costruiranno di nuovo). In quello nato dal ’68-’69 (ricordarsi che non ci fu solo il movimento studentesco, eh!) il prevalere col tempo della spinta “libertaria” rispetto a quella “egualitaria” fu dovuto in parte significativa proprio al fatto che il compromesso storico (in realtà l’opzione filoamericana che quella ideologia celava e l’ americanizzazione culturale del ceto medio democratico, che in certi casi l’anticipava e in altri le fece da strascico…) creò il contesto più favorevole al dilagare di quel “libertarismo” .

    8. In conclusione Berlinguer non fu un «poverino». Né così ingenuo o pazzo da andare a proporre un compromesso storico a un’ «onda gigantesca» inarrestabile. Di fronte a un tale fenomeno ragionevolmente ci si ritira, ci si chiude e, appunto, si salva il salvabile. ( Se si è davvero convinti che qualcosa debba essere davvero salvato: «Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941./ “Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci. / Abbiamo Mosca alle spalle”. Si chiamava /Klockov.»). Non è andata così. La scelta è stata un’altra. E oggi, dopo quello scacco epocale, noi non abbiamo più nessuno spuntone di roccia né “rivoluzionaria” né “riformista” a cui aggrapparci. Siamo nella *società liquida* (americanizzata) e dobbiamo ancora imparare a nuotare.

  13. @Abate
    Grazie innazitutto della risposta molto circostanziata e puntuale.
    Però, non mi hai convinto.
    Ti faccio notare che la rivolta studentesca (sì, il ’68 si è vero propagato nelle fabbriche, ma è nato tra gli studenti, penso che en possiamo convenire) è avvenuta prima negli USA, almeno mezzo decennio prima. E lì si è subito rivelata di natura libertaria (ricordiamo gli hippies, i figli dei fiori?).
    Poi l’onda è arrivata un po’ in tutta l’europa occidentale, ma solo in Italia ci siamo illusi che continuasse oltre la fine degli anni sessanta. In Francia, dove il maggio ’68 è stata una cosa ben più seria che da noi, è finito tutto altrettanto velocemente di come era cominciata, e così pure nell’allora Germania ovest.
    Se l’inquadriamo in un ambito non soltanto nazionale, mi pare chiaro che la natura del ’68 sia stata fraintesa in modo clamoroso.
    Per il resto, i nostri giudizi sul compromesso storico non possono coincidere perchè derivano proprio dal differente giudizio che diamo sullo stato obiettivo dei rapporti di forza in quell’inizio degli anni settanta. Se ci fosse stato un contesto rivoluzionario, allora piazza fontana e gli attentati che seguirono sarebbero state occasioni più che propizie per lo scoppio di una rivoluzione, ma la rivoluzione non scoppiò.
    Se rimettiamo a posto la cronologia, ricordo (eventualmente correggimi) che Berlinguer ne parlò esplicitamente solo aseguito del golpe in Cile, e siamo nel ’74. Tra il ’70 e ’74, anche in assenza di rtale strategia del PCI, gli spazi andarono chiudendosi rapidamente.
    Sulla risposta delle BR si puàò avere il giudizio più duro ( ed io sono tra questi), ma devo ammettere che si trattava di una risposta tragicamente coerente. Anche loro, come Berlinguer, avevano capito che i moti di piazza erano finiti, che bisognava inventarsi qualcosa di diverso.
    Questo è il quadro generale che io vedo.
    Nei dettagli dei singoli punti, non capisco quale generale direbbe ai suoi soldati “abbiamo perso”, parlerà di ritirata strategica, è una prassi ovvia direi, e quindi non capisco perchè rimproverargli di non averci comunicato quanto la situazione fosse messa male e ciò vale anche per il secondo punto, si tratta fingendosi più forti di quanto si è, mi pare vantaggioso.
    Il PCI è andato avanti con la sua diversità fino alal morte di belringuer ed anche un altro po’. Ci doveva essere Occhetto, la sua bolognina, la caduta del muro di Berlino: solo allora il PCI franò, mi pare che in occidente nessun partito comunista riuscì a resistere tanto e tanto bvene.
    Il compromesso storico non è come anch’io credevo un alibi riformista per chi non vuole fare riforme, è stato il modo per il PCI di non diventare socialdemocratico, ed obiettivamente a questo scopo ha funzionato.
    Sulla natura dle movimento, ho già detto. Non puoi declassare la natura libertaria del movimento a una specie di elemento secondarioi, fu l’elemento fondamentale, come dovrebbe venir fuori anche dal confronto a livello internazionale.
    Su piazza Fontana, non ho cpaito quale sia il tuo giudizio. Io la ponevo come alternativa tra una guerra all’inzio o alla fine, ma forse non spono stato chiaro.
    Dando un giudzio differente sullo stato dei rapporti di forza all’inzio degli anni settanta (ora sappiamo cosa si è cominciato a muovere allora a livello finanziario), dando un peso così differente all’elemtno libertario, è inevitabile che il giudizio complessivo sia differente.
    Ma è sempre un piacere parlarne con te.

  14. Chiedo scusa,per gli errori che spero mi perdonerete.
    Uno però lo vorrei correggere, sennò non si capisce cosa scrivo.
    Nella frase che inizia con “Se rimettiamo a posto la cronologia”, è saltato “il compromesso storico”. la cosa di cui ricordo berlinguer parlò proprio in quella tragica occasione.

  15. Solo ora mi sono ricordato che un paio d’anni fa pubblicai [qui:
    http://www.conflittiestrategie.it/unipotesi-sul-ruolo-del-pci-nel-caso-moro-di-roberto-buffagni%5D
    un breve articolo sul caso Moro, e sul ruolo del P.C.I. in esso. Lo ripropongo al dibattito su “Le parole e le cose”, rinnovando l’avvertenza che si tratta di una pura ipotesi, non suffragata da prove documentali.

    In calce aggiungo poi una nota a proposito della “sinistra DC” e delle linee politiche in esse confliggenti, anch’esse di primaria importanza per determinare l’esito del caso Moro.
    La nota fu pubblicata in commento al dibattito intorno al caso Moro e al cambio di campo del PCI tenutosi su “conflitti & strategie”: http://www.conflittiestrategie.it/si-svegliano-tardi-di-glg-1-luglio-13

    “Per il ventennale del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro scrissi un dramma intitolato “Il caso Moro” (con Sergio Fantoni, regia di Cristina Pezzoli, Teatro Stabile di Parma – La Contemporanea 1998).
    Preparando la prima stesura, lessi e studiai quasi tutte le fonti primarie e secondarie relative al caso Moro, e parlai a lungo con alcuni protagonisti della vicenda: brigatisti, amici e familiari di Moro, inquirenti. Per scrivere il dramma, questo lavoro di ricerca non mi servì quasi a nulla. Non intendevo fare del teatro-verità, né dare una lettura realistica, politica o “gialla”, della vicenda; e anche se avessi voluto, via via che procedevo con la lettura dei documenti e delle interpretazioni, m’accorgevo di inoltrarmi in una “nebbia della guerra” sempre più fitta e tossica.
    Da tutto quel lavoro da archivista, però, una o due conclusioni ipotetiche le ho ricavate. Qui ne presento una, che forse i lettori potranno trovare interessante perché corre parallela ad alcune ipotesi sulla storia contemporanea italiana che Gianfranco la Grassa sta delineando su questo blog. Concludo la premessa con l’indispensabile caveat: questa è solo un’ ipotesi. L’ho ricavata da studi e riflessioni, ma non ho nessuna prova e nessun documento a sostegno. Invito dunque a considerarla per quel che vale: un po’ come l’ipotesi di un astronomo che, dallo studio dei campi gravitazionali, inferisce l’esistenza di un pianeta invisibile.
    A cavallo fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta si verifica, fra mille complicazioni e contraddizioni, un grande bradisismo lungo la faglia di Yalta, che coinvolge anche il PCI, nel quale probabilmente si fa strada il sospetto che l’edificio dell’URSS stia cedendo alle fondamenta. Pochi in Italia e in Occidente sospettano la gravità della crisi sovietica, ma i massimi dirigenti PCI sono certo in posizione privilegiata per averne qualcosa di più che un sentore.
    Lentamente, una fazione del PCI comincia ad avvicinarsi al campo NATO. I primi contatti avvengono durante il governo dei colonnelli greci, quando fazioni dell’amministrazione USA cominciano a preparare il post-dittatura e contattano, o si lasciano contattare, attraverso esponenti della resistenza greca, da rappresentanti del PCI. Un’altra tappa importante è quella del golpe contro il governo Allende in Cile, con le riflessioni che provoca nel PCI e nella DC.
    L’emersione ufficiosa di questa ricerca di una strategia comune tra (settori degli) USA e (settori del) PCI si verifica con i primi viaggi di Napolitano negli USA, e culmina nell’atto ufficiale di Berlinguer che strappa con l’URSS dichiarando di sentirsi più protetto dall’ombrello NATO che dal Patto di Varsavia. In questo quadro va probabilmente visto anche l’episodio, mai ufficialmente confermato ma almeno verisimile, dell’attentato intimidatorio a Berlinguer in visita in Bulgaria. Secondo il mio avviso, la prospettiva strategica comune tra fazioni USA e fazioni PCI si salda definitivamente proprio durante il rapimento Moro. Il passaggio mi sembra di una logica paradossale ma stringente. Eccolo.

    1. In teoria, Moro è il principale interlocutore del PCI, perché lui e la sua corrente sono favorevoli (con molti distinguo e varie seconde intenzioni, ma comunque in una prospettiva “giolittiana” di graduale integrazione dell’opposizione di sinistra) al progetto di “compromesso storico” berlingueriano, che segnerebbe la liberazione del PCI dalla conventio ad excludendum conforme a Yalta, in cambio di una “occidentalizzazione” e “democratizzazione” del PCI. Inoltre, solo con estrema difficoltà, e investendovi un enorme capitale politico, Moro riesce a tessere nella DC un gracile consenso intorno a questo progetto, che ha forti avversari, aperti e coperti, non solo nel suo partito ma in tutta la struttura dello Stato e in importanti fazioni della NATO e degli USA. Moro è quindi l’uomo indispensabile perché si vari il “compromesso storico”.
    2. Di conseguenza, per il PCI il rapimento di Moro dovrebbe rappresentare una catastrofe politica; infatti il calcolo prevalente nelle BR, quando decisero di rapire Moro, fu proprio questo: che il sequestro di Moro rendeva impossibile una collaborazione organica fra DC e PCI che avrebbe spento le loro speranze di radicalizzare la lotta politica in Italia. Dunque, il PCI dovrebbe perseguire con ogni mezzo la liberazione dello statista democristiano che gli ha socchiuso la porta del governo.
    3. Invece, il PCI diventa il maggiore rappresentante della “linea della fermezza”. Come mai? Si dice, i BR erano figli traviati del PCI, dunque il PCI non poteva far altro che disconoscerli. E’ certo vero; è però anche vero che il PCI poteva benissimo, visto il suo controllo sui propri militanti (un controllo così radicato che continua ancor oggi, nonostante tutto) dire una cosa e farne contemporaneamente un’altra, cioè attivarsi: con tutto il proprio peso politico sulla DC e sulle strutture dello Stato, con le proprie strutture segrete e con i suoi contatti informali sugli ambienti contigui alle BR e sulla malavita organizzata per trovare e liberare Moro; e non solo non lo fece, ma
    tutta la sua linea politica mise in primo piano la ragion di Stato, che condannava a morte Moro, in secondo o terzo piano il ritrovamento dell’ostaggio; e soprattutto mai prese in considerazione, ma anzi si adoperò per silenziare, le ragioni politiche che giustificavano la trattativa: quelle che tentarono di introdurre nel dibattito sia Moro con le sue lettere dal carcere, sia Craxi con la sua azione. Su questa posizione del PCI non c’è dubbio alcuno. Perché fu adottata?
    4. Credo per questo motivo: che le fazioni del PCI in contatto con le fazioni USA intese a cavalcarne e guidarne il trasferimento nel campo occidentale, si accordarono sulla linea della fermezza che conveniva, per diverse ragioni, ad entrambi: così stipulando, per così dire, il primo vero e proprio contratto-quadro politico organico.
    5. Questo contratto-quadro conveniva agli USA perché distruggere Moro (fisicamente o politicamente: si ricordi che S. Pieczenick, lo psicologo del Dipartimento di Stato americano inserito nell’unità di crisi diretta da Cossiga, in caso di liberazione dell’ostaggio aveva predisposto il Piano Victor: immediato sequestro in clinica psichiatrica e lavaggio del cervello) significava distruggere la politica pro-araba che Moro ereditava da Mattei.
    6. Conveniva al PCI perché così a) ideologicamente, rigettava nelle tenebre esterne tutta la violenza rivoluzionaria, anche la propria, tuttora legittimata a parole, e ricostituiva un avatar dell’unità antifascista tipo CLN, con i BR e tutti gli estremisti come nemico, accreditandosi come forza “democratica e antifascista” degna di governare un paese occidentale b) politicamente, perché incassava il credito politico degli USA che lo vidimavano come possibile forza di governo accettabile in campo NATO.
    7. Una prova indiziaria di questa ipotesi è anche l’azione politica di Cossiga negli anni seguenti. Francesco Cossiga, protagonista e principale interfaccia USA/Italia di quella stagione, per tutto il resto della vita si prodigò instancabilmente per accreditare il PCI come forza politica atlantica, giungendo fino a rovesciare il governo Prodi per consentire a D’Alema di diventare Presidente del Consiglio, e di bombardare Belgrado per conto della NATO. Va rammentato che Cossiga era figlio elettivo, allievo politico e amico personale di Moro, che gli aveva aperto la via di una brillantissima e precoce carriera. La sua gestione del caso Moro, che in termini di nuda responsabilità morale e
    politica corrispose a un parricidio, gli costò un grave crollo psichico con importanti somatizzazioni, e probabilmente la fine del suo matrimonio. Se fosse vero che proprio la gestione del “caso Moro” ha suggellato l’alleanza organica fra la fazione occidentalizzante del PCI e le corrispondenti fazioni USA, sarebbe più che naturale che Cossiga, principale gestore e garante di quella alleanza politica, sentisse impellente la necessità psicologica di garantirne la piena riuscita, perché solo così si sarebbe giustificato, ai suoi occhi, il sacrificio umano celebrato ai danni del paterno amico, e alleviato il peso di una colpa che minacciava di disgregare la sua integrità psichica. La stessa necessità psicologica dà conto anche della sua insistenza perché si giungesse a un generale condono, giuridico ma soprattutto culturale e politico, per tutti i protagonisti degli “anni di piombo”; un condono che reintegrasse quegli atti sanguinosi nella loro dimensione politica, ponendo termine alle letture moraleggianti pseudo-dostoevskiane della violenza politica come “follia”, “ferocia”, “equivoco” tuttora correnti. La reintegrazione nella comunità civile e la comprensione umana che auspicava per tutti i politici con le mani macchiate di sangue fraterno riguardavano, insomma, anche e anzitutto lui stesso.”

    Nota sulla “sinistra DC”.

    ” Quando si parla di “sinistra DC” bisogna distinguere due posizioni (e correnti, e gruppi di potere). Uno, il più vecchio e il più solidamente impiantato nel partito e nello Stato, è quello che fa capo a Moro, che annoverò Mattei tra le sue file, e che tiene da sempre una linea mediterranea e filoaraba. L’impostazione strategica del rapporto con il PCI di questo primo gruppo della sinistra DC è, sostanzialmente, di tipo giolittiano. Vale a dire che da un canto vuole erodere la sua base di potere elettorale nel mondo del lavoro, sindacale, etc., e dall’altro vuole premere sul PCI per trasformarlo in un partito socialdemocratico vero e proprio, secondo lo schema appunto giolittiano del rapporto con il PSI. Secondo questa linea, la partecipazione del PCI al governo deve avvenire anzitutto attraverso una sua graduale cooptazione nell’industria pubblica, e non attraverso una sua vera e propria partecipazione al governo, almeno fino a quando la trasformazione socialdemocratica sia compiuta (cioè, tendenzialmente, nell’anno del mai). Si tratta con tutti, non si cede sull’essenziale a nessuno.
    Questo primo e più vecchio gruppo della sinistra DC lavora in sostanziale accordo con i settori dell’amministrazione USA che (democratici o repubblicani che siano) pensano l’impero statunitense in termini più tradizionali, per così dire “nazionali”, e danno per scontato che la fedeltà e la subordinazione degli alleati sia oggetto di trattativa sul piano tattico, anche se ci sono cose che non non si devono mai fare (ad esempio far entrare l’URSS e i suoi mandatari nel sancta sanctorum NATO). Un esempio di questa dura trattativa fra americani e sinistra DC è lo scontro sul Levante con Mattei, che al momento dell’attentato al presidente ENI pareva giunta a un accordo soddisfacente per entrambe le parti.

    Poi c’è un altro gruppo della sinistra DC, più recente e diversamente radicato, quello che fa capo ad Andreatta (del quale Prodi e i suoi medium sono tutti creature). Questo nuovo gruppo propone un modello affatto nuovo di partito e di personale politico. Il centro di gravità della sua politica non sta nel Mediterraneo, ma nei paesi del Nord, i “paesi più avanzati” ai quali adeguare l’Italia. E’ dunque fortemente europeista, e fortemente tecnocratico e “democratico”. Il suo rapporto con il PCI prevede e incoraggia, secondo le tesi sociologiche in quegli anni pubblicate da “Il Mulino”, una sua trasformazione in “partito radicale di massa” (del Noce). Questo nuovo gruppo della sinistra DC ha rapporti privilegiati con gli ambienti dell’amministrazione USA che pensano l’impero in forma nuova, “mondialista”, e prevedono e incoraggiano un progressivo indebolimento e dissoluzione delle sovranità nazionali (compresa la propria) a vantaggio di strutture sovranazionali di comando (nelle quali, va da sé, la primazia continua a spettare agli USA, centro dell’anglosfera). Questa tendenza ideologica e politica USA è antica, forte, e viene da lontano: dalla Round Table britannica fondata da Cecil Rhodes.
    A distanza di tanti anni, si vede bene quale delle due tendenze abbia vinto. E penso che con questa piccola specificazione, diventi più chiaro sia il ruolo del gruppo PCI che inviò in gita Napolitano, sia la funzione e lo scopo della seduta spiritica bolognese.
    Moro, insomma, non voleva il compromesso storico nella forma proposta da Berlinguer perché a) non voleva inimicarsi il settore USA di suo riferimento, che non avrebbe gradito il pericolo di una violazione dei segreti NATO b) non voleva favorire Andreatta e “l’agenzia viaggi” PCI, perché così facendo non solo avrebbe segato il ramo su cui stava seduto, ma avrebbe favorito gli immediati avversari dei suoi referenti americani.
    Secondo il suo stile politico, la sua avversione al progetto di compromesso storico si traduceva in un tentativo di sopirlo e troncarlo, anche qui giolittianamente.
    Nel corso del rapimento, lo scontro fra le due sinistre DC, fra i loro due referenti americani, e fra tutti i terzi interessati (tra i quali Israele e l’URSS, e chiunque avesse interessi nel Levante, cioè anzitutto la Francia) precipitò e giunse al calor bianco. La risultante delle forze così messe in moto fu la morte di Moro. Personalmente, credo che Moro sia stato ucciso a) per battere definitivamente la linea “mediterranea” e favorire la linea “nordica” b) perché dopo quel che Moro aveva capito e visto nel corso della prigionia, cioè le esatte proporzioni strategiche del conflitto politico, sino a quel momento latente, che lo coinvolgeva, e le cui conseguenze stiamo vivendo, non era più affidabile politicamente; e l’ipotesi di lavaggio del cervello del “piano Victor” non dava sufficienti garanzie: soprattutto perché a rendersi conto di quel che stava per succedere non era il solo Moro, ma la sua cerchia; che però, senza di lui, sarebbe stata neutralizzata politicamente.
    Andreotti, poi, fece quel che ha sempre fatto: ha raccolto i cocci, ne ha ricavato il possibile per sé e i suoi, e ha garantito altri dieci anni di vita alla DC, accompagnandola nel suo lunghissimo funerale.”

  16. @Buffagni
    Interessante, però conviene sempre mettere a posto la cronologia. L’affaire Moro è avvenuto nel ’78, e questo significa che le decisioni prese allora dai vari attori della vicenda risentono di quanto successe negli anni precedenti.
    Questo è importante per evitare eventualmente di scambiare effetti per cause. Per questo, sarebbe stato preferibile indicare le date precise dei vari eventi richiamati.
    Acclarato come sembra fin troppo ovvio che il PCI tenesse una sua diplomazia anche verso gli USA, mi pare che la tesi del cambio di fronte rispetto all’URSS non sia sufficientemente suffragato, ma senza questo, cambia tutto il quadro dei fatti.

    Sulla sorte di Moro, la mia tesi è abbastanza semplice. Fu una cosa organizzata dalla CIA in combutta con le BR per i motivi che lei richiama, e questo spiegherebbe la fine della prigionia con la morte dello statista, cosa abbastanza inconsueta negli altri rapimenti delle BR.

    A titolo di ipotesi alternativa rispetto alla sua, non potrebbe la consapevolezza da parte del PCI del coinvolgimento degli USA, con la connessa determinazione all’assassinio, costituire una motivazione adeguata alla linea della fermezza? Se sai dall’inizio che la trattativa non avrebbe fatto differenza sulla sorte di Moro, e avrebbe solo causato un effetto disastroso nella capacità egemonica del PCI all’interno della sinistra, questo non può considerarsi una motivazione valida? Non è plausibile che gli USA sfruttassero la vicenda anche per indebolire il PCI indipendentemente dall’ipotesi del compromesso storico?

    In ogni caso, mi pare importante sempre distinguere accordi, alleanze più o meno contingenti, con il sentirsi costitutivamente dalla stessa parte. Il PCI non stava dalla stessa parte della DC, mentre il PSI lo era. Ciò era dovuto più che al tipo di linea politica, alla stessa natura del PCI ed al suo centralismo democratico.
    Naturalmente, è lecito avere qualsiasi opinione in proposito, ma non vedo come si possa non constatare a cosa porti una politica in mano a partiti sostanzialmente uguali nei loro fondamenti e che lottano tra loro solo per questioni di puro interesse.

  17. a V. Cucinotta.

    Grazie dell’attenzione. Provo a precisare un poco, per quanto mi è possibile.
    Premessa: la mia ipotesi cerca di tener conto della aleatorietà delle decisioni politiche. I decisori politici, in qualsiasi situazione ma specialmente in situazione d’emergenza, improvvisano (è questo l’argomento più forte contro le teorie del complotto). Improvvisano però sulla base, o meglio sul canovaccio, degli interessi e delle ideologie già esistenti e cristallizzati.
    Le mie persuasioni (personali, non suffragate da prove documentali) in merito al caso Moro sono in sintesi queste:
    1) le BR NON furono eterodirette per quanto attiene alla loro costituzione, e alla loro linea politica fondamentale. Esse discendono da una interpretazione legittima, ancorchè minoritaria, della “doppia verità” del PCI.
    2) Le Br furono infiltrate, probabilmente attraverso la Scuola di Lingue “Hyperion” parigina di Corrado Simioni. Non è improbabile che Mario Moretti sia l’uomo chiave della infiltrazione a livello di quadri dirigenti. Perchè dico le BR infiltrate? Per due ragioni. La prima: chiunque scelga la clandestinità incontra, inevitabilmente, gli altri abitanti di quel mondo, che sono servizi segreti e malavita organizzata. Fu vero per la Carboneria e per la Giovane Italia, resta vero per le BR. La seconda: l’esecuzione del rapimento di Moro è inspiegabile senza l’intervento di uno, ma più verosimilmente di due tecnici “di serie A”. I rapitori, servendosi di armi automatiche, riuscirono a uccidere tutta la scorta di Moro lasciandolo affatto illeso. Il compito era più che difficile. L’addestramento disponibile per i brigatisti (al massimo, sei mesi nei campi palestinesi o del patto di Varsavia) non basta. Ci vogliono doti psicofisiche non comuni, e anni di addestramento al massimo livello nelle forze speciali di FFAA statali.
    3) “La CIA”, come “gli USA” sono etichette troppo vaghe. Nella CIA, come negli USA, convivono linee politiche e centri direzionali in conflitto anche molto aspro tra di loro.
    Kissinger intimidì Moro, nel corso di un viaggio ufficiale dello statista italiano negli USA, diffidandolo dal perseguire la sua politica di compromesso con il PCI. Contemporaneamente, il Dipartimento di Stato USA concedeva il visto a Giorgio Napolitano per la sua ambasciata informale, nonostante la Democrazia Cristiana avesse richiesto con insistenza che il visto fosse negato. Perchè?
    4) Geopoliticamente, l’Italia è da sempre alle prese con una scelta: Mediterraneo o Nord Europa? Primi degli ultimi o ultimi dei primi della classe? Su questa dicotomia geopolitica si innestano ideologie, linee politiche, scelte di civiltà (latina o carolingia?), blocchi sociali, addirittura interpretazioni teologiche del cristianesimo (“cattolicesimo adulto”, “cattolicesimo sociale”).
    Quale scelta rappresentasse Moro, e quale Andreatta, entrambi dirigenti di primo piano della sinistra DC, è molto chiaro. Per gli USA, l’Italia è (geopoliticamente parlando) paese indispensabile in quanto proiettato nel Mediterraneo. Garantirsi la sua subordinazione è dunque, per gli americani, necessario. Questo obiettivo può essere raggiunto in due modi: a) lasciando all’Italia una parziale autonomia nel Levante, e contrattandone i margini (v. colpo di stato in Libia pro Gheddafi, organizzato dai servizi italiani con il benestare USA e in funzione antibritannica) b) estromettendo l’Italia dal Levante e assegnando a Francia e Inghilterra le zone d’influenza mediorientali.
    5) Il rapimento di Moro fu deciso dalle BR, in piena autonomia. Il progetto fu subito noto ai servizi segreti che avevano infiltrato le BR, e la risultante delle forze in campo fu tale che non lo si lasciò avvenire.
    6) Perchè? Perchè la politica filoaraba di Moro e della sua corrente aveva suscitato una alleanza trasversale (centri USA, Francia, Inghilterra, Israele) più forte della alleanza trasversale avversa.
    7) E qui entra in campo il PCI. Anche nel PCI confliggevano due (e più) linee politiche. Il clivage principale era: URSS sì/no. I favorevoli a un cambio di campo (dal patto di Varsavia alla NATO) colsero l’occasione del rapimento Moro per allearsi con a) in patria, la fazione Andreatta della sinistra DC, contraria alla politica mediterranea di Moro perchè interprete della scelta geopolitica e culturale “carolingia” b) negli USA, con la fazione dei centri direzionali favorevole a una fine dell’influenza italiana nel Levante (la fazione “mondialista”, favorevole a una disgregazione degli Stati nazionali e al sorgere di entità sovrannazionali quale sarà la UE).
    8) Le scelte di campo, e le decisioni in merito alla sorte di Aldo Moro, precipitarono nel corso dei 55 giorni del suo rapimento. Le fazioni contrapposte, le ideologie che le animavano, i gruppi di potere che le costituivano, esistevano già da tempo; ma furono le circostanze a farle cristallizare, e a far precipitare le decisioni politiche che poi portarono alla “linea della fermezza”, al disconoscimento dell’autenticità delle lettere di Moro, e in conclusione alla sua morte (per mano delle BR). Per così dire, gli avversari si accorsero di esistere e di trovarsi di fronte a una scelta strategica ineludibile solo in corso d’opera.

  18. correzione al punto 5:
    “la risultante delle forze in campo fu tale che LO si lasciò avvenire.”

  19. Ripeto quanto ho già scritto in un precedente commento sullo stesso tema anche per demarcare la mia posizione da interventi che, distorcendo e mistificando la verità storica, che è semplice, portano acqua al mulino delle forze reazionarie. Il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse (non il Kgb, non la Cia, non la P2) uccisero gli uomini della scorta e rapirono Aldo Moro, presidente della Dc e grande regista dell’ingresso del Pci nella maggioranza di governo. Non vi è dubbio che i 55 giorni del sequestro abbiano segnato una svolta nella storia del paese. Da quel momento in poi, la Dc, lacerata dagli scontri di potere interni, non sarà più in grado di svolgere la sua funzione di partito-Stato; il Pci, capofila del cosiddetto ‘partito della fermezza’, rifiuterà ogni trattativa con le Br e risulterà determinante per il mantenimento della Dc al potere, per il rafforzamento del ruolo repressivo della magistratura e delle forze di polizia e per il blocco della conflittualità sociale; solo il Psi cercherà con Craxi la via di una trattativa, differenziandosi positivamente dalla concezione statolatrica e sacrificale (legge di Saturno) in nome della quale il resto del ceto politico avallerà, come la stessa vittima comprese perfettamente e dichiarò ‘apertis verbis’ nelle sue stesse lettere, la condanna a morte di Aldo Moro, inflitta ed eseguita a causa del rifiuto, opposto dal cosiddetto ‘partito della fermezza’, di riconoscere politicamente le Br; il papa Paolo VI, dal canto suo, lancerà un appello per la liberazione dello statista democristiano agli “uomini delle Brigate Rosse”. Il sequestro e l’uccisione di Moro segnano quindi la vera data periodizzante, che annuncia il passaggio alla ‘seconda Repubblica’ e anticipa l’inizio degli anni Ottanta, il decennio della ‘cultura del riflusso’, dell’affermazione dell’egemonia politica e ideologica di un blocco neoborghese, della ristrutturazione e dello spostamento dei rapporti di forza economici e sociali tra le classi a favore di tale blocco, del compimento del processo di socialdemocratizzazione del Pci e della neutralizzazione dei movimenti e dei conflitti di classe. L’attacco delle Br al ‘cuore dello Stato’, se da un lato esprime il punto più alto che mai sia stato raggiunto dalla lotta armata, dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un paese dell’Occidente capitalistico (laddove il Monte Bianco di illazioni e disquisizioni sugli intrecci con i servizi segreti, con la massoneria e con talune potenze straniere è privo di qualsiasi consistenza e serve soltanto ad occultare questa semplice realtà), segna dall’altro la sconfitta della strategia insurrezionalistica delle Br e l’inizio della loro fine.
    Quando il cadavere di Moro verrà ritrovato nel bagagliaio della Renault rossa a Roma, in pieno centro, a metà strada fra la sede del Pci e quella della Dc, saranno in tanti ad emettere un sospiro di sollievo: la dissoluzione della Dc sarà rinviata, il Psi cercherà e troverà spazio tra i due partiti maggiori ponendosi come ago della bilancia di ogni potere negli anni Ottanta, il Pci potrà presentarsi come il massimo garante dello Stato, gli apparati repressivi potranno svolgere la loro funzione con la piena legittimità ad essi assicurata dalla legge Reale sull’ordine pubblico e ogni forma di conflitto che non rispetti le norme del potere costituito sarà bollata come azione fiancheggiatrice del terrorismo.
    Che certe interpretazioni dei conflitti sociali in chiave complottistica siano soltanto aria fritta è dimostrato da un ‘caso di studio’ come quello rappresentato dal recente saggio di Andrea Casazza, “Gli imprendibili”, dove, sulla scorta di una vasta, minuziosa ed articolata documentazione, viene ricostruita la lunga e complessa storia delle Brigate Rosse genovesi. Genova è infatti la città in cui, all’inizio degli anni Settanta, con la formazione della “banda XXII Ottobre”, collegata con i Gap fondati dall’editore Giangiacomo Feltrinelli, ha avuto inizio la storia della lotta armata in Italia. Il clamoroso sequestro di Mario Sossi nel 1974 e l’omicidio del giudice Francesco Coco e dei due uomini della sua scorta nel 1975 furono le azioni compiute dalla colonna genovese delle Br: il primo era stato il pubblico ministero nel processo alla “XXII Ottobre”, il secondo si era opposto alla scarcerazione dei militanti della «banda» richiesta dalle Br in cambio della liberazione del magistrato sequestrato. Da quel momento e fino al 28 marzo 1980, data dell’eccidio, compiuto dai carabinieri, di quattro brigatisti sorpresi nel sonno nella base di via Fracchia grazie alle rivelazioni del ‘pentito’ Patrizio Peci, la colonna visse il mito dell’imprendibilità. Un periodo di sei anni in cui la formazione brigatista partecipò al rapimento dell’armatore Pietro Costa, attuò quindici “gambizzazioni” di personalità politiche democristiane, di dirigenti industriali e del vicedirettore del quotidiano «Il Secolo XIX» e consumò gli omicidi di quattro carabinieri e di un commissario di polizia. Ma ciò che impressionò maggiormente fu l’uccisione di Guido Rossa, operaio e militante del Pci, punito per aver contribuito all’arresto del brigatista Francesco Berardi, sorpreso mentre diffondeva volantini delle Br all’interno della fabbrica nella quale entrambi lavoravano. Nonostante il duro colpo subìto in via Fracchia, nel 1980 la colonna arrivò all’acme della sua forza politica e militare, potendo contare su una settantina di militanti, oltre che su un’ampia rete di simpatizzanti. Con l’arresto fortuito di due militanti minori, alla fine di quello stesso anno, si aprì, a quel punto, un processo di disgregazione. I due arrestati decisero di collaborare con le forze di polizia determinando così la distruzione definitiva della colonna e del suo mito di imprendibilità. Ma questa storia è intrecciata con un’altra, non meno complessa e significativa: la montatura giudiziaria, messa in piedi da alcuni collaboratori del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che nel 1979 portò in carcere una quindicina di militanti dell’estrema sinistra genovese ingiustamente accusati di appartenere alle Br. Una montatura che crollò dopo dodici anni e che comportò, per quattro vittime di quegli arresti, il tramutarsi delle sentenze di condanna in assoluzioni piene.
    Infine, può essere utile riflettere sull’esperienza della lotta armata condotta dalle Br e ricavarne, anche ‘ex negativo’, alcuni insegnamenti, il primo dei quali è l’individuazione del nemico, definito nei documenti delle Br come “Stato imperialista delle multinazionali” (Sim), soggetto che trova oggi nella realtà dei rapporti internazionali e dei blocchi imperialistici il suo pieno ed organico dispiegamento. Da tale individuazione derivano tutta una serie di conseguenze, come la sostanziale complementarità tra ‘pensiero politico’ e ‘pensiero militare’ (Lenin + von Clausewitz), le trasformazioni che investono lo Stato dentro il conflitto e l’integrazione, per dirla con la terminologia gramsciana, tra “guerra di posizione” e “guerra di movimento”. In questo senso, il profilo teorico ed analitico che ha caratterizzato l’esperienza politica e militare delle Br merita un’attenzione maggiore di quella che viene ascritta al contesto interno e internazionale in cui si è inserita, con tutte le inevitabili interferenze e sovrapposizioni che ciò comporta, la loro azione. Da questo punto di vista, la riflessione su quel profilo permette di definire un ordine discorsivo che, essendo centrato sulla coppia opposizionale ‘amico/nemico’, si distingue nettamente, per la sua natura dialettica, da coppie opposizionali, tipiche dell’ordine discorsivo imperialistico, al cui interno nessuna dialettica storica sembra in grado di agire, come ‘società/economia’, ‘democrazia/dittatura’, ‘inclusione/esclusione’, ‘geopolitica/economia’, ‘culture/società’, laddove il presupposto che accomuna siffatte coppie opposizionali è sempre lo stesso: la rimozione della lotta di classe come motore del divenire storico e la riduzione del proletariato a strato marginale incapace di assurgere a classe per sé e perciò confinato nella mera dimensione economica di capitale variabile.

  20. Caro Barone,
    la sua interpretazione, che nell’insieme condivido, non esclude le interferenze internazionali nel caso Moro. Furono le BR a rapire e a uccidere Moro, come fu Lenin a guidare la rivoluzione russa. Nell’uno e nell’altro caso, ci fu un intervento, di importanza decisiva, di forze statuali straniere.
    Non per questo le BR o Lenin furono agenti al servizio dello straniero o di qualche Concistoro degli Incappucciati. Semplicemente, la politica funziona così, appunto secondo il principio amico/nemico.

  21. In risposta agli ultimi interventi, non posso che ribadire che stiamo parlando di un pezzo di storia italiana lungo svariati decenni, ed allora la tentazione di fare un suntino senza tenere conto della cronologia può essere forte. Se mescoliamo l’inizio degli anni settanta con la fine degli ottanta, mi pare che non facciamo un buon servizio alla comprensione dei fatti.
    E’ evidente poi che le BR furono una organizzazione in sè autonoma e mi spiace se qualcuno ha interpretato cò che ho scritto come se io le ritenessi una emanazione di non so quale servizio segreto.
    Molto più semplicemente, ritengo che nel caso Moro, ci sia stato un pesante intervento della CIA, volto a dare alla vicenda l’esito tragico che conosciamo. Non sono io che tiro fuori il nome di Moretti a cui molti altri prima di me attribuirono questo ruolo di pontiere con la CIA. Citare il gruppo di Genova credo che non ci aiuti.
    Ad ogni modo, ciò che tenevo a rimarcare è che a mio parere non ci fu all’inizio degli anni settanta nessuna scelta di passare col nemico, ma invece vi furono una serie di scelte molto difficili per fronteggiare il quadro che man mano si andava presentando.
    Non ho naturalmente certezze, ma credo che nessuno ne possa ragionevolmente avere in simili faccende.

  22. a V. Cucinotta.
    Le ha certamente ragione quando richiama alla necessità di fare ordine e di disporre cronologicamente i fatti. Il caso Moro, per la sua enorme valenza simbolica, quando vi si ripensa tende a ordinare intorno a sè tutta la storia che lo precede e lo segue, e a suggerire – erroneamente – catene di causazione che vanno invece riportate ad altri eventi, anche se magari, ad esso collegati.
    Personalmente, come accenno sopra, penso molto in breve quanto segue.
    a) lo svolgimento e l’esito del rapimento Moro sono strettamente legati a due poste geopolitiche enormi: gli equilibri politici in Levante, e il passaggio di campo del PCI dall’URSS alla NATO.
    b) nella politica interna italiana, lo svolgimento e l’esito del caso Moro sono legati a un aspro conflitto interno al partito-Stato, la DC, e in particolare alla corrente della sinistra DC. Come sempre, da dopo la sconfitta italiana nella IIGM e l’occupazione alleata, i conflitti politici interni italiani sono collegati indissolubilmente ai conflitti politici interni all’amministrazione USA, perchè tutti i centri decisionali italiani (in conflitto tra loro) non possono prescindere da un collegamento, più o meno stretto, con centri decisionali USA (anch’essi in conflitto tra loro). La transizione del PCI nel campo NATO non è pensabile senza la collaborazione con centri decisionali USA, e il conflitto con altri centri decisionali USA.
    c) Le BR, per quanto infiltrate e parzialmente indirizzate nella loro azione, sono una formazione con una sua sostanziale autonomia e una linea politica che nessuno suggerì loro. Autonoma fu la decisione di rapire Moro. Autonoma la lettura politica (sbagliata) che diedero della loro decisione e delle sue conseguenze.

  23. Non riesco al momento ad intervenire sulla complessa materia storico-politica che gli interventi di Barone, Buffagni e Cucinotta stanno riproponendo, ma noto con stupore e disagio il silenzio di Piras e Genovese e anche di altri amici che pur ho sollecitato a intervenire.
    Davvero devo pensare a un tabù sulla storia degli anni Settanta? E ritenere che, non disponendo quelli che ancora s’interrogano su queste cose di prove ultimative, anche ragionare su ipotesi e supposizioni non serva e che il silenzio sia davvero d’oro?

  24. Non è che voglia sottrarmi, caro Abate: sugli anni settanta italiani il mio giudizio è implicito in quello che ho scritto. Un’enorme tragicommedia degli equivoci, in cui nessuno era quello che era e tutti recitavano in maschera. Il Psi non era un partito socialista, il Pci non era un partito comunista, la sinistra cosiddetta rivoluzionaria non era per nulla rivoluzionaria ma un coacervo di gruppi rissosi e dogmatici: al massimo avrebbero potuto impegnarsi per un governo delle sinistre, che tuttavia era impossibile a causa della collocazione del Pci e a causa delle incredibili resistenze conservatrici. L’Italia è stata l’unico paese al mondo (credo) in cui si sia minacciato un colpo di Stato, fin dagli anni sessanta, in risposta a una – difatti poi abortita – legge di riforma sui suoli pubblici (sto parlando del caso Sifar-De Lorenzo): un riordinamento urbanistico, che avrebbe forse impedito lo scempio delle nostre città, fu impedito con l’attiva collaborazione del presidente della Repubblica dell’epoca… Lei pensa, caro Abate, che il capitalismo sia pressoché incompatibile con la democrazia, ma non è così, se parliamo della democrazia liberale: l’Inghilterra, culla del capitalismo, sta lì a dimostrarlo. È l’Italia che ha nel proprio Dna – nella storia delle sue classi dirigenti, certamente, e probabilmente nella sua antropologia culturale diffusa – qualcosa di terribilmente antidemocratico. Le correnti della destra democristiana, il ruolo svolto dai servizi, le varie P2 – in generale il complesso di forze che non volle trattare per la liberazione di Moro e neppure provarsi a liberarlo –, erano più che altro l’espressione di un enorme e antico vuoto… Anche l’austero e moralissimo Berlinguer aveva in sé qualcosa di quella statolatria che è il corrispettivo della profonda mancanza di senso dello Stato diffusa in Italia a tutti i livelli. Ripeto: è un problema tutto nostro… Perfino il terrorismo di sinistra, in Italia, è riuscito a impiantarsi come una tradizione fatta di fanatismo e di sangue… E la difficoltà, che si vede anche su questo sito, a uscire da uno sterile dibattito sul passato per proiettarsi in avanti mostra a che punto sia ancora la notte.

  25. Caro Abate,
    le “prove ultimative” sul caso Moro non ci saranno mai (ma proprio mai). Se uno aspetta quelle per ragionarci su, aspetta quanto l’agrimensore K (e se è troppo curioso dei dettagli, troppo abile e fortunato nella ricerca, fa la stessa fine).
    Comunque, per ravvivare il dibattito butto lì un’osservazione sul rapporto tra “le parole” e “le cose” nel caso Moro.
    Come i meno giovani ricorderanno, i rappresentanti della “linea della fermezza” – in prima fila Berlinguer, Cossiga, Scalfari, La Malfa – dissero che le lettere dal carcere scritte da Moro valevano zero, perchè Moro non era più Moro: non era padrone di sè, era vittima della sindrome di Stoccolma, era drogato, torturato, plagiato, vigliacco: insomma, “non era lui*.
    Sul piano simbolico, dire che Moro non era Moro equivaleva a rinnegare il padre (perchè tale era la posizione assunta da Moro nella vita politica italiana di quegli anni: la cosa risultò di una evidenza lampante proprio con il suo rapimento).
    Bene. I figli rinnegarono il padre. Di lì a pochi anni, to’! I partiti politici italiani *persero il nome*, e continuarono a cambiarlo, a un ritmo vertiginoso (e non è ancora finita, eh? vedrete, vedrete…)
    Io la trovo una coincidenza interessante. Che ne dice?

  26. Caro Genovese,
    certo che è “qualcosa di tutto nostro”.
    A me sembra una ragione di più per cercare di capirlo (ed èdifficile capire senza empatia).
    Non si può voltare pagina e “proiettarsi in avanti” se non si sa chi si è.
    O meglio, per potere si può: ma allora ci si proietta in avanti e si spancia per terra.
    Non siamo l’Inghilterra, “culla del capitalismo” e della democrazia liberale, non siamo la Francia, la Germania, gli Stati Uniti d’America, la Svizzera, il Liechtenstein, etc.
    Siamo l’Italia. Siamo così (come? ci ragionano su grandi menti, da secoli, e la risposta definitiva pare non essere ancora giunta).
    Abbiamo la tara antropologica? Il DNA difettoso? La storia disfunzionale? Può darsi. Resta che inventarsi di essere “un paese normale” quando non lo si è, forse è mettere una toppa peggio del buco.

  27. @ Genovese

    Possiamo evitare di usare espressioni come “ce l’abbiamo nel nostro dna” e perpetuare questo mito della specialità italiana?

    @ Buffagni

    finché continui a porti la domanda sbagliata, ovvero “come siamo”? è ovvio che non troverai la risposta giusta.

  28. A mio parere una specificità italiana c’è. La si vede perfino qui: nell’uso, per esempio, di una fervida immaginazione fantapolitica che vorrebbe mostrare come il Pci (o almeno una sua parte) sia stato uno strumento degli americani per arrivare, ai giorni nostri, a sostenere che il Pd, in combutta con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, altro non voglia che la sottomissione del paese a una sorta di “spectre” mondialista (la quale naturalmente si presta a essere diretta da ebrei e massoni). È questa mentalità complottistica di estrema destra – che, con qualche variante, si ritrova anche in una ex estrema sinistra delusa – a mostrare una ferita da complessivo deficit di spirito democratico. C’è sempre qualcuno dietro. Anche se, in virtù delle debolezze di un sistema politico, un tipo come Renzi viene proiettato alla presidenza del consiglio, ci si chiede: chi c’è dietro? Ma dietro c’è soltanto una determinata storia italiana precipitata in un’antropologia culturale (ecco il Dna…).

  29. Alcuni interventi svolti nel corso di questa discussione, fra i quali mi limito a indicare per il suo valore ‘ideal-tipico’ quello di Rino Genovese, meritano una risposta argomentata che ristabilisca, attraverso un esame critico della radice italica del revisionismo, quale si esprime nell’apologia acritica della Costituzione, la verità occultata dalle cortine fumogene dell’irenismo conciliazionista e dell’opportunismo piccolo-borghese.
    L’origine democratica ed antifascista della Repubblica italiana, oggetto di molteplici attacchi da parte della borghesia per cui questa forma politico-istituzionale dello Stato è divenuta oggi una sorta di camicia di Nesso, fu suggellata il 2 giugno 1946 dopo la luminosa epopea della guerra di liberazione, che sin dal 1943 aveva visto in prima fila la classe operaia, avanguardia del movimento popolare che annientò il regime fascista e pose fine all’occupazione nazista del nostro Paese con le vittoriose insurrezioni dell’aprile 1945. Il popolo italiano, chiamato nella sua totalità (per la prima volta poterono votare le donne) a scegliere con un referendum tra la monarchia e la repubblica (oltre che ad eleggere l’Assemblea Costituente) spazzò via la prima, che era stata complice del fascismo, e optò per la seconda. Come apparve sempre più chiaramente negli anni seguenti, la sconfitta della monarchia fu il risultato più importante ottenuto dalle forze popolari che avevano animato la Resistenza. Non si trattò di un successo meramente simbolico, perché non bisogna dimenticare che il re (e qui l’ottica deve essere bifocale, rivolta cioè al passato e al presente) aveva sempre esercitato un forte controllo sulla politica estera e su quella militare e la dinastia sabauda aveva sempre appoggiato, non le istituzioni democratiche, ma coloro che, come Pelloux o Mussolini, avevano cercato di distruggerle. Vale la pena di osservare che, oltre alla conquista della Repubblica, un altro importante risultato, conseguito dal movimento operaio con i contratti nazionali del 1945-1946, fu la conquista della scala mobile, divenuta poi anch’essa, al pari della Repubblica e della Resistenza, bersaglio degli attacchi delle forze reazionarie (attacchi che saranno coronati dal successo con il referendum abrogativo del 1985).
    Mi sono riferito all’origine della scala mobile, perché non saprei trovare un esempio più evidente del nesso dialettico che intercorre fra interessi immediati della classe operaia e repubblica democratica, la quale, se è (come affermava Lenin) il miglior involucro della dittatura borghese, è anche il terreno migliore per lo sviluppo della lotta di classe del proletariato. Al fine dì illuminare il carattere dialettico di questo nesso e l’esatto significato dell’affermazione con cui un grande dirigente della Terza Internazionale come Georgi Dimitrov connotava il corretto atteggiamento dei comunisti di fronte a questo problema (“Noi non siamo degli anarchici e per noi non è affatto indifferente il regime politico esistente in un dato paese”), conviene indicare i motivi per cui, tanto sotto il profilo teorico quanto sotto quello storico, la reale natura di classe della Repubblica deriva dal rapporti di forza fra le correnti politiche e sociali che furono protagoniste della lotta di liberazione dal nazifascismo prima e della ricostruzione dopo.
    Questa qualificazione significa, in primo luogo, che la repubblica è una sovrastruttura politico-giuridica, la cui base è il modo di produzione capitalistico, entro il quale è classe dominante la borghesia. Da questo stesso punto di vista, se per un verso è giusto riconoscere, partendo da un esame della sua legge fondamentale, che la Costituzione della repubblica democratico-borghese italiana era formalmente una delle più avanzate dell’Occidente capitalistico (oggi ciò non è più vero, poiché è stata sfigurata dall’introduzione del federalismo cripto-secessionista, prima, e del principio ultraliberista del pareggio di bilancio, poi), è doveroso per un altro verso (che è poi quello primario) sottolineare quegli aspetti ignorati o sottaciuti dagli apologeti acritici dell’articolo 1, aspetti che caratterizzano la Costituzione italiana come il frutto di un compromesso, faticoso e non sempre riuscito, fra correnti politiche di ispirazione diversa (cattolica, social-comunista e liberal-democratica) e che vanno dalla fondamentale opzione a favore della proprietà privata (artt. 4 1, 42) alle affermazioni solenni ma generiche sul ruolo dei lavoratori (artt. 1, 3, 4), dallo “status” privilegiato riconosciuto alla Chiesa cattolica (art. 7) alla previsione di limitate nazionalizzazioni (da realizzare sempre “salvo indennizzo”).
    Gli elementi testé richiamati dimostrano che gli obbiettivi della parte più avanzata e proletaria della Resistenza non trovarono se non un pallido e mistificante riflesso nelle direttive e nei princìpi che informano la Costituzione, a partire dall’articolo 1, che va decodificato in questi termini: “L’Italia è una repubblica fondata [non sui lavoratori ma] sul lavoro”, cioè sullo scambio tra forza-lavoro e capitale. Perché allora questa parte della Resistenza ottenne, anche sul terreno delle riforme politiche e sociali, risultati così modesti? La risposta a questa domanda spiega non solo lo scarto crescente fra Costituzione scritta e Costituzione materiale, ma anche la genesi delle tendenze revisioniste che trovarono la loro piena estrinsecazione nella linea seguita dal Pci fra il 1945 e il 1947. Se è vero che le condizioni oggettive (ossia la presenza militare degli anglo-americani, che avevano posto fin dal 1944 con i Protocolli di Roma una pesante ipoteca sul futuro assetto del nostro Paese, presenza sostanzialmente accettata dai dirigenti della Resistenza, e la lotta contro il comunismo dichiarata dalla dottrina Truman) e le condizioni soggettive (ossia i livelli di coscienza politica delle masse popolari, che erano generalmente bassi, se si escludono alcuni settori sociali ed alcune aree del Sud e, soprattutto, del Centro-Nord) non rendevano possibile la rivoluzione socialista, è anche vero che la possibilità di ottenere invece significativi progressi per le classi lavoratrici, pur restando all’interno del quadro capitalistico, venne vanificata dalla scelta, compiuta dal gruppo dirigente del Pci, di fare dell’alleanza con la Dc il fulcro dell’azione politica del movimento operaio.
    Questo grave errore di valutazione dell’effettiva natura della Dc (che è strettamente connesso alla stessa valutazione della natura di classe della Repubblica e alla visione togliattiana della Costituzione come modello di “società intermedia”, visione in cui l’utopismo idealistico va a braccetto con l’opportunismo collaborazionista) trova una patetica conferma nella testimonianza di una prestigiosa dirigente del Pci, Camilla Ravera, collaboratrice di Gramsci e fondatrice del Pci, la quale, avendo espresso dei dubbi a questo proposito, si sentì rispondere da Togliatti: “Ma no, credi a me, io e De Gasperi siamo d’accordo su un sacco di cose, dalla riforma agraria all’unità sindacale. Vedrai, faremo insieme del buon lavoro”. Negli anni seguenti, la restaurazione capitalistica, gli eccidi dei lavoratori, la scissione sindacale e la violenza poliziesca della “Celere” di Scelba avrebbero tradotto nel duro e crudo linguaggio della dittatura borghese il “buon lavoro” che Togliatti prevedeva di fare con De Gasperi e con la Dc.

  30. a Dfw vs Jf

    Scusa, ma non ho capito. Puoi riformulare, per favore?

    a R. Genovese.

    Va be’. Lei mi rilancia con l’estrema destra, i massoni, gli ebrei, la Spectre, e l’antropologia culturale da deficit democratico. Io passo.

  31. @ Buffagni e fra le righe @ Genovese

    (si)amo o non (si)amo – feat. Shake dog Shakespeare
    L’Italia è il paese che (si)amo – feat. Mister B.
    (si)amo un paese tutto nostro – feat. Fabri Fibra
    (speri)amo di non fare la fine dell’Italia – feat. Corrado Guzzanti

    Capisco che come hai detto in passato hai una visione essenziale delle cose e che sei legato al concetto di identità, però in questo caso credo ti porti fuori strada, a te come alle grandi menti che citi. L’illusione di sapere come si è non è un’illusione perché è difficile capirlo, ma perché è impossibile. Una persona è ciò che fa, non ciò che è. Processi più o meno stabili. Lo stesso una società, un paese, una nazione, chiamala come vuoi. Quindi chiedersi come siamo, come eravamo e come saremo ha senso fintanto che queste approssimazioni ci consentono certi obiettivi. Ha senso chiedersi a che punto è l’analfabetismo, quante biblioteche pubbliche ci sono, quante persone vivono sotto la soglia di povertà, quante persone in carcere sono in attesa di giudizio e quali sono le loro condizioni; ha senso chiedersi se negli ospedali viene rispettato il diritto di abortire. Ha senso chiedersi quante donne lavorano, quante studiano, quanti centri anti-violenza ci sono. Può dunque essere utile sapere come questi dati erano in passato, per fare un raffronto. Ma tutto ciò può portare al massimo a un discorso grossolano sullo stato delle cose presenti, non certo a dire “così sono gli italiani”, e lo stesso vale per gli altri paesi e popoli. Io non sono te e tu non sei me, siamo italiani, ma questa somma non fa gli italiani, non descrive la natura o l’identità degli italiani. Tutto ciò che possiamo con una certa approssimazione chiamare processo italiano non ha un punto di partenza e avrà un punto di arrivo al momento in cui saremo tutti morti. È utile capire quali variabili abbiano influenzato questo processo, ma il nostro processo non ha niente di specifico rispetto a quello degli altri paesi citati, perché di base stiamo parlando di società umane ( con tutto che anche il concetto di umanità è un’approssimazione ). Vogliamo credere che esista un complottismo italiano diverso da quello statunitense? Vogliamo credere che i terroristi di sinistra italiani erano diversi dai terroristi di destra italiani e da quelli tedeschi e da quelli americani e da quelli giapponesi? Vogliamo credere che i mafiosi italiani sono diversi da quelli messicani e che le loro faide sono diverse da quelle dei balcani e da quelle degli Yanomamo? E, per arrivare ad oggi, cambia qualcosa che Moro sia stato ucciso dalle BR, dalla CIA o dalle scie chimiche? Qualcosa che renda immodificabile il processo italiano, intendo. C’è qualcosa che oggi non possiamo fare perché allora successero quelle cose o che non possiamo fare finché non capiamo certe cose?

  32. @Genovese
    Mi pare che lei cada in un enorme equivoco.
    Per giudicare la situazione presente, non v’è bisogno alcuno di invocare la spectre, o di pensare a chissà quale nascosto complotto, basta seguire gli eventi così come ci vengono postti, ma ovviamente con una certa dose di intelligenza.
    E’ vero o no che il mondo finanziario ha la possibilità di manipolare il cosiddetto mercato? Questa mi sembra un’ovvietà, perchè nella finanza fatta di ricchezza virtuale, ci sono gruppi finanziari in grado di spostare risorse (virtuali, s’intende) colossali in un brevissimo lasso di tempo, provocando un effetto valanga? Come si potrebbe negarlo, basta conoscere l’abbicci del funzionamento dei mercati finanziari.

    Allo stesso modo, è vero o no che OCSE, FMI, BCE, commissione europea consiglio d’europa e chissà quanti altri organismi senza alcuna legittimazione democratica un giorno sì e l’altro pure invadono lo spazio mediatico con loro dichiarazioni dirette sempre in una certa direzione? Ma cosa c’è da scoprire? Di fronte a noi si esibisce senza velo alcuno come gli interessi in gioco nella politica italiana siano presenti anche fuori dal nostro paese. E’ la globalizzaizone, baby, verrebbe da dire.
    Per non sapere e non capire bisognerebbe piuttosto adottare la strategia delle tre scimmiette. Pensare che Renzi sia un episodio tutto interno ad equilibri politici nostrani a me sembra di un’ingenuità senza fine, come una moglie che non crede al tradimento del marito neanche quando posta di fronte ad evidenze incontestabili.

  33. @nick illeggibile
    Ti rendi conto di avere scritto un intero paragrafo senza neanche provare a portare uno straccio di argomentazione?
    Leggendoti, mi sembrava di risentire quel comico (se ricordo bene Andy Luotto) che diceva questo buono, e questo no buono, tutto in stile rigorosamente assertivo.
    E’ incredibile quanto tu possa rappresentare, senza neanche rendertene conto, il prototipo della mentalità liberale, di questo monopensiero in cui siamo immersi, quanto mai dogmatico senza alcuna consapevolezza di esserlo.

  34. a Dfw vs Jf.

    Grazie della spiegazione esauriente. Sono più d’accordo con te di quel che forse immagini. Una comunità politica è, anzitutto, una comunità di destino, cioè definita da “dove va”. E’ anche, però, una comunità di origine, definita “da dove viene” (e su questo, immagino che non siamo d’accordo).
    Quanto poi al caso Moro, capire come è andata non mi pare così secondario, e non solo per gli appassionati di storia. Dall’interpretazione della vicenda Moro dipende anche l’interpretazione di uno snodo decisivo della storia italiana recente, che influisce direttamente sulla nostra comprensione e interpretazione del presente. Non ti pare?
    Grazie di nuovo, e cordiali saluti.

  35. Cucinotta, lei ha una visione mitologica della cosiddetta globalizzazione. Le cose funzionavano piuttosto come lei dice – e nemmeno così linearmente – ai tempi del mondo diviso in due zone di dominio e d’influenza. I poteri odierni sono essenzialmente plurali, non riconducibili a uno o due centri. Certamente essi interferiscono quando possono: ma – per parlare dell’avvicendamento tra Letta e Renzi – le pare che si possa dire che i mercati finanziari, che pure hanno degli interessi corposi sul debito italiano, preferiscano l’uno o l’altro? Semmai, comunque, avrebbero dovuto stare con Letta che era uno più “addormentato”. Il fatto che un democristiano-berlusconiano abbia fatto fuori un democristiano puro e semplice s’inserisce in una logica tutta italiana: ha a che fare con una certa “degenerazione” della politica in Italia. Per il caso Moro, tutt’altra storia… Però anche qui, attenzione! Certo, la Cia, gli americani, avevano interesse a mettere fuori causa Moro: ma ciò sarebbe stato possibile senza i tipici “poteri oscuri” italiani, senza la stessa Dc, e senza l’idiozia autoctona delle Br?

  36. Genovese, mi aspettavo da lei una maggiore capacità di osservazione. Quindi, abbiamo assistito ad un passaggio da Letta a Renzi? A me veramente sembrava che il passaggio fosse da Napolitano a Renzi, ma si sa, io mi occupo di mitologica.
    Se invece volesse accettare il mio suggerimento, la constatazione del ruolo del tutto gregario di Letta, potrebbe forse riscontrare altre circostanze, magari il lancio contemporaneamente su FT e sul Corriere della sera del libro di Friedman: s’intende, sempre se è interessato alla mia specialità, la mitologia…

  37. @ Buffagni

    Certamente c’è tutto un pregresso che ci ha indirizzati e la vicenda Moro ha avuto il suo peso. Però a volte, in generale, mi pare di leggere nelle interpretazioni della nostra storia una sorta di volontà rivelatrice. Capire come andarono le cose ci darà più elementi su quei fatti, ma è l’interpretazione ( e anche l’idea che per capire certe cose bisogna risalire, come se la Storia fosse un’equazione ) che mi lascia perplesso. Un messaggio può essere interpretato perché c’è scritto qualcosa. La vicenda Moro cosa potrebbe dirci di così decisivo?

    @ Cucinotta

    Non ho argomentato anche perché non credo ce ne fosse bisogno. Mi interessava specificare un punto in modo che Buffagni potesse capire ciò che gli avevo detto e il risultato è stato raggiunto. Non capisco ancora cosa intendi con monopensiero. Se parliamo di realtà, la realtà è una. Se dico cose che non ti sembrano vere, dimmi quali sono. Se parliamo di principi morali e di politica la cosa è diversa. Ci sono dei principi “liberali” in cui credo, certo. Riguardano soprattutto le libertà civili. Il punto che mi mette in crisi è quello delle regole economiche, perché conosco poco l’economia e perché ci sono alcuni punti marxisti che mi mettono in difficoltà. Di recente ho letto Peter Singer, Una sinistra darwiniana. Se una buona volta ti decidessi a dire cos’è questo monopensiero potremmo fare un piccolo, grande passo per l’umanità.

  38. a Dfw vs Jf

    Ti e mi chiedi: “La vicenda Moro cosa potrebbe dirci di così decisivo?”

    Sul piano personale ed emotivo, certo la vicenda Moro parla di più a me, che nel 1978 avevo 22 anni, che a te, che immagino non fossi ancora nato.
    Sul piano storico-politico, la vicenda Moro può suggerirci – soprattutto in forma di domande e ipotesi – alcune cose decisive in merito a uno snodo dal quale esce l’Italia odierna (e il suo perentorio schifo).
    Quando senti parlare di “fine della Prima Repubblica”, di “Mani Pulite”, di “trasformazione della sinistra italiana”, di “declino italiano”, il germe di tutte queste cose (pensieri, azioni, emozioni, sogni, etc.) lo puoi ritrovare proprio lì.
    Sul piano simbolico, la vicenda Moro, nonostante o forse proprio a cagione della sua grande importanza, del suo elevatissimo peso specifico, non ha trovato una rappresentazione all’altezza, anche se in molti l’hanno tentata. C’erano dentro alcune cose tremende, fortissime, perenni, ma declinate nella cronaca immediata, lancinante come una canzonetta: il padre potente ridotto all’impotenza, poi tradito, disconosciuto dai suoi, sacrificato come in un rituale azteco, con i figli/traditori che, rinnegato il nome del padre, scontano la pena perdendo il nome proprio; gli arcana imperii, le buone intenzioni che lastricano la via dell’inferno, l’eterogenesi dei fini, una concentrazione altamente tossica di menzogna…tante cose, come vedi; troppe.

  39. Quando Genovese definisce la Br come esempio di “idiozia autoctona”, dimostra di essere molto al di sotto del livello di analisi e di comprensione che una trattazione intelligente del tema in questione richiede. In realtà, la cultura politica che ha caratterizzato le Br era tutt’altro che “idiota” e tutt’altro che “autoctona”. Bastava leggere con attenzione i comunicati emessi da questa organizzazione durante i 55 giorni del sequestro di Moro per capire quanto fosse crudamente autoreferenziale e sostanzialmente esorcistico l’atteggiamento del sistema (sia politico sia massmediatico) nel qualificare quei comunicati come farneticanti, deliranti, fumosi, folli e così via esecrando. Quei comunicati erano invece lunghe, complesse ed articolate argomentazioni politiche con cui le Br non si rivolgevano tanto al nemico di classe ma agli amici ed alleati potenziali, per legittimare la propria funzione di avanguardia di un movimento che traeva la sua giustificazione da tutta una situazione internazionale. Occorre semmai avere il coraggio di riconoscere in quelle argomentazioni le tracce evidenti dell”album di famiglia’, come fu rilevato da Rossana Rossanda, ossia tesi e ragionamenti che riecheggiavano un consolidato patrimonio ideologico e culturale non solo europeo ma anche americano, che spaziava dai movimenti studenteschi del ’68 sino ai teorici della “Montly Review”, attraversando i partiti di sinistra nelle loro componenti minoritarie e radicali (dall’ala secchiana del Pci a quella bassiana del Psi/Psiup). Né ha molto senso sorridere sulla nozione del cosiddetto SIM ovvero Stato Imperialistico delle Multinazionali, nozione chiave delle analisi delle Br, di cui ho già messo in luce la pertinenza e l’attualità in un precedente commento. La nozione di SIM corrispondeva infatti alla realtà di una politica internazionale (oggi si direbbe transnazionale) non più determinata dai singoli governi ma, per l’appunto, da un blocco di interessi produttivi e finanziari il quale, come aveva dimostrato il colpo di Stato in Cile, è in grado di decidere le politiche locali, le guerre e le paci, oltre che di stabilire i rapporti tra l’Occidente capitalistico, la Cina e la Russia. Caso mai, quella che salta agli occhi è la solidarietà antitetico-polare tra la strategia del compromesso storico e la strategia della lotta armata, che rappresentarono due possibili risposte ad una situazione dominata dal SIM. Fu proprio un semiologo come Umberto Eco a notare, in un articolo pubblicato dalla “Repubblica” in quel lasso di tempo, questo aspetto molto moderno e assai acuto dell’analisi delineata dalle Br, evocando, quale ‘background’ epistemologico sotteso a tale analisi, la Teoria dei Sistemi, ma anche indicando l’errore di ragionamento (teorico e pratico) che commisero le Br. Su questo errore, definibile come ‘effetto di Edipo’, conviene soffermarsi, poiché si tratta di una situazione ben nota in economia, ma estensibile anche ad altri campi come quello della politica, in virtù della quale una prognosi cancella se stessa in quanto provoca, a partire dal momento stesso in cui viene formulata, determinate contromisure e non può quindi tener conto dell’effetto da essa stessa prodotto. Così, la teoria secondo la quale il SIM, per essere combattuto, richiede che si porti il colpo al “cuore dello Stato” non solo appare come un ‘non sequitur’ rispetto alla sua premessa, ma contempla ‘a priori’ il verificarsi di contro-effetti, generati dallo stesso SIM, come le azioni delle stesse Br o della Raf, quindi l’eliminazione in Italia o in Germania di esponenti di primo piano del mondo politico e industriale: contro-effetti che non sono in grado, per quanto siano gravi, di intaccare, per dirla con Marx ed Engels, il capitale come “potenza sociale”. Parimenti, tornando all”effetto Edipo’, anche la teoria secondo la quale determinate contraddizioni sociali portano necessariamente ad una rivoluzione ha come (contro-)effetto il ricorso, da parte dei governi, a riforme sociali che, mitigando queste contraddizioni, impediscono la rivoluzione. Questa è allora, in negativo, una lezione che si ricava, oltre che dalle vicende del movimento operaio, socialista e comunista, della fine dell’Ottocento e del Novecento, dall’esito della strategia berlingueriana del compromesso storico e dall’esito del sequestro e dell’uccisione di Moro da parte delle Br. In un caso abbiamo avuto un’involuzione complessiva del sistema politico, su cui si sono innestate le azioni di forze interne ed internazionali del SIM, le cui conseguenze giungono fino ai nostri giorni; nell’altro abbiamo avuto una ‘negazione della negazione’ che ha finito con il legittimare gli aspetti più abietti e più perversi del sistema esistente. Ecco perché il marxismo deve prendere in seria considerazione questa importante struttura riflessiva, riconoscendo, da un lato, l’incidenza dell”effetto di Edipo’ nella formulazione ed attuazione del programma perseguito dal movimento di classe (il concetto di “rivoluzione passiva” e la distinzione tra previsione morfologica e previsione teleologica rivelano in Gramsci un’acuta percezione di questo problema) e, dall’altro, il limite ontologico-sociale che impedisce ad una prognosi esatta del futuro di andare oltre un grado più o meno grande di probabilità.

  40. @ Buffagni

    Sicuramente, per quanto anche a me ha colpito. Ho un gruppo e una nostra canzone si chiama proprio 1978 ed è introdotta da un audio fatto anche dalla telefonata delle BR che annunciano l’omicidio. Credo di essermi espresso un po’ male. Sto leggendo un po’ di roba sul nazismo e nel libro di Hilberg ( La distruzione degli ebrei… ) proprio all’inizio c’è un passaggio di un discorso di un parlamentare antisemita tedesco del 1895. 1895! Quindi sì, la chiarezza sul passato in quel senso è decisiva. E riconosco anche il senso del piano simbolico, per quanto sono restio a questo tipo di analisi, o almeno le apprezzo di più in campo artistico. Con la mia domanda intendevo dire che quella vicenda, pure se ricca di spunti, mi sembra una vicenda chiusa. Gli effetti derivati che sono in corso d’opera non saranno modificati da ulteriori prove fattuali. Possiamo accrescere l’informazione di quell’epoca e di quanto oggi rimane, ma non vedo uno spazio di influenza futuro. Proprio perché il concetto di “comprensione del reale” mi sembra utopico o comunque fuori fuoco. Inoltre nel legare il presente con il passato si restringe il campo in maniera problematica. Mi interessa molto capire cosa si intende per declino della sinistra. Ma d’altro canto non vedo ostacoli per una nuova partecipazione. E non vedo ostacoli alla possibilità di rimettere in campo le idee e l’intelligenza. Va beh, saluti.

  41. Gradirei che qualcuno degli innumerevoli estimatori di Berlinguer,spiegasse in modo chiaro e senza retorica come mai e perche’:un’esponente politico comunista, abile e intelligente come E.Berlinguer, si schiero’ con la linea dura della non trattativa con le brigate rosse nel sequestro del suo leale amico A.Moro, ben sapendo che quella linea (era in prima persona perorata da suo cugino Cossiga: filoamericano, anticomunista, componente della sezione segreta armata in diretto collegamento con la C.I.A. e i servizi segreti italiani “Gladio”) , avrebbe sicuramente portato alla morte del “leale” statista A.Moro, che tanto aveva fatto per portare al governo dell’Italia, comprendendo in una grande coalizione politica anche il partito comunista di E.Berlinguer.
    che non avesse pensato a un simile epilogo, non ci crede nessuno. Che era giusto trattare con le B.R. era una mossa veramente intelligente, tanto dopo breve tempo sarebbero stati tutti catturati, come fu nel caso delle trattative con le B.R. qui andate a buon fine, per la liberazione del presidente della regione campania Ciro Cirillo. Due casi gestiti con pesi e misure diversi. Perche’?

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