cropped-sorteggio.jpgdi Italo Testa

E se il Senato fosse sorteggiato, in tutto o in parte? Se il Senato diventasse una camera dei cittadini e dei discorsi? Una camera in cui le autonomie locali e i saperi disciplinari, anziché chiudersi autoreferenzialmente, si aprano a una deliberazione democratica estesa, potenzialmente aperta a tutti?

I disegni legislativi del governo, e le diverse proposte avanzate nella discussione pubblica circa l’urgenza di riformare il bicameralismo, sembrano costantemente ignorare la prospettiva della legittimità democratica, della sua estensione e miglioramento qualitativo. Così il dibattito sui limiti del bicameralismo perfetto è orientato prevalentemente su aspetti funzionali – lentezza, inefficienza del processo decisionale – o economici (pure nel Ddl Civati/Chiti, alla fine, la proposta principale di riforma riguarda il dimezzamento del numero dei senatori). Anche quando si tocca il problema della scarsa rappresentatività delle istituzioni, i correttivi proposti – Senato delle autonomie locali, delle funzioni sociali, Camera Alta delle competenze – anziché esser pensati in vista di un’estensione e differenziazione della legittimità democratica delle istituzioni, tradiscono invece una matrice neo-oligarchica di stampo vuoi tecnocratico (Il Sole 24 Ore, Elena Cattaneo, Eugenio Scalfari) vuoi  neo-corporativo (il progetto avanzato da Mario Monti con il suo richiamo alle autonomie funzionali).

Il vero problema in questo senso non è costituito dalla proposta di rendere non elettivo l’organismo che prenderà il posto dell’attuale Senato. Il metodo elettivo, infatti, non è di per sé identico con la democrazia. Per quanto il suffragio universale rimanga una conquista democratica imprescindibile,  esso non è tuttavia sufficiente a garantire la qualità del processo deliberativo; e senz’altro vi sono istanze di legittimità democratica – legate alle idee di imparzialità, riflessività, prossimità – che possono essere realizzate anche, e forse meglio, con metodi diversi da quello elettivo.

Il problema nasce dal fatto che la proposta di sostituire il Senato con un organo in toto non elettivo, per la cornice in cui è collocata, prefigura una restrizione della legittimità democratica, anziché cogliere l’occasione per andare oltre i limiti della rappresentanza così come è oggi configurata. Un problema che non viene toccato neppure dall’appello di Gustavo Zagrebelsky, segnato come è dall’idea che, ancora una volta, per la sinistra l’unica strada percorribile sia il conservatorismo istituzionale.

Il problema di fondo nasce invece dal fatto che un Senato composto soltanto da eletti di secondo grado, rappresentanti delle autonomie locali, come nel Ddl governativo, cui si affianchino personalità della cultura e del mondo scientifico proposte da accademie e nominate dal Presidente della Repubblica (secondo la proposta della senatrice a vita Elena Cattaneo), verrebbe ad essere di fatto una camera di prescelti, secondo un metodo di co-ooptazione e di selezione oligarchica delle élites.

In questo modo si rischia di tradire il senso democratico di due esigenze di lungo corso e perfettamente ragionevoli cui la riforma proposta dal governo vorrebbe dare voce – l’esigenza di dare rappresentanza politico-nazionale alle autonomie locali da un lato, e quindi di far entrare i saperi scientifici nel processo politico decisionale .

E se invece la riforma del Senato fosse l’occasione per introdurre elementi di democrazia diretta che vadano ad affiancare e contro-bilanciare le istituzioni rappresentative? Se la riforma del Senato fosse l’occasione per creare uno spazio istituzionale in cui diverse forme di legittimità – rappresentanza, prossimità territoriale, riflessività dei saperi, sovranità diretta dei cittadini – possano incontrarsi e alimentarsi reciprocamente?

Esiste un metodo, storicamente legato alla democrazia antica, ma al centro anche di numerosi esperimenti contemporanei, che potrebbe garantire queste esigenze in una forma che renda diretto il rapporto tra cittadini e istituzioni. E’ il metodo del sorteggio. L’assegnazione di alcune cariche pubbliche tramite l’estrazione a sorte tra tutti i cittadini.

Perché mai le funzioni parlamentari non potrebbero essere ricoperte degnamente anche da un certo numero di persone direttamente selezionate mediante sorteggio tra tutti i cittadini? Perché mai il loro giudizio ponderato dovrebbe avere meno valore di quello espresso dai rappresentanti designati dai partiti o nominati dal Presidente della Repubblica? Perché mai il loro giudizio non potrebbe anzi illuminare i processi decisionali degli organi rappresentativi e correggerne certe distorsioni? Tanto più che il metodo del sorteggio coinvolgerebbe anche il partito del non voto, vale a dire quella parte della cittadinanza che esprime il proprio dissenso o il proprio distacco dalla politica rappresentativa non partecipando alle elezioni, ma che in questo modo avrebbe comunque la possibilità di accedere alle funzioni parlamentari e ottenere rappresentanza per il proprio punto di vista.

In secondo luogo, la presenza di un certo numero di parlamentari scelti mediante sorteggio accanto a rappresentanti delle autonomie locali e dei saperi, avrebbe funzione di garanzia e controllo democratico, in quanto servirebbe a controbilanciare le spinte autoreferenziali cui sono sottoposti gli organi territoriali e le competenze disciplinari.

In terzo luogo, non ci sono ragioni di principio per cui il metodo del sorteggio non potrebbe essere direttamente esteso, dopo aver introdotto in questo caso alcuni filtri preliminari, alla scelta dei rappresentanti delle autonomie locali e dei saperi. Dopotutto, anche nel caso delle competenze, c’è sempre un certo numero di profili fondamentalmente equivalenti, tra i quali la scelta è aleatoria e potrebbe esser democraticamente compiuta sotto il velo d’ignoranza della sorte.

Non si tratta soltanto di portare le esigenze territoriali e le competenze nel discorso politico e nelle sue istituzioni: occorre che tale operazione introduca prossimità, riflessività e competenza nel circolo della deliberazione democratica, di modo che esse vengano ad allargare la conoscenza sociale e ad ampliare gli spazi di libertà.  Per ottenere questo, è necessario che lo status di coloro che rappresentano istanze territoriali, o che detengono competenze culturali e scientifiche, non prevalga sui discorsi di cui sono portatori: discorsi che a loro volta non devono distaccarsi dal sapere comune  e devono essere ripresi nella sovranità di un discorso pubblico allargato, potenzialmente aperto a tutti. Il sorteggio potrebbe essere un metodo adeguato per soddisfare questa esigenza, perché la presenza nel Senato di un certo numero di cittadini scelti tramite sorteggio farebbe da contrappeso democratico alla rappresentatività indiretta degli esponenti delle autonomie locali, nello stesso tempo fornendo una garanzia che gli interessi e le conoscenze legittimamente espresse da questi ultimi siano discussi nella prospettiva di una deliberazione potenzialmente aperta a tutto il corpo della cittadinanza.

Limitarsi ancora una volta a tuonare contro i rischi di una svolta autoritaria, difendendo semplicemente lo status quo, e senza proporre alcunché che vada nel senso di un’estensione della democrazia, rischia di essere un atteggiamento del tutto speculare a quello che si vuole condannare.

E’ necessario invece oggi più che mai un surplus d’immaginazione democratica e istituzionale, lo sforzo creativo di pensare la trasformazione delle istituzioni in cui viviamo nel senso di un miglioramento qualitativo e insieme di una moltiplicazione delle forme di legittimità.

Un Senato dei discorsi e dei cittadini vs. un Senato delle competenze e delle funzioni. Un Senato democratico vs. un Senato oligarchico e tecnocratico.

Un Senato a sorteggio.

[Immagine: Sorteggio].

21 thoughts on “Senato a sorteggio

  1. Grazie a Italo per questo intervento, che mostra come si possa essere per le giuste riforme costituzionali, sfuggendo quindi all’accusa (strumentale) di conservatorismo…

  2. Sinceramente bisogna ammetterlo: l’importante è abbandonare il bicameralismo perfetto, dato che praticamente ogni altro ordinamento parlamentare applicabile nel nostro paese è migliore di quello attuale. Poi potremo trovarci mille obiezioni legittime nell’attuale proposta del senato delle autonomie, ma a questo si potrà sempre rimediare in futuro, noi ora viviamo in un periodo politico di emergenza e se non si mettono in pratica i rinnovamenti (non solo sul parlamento ma su legge elettorale, province, articolo V…) di cui si parla da vent’anni ed anche di più si rischia di far aumentare i malcontenti sociali e con il rischio che si manifestino non solo nei risultati perlomeno pacifici del movimento di Grillo, possiamo storcere il naso sul fatto che i principali realizzatori di tale riforme siano Berlusconi e Renzi ma la politica è l’arte del compromesso, e per ora dobbiamo accontentarci di questo, dato che l’alternativa mi pare proprio l’immobilismo e la difesa dell’esistente, non vedo per ora altre proposte alternative che possono essere accettate da un’ampia maggioranza (stiamo parlando di riforme costituzionali, ricordiamocelo).

  3. @carmela: la proposta non pretende di essere originale, visto che il metodo esiste da 2500 anni o giu’ di li’

    @Michele Dr.: non c’è una critica ad personam alla riforma proposta dal governo perche’ i suoi “principali realizzatori” sarebbero Renzi e Berlusconi: cio’ mi sembra irrilevante nel merito. Quanto all’idea di “accontentarsi di questo”, beh, le alternative non nascono maggioritarie, bisogna pensarle e proporle, altrimenti si ricade nel realismo tattico, che si vorrebbe lungimirante ma sa guardare solo al consenso immediato, e che è stato poi il male principale della sinistra cosiddetta riformista

  4. @it

    Quindi il “surplus di immaginazione” e lo “sforzo creativo” consiste nell’adottare un metodo che come dice, “esiste da 2500 anni o giu’ di li’”?

  5. immaginare significa prendere le distanze dal presente, per cui anche quello. e poi tra l’idea e le sue possibili incarnazioni c’e’ un bello spazio creativo

  6. Caro Testa,
    la proposta del sorteggio ha il merito di essere originale.
    Le ricordo però che per cambiare le istituzioni politiche nazionali, ci sarebbe una via regia, democraticissima, che chissà perchè nessun politico tira in ballo: la convocazione di una Assemblea Costituente eletta a suffragio universale proporzionale.
    Nella quale, perchè no, si potrebbe dibattere anche la sua proposta. Altrimenti, tutte le proposte di riforma, per quanto indovinate, meditate, ingegneristicamente geniali, saranno viziate dal medesimo peccato d’origine: l’illegittimità. Ce n’è già tanta in giro… e se non rincarassimo la dose?

  7. @it

    non mi risulta che “il male principale della sinistra cosiddetta riformista” sia stato “il realismo tattico, che si vorrebbe lungimirante ma sa guardare solo al consenso immediato”. La sinistra riformista di questi ultimi vent’anni non mi risulta abbia mai agito nè mediante un “realismo tattico” né ha mai tentato di proporre in modo più o meno netto proposte totalmente nuove: la sinistra di questi ultimi vent’anni è sempre stata caratterizzata da proporre in modo più o meno netto azioni politiche che, a prescindere se definibili di sinistra o meno, erano o sono fortemente conservatrici, ovvero totalmente obsolete in quando non consapevoli delle trasformazioni sociali avvenute negli ultimi anni (penso a problemi come il ripensare il legame tra lo stato e gli enti locali e la responsabilizzazione di questi ultimi, nonché il problema dei privilegi e dei poteri di veto a ogni mutamento da parte delle varie corporazioni non solo politiche presenti nel nostro paese) o per caso la sinistra negli ultimi vent’anni ha proposto “nuove” soluzioni – non importa se con modalità tattiche o radicali – a queste nuove problematiche? E non parliamo di consenso immediato dato che la sinistra ha vinto solo una volta nel 1996 solo quando gli avversari Berlusconi e la Lega erano divisi, mentre nell’altra “vittoria” del 2006 la sinistra aveva la maggioranza al senato solo grazie ai senatori a vita. Il realismo tattico inteso come la lungimiranza del “fare un passo indietro allo scopo di farne due in avanti” è peraltro fondamentale nell’azione politica, anzi è indispensabile nel caso si debbano fare riforme costituzionali che in quanto costituzionali possono essere realizzate solo con un’ampissima maggioranza. Di qui non si passa, qualunque siano le proposte alternative portate nel dibattito politico.

  8. @Buffagni: si’, il fatto che la proposta di una assemblea costituente non sia nei piani di alcuni e’ certo un altro segno del fatto che le varie proposte in campo non si definiscono in un orizzonte dove centrale è la questione della democrazia. Detto questo, non credo sia l’unica forma che possa garantire la legittimità democratica in generale, e la legittimità di riforme costituzionali parziali in particolare

    @Michele Dr: a dire il vero, quando parlavo di realismo tattico intendevo proprio il conservatorismo della sinistra, giustificato sulla base di analisi di corto raggio, da una fondamentale rassegnazione ad “accontentarsi dell’esistente”, e magari a spacciare come necessità epocali una serie di congiunture internazionali, al fine di potersene servire contro l’avversario: il fatto che il consenso non sia arrivato, non significa che l’orizzonte di pensiero non fosse proprio definito dalla ricerca (miope) di un consenso immediato, rivelatasi fallimentare. Si chiamava antiberlusconismo, ma alla fine era solo lotta per il potere, almeno per come è stata praticata dal principale attore, il PD. Ora che il consenso sembra poter arrivare, sarebbe bene non ripetere lo stesso errore, perche’ se le riforme rispondono principalmente alla logica di intercettarlo, e non sono ispirate a un progetto piu’ ampio, alla fine tra l’altro c’e’ proprio il rischio che perdano un altro treno.

  9. Caro Testa,
    grazie della replica. Secondo me, in questo “orizzonte” è “centrale… la questione della democrazia” nel senso che il ceto dirigente UE opera coerentemente per svuotarla, lasciandone in piedi solo le facciate, tipo villaggio Potemkin.
    Poi, certo, il consenso elettorale non è la sola forma possibile di legittimità. Possono essere legittimi regimi teocratici, autoritari, aristocratici, monarchici (assoluti e costituzionali) etc.
    Terra terra: la legittimità è una questione di fiducia, e di condivisione tra governanti e governati di un sistema coerente di principi, valori, tradizioni e leggi, cioè una questione di fiducia e di amore.
    Come si faccia a fidarsi e ad amare il “Mostro Buono” UE, francamente non vedo.

  10. Io non ho problemi a riconoscermi come “conservatore” di sinistra e – pensa un po’! – ritengo anche valide le osservazioni del conservatore (sicuramente non di sinistra) Buffagni. Conservatore perché io penso che l’ordinamento istituzionale attuale, bicamerale, vada benissimo, e il fatto che adesso è d’uso definirlo disfunzionale mi conferma proprio nell’idea che l’obiettivo dei “riformatori da battaglia” odierni sia esattamente quello di arrivare ad una ristrutturazione che vuole cogliere ben poco delle richieste di democrazia e partecipazione, così caldamente perorate da Italo Testa, che vengono dal basso. Perché la parola d’ordine adesso è governabilità prima di tutto e sopra tutto, articolata lungo una linea di decisionismo aziendalistico che non tollera più i lunghi tempi richiesti dalla ponderazione argomentata richiesta quando si deve deliberare del bene comune, cioè delle leggi. E’ vero che di per sé l’ordinamento attuale (ogni ordinamento, in effetti) non garantisce automaticamente democrazia e partecipazione. Si dice anche che in Italia la democrazia è bloccata: ma allora, proprio perché non c’è una relazione funzionale ben definita tra istituzioni e democrazia, cosa cambia per la seconda intervenendo (male) sulle prime? Non è lì che si annida il problema, secondo me. In Italia la democrazia è da sempre bloccata per tutta una serie di ragioni, sciorinate sino alla noia anche su questo blog, e il bicameralismo non c’entra niente. In tutto ciò vedo invece una precisa volontà di limitare la partecipazione e la possibilità di prendere decisioni tra pari, tra cittadini aventi tutti gli stessi diritti, per il semplice motivo che non sono queste le priorità in agenda agli amministratori (per conto del capitale) del potere politico. Priorità talmente cogenti da ignorare persino le decisioni della Consulta in materia di legge elettorale – e io, da “conservatore”, ritengo che il proporzionale potrebbe andare benissimo: il fatto che non si riesca a governare in Italia – a differenza della Germania, per esempio, dove il proporzionale c’è – è che nel nostro paese non esistono più da molto tempo partiti politici autorevoli e lucidi nel loro programma, tali da coagulare un consenso ampio e sufficientemente egemonico.
    Del resto va di moda ignorare o limitare gli effetti delle deliberazioni costituzionali in materia di partecipazione e diritti: vedi quanto è successo per il caso FIOM vs Fiat, deve praticamente si è ottemperato solo formalmente alle decisioni prese, di fatto riconfermando il precetto che “non si deve disturbare il manovratore”: alla faccia dell’articolo 46, opportunamente ricordato da Claudio Giunta in un suo post.
    Che poi, secondo me, tutto questo gran parlare di cambiamenti istituzionali serve a nascondere un fatto molto semplice: che non si possono e non si vogliono fare le riforme vere, quelle che attaccano il problema di una più equa redistribuzione del reddito e di una limitazione severa dello spazio di manovra del capitale speculativo – e anche del capitale tout court. Questi sarebbero i cambiamenti importanti e giustamente percepiti tali dalla gente, altro che abolizione del senato!

  11. Caro Ferrero,
    il sistema istituzionale italiano attuale, per quel che ne resta (poco), è effettivamente”disfunzionale” rispetto ai fini politici che i decisori di ultima istanza si propongono, e che si compendiano nel completamento della espropriazione della residua sovranità politica dello Stato italiano, a vantaggio di centri decisionali ameropici (= USA + UE).
    Certo, non è una impresa facilissima. C’è tanto da fare, tanto da dire, tanto da mentire…

  12. @ Alberto Ferrero:

    io personalmente non ritengo che ci debba essere un rinnovamento in qualsiasi aspetto delle istituzioni politiche italiane attuali, comunque l’affermazione che ” l’ordinamento istituzionale attuale, bicamerale, vada benissimo” mi pare bisognerebbe argomentarla molto di più: davvero il numero di parlamentari è ottimale nello scenario istituzionale del nostro paese? Ed è ottimale allo stesso modo il fatto che qualsiasi operazione svolta dalla camera debba essere svolta anche dal senato? Sia ben chiaro, non sto dicendo che il sistema debba essere cambiato totalmente (ad esempio in un periodo del nostro paese da non esaltare troppo ci fu un periodo in cui il parlamento fu abolito del tutto, dunque c’è sempre qualcosa di peggio della situazione attuale), però se da decenni si discute di qualche modifica allora qualche motivo ci sarà. Analogo è il discorso sulla legge elettorale, che deve tener conto inevitabilmente della situazione partitica attuale del nostro paese, ancor più di paragoni con altri paesi, ed è ben noto che un proporzionale come uscito dalla Consulta porterà inevitabilmente solo larghe intese perenni, e hai voglia di aspettare che tornino “partiti politici autorevoli e lucidi nel loro programma, tali da coagulare un consenso ampio e sufficientemente egemonico”. Facciamo prima a fare una legge elettorale adatta al deludente panorama partitico italiano, sperando che prima o poi anche in quel panorama il vento cambi.

  13. Il rifiuto della politica fatta dagli attuali partiti non può permetterci di arrivare alla proposta illustrata nell’articolo, secondo me. Voler trovare un sistema per ri-legittimare il Senato e le istituzioni repubblicane è cosa sacrosanta, ma non per questo possiamo decidere di aprire tali spazi a tutti. Io credo fermamente che la politica sia una professione e che per svolgerla servano quelle caratteristiche normalmente richieste in tutti gli altri lavori, ovvero: preparazione, competenza, serietà e onestà. È proprio la mancanza di questi requisiti fondamentali in coloro che noi stessi abbiamo eletto ad averci portato al disfacimento che ben conosciamo.
    Non tutti, però, sono dotati di tali competenze e non tutti possono fare i politici. Ma possono fare politica: attraverso la partecipazione, il non asservimento e il voto. Che mi sembra già una bella rivoluzione.

  14. @buffagni: ll modello organizzativo e tecnocratico che si è installato al centro del sistema delle istituzioni europee di fatto opera nel senso di una espropriazione dell’agire democratico.Non credo pero’ che la questione si lasci tradurre in termini di deficit di consenso elettorale, né che la legittimità democratica sia solo una questione di consenso elettorale. Dopotutto, la democrazia è prima di tutto una forma di vita, un certo modo di agire, e il momento elettorale è un particolare metodo che lo implementa, accanto ad altri metodi democratici. Quindi l’alternativa non è tra democrazia come legittimità elettorale, e altre forme di governo che fanno appello a diverse forme di legittimità (teocratica, autocratica, monarco-costituzionale). La non coincidenza tra legittimità democratica e consenso elettorale a mio avviso rinvia a questo: la legittimità non è solo una questione di fiducia, ma anche di sfiducia, non solo di consenso, ma anche di dissenso. In una certa misura la legittimità della democrazia sta nell’istituzionalizzare il dissenso e le sue pratiche.

    @ferrero: si’, a deliberazione, la partecipazione democratica non sono il nucleo ispitatore delle proposte di riforma ufficialmente in gioco. pero’ alcuni aspetti disfunzionali del sistema istituzionale possono essere ostacoli anche rispetto alla partecipazione e alla deliberazione. Anche una deliberazione riflessiva ed estesa, anzitutto, vista la nostra finitezza e i limiti temporali in cui viviamo, deve poter arrivare a delle decisioni in tempi ragionevoli, altrimenti anche il valore conoscitivo ed euristico di questa deliberazione non potra’ che essere evanescente, In secondo luogo, il un bicameralismo perfetto dove la differenza sostanziale è data dall’eta’ degli elettori, ed eventualmente dalle differenze formali del modello elettorale alla base delle due camere, potra’ magari avere una funzione di bilanciamento, tuttavia non mi sembra di per sé dare alcuna garanzia di un miglioramento qualitativo del dibattito democratico, perche’ appunto l’espressione di interessi, preferenze, e conoscenze, sara’ basata di fatto su una base omologa (vale a dire sulla base dell’aggregazione di preferenze, interessi, conoscenze individuali che si presumono già date). I partiti organizzati si sono presentati per decenni come organizzatori di questa aggregazione, appunto come produttori ed egemonizzatori di questo tipo di consenso: qui a mio avviso si tratta anche di prendere atto che una idea piu’ ampia di democrazia richiede anche di andare oltre questo modello: piu’ che di agenti capaci di coagulare il consenso, mi sembra che ci sia bisogno di agenti, e metodi, capaci di differenziarlo e demoltiplicarlo. naturalmente le riforme istituzionali sono solo uno dei modi di incidere in questo senso, e da sole non possono garantire granché.

  15. Nella sostanza Ferrero ha ragione: non ci sarebbe alcun bisogno di modificare l’assetto del senato (se non il pasticcio in cui Renzi si è messo con la proposta di una legge elettorale inapplicabile al senato stesso, e per via di un calcolo elettorale che consiste nel venire incontro alla spinta “antipolitica” presente nel paese). Neppure avrebbe molto senso proporre una politica fatta solo da sorteggiati e non da eletti. Però Testa si è posto un altro problema: in che modo rispondere al populismo e alla posizione falsamente riformatrice di Renzi? Non è detto che lo si debba fare semplicemente sventolando la Carta costituzionale così com’è. Ci sono vari livelli di partecipazione democratica possibile. Uno di questi è ipotizzare (lo ha fatto per esempio Rosanvallon) delle “giurie cittadine” che esprimano un parere sulle leggi e controllino costantemente l’attività legislativa degli eletti. Se si volesse riformare il senato (ammesso e non concesso…) nel senso di una maggiore diffusione della democrazia, questa sarebbe la strada da battere. E una certa aliquota di sorteggio ci potrebbe stare.

  16. Mi piacerebbe sapere che cosa osservarono i liberal-riformisti che qui discettano di riforme elettorali e costituzionali, nonché di improbabili meccanismi di sorteggio del personale politico-istituzionale, quando con una votazione a larga maggioranza del Senato fu modificato in senso neoliberista l’articolo 81 della Costituzione e l’obbligo del pareggio di bilancio fu in tal modo ‘costituzionalizzato’. Chissà se si ricordano che, prima di partire per il suo viaggio nell’Estremo Oriente, Mario Monti aveva esplicitamente dichiarato che “occorre adeguare la Costituzione formale alla Costituzione materiale”. Così, ciò che non era riuscito a Berlusconi, fu allora attuato da Monti sotto dettatura dell’Unione Europea, con il consenso del Pd, del Pdl e dell’Udc, mentre il custode istituzionale della Costituzione restò silente e consenziente. Quella Costituzione che i padri costituenti vollero che fosse ispirata, oltre che al “complesso del tiranno”, ad una visione keynesiana e lavoristica fondata su una politica economica socialmente avanzata ed attenta ai diritti dei lavoratori, dopo essere stata deformata dall’introduzione della ‘riforma federalista’ nel 2001 (grazie alla quale stiamo ora assistendo ad un’inquietante recrudescenza delle spinte secessioniste), è stata quindi sfigurata in modo irreparabile dalla modifica dell’articolo 81 e dalla concomitante e coestensiva modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Che tutto ciò sia avvenuto con il pieno consenso del Pd dimostra soltanto quale mostro politico sia diventato questo partito rinnegando sia la tradizione solidaristica del cattolicesimo sociale sia la tradizione collettivistica del socialismo e del comunismo.

    Ferdinand de Lassalle soleva dire che le Costituzioni nascono dai cannoni (e ‘a fortiori’ anche le assemblee costituenti, caro Buffagni). Questa aurea massima, che è storicamente corretta, va ora completata in questo senso: le Costituzioni periscono sotto i colpi di cannone della borghesia industriale e finanziaria, che ha sferrato il suo attacco con perfetto tempismo nel momento di massima debolezza del proletariato a causa dei rapporti di forza sfavorevoli creati dalla crisi economica, dalla disoccupazione e, ‘last but not least’, dall’assenza di un partito comunista politicamente combattivo e teoricamente rigoroso.

    La Costituzione è ormai un pezzo di carta e le escogitazioni di ‘ingegneria costituzionale’, di cui i liberal-riformisti continuano a fornirci esempi tanto cervellotici quanto tragicomici, somigliano ad altrettanti esercizi di tanatocosmesi. Il proletariato e i comunisti devono invece far tesoro di questa lezione di marxismo che la borghesia sta loro impartendo. Realizzando con ferrea consequenzialità l’adeguamento della sovrastruttura alla struttura, legge fondamentale del materialismo storico, il capitale finanziario globale e quello nazionale stanno facendo saltare il perimetro costituzionale entro cui si è svolta per oltre mezzo secolo la lotta fra le classi. La funzione storica della Costituzione del 1948 era quella tipica di un compromesso fra le classi antagoniste sui criteri di ripartizione della ricchezza sociale e sulle forme del conflitto all’interno di uno Stato nazionale: un compromesso la cui funzione, per dirla con Marx, era quella di impedire alla borghesia di passare dalla restaurazione sociale a quella politica e al proletariato di passare dall’emancipazione politica a quella sociale. La funzione di una Costituzione deformata e sfigurata in senso autoritario e neoliberista è invece quella di un mero involucro giuridico-politico della dittatura sempre più palese ed aggressiva del capitale finanziario, il vero tallone di ferro che, malgrado la vaselina spalmata dai liberal-riformisti, sta schiacciando il proletariato pauperizzato e i ceti medi proletarizzati.

  17. Caro Barone,
    lei e Lassalle avete, naturalmente, ragione. Buona Pasqua.

  18. @iodice: lei sostiene di credere fermamente che la politica sia una professione, che non tutti avrebbero le doti necessarie a ciò, e le identifica con “preparazione, competenza, serietà e onestà”. Questo mi sembra un punto da discutere. Anzitutto, l’assenza di tali doti non è solo un problema dei politici che abbiamo eletto attualmente. In secondo luogo,, on c’e’ alcuna garanzia che il metodo elettivo sia idoneo a selezionare i politici in base a tali competenze. Ma soprattutto, dal punto di vista democratico, non dobbiamo assumere che vi siano doti specifiche per fare politica, ne’ che alcuni ne siano piu’ dotati di altri. In effetti, il governo democratico è proprio quello che assume che la politica debba essere aperta ai “non competenti”, e che il principio di “competenza” non sia idoneo a legittimare le istituzioni. Altrimenti ci si trova nel governo aristocratico o tecnocratico. Tra l’altro, anche il metodo rappresentativo, all’interno della democrazia, non significa delega ai competenti: gli eletti sono rappresentanti del popolo prima ancora che depositari di qualche know-how (che evidentemente non hanno..).
    Il problema, anche domestico, non è che tra i rappresentanti politici non vi siano dei “competenti” (l’esperienza del governo Monti in tal senso ci ha dato un insegnamento paradigmatico), ma forse che ve ne sono anche troppi (si pensi a come, ad esempio, i laureati in legge siano prevalenti nel ceto politico delle democrazie rappresentative), tutti interni alla logica autoreferenziale del sapere, della competenza, del gruppo di interesse cui appartengono. Alcuni di questi limiti sono dovuti anche al metodo elettivo per come esso è configurato. Infatti

    @genovese: il metodo elettivo, per come è configurato entro la democrazia rappresentativa attuale, mi sembra da solo insufficiente a dare espressione democratica alla società attuale. Le pratiche sociali contemporanee sono articolate su una molteplicità di livelli, che appunto come scrivi rendono pensabili diversi livelli di partecipazione e di articolazione del potere democratico. Il principio di rappresentanza e il metodo elettivo da solo non sembra in grado di poter dar soddisfazione a tutte queste esigenze e al modo in cui un potere democratico potrebbe effettivamente concretizzarsi. Per questo si tratta non di sostituire il metodo elettivo con quello a sorteggio, ma piuttosto di combinarli, di ibridarli, assieme anche ad altri metodi: e la questione non è di tipo formale o meramente metodologica, ma risponde ad una esigenza sostanziale di dare corpo ad un potere democratico piu’ esteso e piu’ sensibile alla configurazione delle pratiche sociali

    @Barone: la riforma proposta non è di tipo liberal-riformista, ma piuttosto democratico radicale, né semplicemente una questione metodologica di ingegneria costitizionale. La vicenda, sconfortante, delle riforme costituzionali avvallate dal PD in questi anni, nasce appunto dal fatto che tali riforme non sono state ispirate ad un progetto di democratizzazione della società, ma rispondevano appunto a input funzionali e tecnocratici – come nel caso della costituzionalizzazione del pareggio in bilancio – o a maldestri tentativi di competere con il centrodestra sul terreno della, peraltro legittima, rappresentanza delle autonomie locali. Tutto questo pero’ non significa che allora l’unico orizzonte di pensabilità sia quello della difesa del compromesso costituzionale dei padri costituenti. Altrimenti, nonostante si dica di voler fare il contrario, si finisce veramente per ridurre la democrazia ad una questione politica, ignorandone le radici sociali. Da questo punto di vista la proposta di introdurre il metodo del sorteggio è un modo – tra altri pensabili – di porre il problema della democratizzazione della società prima ancora che una possibile riforma costituzionale. Mi sembra invece che tutto sommato le posizioni sovraniste, incluse quelle di coloritura marxista, siano su questo punto decisamente bloccate. Per un verso hanno il merito di porre chiaramente il problema della erosione del potere democratico – vedi costituzionalizzazione pareggio di bilancio. Ma per altro verso non si pongono il problema di ripensare le matrici sociali del potere democratico in modo che dia risposta alla struttura differenziata e articolata su molteplici livelli delle società contemporanea. Alla fine il potere democratico viene pensato semplicemente in termini di sovranità – espropriata, da difendere, magari difendendo per partito preso l’ordinamento politico costituzionale attuale – senza peraltro rendersi conto di due cose. Primo che il modello della sovranità non è di per sé il piu’ adeguato a dare espressione al potere democratico (o alla volontà popolare), e anzi si è rivelato anche storicamente stare in forte tensione con esso. La sovranità è semmai una forma storica di empowerment del potere democratico, piuttosto che identica con esso. In secondo luogo, non si tiene conto delle trasformazioni della fonte stessa del potere democratico, vale a dire, non si tiene conto del fatto che il “pubblico”, il popolo, o come si vuole chiamarlo, è ormai qualcosa che, pur se frammentato, travalica i confini nazionali, è differenziato, articolato su piu’ livelli: quindi, il problema di una democrazia sociale sarà quello di costituzionalizzare questo fatto – sia nell’ambito delle istituzioni nazionali esistenti, che in quello sovranazionale – piuttosto che quello di difendere ad oltranza un compromesso politico-istituzionale che senz’altro rispondeva a una situazione differente. Certo, la questione sociale deve essere analizzata anche in termini materialistici, e il problema della democratizzazione della società riguarda centralmente la questione del lavoro. Non mi pare pero’ che si possano dare contributi rilevanti all’analisi della questione del lavoro se si adottano argomenti che fondamentalmente hanno la struttura, mutatis mutandis, dei classici argomenti conservatori contro il mutamento istituzionale (vedi Burke sulla rivoluzione francese). Vorrei far peraltro notare che di per sé la riforma del senato non è qualcosa che vada ad intaccare i principi della prima parte della costituzione.

  19. Caro Testa,
    certo, il sovranismo non esaurisce e non risolve tutto, la democrazia rappresentativa ha tanti difetti, etc. Esiste però un ordine di priorità. Io direi: prima, cercare di riappropriarsi degli strumenti minimi per prendere decisioni politiche, poi discutere del resto, democratizzazione della vita quotidiana compresa. Sennò si discute e basta.

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