di Paolo Zanotti
[Questo saggio è uscito in Studi di letterature comparate in onore di Remo Ceserani. II. Letteratura e tecnologia, a cura di Pierluigi Pellini (Vecchiarelli 2003), pp. 127-149].
1. Tra incanto e disincanto: le luci della città. L’illuminazione elettrica, secondo una famosa tesi di Ernst Bloch[1], ha contribuito più di Voltaire a cacciare dal nostro mondo spettri, coboldi e ombre minacciose. Dall’altra parte, il perfezionamento dell’illuminazione ha dato vita a un altro tipo di incanto, più mondano, della notte: il mito della ville lumière, lo sviluppo della vita notturna come tempo di un loisir accessibile a una porzione gradualmente crescente di abitanti. Questo nuovo incanto mondano ha origine nell’alleanza prima impensabile di due tradizioni di illuminazione nettamente distinte. La prima illuminazione stradale realmente pubblica, iniziata nel Seicento, veniva gestita dalla polizia e obbediva più a esigenze di controllo simbolico che non di reale vivibilità notturna della città. I punti di luce erano solo dei punti di orientamento, vaghe indicazioni di portolano all’interno di quel mare che era la notte. Ogni notte era un coprifuoco percorso da ronde: chi usciva di casa era comunque persona sospetta e, se lo faceva per motivi leciti, si faceva spesso accompagnare da portatori di fiaccole, affittabili come le carrozze[2]. L’illuminazione ‘incantata’ nasce contemporaneamente a quella stradale, ma si tratta di tutt’altra tradizione, quella celebrativa delle feste notturne barocche[3]. Nell’Ottocento, il gas prima e l’elettricità poi rendono possibile un dispiegamento permanente di luci a scopi festosi o seduttivi prima ottenibile solo momentaneamente e a costi molto gravosi.
L’idea seicentesca secondo cui l’illuminazione serve soprattutto a dare un’ordine alla città notturna persiste nel Settecento: a mano a mano che le lanterne a olio vengono perfezionate, il numero dei lampioni cittadini viene diminuito, come se non ci fosse una reale esigenza di illuminazione consistente delle strade[4]. Le premesse per una vera e propria illuminazione stradale vengono poste in fabbrica: è lì che per la prima volta la notte diventa giorno. Quel gas che non era altro che un prodotto di scarto della cokefazione del carbon fossile inizia a essere impiegato per l’illuminazione delle nuove industrie inglesi di inizio Ottocento[5]. Il processo di illuminazione a gas della città di Londra inizia nel 1814, quello di Parigi nel decennio successivo, a partire, significativamente, dai passages, quindi a scopi di incanto commerciale. Non bisogna comunque pensare all’illuminazione stradale ottocentesca come a qualcosa di paragonabile a quella delle città contemporanee: a seconda dei quartieri, i lampioni potevano essere molto rari e comunque era solo in periodi molto limitati dell’anno che rimanevano accesi tutta la notte[6]. Si può parlare di una reale illuminazione stradale solo a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento, con il trionfo della luce elettrica, inizialmente impiegata – a causa del costo e della scarsa regolabilità – soltanto per l’illuminazione di grandi ambienti, monumenti, vie commerciali[7].
Nell’Ottocento, quindi, la ville lumière, propriamente, non esisteva, o almeno non c’era capitale che potesse dispiegare lo splendore delle sue luci fin dai sobborghi. Questo può essere documentato confrontando alcune scene di ingresso nella metropoli da parte di giovani provenienti dalla provincia. Entrando a Londra di notte, agli occhi di Oliver Twist (1838) si dispiegano soltanto luoghi fetidi e bui. Nel Sans famille di Malot (Senza famiglia, 1878), le aspettative di Rémy in arrivo a Parigi di vedere subito una fiabesca città luminosa e pulita vengono completamente disattese. Leggermente diverso il caso di Au Bonheur des Dames (1883) di Zola. Il primo impatto di Denise con Parigi non è dei più allegri. Tuttavia, in una Parigi «mouillé» dalla pioggia, «grande ville si glaciale et si laide»[8], Denise si imbatte, come in un moderno palazzo di Aladino sorto dal nulla nel mezzo della notte[9], nel grande magazzino che dà il titolo al romanzo: «Mais, de l’autre côté de la chaussée, le Bonheur des Dames allumait les files profondes de ses becs de gaz»[10]. Come la piccola fiammiferaia di Andersen, Denise si sente «comme rechauffée à ce foyer d’ardente lumière»[11].
Ma il romanzo di Zola è soprattutto l’epopea del nuovo modo di fare commercio in grande stile, e quindi il grande magazzino si presenta a Denise soprattutto col fascino delle sue vetrine, che uniscono merci e luci in un unico incanto:
on ne distinguait plus, en face, que la neige des dentelles, dont les verres dépolis d’une rampe de gaz avivaient le blanc; et, sur ce fond de chapelle, les confections s’enlevaient en vigueur, le grand manteau de velours, garni de renard argenté, mettait le profil cambré d’une femme sans tête, dans l’inconnu des ténèbres de Paris.
Denise, cédant à la séduction, était venue jousqu’à la porte, sans se soucier du rejaillissement des gouttes, qui la trempait. A cette heure de nuit, avec son éclat de fournaise, le Bonheur des Dames achevait de la prendre tout entière. Dans la grande ville, noire et muette sous la pluie, dans ce Paris qu’elle ignorait, il flambait comme un phare, il semblait à lui seul la lumière et la vie de la cité.[12]
Solo una grande città americana in piena espansione negli ultimi anni dell’Ottocento, Chicago, saprà appagare fin dalla sua estrema periferia le aspettative miste ad apprensione di una giovane ragazza di campagna: Caroline Meeber sperimenterà immediatamente che «The gleam of a thousand lights is often as effective, to all moral intents and purposes, as the persuasive light in a wooing and fascinating eye»[13].
2. Incontri notturni. Oltre all’incanto del loisir notturno, lo splendore del divertimento e del consumo, anche l’altro tipo di incanto, vale a dire la possibilità di una percezione magica o almeno non quotidiana del mondo durante la notte, continua a essere sfruttato nella letteratura otto e novecentesca, a volte anche in collegamento col primo. Questo da una parte perché la letteratura tende a riprendere, per parlare delle novità tecnologiche, modalità fiabesche apparentemente superate; dall’altra perché, come si è detto, l’illuminazione cittadina ottocentesca era tutt’altro che uniforme.
Si può trovare un primo esempio di persistenza dell’idea della notte come spazio-tempo alternativo al giorno nelle situazioni di incontro. Uno dei grandi eroi delle notti fiabesche, il califfo Harùn ar-Rashìd delle Mille e una notte, usava travestirsi e vagare in incognito nelle notti di Bagdad introducendosi nelle case e nelle vite altrui alla ricerca di storie. Le notti illuminate artificialmente non rendono affatto impossibili questo tipo di avventure. La discontinuità dell’illuminazione favorisce anzi gli incontri casuali, inquietanti o meno, proprio perché i punti di luce costituiscono delle isole all’interno dell’oscurità. Fulmineo l’attacco di uno dei petits poèmes en prose di Baudelaire, Mademoiselle Bistouri:
Comme j’arrivais à l’extrémité du faubourg, sous les éclairs du gaz, je sentis un bras qui se coulait doucement sous le mien, et j’entendis une voix qui me disait à l’oreille: «Vous êtes médecin, monsieur?»[14]
Nell’éducation sentimentale (L’educazione sentimentale, 1869) Frédéric ha spesso rivelazioni sull’abbigliamento di Madame Arnoux soltanto al momento del loro passaggio sotto un lampione. Ma è solo in un testo più tardo (e attentissimo ai mutamenti nella vita materiale portati dalla tecnologia) che l’influenza dell’illuminazione discontinua sulla percezione viene accuratamente tematizzata. Nel capitolo IV di Orlando (1928), l’eroe-eroina di Virginia Woolf (eroina, in questo caso) si trova in carrozza con il poeta Alexander Pope, che ha appena conosciuto in un salotto. Orlando sarebbe portata a idealizzare l’uomo Pope, ma il ritmo delle lanterne a olio durante il tragitto si intromette nel corso dei suoi pensieri. A partire dal principio generale secondo cui «The less we see, the more we believe»[15], il narratore inizia una digressione sullo sviluppo dell’illuminazione stradale londinese a partire dall’età elisabettiana, periodo in cui Orlando è nato, spiegandoci che se anche c’erano stati dei grossi progressi
Lamp-posts lit with oil-lamps occurred every two hundred yards or so, but between lay a considerable stretch of pitch darkness. Thus for ten minutes Orlando and Mr Pope would be in blackness; and then for about half a minute again in the light.[16]
Nei lunghi momenti di oscurità, Orlando idealizza Pope e la sua fantasia corre a ciò che per lei il poeta rappresenta: i sogni di fama e di gloria. Nei brevi istanti di luce, Pope le appare soltanto come un un ometto sgradevole. L’alternarsi di illusioni e disillusioni termina in una finale visione di disincanto («The light of truth»[17]): un gruppo di prostitute sotto a un lampione in compagnia dei loro clienti.
Gli isolati punti di luce dei quartieri ottocenteschi meno illuminati sono in effetti abitualmente collegati alla prostituzione e al mondo della malavita[18]. All’inizio dei Mystères de Paris (I misteri di Parigi, 1842-1843), Rodolphe, il granduca travestito da operaio, soccorre la prostituta Fleur-de-Marie dalle molestie dello Chourineur. La luce è scarsa, e lo Chourineur, mentre subisce la maggior forza e abilità di Rodolphe, riesce a percepire solo uno strano contrasto tra la pelle delicata e la corporatura sottile dell’avversario e la sua forza sovrumana, senza poterlo vedere in viso. Riconosciutosi sconfitto, invita Rodolphe a recarsi sotto la luce di un lampione, per poterlo finalmente vedere.
La scarsità di illuminazione è utile ai meccanismi di «falsa agnizione» del romanzo d’appendice, per usare la fortunata espressione di Eco, e insieme pone le premesse per la sopravvivenza di personaggi simili al califfo Harùn (o, se si preferisce, al Duca di Measure for Measure). Nelle New Arabian Nights (Le nuove mille e una notte, 1882) di Stevenson, Florizel principe di Boemia (nome e titolo shakespeariani) si avventura nella Londra notturna accompagnato – come Harùn dal visir Giafar – dal colonello Geraldine: Florizel celato da baffi finti e abiti dimessi, Geraldine dalle sue naturali qualità mimetiche.
3. Notti rivoluzionarie. L’illuminazione pubblica, si è già detto, è sempre stata anche un sistema di controllo. In particolare così era percepita soprattutto nella Francia settecentesca, dove le lanterne, fissate a corde tese trasversalmente, cadevano esattamente al centro della strada e recavano il simbolo del re[19], rappresentandone così, in qualche modo, lo sguardo che controlla dall’alto. La distruzione delle lanterne come atto individuale fu un tipico gesto libertino, poi divenne una pratica collettiva nelle rivoluzioni dell’Ottocento[20]. Un gesto simbolico (la negazione dello sguardo che controlla, l’instaurazione di un nuovo ordine spaziale e temporale) e insieme una precisa tattica di guerriglia in combinazione con le barricate.
In un famoso libro dei Misérables (I miserabili, 1862), il xiii della iv parte, Marius sprofonda nella Parigi dell’insurrezione del ‘32. La sua è una catabasi in piena regola[21] man mano che si sposta dai quartieri controllati dall’esercito (dove si vedono ancora luci alle finestre) verso i mercati. A questo punto il narratore si lancia in una descrizione di Parigi a volo d’uccello, anzi «à vol de hibou», in cui l’antico e tortuoso quartiere dei mercati appare come «un énorme trou sombre creusé au centre de Paris»[22]. Le lanterne, infatti, sono state infrante, gli abitanti del quartiere invitati o costretti a spegnere le luci domestiche. Si intuiscono soltanto, qua e là, deboli bagliori in movimento: vengono dalle barricate. Come Robin Hood, verrebbe da dire, si oppone al potere regale dal buio della foresta di Sherwood, così la rivolta cova in «ce quartier fatal, au plus profond des cavités insondables de ce vieux Paris misérable qui disparaît sous la splendeur du Paris heureux et opulent»[23]. Marius si unisce ai rivoltosi e inizia a interrogarsi sulle ragioni delle guerre civili. Cosa significa partecipare a una guerra civile? «Eh bien, la monarchie, c’est l’étranger […]. Le despotisme viole la frontière morale comme l’invasion viole la frontière géographique. Chasser le tyran ou chasser l’Anglais, c’est, dans les deux cas, reprendre son territoire»[24].
«Riprendersi il proprio territorio». E chi più indicato per questo compito di chi già vive ai margini della vita cittadina, conosce la città palmo a palmo, e in più è abituato a cavarsela in ogni situazione di strada? Il monello Gavroche svolge con tremenda serietà il suo nuovo compito di mediatore verso un nuovo ordine, cioè di distruttore di lanterne: «Tiens», dice a Jean Valjean, «vous avez encore vos lanternes ici. Vous n’êtes pas en règle, mon ami. C’est du désordre. Cassez-moi ça»[25].
4. Nottambuli e flâneurs. Oltre alle esperienze collettive del loisir e dell’insurrezione, esiste un altro modo, più individuale, eccentrico e a volte perturbante, di usare la notte. Due testi famosi, che più che al fantastico potremmo considerare appartenenti a un’accezione moderna dello strano, presentano allucinate esplorazioni notturne delle due grandi metropoli ottocentesche: Londra e Parigi.
Il primo testo è il racconto di Poe The Man of the Crowd (L’uomo della folla, 1845), nel cui protagonista Baudelaire ravvisò un parente del flâneur parigino[26]. In una sera autunnale londinese – così nel racconto di Poe – l’anonimo narratore siede in una coffee-house lungo una via molto frequentata. Appena uscito da una lunga malattia, si trova in uno stato d’animo particolarmente ricettivo. Man mano che l’oscurità scende e le luci si accendono, osserva i cambiamenti nella composizione della folla, traccia tipologie sociali. L’arrivo dell’elemento inclassificabile coincide con il momento in cui i lampioni si sostituiscono definitivamente alle luci del giorno:
but the rays of the gas-lamps, feeble at first in their struggle with the dying day, had now at lenght gained ascendancy, and threw over every thing a fitful and garish lustre. All was dark yet splendid – as that ebony to which has been likened the style of Tertullian.[27]
È in questo momento irreale che appare un vecchio decrepito ma straordinariamente irrequieto. Il narratore, incuriosito, decide di seguirlo per carpirne il segreto, per scoprirne la storia. Anche perché il vecchio misterioso presenta contrasti inesplicabili: «but as he came, now and then, within the strong glare of a lamp, I perceived that his linen, although dirty, was of a beautiful texture», e addirittura al narratore sembra di intravedere sotto ai suoi abiti il bagliore di «a diamond and a dagger»[28]. Il pedinamento dura per tutta la notte: nella sua ansia di essere sempre in mezzo alla folla il misterioso vecchio conduce il narratore per piazze scintillanti di luce, teatri, grandi vie commerciali, e poi, quando la vita ha ormai abbandonato i quartieri rispettabili, verso le bettole delle zone malfamate. Il sole sorge di nuovo, la caccia continua finché non è di nuovo sera, e allora il narratore, stremato, affronta l’uomo misterioso. Questi lo nota appena, non gli rivolge la parola, e si allontana sempre in preda alla sua frenesia.
Anche il secondo testo che intendevo presentare appartiene al numero di quelli che hanno particolarmente interessato Benjamin: si tratta del racconto di Maupassant La Nuit (La notte, pubblicato nel 1887 con il sottotitolo: Cauchemar, Incubo)[29]. Il racconto inizia con una dichiarazione d’amore alla notte: il giorno è il regno della fatica e dell’ennui, solo la notte, inondando la città, è in grado di restituire la vitalità al narratore-protagonista (ancora una volta anonimo). Appena calano le ombre, questi parte in libero vagabondaggio per la città. Scruta le stelle in cielo, si tiene lontano dai teatri, troppo chiassosi e illuminati («cette clarté fausse et crue»[30]), sugli Champs-élysée osserva la luce elettrica prendere il sopravvento su quella a gas:
Et les globes électriques, pareils à des lunes éclatantes et pâles, à des œufs de lune tombés du ciel, à des perles monstrueuses, vivantes, faisaient pâlir sous leur clarté nacrée, mystérieuse et royale les filets de gaz, de vilain gaz sale.[31]
Dopo un vagabondaggio nel Bois de Boulogne, il narratore all’improvviso avverte qualcosa di strano, niente di precisabile, gli sembra che la città sia stranamente deserta, e priva di luci: «je n’avais jamais vu une nuit si sombre»[32]. Le luci a gas infatti sono spente: «Je sais qu’on les supprime de bonne heure, avant le jour, en cette saison, par économie; mais le jour était encore loin»[33]. L’oscurità diventa così totale che il narratore non riesce nemmeno più a leggere le lancette del proprio orologio. In preda al panico, inizia a pensare che il mondo sia morto, e dubita che la Senna scorra ancora. Scende al fiume, immerge il braccio nell’acqua innaturalmente gelida, ha la certezza che la notte non avrà più fine.
Un accostamento tra i due testi è legittimo, anche se, a ben vedere, presentano notevoli differenze. In The Man of the Crowd infatti la notte sembra avere un ruolo tutto sommato accessorio. Poe sfrutta l’ambientazione notturna (l’inseguimento dura una notte e un giorno, ma è solo della notte che si parla) e il décor dickensiano della Londra dei quartieri fetidi per conferire un alone inquietante al suo personaggio. Mentre, alla fine, ciò che è inquietante è precisamente la mancanza di scopi e motivazioni criminali dell’uomo della folla, il suo avere semplicemente, fisicamente e inesplicabilmente bisogno della folla. L’uomo della folla, vestito di abiti costosi ma consunti, dotato di un diamante e di un pugnale, non è più un Rodolphe di Gerolstein in incognito, non ha, propriamente, nessuna storia da raccontare. Lo si potrebbe avvicinare semmai a una versione urbana dell’ebreo errante: il fatto che si tratti di un vecchio, in effetti, sembra giustificabile solo a partire da questo accostamento[34].
Anche nel testo di Maupassant abbiamo un personaggio anonimo che vagabonda di notte senza scopo. Inoltre, se in Poe riappare la figura dell’eterno errante, anche Maupassant apre il suo racconto riprendendo un topos romantico, orchestrando un «inno alla notte» in piena regola[35]: «J’aime la nuit avec passion. Je l’aime comme on aime son pays ou sa maîtresse, d’un amour instinctif, profond, invincible»[36]. E in fondo ciò che conduce il racconto verso la visione finale di una notte da incubo è precisamente la contraddizione implicita nella passione del personaggio di Maupassant[37]: ama la notte, ma quella cittadina; sembra non disdegnare la luce artificiale, basta però che non sia eccessiva e non sia troppo collegata alla sfera del loisir. La notte da incubo pone quindi fine alla ricerca impossibile di un’esperienza di fusione totale e naturale con la notte condotta durante una notte cittadina che in realtà, in quanto momento dello svago al termine della giornata, è più che altro una sera.
5. Passages. I testi di Poe e Maupassant presuppongono sullo sfondo la grande rivoluzione ottocentesca collegata all’illuminazione: la conquista della notte come tempo del loisir (lo spostamento in avanti degli orari diventa un segno di privilegio dei ceti più ricchi) e l’illuminazione usata a scopo seduttivo dalle attività commerciali. La vita notturna nel suo insieme, dunque, viene a configurarsi come uno spazio teatrale racchiuso da strade e vetrine illuminate[38].
Lo spazio proprio del commercio e dell’étalage (e quindi quello della prima illuminazione a gas) fu però costituito, prima dei grandi boulevard commerciali, dai passages. La galleria coperta, in quanto spazio a metà tra la strada e l’interno, è anche uno dei luoghi privilegiati del flâneur, uno di quegli spazi che era impossibile trovare nella più frenetica e industrializzata Londra. Con la diffusione della luce elettrica, l’allargamento dei marciapiedi e il divieto di prostituzione la cultura dei passages decade[39]. Già prima di questa decadenza, nella Thérèse Raquin di Zola (1867) il passage du Pont-Neuf non solo è un luogo descritto secondo la modalità del logoro-realistico, ma emana quasi suggestioni gotiche, e si pone come sfondo per una storia torbida, all’epoca tacciata di pornografia. Ecco come viene presentato il passage du Pont-Neuf all’inizio del romanzo:
Le soir, trois becs de gaz, enfermés dans des lanternes lourdes et carrées, éclairent le passage. Ces becs de gaz, pendus au vitrage sur lequel ils jettent des taches de clarté fauve, laissent tomber autour d’eux des ronds d’une lueur pâle qui vacillent et semblent disparaître par instants. Le passage prend l’aspect sinistre d’un véritable coupe-gorge; des grandes ombres s’allongent sur les dalles, des souffles humides viennent de la rue; on dirait une galerie souterraine vaguement éclairée par trois lampes funéraires. Les marchands se contentent, pour tout éclairage, des maigres rayons que les becs de gaz envoient à leurs vitrines; ils allument seulement, dans leur boutique, une lampe munie d’un abat-jour.[40]
Toccherà ai surrealisti rivalutare i passages decaduti (e con loro a Benjamin, che fino a un certo punto ne ripercorre con emozione i passi). Nel Paysan de Paris di Aragon (Il contadino di Parigi, 1926) il passage de l’Opéra è il primo esempio della scoperta di una metafisica dei luoghi, una di quelle «serrures qui ferment mal sur l’infini»[41]. È la loro stessa decadenza a rendere i passages di nuovo interessanti:
c’est aujoud’hui seulement que la pioche les menace, qu’ils sont effectivement devenus les sanctuaires d’un culte de l’éphémère, qu’ils sont devenus le paysage fantomatique des plaisirs et des professions maudites, incompréhensibles hier et que demain ne connaîtra jamais.[42]
I passages diventano quindi propriamente passaggi segreti, luoghi sospesi in un altro tempo. La loro magia originaria dell’opulenza e dello splendore dell’illuminazione ripetutamente evocata da Benjamin in toni da Mille e una notte («I passages splendevano nella Parigi dell’Impero come grotte incantate. Nel 1817 chi entrava nel passage des Panoramas era sorpreso di fianco dal canto di sirena della luce a gas e adescato di fronte da odalische in forma di lampade a olio»; «Finché vi bruciavano le lampade a gas e a olio, i passages erano castelli di fate»[43]) diventa, grazie all’occhio surrealista, una magia differente, ma mantiene alcuni tratti di quella passata. La qualità della luce è ancora un tratto essenziale di questa magia, ma non si tratta più di una luce fiabesca e orientale, piuttosto di una penombra, o meglio una luce polverosa, come sottomarina. Benjamin, in effetti, parlando dei passages come di «grotte incantate» sta forse recuperando il sistema metaforico approntato da Aragon nel Paysan de Paris, un testo da cui, per sua stessa ammissione, era stato ossessionato. Nelle pagine che Aragon dedica al passage de l’Opéra le metafore marine sono pervasive: «Lueur glauque, en quelque manière abyssale»; «ces aquariums humains»; «Cela tenait de la phosphorescence des poissons»; «Toute la mer dans le passage de l’Opéra»[44].
La metafora della grotta ricorre anche nell’ultima grande celebrazione del mondo dei passages, il racconto di Cortázar El otro cielo (L’altro cielo, 1966), in cui lo scrittore argentino letteralizza la metafora di Aragon dei luoghi come passaggi segreti e sfrutta a scopi fantastici l’irrealtà del mondo dei passages, la loro qualità di luoghi radicalmente alternativi agli altri spazi cittadini. Un impiegato di borsa argentino, fidanzato e insoddisfatto, viaggia periodicamente, la notte, dalle gallerie della Buenos Aires contemporanea a quelle di Parigi alla vigilia della guerra con la Prussia, dove si innamora di una prostituta, Josiane. I passages argentini diventano quindi letteralmente passaggi segreti verso la magia originaria, ottocentesca, dei passages parigini. Il mondo indistinto dei passages portegni-parigini diventa per il protagonista un mondo a parte, tutto suo («los pasajes y las galerías han sido mi patria secreta desde siempre»[45]), riparato dai cicli sia diurni («ese falso cielo de estucos […] esa noche artificial que ignoraba la estupidez del día y del sol ahí afuera»[46]) che stagionali («la conocía a principios de un invierno, con nevadas prematuras que nuestras galerías y su mundo ignoraban alegramente»[47]). Al termine del racconto, il protagonista si sposa con la sua fidanzata argentina e da quel momento non riesce più a trovare la strada per i passages parigini.
6. Black-out e coprifuochi. Nel Novecento l’illuminazione elettrica trionfa. Come succede a ogni mutamento tecnologico, questo avviene tra entusiasmi e apprensioni: la luce elettrica sembra troppo fredda, disumana, se confrontata con quella a gas[48]. Stevenson, scrivendo in occasione dell’esperimento di illuminazione elettrica di Pall Mall, aveva evocato «a new sort of urban star […] horrible, unearthly, obnoxious to the human eye; a lamp for a nightmare! Such a light as this should shine only on murders and public crime, or along the corridors of lunatic asylums»[49]. Una luce insomma che porta al massimo grado di perfezione le funzioni di controllo da sempre associate con l’illuminazione pubblica. Non a caso, l’associazione tra una luce elettrica fredda e diffusa e un controllo disumano sarà ricorrente nel genere distopico[50]. Le celebrazioni dell’elettricità invece faranno leva sulla consueta retorica della vittoria dell’uomo sulla natura, della sostituzione totale della luce naturale con quella artificiale, più efficace e più moderna[51].
Eppure si può anche dire che la prima metà del Novecento, insieme alla prima illuminazione notturna efficace, riscopre l’esperienza del buio della notte cittadina. Questo per due motivi molto diversi. Il primo è dovuto proprio all’elettrificazione. La centralizzazione nella distribuzione dell’energia elettrica può infatti causare black-out improvvisi e di grande estensione. Il secondo motivo della riscoperta del buio è l’esperienza delle notti di coprifuoco durante le due guerre mondiali. Per quanto diverse, queste due esperienze contribuiscono entrambe a ricreare momentaneamente l’esperienza premoderna della notte come terra incognita, luogo di incanti e di terrori[52].
Queste esperienze di ritorno dell’oscurità possono essere vissute sia come euforiche che come terrorizzanti. Il black-out, essendo inatteso, più facilmente come terrorizzante. Lovecraft sfrutta ingegnosamente la paura del black-out in uno dei suoi ultimi racconti, The Haunter of the Dark (L’abitatore del buio, 1935). Il protagonista del racconto, lo scrittore Robert Blake, si trasferisce a Providence in una casa da cui gode la vista di una sinistra collina, coincidente con il quartiere italiano, in cima alla quale spicca una sinistra chiesa neogotica abbandonata da anni. Penetrando nella chiesa, Blake risveglia una mostruosa creatura relegata nella torre. Da quel momento, ogni notte la creatura scende nella navata, ma non riesce a uscirne perché bloccata dalle luci della città. Su Providence però si scatenano violenti temporali. La comunità italiana, che conosce le tradizioni a proposito del mostro della torre e si è accorta del suo risveglio, circonda la chiesa con ombrelli e luci improvvisate («men […] with umbrella-shaded candles, electric flashlights, oil lanterns, crucifixes»)[53], per paura di un black-out. Robert Blake invece scruta la chiesa dalla sua finestra e telefona ripetutamente alla centrale elettrica per avere notizie su eventuali black-out. L’ultimo temporale è però così violento da spegnere anche le lampade degli italiani, così che il mostro può finalmente uscire nell’oscurità.
Occorre sottolineare che il testo di Lovecraft presuppone comunque un’abitudine ormai consolidata alla luce elettrica. Se la storia delle tecnologie di illuminazione artificiale coincide con un allontanamento dalla fiamma – con tutte le connotazioni a essa connesse di spiritualità, vitalità, calore[54] –, allora non è affatto scontato che la luce elettrica – la più lontana, per assenza di combustione, dalla fiamma originaria – sia efficace nel tenere lontani gli spiriti maligni quanto il fuoco o la luce del sole[55].
Quanto ai coprifuochi, è molto frequente che essi vengano rappresentati in letteratura in modo euforico, per ripristinare momentaneamente un tempo d’avventura. Così avviene per esempio nelle Notti dell’Unpa (1954) di Calvino. Il caso più famoso è però un episodio del Temps retrouvé (Il tempo ritrovato, 1927). Marcel racconta di varie notti di guerra nei suoi ritorni a Parigi, e le paragona significativamente a quelle della sua infanzia a Combray[56]. L’episodio della notte romanzesca avviene invece nel segno delle Mille e una notte: «me perdant peu à peu dans le lacis de ces rues noires, je pensais au calife Haroun Al Raschid»[57]. Marcel si muove in una Parigi buia e avventurosa come quella di Marius nei Misérables, ma i suoi incontri saranno ben diversi. Al posto delle deboli luci della barricata, infatti Marcel avvista uno strano edificio:
Je n’en fus que plus surpris de voir qu’entre ces maisons délaissées, il y en avait une où la vie, au contraire […], entretenait l’activité et la richesse. Derrières les volets clos de chaque fenêtre la lumière tamisée à cause des ordonnances de police décelait pourtant un insouci complet de l’économie.[58]
All’inizio ipotizza che i frequentatori della casa siano militari, spie. Decide però di entrarvi. In qualche modo, Marcel si sente investito del ruolo di nuovo Harùn:
Tout cela pourtant, dans cette nuit paisible et menacée, gardait une apparence de rêve, de conte, et c’est à la fois avec une fierté de justicier et une volupté de poète que j’entrai délibérément dans l’hôtel.[59]
In questo mondo notturno di scoperte ed equivoci ripristinato dal coprifuoco Marcel assisterà di nascosto ai piaceri masochistici di Charlus[60].
7. Architettura immateriale e nostalgia del buio. L’illuminazione è un elemento fondamentale della città postmoderna: la sua organizzazione illusionistica degli spazi infatti può facilmente cooptare la luce in funzione propriamente architettonica (si usa parlare a questo proposito di ‘architettura immateriale’). Del resto, l’illuminazione artificiale è sempre stata usata già a partire dall’Ottocento per imporre una chiave di lettura della città, illuminando spazi e monumenti privilegiati[61]. Nessuna altra epoca però aveva mai pensato di porre una ricostruzione luminosa al posto delle Twin Towers o di ripristinare una tecnica di illuminazione superata per ricreare – con un tipico effetto postmoderno di nostalgia – l’atmosfera di un quartiere del centro storico[62].
L’illuminazione notturna però oggi viene sempre più percepita anche come disumanizzante, almeno nelle grandi città. Il cinema[63], in particolare, ci ha abituato a questo tipo di rappresentazione: si tratti di notturni metropolitani attraversati soltanto dai fasci di luce delle automobili[64], oppure di metropoli future stile Blade Runner (1982), dove la distinzione notte-giorno è abolita a causa della pioggia incessante e le uniche luci consistenti sono quelle della pubblicità.
Douglas Coupland ha sinteticamente espresso una sorta di nostalgia contemporanea del buio: «During power failures we sing songs, but the moment electricity returns, we atomize»[65]. I black-out quindi non servono più a reincantare la notte, ma, più modestamente, a farci stare più vicini. Altri scrittori hanno trattato questa nostalgia in modo più ironico. Nella sezione finale di England, England (1998) di Julian Barnes, l’utopia preindustriale di «Anglia» prevede ovviamente l’abbandono dell’illuminazione artificiale[66], ma Anglia stessa è rappresentata come un luogo artificiale. Altrettanto sarcastico – nonostante il tono fiabesco – è forse un racconto fantascientifico di Paul Di Filippo: Streetlife (Vita di strada, 1993). In esso un piccolo servo artificiale percorre nella notte un itinerario degno di Cappuccetto rosso: per consegnare una speciale droga, deve spostarsi da un quartiere ricco a un altro quartiere ricco passando attraverso una Zona interdetta e oscura, abitata da mutanti. Ora, nei quartieri ricchi il sistema di illuminazione è il seguente: una specie di sciame di lucciole artificiali circonda il passante, per poi abbandonarlo alle soglie di un nuovo quartiere. Questo può ricordarci i portatori di fiaccole affittabili dei secoli passati, ma comporta più in generale la rappresentazione di un ritorno a un’idea se non privata (medievale) quantomeno non pubblica dell’illuminazione degli esterni. La città futura di Di Filippo, divisa in settori dove l’illuminazione notturna è gestita autonomamente e dove al posto di un’opposizione centro-periferia abbiamo la contiguità di blindate zone ricche e inquietanti zone oscure abitate da mutanti, è in realtà implicita in realtà urbane come quella dell’odierna Los Angeles.
[1] E. Bloch, Tecnica e apparizioni spettrali, in Id., Volti di Giano, Genova, Marietti, 1994. Mezzo secolo prima di Bloch, Stevenson evocava in questi termini le sensazioni di chi si avventurava nelle notti cittadine prima dell’illuminazione a olio: «Blackness haunted his path; he was beleaguered by goblins as he went» («L’oscurità infestava il suo sentiero; nel suo cammino era assillato da folletti maligni»): R. L. Stevenson, A Plea for Gas Lamps, in Id., Virginibus Puerisque [1881], Heinemann, London, 1924, p. 129. Desidero ringraziare per i loro suggerimenti Francesco Ghelli, Orsetta Innocenti, Simona Micali e Matteo Residori.
[2] W. Schivelbusch, Luce. Storia dell’illuminazione artificiale nel secolo xix, Parma, Pratiche, 1994, pp. 87-90.
[3] Ibid., p. 140.
[4] Ibid., p. 98.
[5] Ibid., p. 22.
[6] Ibid., p. 96.
[7] Ibid., pp. 63-73. Nel 1863, in Paris au xxe siècle (un testo ritrovato solo nel 1994), nemmeno Verne riesce a ipotizzare un futuro trionfo totale dell’elettricità: le botteghe più povere sono ancora illuminate a gas. La coesistenza nell’ultimo quarto dell’Ottocento di gas e elettricità non è un caso isolato di impiego simultaneo di sistemi di illuminazione diversi. I sei-settecenteschi portatori di luce affittabili sono ancora attestati a Parigi almeno nei primi vent’anni del secolo (W. Schivelbusch, Luce cit., p. 103; ma cfr. anche W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Torino, Einaudi, 2000, p. 631). Quanto alle case, sia il gas che l’elettricità stentano a entrarvi (entrambi a causa dell’eccessiva luminosità, il primo anche per l’eccessivo calore sprigionato) e a sostituire le lampade a olio. In The Philosophy of Furniture (Filosofia dell’arredamento, 1840) per esempio Poe raccomanda di non ammettere il gas nelle case: E. A. Poe, The Philosophy of Furniture, in Id., The Fall of the House of Usher and other writings, edited with an introduction by D. Galloway, Harmondsworth, Penguin, p. 416. Nel Novecento, con il trionfo dell’illuminazione elettrica nelle case occidentali, spetterà a un giapponese – Jun’ichirō Tanizaki, nel Libro d’ombra (1933) – scrivere una peculiare ‘filosofia dell’arredamento’ in forma di «elogio della penombra» (così l’esatta traduzione del titolo).
[8] é. Zola, Au Bonheur des Dames, in Id., Les Rougon-Macquart, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», vol. iii, 1964, p. 414. [inzuppata]; [grande città così gelida e brutta].
[9] Anche il grande magazzino di Zola è dotato di una leggenda di fondazione: Denise sente raccontare di una donna, Caroline, morta cadendo nelle fondamenta durante i lavori di costruzione.
[10] Ibid. [Ma, dall’altro lato della strada, il Paradiso delle signore accendeva le file profonde delle fiammelle del gas].
[11] Ibid. [come riscaldata a quel focolare di luce ardente].
[12] Ibid. [non si distingueva più là in faccia che la neve delle trine, il cui biancore era ravvivato dai vetri smerigliati di una batteria di lampade a gas; e, su questo sfondo da cappella, gli abiti risaltavano maggiormente, il grande mantello di velluto, guarnito di volpe argentata, metteva il profilo flessuoso di una donna senza testa, nell’ignoto delle tenebre di Parigi. / Denise, cedendo alla seduzione, s’era portata fino alla porta, senza curarsi dell’incessante cadere della pioggia, che la inzuppava. A quell’ora della notte, con il suo splendore di fornace, il Bonheur des Dames la conquistava tutta. Nella grande città, nera e muta sotto la pioggia, in quella Parigi sconosciuta, ardeva come un faro, sembrava essere da solo la luce e la vita della città].
[13] Th. Dreiser, Sister Carrie [1900], edited by N. W. Westlake, Harmondsworth, Penguin, 1994, p. 4. [Il bagliore di mille luci ha spesso la stessa efficacia, dal punto di vista morale, della luce che brilla nello sguardo affascinante di un corteggiatore].
[14] Ch. Baudelaire, Le spleen de Paris [1868], in Id., Œuvres complètes, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», vol. i, 1975, p. 353. [Arrivando all’estremità del faubourg, sotto la luce del gas, sentii un braccio che s’insinuava dolcemente sotto il mio, e udii una voce che mi diceva all’orecchio: «Siete medico, signore?»].
[15] V. Woolf, Orlando. A Biography, edited with an introduction and notes by R. Bowlby, Oxford, Oxford University Press, p. 195. [Meno vediamo, più crediamo].
[16] Ibid., pp. 195-196. [Lampioni accesi con lanterne a olio capitavano più o meno ogni duecento metri, ma in mezzo si estendeva un intervallo considerevole di oscurità assoluta. Quindi per dieci minuti Orlando e il signor Pope stavano al buio, poi per circa mezzo minuto di nuovo alla luce].
[17] Ibid., p. 198. [La luce della verità].
[18] «Et coups de couteaux, coups de poings, / Coups de sifflet, cris équivoques, /Spectres hideux, mouchards baroques, /Tout ce mystère a pour témoins / Les becs de gaz des mauvais coins» («E coltellate, pugni, / colpi di fischietto, grida equivoche, / spettri ripugnanti, strani delatori, / tutto questo mistero ha per testimoni / i lampioni a gas degli angoli malfamati») : M. Rollinat, Les becs de gaz [1882], in Id., Œuvres, texte établi avec présentation et notes par R. Miannay, Paris, Minard, 1971, vol. ii, p. 282.
[19] W. Schivelbusch, Luce cit., p. 92.
[20] In precedenza, le lanterne erano anche state usate per le impiccagioni prima dell’istituzione della ghigliottina (ibid., p. 111).
[21] «Tout cet itinéraire ressemblait à une descente de marches noires» («Tutto quell’itinerario somigliava a una discesa di gradini neri»): V. Hugo, Les Misérables, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1951, p. 1168.
[22] Ibid., p. 1169. La città notturna è diventata leggibile e descrivibile dall’alto – ancor più leggibile e descrivibile, per certi versi, della città diurna – soltanto dopo che l’illuminazione stradale ebbe raggiunto una certa efficacia. Tra le sinistre premonizioni di Stevenson sulla futura illuminazione elettrica figura la seguente: «when in a moment, in the twinkling of an eye, the design of the monstrous city flashes into vision – a glittering hieroglyph many square miles in extent» («quando in un istante, in un batter d’occhio, il disegno della mostruosa città balena davanti alla vista – uno scintillante geroglifico di molte miglia quadrate d’estensione»): R. L. Stevenson, A Plea for Gas Lamps cit., p. 131. [a volo di gufo]; [un’enorme buca buia scavata al centro di Parigi].
[23] V. Hugo, Les Misérables cit., p. 1171. [quel quartiere fatale, nel più profondo delle insondabili cavità della vecchia Parigi miserabile che scompare sotto lo splendore della Parigi felice e opulenta].
[24] Ibid., p. 1175. [Ebbene, la monarchia è lo straniero (…). Il dispotismo viola la frontiera morale come l’invasione viola la frontiera geografica. Scacciare il tiranno o scacciare l’Inglese significa, in entrambi i casi, riprendersi il proprio territorio].
[25] Ibid., p. 1207. [Toh, voi qui avete ancora le lanterne. Non siete in regola, amico mio. Questo è disordine. Rompetele subito].
[26] A torto, secondo Benjamin. Cfr. W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1995, p. 107.
[27] E. A. Poe, The Man of the Crowd, in Id., The Fall of the House of Usher cit., p. 183. [ma i raggi delle lanterne a gas, che erano troppo deboli quando lottavano con il crepuscolo, avevano ora preso il soppravvento e gettavano su ogni cosa una luce cruda e intermittente. Tutto era oscuro, ma splendido – come l’ebano a cui è stato paragonato lo stile di Tertulliano].
[28] Ibid., p. 184. [ma quando passava, di tanto in tanto, sotto la forte luce di un lampione, mi accorgevo che i suoi abiti, benché sporchi, erano di ottima qualità]; [un diamante e un pugnale].
[29] Oltre a comparire spesso tra i materiali del Passagen-Werk, il racconto di Maupassant era stato segnalato a Benjamin da Adorno come «complemento dialettico dell’Uomo della folla di Poe» (W. Benjamin, I «passages» di Parigi cit., p. 1082).
[30] G. de Maupassant, La Nuit. Cauchemar, in Id., Contes et nouvelles, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», vol. ii, 1979, p. 945. [quella luce falsa e cruda].
[31] Ibid. [E i globi elettrici, simili a lune splendenti e pallide, a uova di luna cadute dal cielo, a perle mostruose, viventi, facevano impallidire sotto la loro luce madreperlacea, misteriosa e regale le fiammelle di gas, di vile, sporco gas].
[32] Ibid., p. 946. [non avevo mai visto una notte così buia].
[33] Ibid., p. 947. [So che le spengono di buon’ora, in questa stagione, per economia; ma il giorno era ancora lontano].
[34] Più esplicito il riferimento all’ebreo errante sarà nei Septs Vieillards (Sette vegliardi, 1861) di Baudelaire, altro testo in cui Benjamin ravvisò una registrazione degli chocs degli incontri cittadini. Al posto dell’inseguimento e dell’inesausta mobilità dell’uomo della folla, nella poesia di Baudelaire troviamo la ripetizione dell’incontro (questa volta nelle brume del mattino): al poeta si presenterà davanti per sette volte lo stesso vecchio.
[35] In Novalis, certo, l’inno alla notte ha connotazioni misticheggianti e presuppone l’esperienza della notte naturale, non cittadina. Tuttavia, ci sono già esempi romantici in cui il topos viene collegato alle notti urbane. Bonaventura, per esempio, si contrappone esplicitamente al poeta romantico che vive e scrive di notte e si presenta come un abitatore della città notturna, anzi come un principe, oppure come l’ultimo uomo sopravvissuto a una catastrofe (singolare anticipazione, ancorché espressa in chiave euforica, del testo di Maupassant): «Die Nachtstunde schlug; ich hüllte mich in meine abenteuerliche Vermummung […]. Es war mir schon recht, und ich freute mich über meinen einsam widerhallenden Fußtritt, denn ich kam mir unter den vielen Schläfern vor wie der Prinz im Märchen in der bezauberten Stadt, wo eine böse Macht jedes lebende Wesen in Stein verwandelt hatte; oder wie ein einzig Übriggebliebener nach einer allgemeinen Pest oder Sündflut» («Suonò l‘ora notturna; mi avvolsi nel mio bizzarro travestimento […]. Tutto ciò mi andava a genio, e mi compiacevo del mio passo che echeggiava solitario; perché, in mezzo a tanti che dormivano, mi immaginavo come un principe di fiaba nella città incantata, dove un potere maligno avesse tramutato in pietra ogni essere vivente; o come l‘unico superstite di una universale pestilenza, o di un diluvio»): Die Nachtwachen des Bonaventura, edited and translated by G. Gillespie, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1972, p. 28.
[36] G. de Maupassant, La Nuit cit., p. 944. [Amo la notte con passione. La amo come si ama il proprio paese o la propria amante, di un amore istintivo, profondo, invincibile].
[37] Cfr. S. Alexandrescu, Le discours étrange, à propos de «La Nuit» de Maupassant, in AA. VV., Sémiotique narrative et textuelle, Paris, Larousse, 1973, p. 71.
[38] Benjamin registra queste impressioni di un berlinese sul carattere festoso acquistato dalla vita notturna: «Questa singolare preminenza degli intenti festivi su quelli quotidiani o, piuttosto, notturni – la notte cittadina si trasforma, grazie alla generale illuminazione, in una specie di eccitata festa continua – tradisce il carattere orientale di questo sistema di illuminazione» (W. Benjamin, I «passages» di Parigi cit., p. 637).
[39] Ibid., p. 94.
[40] é. Zola, Thérèse Raquin, édition présentée et établie par R. Abirached, Paris, Gallimard, 1977, pp. 27-28. [La sera, tre fiammelle di gas, racchiuse in lanterne pesanti e squadrate, illuminano il passage. Queste lanterne, appese alla vetrata sulla quale gettano chiazze di luce fulva, proiettano attorno a loro cerchi di una luce pallida, che vacillano e, in certi momenti, sembrano sparire. Il passage assume un aspetto sinistro, sembra proprio un luogo malfamato e pericoloso; grandi ombre si allungano sulla pavimentazione, soffi umidi vengono dalla strada; lo si direbbe una galleria sotterranea vagamente rischiarata da tre lampade funerarie. I commercianti si accontentano, come unica illuminazione, dei magri raggi che le lanterne a gas mandano sulle vetrine; accendono soltanto, nella loro bottega, una lampada munita di un paralume].
[41] L. Aragon, Le Paysan de Paris, Paris, Gallimard, 1972, p. 20. [serrature che chiudono male sull’infinito].
[42] Ibid., p. 21. [è solo oggi che il piccone li minaccia, che sono effettivamente diventati i santuari di un culto dell’effimero, che sono diventati il paesaggio fantomatico dei piaceri e delle professioni maledette, incomprensibili ieri e che il domani non conoscerà mai].
[43] W. Benjamin, I «passages» di Parigi cit., pp. 632 e 907.
[44] L. Aragon, Le Paysan de Paris cit., pp. 21, 30 e 31. Un’altra descrizione ‘sottomarina’ del mondo dei passages fatta da un contemporaneo di Aragon si trova citata in W. Benjamin, I «passages» di Parigi cit., pp. 603-604. [Luce glauca, in qualche modo abissale]; [questi acquari umani]; [Aveva qualcosa della fosforescenza dei pesci]; [Tutto il mare nel passage de l’Opéra].
[45] J. Cortázar, Cuentos completos, Buenos Aires, Afaguara, 1995, vol. i, p. 590. [i passages e le gallerie sono stati da sempre la mia patria segreta].
[46] Ibid., pp. 590-591. [questo falso cielo di stucchi (…) questa notte artificiale che ignorava la stupidità del giorno là fuori].
[47] Ibid., p. 593. [la conobbi all’inizio di un inverno, con nevicate premature che le nostre gallerie e il loro mondo ignoravano allegramente].
[48] La stessa impressione, del resto, aveva prodotto in molti la luce a gas in confronto con quella delle lampade a olio. L’esempio più famoso è l’Essai critique sur le gaz hydrogène et les divers modes d’éclairage artificiel (Saggio critico sul gas idrogeno e sui diversi modi di illuminazione artificiale, 1823) di Nodier e Pichot.
[49] R. L. Stevenson, A Plea for Gas Lamps cit., p. 132. [una nuova specie di astro urbano (…) orribile, non umano, odioso al nostro occhio; una luce adatta per un incubo! Una luce del genere dovrebbe risplendere soltanto su omicidi e altri crimini, o nei corridoi dei manicomi].
[50] Schivelbusch cita per esempio The Sleeper Wakes (Quando il dormiente si sveglierà, 1899) di Wells (W. Schivelbusch, Luce cit., p. 139). Brave New World (Il mondo nuovo, 1932) di Huxley evoca fin dalla prima pagina una luce «frozen, dead, a ghost» («gelida, morta, un fantasma»): A. Huxley, Brave New World, Harmondsworth, Penguin, 1955, p. 15. Un’altra tipica modalità delle distopie è il contrasto tra l’illuminazione fredda e diffusa di regime e le misere condizioni di illuminazione delle singole case: così in Nineteen Eighty-Four di Orwell (1984, 1949).
[51] Un esempio classico tratto da Marinetti: «Alcuni accorsero alle cascate vicine; gigantesche ruote furono innalzate, e le turbine trasformarono la velocità delle acque in magnetici spasimi che s’arrampicarono a dei fili, su per alti pali, fino a dei globi luminosi e ronzanti. / Fu così che trecento lune elettriche cancellarono coi loro raggi di gesso l’antica regina verde degli amori» (F. T. Marinetti, Uccidiamo il chiaro di luna! [1909], in Id., Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori, 1983, p. 22).
[52] Schivelbusch descive così l’esperienza del black-out: «Il black-out ha un effetto paralizzante così improvviso su un’intera regione che sembra quello provocato, nella Bella addormentata nel bosco, sull’intero castello dalla puntura di un fuso» (W. Schivelbusch, Luce cit., p. 76).
[53] H. P. Lovecraft, The Haunter of the Dark, in Id., The Call of Cthulhu and other weird stories, edited with an introduction and notes by S. T. Joshi, Harmondsworth, Penguin, 2002, p. 356. [uomini (…) con candele accese sotto gli ombrelli, torce elettriche, lampade a petrolio, crocifissi].
[54] Cfr. G. Bachelard, La fiamma di una candela, Roma, Editori Riuniti, 1981.
[55] Maldoror, per sfida, aveva paragonato la luce della lampada che segnala la presenza divina nella cattedrale a quella dell’elettricità. Lo scopo è però evidentemente blasfemo, svilente, e l’episodio termina con Maldoror che getta la lampada nella Senna (Lautréamont, Les Chants de Maldoror [1869], strofa xi del secondo canto). Un popolare libro edificante per l’infanzia si era limitato tradizionalmente e genericamente a sfruttare i possibili significati metaforici della luce, a partire dall’epigrafe: «His lamp now burns brightly in heaven / and its lights is not yet gone out on earth» («Il suo lume ora arde intensamente in cielo / e la sua luce non è ancora scomparsa sulla terra»): M. S. Cummins, The Lamplighter [Il lampionaio, 1854], London, Charles H. Kelly, 1906. Il romanzo racconta la storia di un’orfanella, Gerty, che viene istruita e soccorsa dal vecchio lampionaio del quartiere.
[56] M. Proust, à la recherche du temps perdu, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», vol. iv, 1989, pp. 313-314.
[57] Ibid., p. 388. [perdendomi a poco a poco in quell’intrico di strade nere, pensavo al califfo Harùn ar-Rashìd].
[58] Ibid., p. 389. [Tanto maggiore fu la mia sorpresa nel vedere che tra quelle case abbandonate ce n’era una dove la vita, al contrario (…), manteneva l’attività e la ricchezza. Dietro alle imposte chiuse di ogni finestra la luce attenuata a causa delle ordinanze di polizia rivelava comunque un disinteresse completo per l’economia].
[59] Ibid., p. 391. [Eppure tutto ciò, in quella notte quieta e minacciata, conservava un’apparenza di sogno, di fiaba, ed è allo stesso tempo con la fierezza del giustiziere e la voluttà del poeta che entrai deliberatamente in quell’albergo].
[60] La trasformazione di Marcel in nuovo Harùn ar-Rashìd si inscrive in una più generale strategia attuata da Proust per rappresentare l’omosessualità lasciando a Marcel il ruolo di puro testimone (cfr. M. Lavagetto, Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust, Torino, Einaudi, 1991).
[61] W. Schivelbusch, Luce cit., p. 123.
[62] Sull’illuminazione a gas del quartiere parigino del Marais cfr. G. Amendola, La città postmoderna: magie e paure della metropoli contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 173.
[63] Per paradosso, le sale cinematografiche sono state le prime sale di spettacoli dove – per evidenti ragioni pratiche – si sia riuscito a imporre il buio in sala (per la storia dell’illuminazione nelle sale di spettacoli, cfr. W. Schivelbusch, Luce cit., cap. v).
[64] Il motivo dell’intenso traffico notturno che segnala come nelle grandi città la vita non si fermi mai è anticipato da Conrad in chiave fluviale all’inizio di Heart of Darkness (Cuore di tenebra, 1899): al cadere della notte, il Tamigi risplende delle luci verdi e rosse dei vascelli, segno che «the traffic of the great city went on in the deepening night, upon the sleepless river» («sul fiume insonne il traffico della grande città proseguiva, man mano che la notte si faceva più profonda»): J. Conrad, Heart of Darkness and other tales, edited with an introduction and notes by C. Watts, Oxford, Oxford University Press, 1998, p. 141.
[65] D. Coupland, Polaroids from the Dead [Istantanee dal mondo dei morti], London, Flamingo, 1996, p. 112. [Quando viene a mancare l’elettricità ci mettiamo tutti a cantare, ma appena torna ci disperdiamo].
[66] Nella sua utopia preindustriale News from Nowhere (Notizie da nessun luogo, 1891), invece, William Morris non faceva parola delle tecniche di illuminazione: l’orrore delle ferrovie e delle fabbriche era probabilmente più evidente ai suoi occhi.
[Immagine: Parigi di notte].