cropped-Amazon.jpgdi Michele Sisto

[Questo intervento è uscito su germanistica.net].

«La fine della galassia Gutenberg ha trasformato profondamente lo status della letteratura, e per chi si occupa di studiarla non sembra che esserci una strada da seguire: quella che porta “al di là del testo”»: così si legge sulla quarta di copertina di questo volume [Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura, a cura di Francesco Fiorentino, Macerata, Quodlibet, 2011, 302 p.] che attraverso quattordici contributi documenta un percorso di studio e confronto culminato in due convegni all’Università di Roma Tre nel 2003 e nel 2008, ai quali hanno partecipato studiosi internazionali di diverse discipline, da Terry Eagleton a Cesare Segre, da Friedrich Kittler a Remo Ceserani e Hans-Thies Lehmann. E non poteva esser detto meglio: la discussione, squisitamente accademica, sui rapporti tra studi letterari e cultural studies ha infatti la sua più profonda ragion d’essere in una questione di «status». In un momento storico in cui la letteratura vede ridursi il suo prestigio sociale fin quasi all’irrilevanza, coloro che la producono e amministrano (scrittori, critici, editori, professori) sono indotti a esplorare nuove vie per rilegittimarla e rilegittimarsi, portando lo sguardo «al di là del testo» e volgendo la propria attenzione al mondo intorno.

Che questa sia un’esigenza diffusa è testimoniato, anche in Italia, dal cosiddetto “ritorno alla realtà” della letteratura degli anni zero (v. il n. 57 di «Allegoria» e il successivo dibattito), il cui esito più sintomatico è Gomorra di Saviano. Anche la critica letteraria si sente chiamata a rinegoziare la propria posizione nell’ordinamento dei saperi e dei poteri: e dal momento che per condurre qualsiasi negoziato bisogna avere qualcosa in mano, non può esimersi dal fare i conti con il proprio sapere delegittimato e tornare a chiedersi che cosa sia e a qual fine si studi la letteratura (per riprendere l’ironico titolo dato da Cesare Cases nel 1990 alla sua ultima lezione).

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[Immagine: Librerie del magazzino Amazon (gm)].

12 thoughts on “I limiti dei cultural studies e i problemi della critica letteraria

  1. Pezzo veramente notevole. Sarebbe interessante puntualizzare come la teoria della “differenza” alle spalle dei Cultural Studies si sia risolta egemonicamente, da un lato, in un orizzonte pratico del “consenso” dove il mercato culturale detta di fatto le direzioni della ricerca, e, dall’altro, nell’azione, certo immediatamente spendibile politicamente, delle identity policies.

    Aggiungo un altro paio di testi di bibliografia che danno conto di una certa resistenza anche all’interno dell’accademia anglosassone:

    David Harris, “From class struggle to the Politics of Pleasure: the effects of Gramscianism on Cultural Studies (addirittura 1992)

    – Walter Benn Michaels, “The trouble with diversity: how we learned to love identity and ignore inequality”

    – Nella versione spagnola del saggio di Jameson (“Estudios Culturales”) vi è anche un bellissimo saggio di Zizek sullo stesso argomento

  2. Interessanti, queste resistenze. Quell’articolo di Jameson in effetti è stato per me illuminante, una critica ‘politica’ ai cultural studies che dà conto tanto dei loro meriti quanto dei loro limiti.

    Ora il mio problema è andare oltre, senza trascurarne le istanze, ma accogliendole entro un paradigma critico più generale, centrato non sull’identità ma sull’umanità. (“La mia patria è la storia universale”, ha scritto Thomas Bernhard da qualche parte.) Mi sembra che la direzione sia quella di conciliare Hegel (e successori) con Bourdieu (e magari con Bachtin). Ma è un discorso lungo. E devo ancora studiare, molto, per essere in grado anche solo di abbozzarlo.

  3. Intervengo con felice grossolanità: la critica letteraria non potrebbe anche spendersi per proporre e, laddove lo meritasse, per promuovere la letteratura di cui si fa portavoce?

    Un critico letterario, se vuole stare sereno e sentire di star dando il proprio contributo, non potrebbe leggere dei libri e, se li trova ottimi, provare a diffonderli, spiegando le ragioni per cui li trova ottimi, per cui li trova irrinunciabili?

    Un critico letterario dovrebbe fare critica letteraria se crede nel valore intrinseco della letteratura, anzi, proprio trasmettendo qual è il valore intrinseco della letteratura, e di quale letteratura, secondo lui. Altrimenti è lì a dirci che non sa cosa dire.

    Poeti, scrittori, saggisti, novellisti grafici, va bene qualsiasi cosa: purché si parli di letteratura. I dubbi sullo statuto del proprio mestiere è giustissimo che un critico letterario ce li abbia, ma è dopo aver superato la sua crisi esistenziale che dovrebbe mettersi al lavoro e non fare un lavoro della sua crisi esistenziale.

    Secondo me la prima domanda da fare a è un critico letterario è: chi ti piace leggere? Se non snocciola almeno una decina di nomi in una decina di secondi è un farabutto. Altrimenti gli si dà tutto il tempo che vuole per farci spiegare perché legge proprio quei dieci e non gli altri diecimila a disposizione.

  4. (Voglio precisare subito che non è una osservazione pensata espressamente per l’autore dell’articolo. Di Michele Sisto, se proprio, sul sito http://www.germanistica.net/, è la golosissima lista di romanzi tedeschi del Novecento.)

  5. C’è una questione di fondo che non riesco a capire: mi sembra leggendo dal testo che molto ruoti attorno al presunto problema di poter o meno stabilire gerarchie, collegandolo credo al relativismo, cosa che si dovrebbe anche agli studi culturali, sempre se ho ben capito. Ma, così come in etica sapere che non si possono fare gerarchie con la logica, non porta ad accettare tutti i sistemi etici, allo stesso modo in estetica non si arriva alla conclusione che non si possa scegliere un’opera, un canone, quello che è. Quindi l’assunto di Cases può benissimo reggere assieme agli studi culturali. Non si capisce invece in base a quale misterioso senso la letteratura dovrebbe essere il centro del sapere umanistico. E ancora con più sconcerto leggo che il romanzo, per Mazzoni, sarebbe un’ammiraglia della letteratura contro il pensiero scientifico. E direi anche che non è accaduto niente di particolare che abbia portato il sapere umanistico da qualche parte. Questa è la distorsione ottica degli umanisti, ai quali piace pensare che il mondo vada o non vada secondo le loro osservazioni. Infine mi accodo a Coda.

  6. Vorrei proprio sapere se qualcuno mi sa dire quando sarebbe iniziato il periodo indicato da Sisto quando dice “In un momento storico in cui la letteratura vede ridursi il suo prestigio sociale fin quasi all’irrilevanza” e ” perdita di centralità, che del resto riguarda tutti i saperi umanistici,”e quali sarebbero le manifestazioni più evidenti di questa “riduzione di prestigio”. Anch’io poi condivido con Dfw vs jf che mi rende perplesso l’espressione di Mazzoni del romanzo visto come un’ “ammiraglia” schierata ” contro il pensiero sistematico, contro la scienza e contro la filosofia”. Se si intende che una visione di romanzo come avente caratteristiche (non necessariamente il contenuto, vedi casi come il Candido o il Dialogo sui massimi sistemi) diverse da quelle presenti un trattato scientifico o da uno filosofico allora mi pare una definizione normativa abbastanza condivisibile, ma mi pare che il significato che Mazzoni vuol dire sia quello che “il pensiero sistematico” (che non comprendo ancora bene cosa sia) della scienza e (almeno di certa) filosofia sia una minaccia per la letteratura e magari per la società (e anche qui vorrei sapere quali siano i segni tangibili di questa “minaccia”).

    Comunque mi sono ormai stancato di questa fissazione di certi autori per ritenere che debba esistere una “gerarchia” di saperi o discipline, come sembra voler dire Sisto in espressioni come “Il romanzo è la più importante tra le arti occidentali” (e le arti figurative? E la musica? E l’architettura? E il cinema?) E mi chiedo a quale epoca accenni Fiorentino quando afferma ” la tradizione umanistica che assegnava alla scrittura letteraria un posto di assoluta centralità nell’ordine dei saperi appartiene al passato”. Per il resto, il discorso se i cultural studies sono nati per il fatto che gli studi letterari escludevano arbitrariamente certi testi soltanto per motivi ideologici campanilisti, razzisti o sessisti ben venga tutto ciò, fermo restando che ogni cultura umana è da valorizzare in quanto umana senza cadere né nell’etnocentrismo né in un appiattente multiculturalismo che pretende di trovare un equivalente di Tolstoj in ciascuna delle centinaia di tribù della Papua Nuova Guinea. L’importante è non ritenere che lo spazio per l’interesse per la letteratura debba essere in “concorrenza” con lo spazio per interessarsi di scienze o altre attività e quindi basta con queste “due culture”! La cultura è unitaria e non si può più pensare a guerre contro “saperi scientifici utilitaristi e produttori di mezzi” e “saperi umanistici inutili ma aventi valore intrinseco come portatori di senso” e perciò, come dice Antonio Coda, i critici letterari stessi si diano da fare per far conoscere cosa di interessante è stato prodotto tra i prodotti letterari sia nel presente che nel passato.

  7. La questione è se l’allargare costantemente il campo dei saperi e gli strumenti d’indagine sia deleterio per lo specifico letterario. Molti insider pensano che lo sia ma l’insiderismo stesso è divenuto oggi una lente parziale.

  8. Scrive Michele Sisto: “Allora Cases, contrapponendo Lukács a Spitzer (e a Contini), sosteneva che la critica non poteva che fondarsi sulla filosofia (come super-disciplina): «Solo il critico di formazione filosofica può infatti muoversi liberamente in mezzo ai problemi suscitati delle connessioni dell’opera d’arte con la totalità della vita e della società senza cadere da una parte nel formalismo e dall’altra nell’astrazione positivistica degli elementi contenutistici dalla loro funzionalità estetica». Dato il suo stretto legame con il marxismo novecentesco questa concezione dell’arte come «processo di defeticizzazione e di dereificazione, come rifiuto dello smembramento della totalità concreta in specializzazioni astratte, come gioco, come attività capace di auto-fruizione, anticipante in sé la totalità umana da conquistare» (uso qui la sintesi datane da Tito Perlini), è oggi pressoché caduta in prescrizione, e sarebbe arduo riproporla, se non, forse, attraverso un «riorientamento gestaltico» dell’estetica analogo a quello a cui uno degli ultimi interlocutori di Cases, Costanzo Preve, ha sottoposto l’ontologia nel suo recente Il cammino ontologico-sociale della filosofia.”

    La filosofia resta, infatti, “la vera ammiraglia del sapere umanistico” (e del sapere ‘tout court’), e può rivendicare la sua primazia tanto più quanto più è in grado, a differenza di chi confonde l’oggettività con l’oggettivismo e la scienza con lo scientismo, di sostenere il confronto con la “durezza del reale” e con il pensiero scientifico e tecnologico, che di questa durezza sono l’equivalente simbolico ed operativo. In questo senso, la primazia del sapere filosofico nasce dall’universalità, che non è un’illusione ideologica ma la struttura stessa della realtà di un mondo globale, di cui è il tratto più tangibile. L’astrazione del lavoro – notava Gyorgy Lukàcs, citato da Paul Sweezy nella “Teoria dello sviluppo capitalistico” – non è un concetto costruito per via, appunto, di astrazione, non è un’idea che si possa adottare o avversare quasi fosse una sorta di esercizio ermeneutico, ma è l’essenza stessa del sistema capitalistico pervenuto alla fase della sussunzione reale. Vale allora la pena di domandarsi come mai, proprio nel momento in cui questo sistema sta diventando più ‘totale’ che mai, sia così tenace in certi ambienti culturali la tendenza polemica a denunciare la totalità come un brutto sogno. Pur ammettendo che ciò possa dipendere dal fatto che l’unica idea di totalità che in questi ambienti si riesce ad immaginare sia ascrivibile a quell”asylum ignorantiae’ che passa sotto il nome rozzo ed approssimativo di totalitarismo, è importante ricordare: a) che la totalità è uno strumento cognitivo essenziale del pensiero ecologico; 2) che se della totalità ci può accadere di dimenticarci, si può essere certi che essa non si dimenticherà di noi. La letteratura e le altre forme espressive della sfera estetica (musica, pittura, cinema ecc.) sono probabilmente – e restano – la traccia più consistente di questo non-oblio della totalità, anche quando, e forse ancor più, a questa esse alludono “per speculum et in aenigmate”.

  9. A Michele Sisto e ad Eros Barone: sinceramente trovo molto pericolose affermazioni come “Solo il critico di formazione filosofica può infatti muoversi liberamente in mezzo ai problemi suscitati delle connessioni dell’opera d’arte con la totalità della vita e della società”. Mi sembra che in tal modo si finisca per portare a una ingiustificata non distinzione tra il filosofo (che può anche interessarsi di indagare filosoficamente le opere d’arte) e il critico d’arte. Non è pertanto ammissibile che la prima attività inglobi l’altra, e tentativi simili non possono che portare notevoli danni alla reale comprensione delle singole opere artistiche, attribuendo ad esempio a certe opere contenuti assenti nell’intenzione o utilizzando le opere d’arte come “scusa” per esporre le proprie (più o meno condivisibili) tesi filosofiche e visioni del mondo, che il più delle volte sono del tutto irrilevanti per comprendere e attribuire significato e valore ai singoli lavori di un’artista. Per il lavoro del critico d’arte o letterario occorrono inevitabilmente conoscenze che nessuna formazione filosofica può sostituire, ovvero conoscenze storiche, filologiche, stilistiche, linguistiche ed ermeneutiche, e ritengo che non sia proprio giustificata l’accusa che questi requisiti portino a una riduzione della critica artistica a un oggettivismo scientistico (che poi questo scientismo mi pare sia una categoria come quello della stregoneria: di scientismo parlano solo i non-scientisti e sempre con toni accusatori, mentre non si conosce nessuno che descrive se stesso come sostenitore e praticante di una concezione definita come scientismo…). Mi piacerebbe infine sentire dei critici d’arte affermare cose come “Io esprimo questo giudizio di significato e valore su questi esempi di opere artistiche per questi motivi (che certamente non esauriscono l’indagine su tali singole opere) ma discussioni generali e universali su cosa è davvero un opera d’arte in genere, sulle sue connessioni con la totalità della vita e così via sono discorsi distinti e in buona parte indipendenti dal mio lavoro di critico”.

  10. @ Michele Dr

    “Semper philosophandum est. Si philosophandum est, philosophandum est; si philosophandum non est, philosophandum est.”

  11. @ Eros Barone:

    sull’inevitabilità del filosofare sono d’accordo con Aristotele, ma questo non dovrebbe essere una “scusa” per far diventare il filosofo un “tuttologo” che possa sostituire figure molto specialistiche come quelle dei critici letterari e artistici, segnalo comunque, la seguente intervista al filosofo Luca Illetterati, proprio su filosofia ed arte:

    http://www.killsurfcity.it/magazinearticle/una-conversazione-sullarte/

    dove, specialmente nella risposta alla domanda “In che modo un filosofo può contribuire a una buona critica d’arte?” espone delle osservazioni analoghe a quelle da me prima affermate, citando peraltro anche Arthur Danto come esempio positivo di critico d’arte di valore che è stato anche importante come filosofo d’arte.

  12. @ Eros Barone: certo, conosco il discorso del Protrettico di Aristotele sull’inevitabilità della filosofia, disciplina che può essere di grandissimo valore e in certi aspetti necessaria per il lavoro del critico d’arte o letterario, basta però che non sia una scusa per far sì che qualunque filosofo possa occuparsi di critica d’arte o letteraria, in quanto sono indispensabili e importanti per tale disciplina anche le conoscenze “storiche, filologiche, stilistiche, linguistiche ed ermeneutiche” di cui parlavo prima, a tal proposito segnalo la seguente intervista al filosofo Luca Illetterati sui legami tra filosofia ed arte:

    http://www.killsurfcity.it/magazinearticle/una-conversazione-sullarte/

    dove, in particolare nella risposta alla domanda “In che modo un filosofo può contribuire a una buona critica d’arte?” si mette in guardia da possibili abusi della filosofia quando l’argomento su cui si riflette sono le opere artistiche, vengono citati i filosofi influenzati dalla visione hegeliana dell’arte ed Heidegger come esempi di riflessione filosofica sull’arte che se letti come critica d’arte non possono che essere giudicati negativamente, tuttavia viene anche citato Arthur Danto come esempio positivo di critico d’arte che si occupa anche degli aspetti filosofici di essa mantenendo distinguendo sì le due discipline tra loro ma facendo in modo che aspetti dell’una possano influenzare aspetti dell’altra in modo indubbiamente positivo.

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