di Daniela Brogi
[Questo articolo è stato preparato per il catalogo della trentaduesima edizione di Bergamo Film Meeting (8-16 marzo 2014), nel corso della quale è stata dedicata una sezione speciale alla regista Antonietta De Lillo. Ringraziamo il coordinamento di BFM per il consenso alla ripubblicazione]
Tra l’esordio di Una casa in bilico (1986) e La pazza della porta accanto (2013) Antonietta De Lillo ha realizzato circa venti lavori, mentre tuttora è in corso la preparazione del film partecipato Oggi insieme, domani anche. Ciascuna di queste esperienze ha le proprie specificità; spesso entrano in gioco tecniche, linguaggi, generi diversi; ciascuna situazione possiede pure qualità differenti, ma ciò nonostante i singoli momenti formano una trama che fa sistema, e, nell’arco di quasi trent’anni, compone un’opera complessiva. Un’opera, vale a dire un insieme di singolarità che costruiscono, con uno stile che si vuole trasversale, un profilo d’insieme che riguarda l’impresa di una vita: qualcosa di somigliante a quello che nell’italiano antico s’intendeva per “tessuto a opera”, o “operato”, cioè con figure non stampate ma composte sul fondo da orditi e trame che lavorano d’intreccio. Al centro del disegno, per molti motivi, sta Il resto di niente (2004), ma anche quel lavoro non occupa uno spazio isolato e solitario, né vive strettamente di sé, perché anzi dialoga, magari anche per sfida, o per scarto, con gli altri film di De Lillo. Proviamo allora a guardare meglio queste tracce che persistono.
Si tratta di «riuscire a fermare una cosa che sta scomparendo. L’abbiamo fermata, l’abbiamo fermata… è tutto lì»: le parole con cui il protagonista del primo videoritratto, Angelo Novi fotografo di scena (1992), ci comunica la passione per la sua professione funzionano anche come chiave di lettura per la speciale attenzione al linguaggio e alle sperimentazioni del cinema documentario che attraversa l’intera opera di De Lillo, sin dai primi lavori (compreso il film Matilda, del 1990, così attento a un’ambientazione napoletana borghese, anziché popolare, e perciò fuori clichés).
Documentare, difatti, significa da un lato fermare realtà attraverso la testimonianza: restituire forza di espressione, e dignità, a identità minacciate dall’oblio perché sono più appartate. O magari, al contrario, si tratta di testimoniare per riscattarsi dal luogo comune (De Lillo usa continuamente materiali narrativi attinti dai pregiudizi e dalle frasi fatte: la superstizione, il sud, il matrimonio d’interesse, la femminilità, la coppia eterosessuale, il Natale, la canzone napoletana, il porno, l’amicizia impossibile), e allora documentare significherà trattare forme di vita anche troppo “appariscenti” ma ammalate, per così dire, di sovraesposizione, cioè guardate solo in quanto stereotipi (come nel caso di ‘O sole mio, 1998; o della pazzia eccentrica di Alda Merini, riguardata e fatta guardare invece come situazione a cui si restituisce normalità, prossimità per contrasto, tant’è vero che diventa la pazza della porta accanto). Oppure, ancora, si può trattare di fermare realtà documentando con spirito civile, proponendo, in Viento ‘e terra (1996) la storia di “‘E’ Zezi”, lo storico gruppo musicale dell’entroterra napoletano, composto prevalentemente dagli operai dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco.
Ma, dall’altro lato, e al tempo stesso, documentare vuol dire anche dare persistenza a ciò che da un momento all’altro potrebbe scomparire, sta scomparendo (di continuo ci si confronta con il tema della morte), proprio perché è più fragile; ma non per questo è meno essenziale, e dunque non basta, a coglierlo, nemmeno la fotografia: piuttosto si tratterà di restituire esistenza a un mondo sensibile fatto, oltre che di ciò che si vede, di rumori, di voci, di ombre, di sensazioni tattili continuamente legate al mondo degli oggetti. Per incorporarli, in senso tecnico, occorre non trattarli come semplici estensioni decorative del vivere umano, ma farli entrare, agire: tanti lavori di De Lillo, a tal riguardo, sono pieni di scene silenziose in cui si toccano le cose (In alto a sinistra, in Racconti di Vittoria, 1996), o sono animati, per esempio, da ticchettare di sveglie, trilli di telefono, o perfino tintinnìi di una tazzina da caffè traballante: il suono che occupa la prima scena de Il resto di niente, che si apre con il tonfo della porta aperta con violenza da una guardia borbonica, sùbito seguito dallo sbattere degli stivali: ancora prima della storia e di tutto il resto, la vulnerabilità di Leonòr che sta attendendo di essere giustiziata, la sua totale esposizione agli eventi esterni e la relativa paura, si esprimono in quanto esperienze della realtà sensibile.
Antoniettà De Lillo è stata tra i primi in Italia, forse la prima, a cimentarsi con il videoritratto, e in questo senso è interessante il lavoro di reinvenzione dell’antropologia documentaria classica – tesa soprattutto alla rappresentazione di un’umanità attraverso le forme di vita più evidenti in quanto visibili. Il cinema di De Lillo reimposta questa tradizione di sguardo, inserendo, al posto di ciò che è più “vistoso”, il ruolo della voce come dispositivo di rivelazione del reale – anche come presa di consapevolezza, come attesta la scelta di costruire il film di montaggio Operai (1996) attraverso tanti tasselli che in progressione formano un racconto di formazione della coscienza di classe. Rinunciando, sempre, a ogni occasione di intrusione autoriale, lo spazio filmico dei videoritratti diventa lo spazio del racconto, per lo più dentro una scena fissa – magari col bianco e nero, in un gioco di chiaroscuri e di campi e controcampi ridotti a un’intelaiatura essenziale, come in Promessi sposi, da cui prenda identità, prima di testimonianza e poi di forme, la storia di un cambiamento di sesso. In tal senso, il recupero stesso, in La pazza della porta accanto, dei materiali di un’intervista a Alda Merini già parzialmente usati nel primo ritratto dedicato alla poetessa (Ogni sedia ha il suo rumore, 1995), va in direzione di una maggiore essenzialità, tesa a dare più rilievo possibile a una figura di intelligenza austera, che smentendo il senso comune, si impone non per seduzione sentimentale o iconica, ma per autorevolezza del pensiero.
La cifra documentaria definisce, ancor prima che uno sguardo, un situarsi nel mondo: un’affermazione, anche tecnica, di riconoscimento delle individualità come identità in relazione con la presenza degli altri. «Come mi vedi? Sai veramente che esisto anche io?», ci chiedono tanti suoi personaggi, facendo risuonare questa domanda dentro una piattaforma filmica e spettatoriale di condivisione. E così alla costante documentaria si affianca un’altra seconda traccia dell’opera di De Lillo: la sensibilità per il cinema come linguaggio interdialogico e interlocutorio, con possibilità molteplici di sperimentazione. Si va dalle strutture di appello degli inserti teatrali di Enzo Moscato, fino alle esperienze di film collettivo (Maruzzella, ne I Vesuviani, 1997), o partecipato (Il pranzo di Natale, 2011; Oggi insieme, domani anche). Altre volte, invece, questo interrogarsi sui modi possibili in cui far stare anche la propria esistenza tra le vite degli altri, si tematizza, trasformando i personaggi stessi in spettatori dei propri ricordi (Il resto di niente) o delle proprie proiezioni – come i due bambini protagonisti di Non è giusto (2001). Racconti di vittoria (1996), un film in tre atti sull’entrata in contatto con la morte – attraverso il mito, il lutto, la malattia – rielabora la riflessione sui livelli possibili di distanza e partecipazione costruiti da una storia filmata variando, in ciascuno dei tre momenti, la tecnica stessa di messa in scena: teatrale, nella prima parte (Pozzi d’amore); letteraria, nella seconda parte tratta dal testo omonimo di Erri De Luca (In alto a sinistra); documentaria e televisiva nel terzo quadro (Racconti di Vittoria), in cui la narrazione di un’esperienza di malattia e di cura si alterna a interviste per strada, con l’effetto complessivo di una capacità abbastanza inusuale nel creare attenzione e senso di comunità attorno al tema della malattia.
Il film Non è giusto (2001), realizzato in digitale, ferma un terzo motivo importante dell’opera di De Lillo, ossia il racconto del mondo attraverso lo sguardo sporco, in senso tecnico (il film è girato in soggettiva) e immaginoso dell’infanzia. Si tratta in questo caso di due bambini ripresi dentro il mondo faticoso di relazioni adulte che li squilibrano – e càpita di ripensare, in un certo senso, anche al cinema di Capuano, o Di Costanzo. Con la particolarità, però, di raccontare la storia senza tensione drammatica, ma come successione normalizzata di situazioni che, semplicemente mostrandosi, senza filtri autoriali, finiscono per rovesciare la relazione tra il mondo dei grandi e quello dei piccoli, facendo apparire l’universo adulto come quello più attraversato da una logica di irresponsabilità infantile.
L’eco di questa sorta di documentarismo fantasioso, attento a guardare la realtà come coesistenza di sguardi paralleli, giunge, sottotraccia, anche nel film più noto di De Lillo, Il resto di niente (2004), che è tratto dal libro omonimo di Enzo Striano – pubblicato nel 1986. I film tratti dalle opere letterarie, e particolarmente dalle narrazioni storiche, non sono mai facili, a meno che non si intenda realizzare una semplice trasposizione, perché l’interpretazione visiva di ciò che è sulla pagina non solo richiede ma impone l’arte: la prova di una regia da cui emerga una visione personale, capace di capire e decidere cosa va ripreso e cosa invece va tagliato, cosa va ricreato come se venisse al mondo per la prima volta. E così la storia di Eleonora de Fonseca Pimentel e della rivoluzione napoletana del 1799, nel passaggio dalla versione letteraria a quella cinematografica, riconquista vita, con un risultato finale perfino superiore a quello del libro. Alcuni motivi, in particolare, possono far cogliere bene questo salto creativo: in cima a tutti la scelta di intrecciare la storia, che nel romanzo scorreva su un piano lineare, su un ordito memoriale – assecondato, tecnicamente, dalle riprese con la macchina a mano in pellicola 16 mm poi rielaborate in digitale. Si parte dalla fine, dall’ora estrema del fallimento dell’esperienza rivoluzionaria e della condanna a morte; attraverso la prima immagine della bimba “lazzarona” che porta a Leonòr l’ultimo caffè per scappare subito, ripercorrendo al contrario il lungo corridoio da cui era arrivata, scatta il transfert tra le due figure: il montaggio sovrappone le situazioni, proseguendo il movimento all’indietro; comincia la storia di Eleonora dall’epoca in cui, bambina, esce dal palazzo romano per salire sulla carrozza che la porterà a Napoli. L’infanzia non fissa la diacronia ma il fuoco della storia: tutto la vicenda passa attraverso gli occhi di Leonòr che, rispecchiandosi nel sé bambina, rivive il film della propria vita, diventando spettatrice dei propri ricordi: « [Leonòr:] – dove abbiamo sbagliato? l’errore che ci ha sconfitto, l’ultimo gioco, quello che abbiamo avuto paura di giocare, quale è stato? – || [Filangieri:] – io ho avuto solo il coraggio di scrivere, e la banale idea di morire su un letto d’infermo. Essere bambino fino alla fine, la prova suprema: questo mi fu negato. Costruirli i sogni, non dirli soltanto: volerli». Attraverso i dialoghi surreali con Filangieri (Enzo Moscato), o attraverso la voce fuori campo di Leonòr (Maria de Medeiros) che si ricorda, che ricorda se stessa che in carcere si ricorda di quando “passò a marito”, l’infanzia e la morte diventano le due soglie visive e coscienziali che si scambiano fantasmi di racconto, dilatando o contraendo il senso della storia, come in una valle di echi. Non assisteremo all’impiccagione di Leonòr, come nel libro: l’ultima scena, in un gioco di rime con la prima, resta dietro al personaggio, mentre attraversa il passaggio dal palazzo al mondo esterno, verso una possibilità di significato e di partecipazione alla vita che rimane aperta, proiettata verso la luce.
L’uso del documentarismo per sperimentare nuove occasioni di sguardo sul reale, la tensione dialogica, l’attenzione ai modi di trattamento dell’infanzia: è come se l’opera di De Lillo provasse sempre a rispondere al richiamo del cinema come azione, lavoro che non può essere preservato ma buttato dentro il mondo. Questo dinamismo comporta come conseguenza quasi implicita la sperimentazione, la ricerca di varchi fuori dai confini, e spiega anche una quarta costante: la polifonia. Già se ne trovava traccia nel bisogno di far parlare il cinema dentro il cinema, attraverso i dialoghi tratti da altre opere classiche e fatti risuonare dentro il cortometraggio ‘O cinema (1999), dove fantasie infantili e memorie cinematografiche si confondono nella passeggiata di un bambino per le strade di Napoli; o ancora nel videoritratto dedicato a Tonino Guerra (Pianeta Tonino, 2002). Intrecciare voci equivale a non smettere mai di dar valore alla propria esperienza individuale solo a condizione di farla risuonare in un concerto di vite e di storie, e anche a rischio, e onore, di mettere da parte la propria. Il pranzo di Natale (2011), che si compone di tanti film realizzati da autori diversi e tenuti assieme dai frammenti di racconto di Piera degli Esposti, porta al punto di massima tensione, e di coerenza, questo impulso creativo vissuto come relazione. Un punto provvisorio, evidentemente, perché un’opera in azione chiede di produrre sempre qualcosa di nuovo.
[Immagine: Maria de Medeiros ne Il resto di niente (A. De Lillo, 2005) (dbr)].
Ho adorato e adoro Il resto di niente, voglio vedere tutto della grande regista; perché non ci pensate voi on line? Grande Antonietta De Lillo!!!