di Lorenzo Marchese
Mi sento abbastanza a disagio nell’avvicinarmi a uno scritto di Antonio Moresco partendo da una prospettiva di critico letterario, o aspirante tale, così come è arduo tentare una lettura analitica dei suoi testi evidenziando punti di interesse e difetti strutturali, azzardare una scomposizione e un’analisi di tecniche e strategie discorsive, secondo quanto ci (mi) hanno insegnato a fare dalle scuole medie fino all’università, al fine di (espressione inquietante e di ripetuto buon senso) spiegare e comprendere un testo, e forse sul disagio conviene spendere due parole e da lì partire. Non è facile per due ragioni: una per così dire esterna ai testi, e una intrinseca.
La ragione “esterna” è legata alla ricezione problematica di Moresco, che sin dagli esordi con Clandestinità (1993) ha spaccato la popolazione dei suoi lettori in due falangi eterogenee che molto di rado nei vent’anni successivi si sono avvicinate. Da una parte della barricata sta chi ha avuto, da vent’anni a questa parte, la consapevolezza di trovarsi di fronte a dei capolavori misconosciuti dall’establishment letterario-editoriale. Da qui è nato il volume Scrivere sul fronte occidentale, raccolta di scritti di combattimento e impegno per il nuovo millennio, uscita nel 2002; da qui, nel 2003, sorse Nazione indiana, uno dei blog più importanti e controversi degli ultimi anni, a cui volenti o nolenti tutti i blog letterari collettivi si sono poi rifatti per forme e contenuti. Da questa parte della barricata (non solo da qui, chiaro) è venuta fuori per la prima volta con polemica chiarezza l’esigenza di un superamento del postmoderno, è sorta un’interrogazione sul possibile “ritorno alla realtà”[1] della narrazione in prosa, unita all’esortazione a occuparsi di orizzonti più vasti di quello metaletterario o intimistico o autoreferenziale (o tutti questi insieme, in un unico mappazzone). Tutto degno di interesse e ammirevole. Ciononostante, quando ci si riconcentra su Moresco e sulla sua ricezione “da questa parte”, non è infrequente leggere commenti e pareri che da un lato destano interesse e dall’altro non possono che lasciare al lettore (a me) una punta di delusione.
Da questa parte della barricata immaginaria, i pareri sulle opere di Antonio Moresco danno l’impressione di essere di bruciante intensità e al contempo poco incisivi. Mancano le letture critiche esaustive e le analisi del testo, l’autore nella sua figura di carne e sangue copre e colora l’opera, ne influenza drasticamente la ricezione: come lo stesso Moresco non manca di fare nei suoi scritti critici (ad es. Il vulcano, L’invasione, Lo sbrego) parlando di autori che ama, la lettura è concepita come esperienza totale che sconvolge in profondità il lettore, ne modifica la visione del mondo e non permette, alla fin fine, letture troppo sottili, distanze e obiettività vere o presunte. Secondo questo approccio, leggere Moresco diviene uno scandaloso atto di fede, magari a una scommessa cosmica: o la possibilità del tutto, o il già decomposto e arcinoto niente[2]. Distinguere, alla maniera della vecchia generazione dei critici, degli accademici e dei giornalisti, diviene «un’ossessione necrofila»[3]; d’altro canto, la naturale diffidenza di chi è abituato a fare critica (cioè, secondo l’etimologia greca, a operare distinzioni a catena) non può fare a meno di repellere, per riflesso condizionato, una lettura di Moresco pericolosamente vicina a una condivisione entusiastica. Così, scivolando lentamente nell’altra parte della barricata, troviamo i lettori che non apprezzano Moresco, quelli per cui un’idea forte di letteratura, che ci ha accompagnato attraverso il ‘900 e le sue ideologie politiche, si è estinta con la scomparsa de «gli Sciascia, i Pasolini, i Calvino, i Volponi»[4] o, in una prospettiva meno personale, con il cambiamento della geopolitica mondiale, col mutamento degli equilibri e i nuovi scenari finanziari globali. Per costoro sovente i libri di Moresco risultano illeggibili o insoddisfacenti, non scendono in profondità e, lasciando sullo sfondo, per dire, la dimensione interiore e quella politica, non sembrano rivelare altro che una dimensione nauseante fatta di corporalità animale, fecalità e violenza, gesti meccanici e insensati compiuti da personaggi-pupazzi in un cosmo che anela alla sua stessa esplosione. In effetti, neanche il gruppo composito di chi non apprezza l’autore ha tutti i torti, per via di quella ragione intrinseca che ho finora lasciato sullo sfondo.
È innegabile che i libri di Moresco non si prestino a molti tipi di letture, ma paiano richiederne una sola, inequivocabile e richiesta esplicitamente dall’autore, quasi che comprenderlo nel modo che lui pretende sia l’unico modo di salvarlo e, insieme, salvarsi. Non troviamo allegorie né testi con un significato simbolico univoco. Anche se i personaggi principali delle sue opere sono, sotto vari nomi, palesi trasposizioni della figura autoriale, non siamo nemmeno davanti a opere, detta rozzamente, non-finzionali, salvo eccezioni[5]. Tutto è trasfigurato in una chiarezza allucinatoria che annulla i confini, ritenuti pretestuosi, fra fiction e non-fiction e rivendica il valore di frammento autentico della realtà, di contro alle rappresentazioni consolatorie che troppo spesso vengono fatte di una realtà ristretta, antropocentrica e finalistica: è immediata conseguenza che nella narrazione di Moresco realtà e verità vengano a coincidere, e che quindi spesso i suoi libri tendano ad assomigliare ad apologhi il cui senso deve essere ritrovato e riconosciuto dal lettore. Le ultime composizioni di Moresco esasperano una simile tendenza e non cercano neppure di proporre messaggi univoci; sul piano di storie allucinate e impossibili si gioca la scommessa di significato dell’autore, che spesso è difficile cogliere[6].
Fiaba d’amore (Mondadori, Milano 2014) rispecchia in pieno simili caratteristiche e prosegue una serie di prose ibride, a metà fra il racconto lungo e il romanzo breve, iniziata nel 2010 con Gli incendiati e proseguita nel 2013 con La lucina. In questi due racconti, il primo condotto alla prima persona e il secondo in terza, i protagonisti sono una chiara trasposizione anonima di Antonio Moresco, di un uomo che si è tratteggiato come un estraneo fuori dai cancelli della Storia, una sorta di randagio incapace di accontentarsi di qualunque posizione acquisita, escluso e, in fondo, autoescluso per vocazione dalla religione, dal mondo della politica e da quello della letteratura[7] . In Fiaba d’amore la supposta coincidenza con l’autore guadagna alcuni argomenti. Se l’incipit rimanda chiaramente a un mondo fiabesco: «C’era una volta un vecchio che si era innamorato di una meravigliosa ragazza (7), il lettore esperto non tarda a capire che il vecchio, che è un barbone, ha in sé una personalità complessa e silenziata, che non viene mai rivelata al lettore e ne rende la figura oscuramente simile a quella dell’autore e dei suoi molteplici alter ego. Tanto più che, per la prima volta, di questo protagonista viene dato uno schizzo eloquente che lo riconduce all’autore: «Era un vecchio alto, magro, con lunghi capelli bianchi e la barba dello stesso colore, qua e là più scura vicino all’attaccatura, la fronte solcata da rughe, il naso rotto» (9). Infine, veniamo a sapere che si chiama Antonio.
Il barbone vive in un perenne straniamento, sembra incapace di comunicare e forse anche di pensare, come il protagonista di Gli esordi, e come lui sembra avere scelto una ragione alternativa a quella umana, è in sostanza «un vecchio pazzo»[8] Per estrazione sociale, il vecchio è «un uomo perduto, un rifiuto umano» (Ibidem) che ha rinunciato a qualsiasi ipotesi di contatto umano anche con gli altri barboni, a disagio anche fra gli ultimi. Che la rinuncia sia stata scelta, pare probabile, ma il disgusto per il mondo in Fiaba d’amore è come un fuoco abbagliante già quasi del tutto consumato che lascia solo polveri immemori di rigetto: «Neanche lui sapeva chi era stato. Ricordava solo che tutto lo aveva deluso, che aveva abbandonato la sua casa, la sua vita, e che si era messo a dormire per strada, al freddo, nel mondo vuoto» (9). Dunque il ripudio del mondo dei vivi, che era il tema centrale di Gli incendiati e La lucina, qui è già dato sin dall’inizio. La novità sostanziale sta nella possibilità di rientrare nel mondo, che sin dalla prima frase del racconto viene offerta al vecchio: si innamora di una bellissima ragazza e lei ricambia. Anzi, in modo inatteso e inspiegabile lei sembra riconoscerlo e accoglierlo senza riserve. Il narratore della fiaba, che, apprendiamo da un dialogo “in cornice”[9], sta raccontando la storia del vecchio a un pubblico indefinito, spiega che la bellissima ragazza «era riuscita a indovinare sotto quegli stracci chi era stato, chi era» (19). Come nelle migliori fiabe, lei lo riconosce, anche se viene taciuta la spinta iniziale – un procedimento usuale in Moresco – : lo riconosce come chi? Non è dato sapere.
Come spesso accade nelle fiabe, nelle quali il ricco accoglie il miserabile nel suo palazzo e divide con lui il pane (anzi, con una lei, più spesso) qui è una bellissima ragazza benestante ad accogliere un vecchio straccione presso di sé, con un gesto di carità inaudito che lascia Antonio pieno di interrogativi: lei lo lava, lo riveste di begli abiti, lo ama e spende i giorni con lui. La solidarietà che Antonio, rassegnato a essere un rifiuto umano, riceve, si riveste di un’aura di grandezza inaspettata, e la stessa ragazza sembra agire proprio in nome di un progetto che si estende oltre la miseria della temporalità e le piccinerie del presente: «Io sono nata per fare qualcosa di grande, io sento dentro di me la grandezza … (…) Noi faremo insieme qualcosa di grande. È per questo che sono nata, è per questo che ti ho cercato e che ti ho trovato» (57). Il mondo che Antonio ha ripudiato e in cui continua a vivere, di cui a malincuore deve comunque accettare alcune regole, è dominato dalla prevaricazione del forte sul debole e dalla lotta per l’accoppiamento, in un meccanismo di violenze sotterranee ed esplicite che acquistano, per la prima volta in Moresco, un carattere perentorio che non lascia quasi nessuno spazio alla fascinazione verso la natura, alla speranza. Le leggi non scritte di questa visione del mondo meccanicistica e misogina in cui si tesse «la fila eterna abbominanda/ di nascite e di morti»[10] sono scandite dalla comunità dei barboni, in alcuni monologhi corali di sapore teatrale (76-77), e da un misterioso colombo che accompagna il vecchio barbone per le strade in veste di psicopompo, tramite dolorosamente umano fra persone separate (si veda il suo soliloquio in Fiaba d’amore, 104-105). L’unione della bellissima ragazza (che si chiama Rosa) e di Antonio non è accettata da nessuno e lascia intravedere al lettore la sua evoluzione tragica. Anche perciò, Fiaba d’amore si discosta decisamente dal binario delle fiabe che siamo abituati a leggere, sebbene, per costruzione e linguaggio, quello della fiaba sia proprio il genere che più si adatta a spiegare il testo. Pensiamo alle pagine in cui si racconta con precisione analitica la tenerezza semplice della vita di coppia, e insieme la sorpresa di esistere e pensare in due, per chi non ha mai conosciuto che la solitudine: è una novità semplice, usuale, che si ripete a ogni nuovo amore nella vita di ogni persona, ma Moresco è abile a tratteggiarla come un riconoscimento decisivo, un ritrovarsi in una condizione pregressa che non si può nemmeno tentare di definire. Se ciò è davvero poco da fiaba, ancor meno lo è la stessa descrizione dell’idillio di coppia, che di solito si situa nello spazio bianco dopo il canonico «E vissero felici e contenti fino alla morte». Meno ancora è quanto accade dopo: Moresco decide di riempire lo spazio, sottopone la fiaba alla corrosione del tempo, inserisce il tradimento dell’ideale.
Rosa, all’improvviso, cambia, comincia a dubitare della “grandezza” del suo progetto. Il decorso dura due pagine, alla fine delle quali lui viene ricacciato fuori per strada, definitivamente intaccato da quanto ha vissuto. Per quanto finito, tradito, l’amore ha instillato il germe della coscienza in Antonio, e ne mina persino il suo ultimo atto di fedeltà al mondo che ha rifiutato: l’istinto di sopravvivenza, cui viene preferita l’attività, tipicamente umana e insensata, di chiedersi il perché degli eventi[11]. La fedeltà all’amore coincide con la tensione alla morte, a lasciarsi andare, né escluderei un riuso di alcune cose di Leopardi, autore da sempre amatissimo da Moresco, e qui presente, oltre che nella gemellarità di Amore e Morte cui tutto il mondo è ricondotto[12], anche nel disegnare un mondo permeabile in cui i confini fra i vivi e i morti divengono alquanto porosi[13].
Sulla confutazione del confine fra vivi e morti, d’altronde già presente in Gli incendiati con accenti più aggressivi e guerreschi, s’innesca l’ultima parte di Fiaba d’amore. Il vecchio, tornato straccione, si lascia morire perché ha conosciuto l’amore, ma quest’ultimo passo non ne costituisce la sconfitta definitiva. La morte, in cui entra silenziosamente e senza clamore, nel complesso non si rivela granché. L’aldilà è una copia perfetta del mondo dei vivi, fin nelle sue ingiustizie e nelle assurdità. Nel mondo dei morti continuano a esserci il consumismo, i weekend in villeggiatura e i barboni agli angoli delle strade. L’unica differenza è che lì le cose non sembrano avere l’irreversibilità repentina e violenta che avevano in vita: pertanto, passare fra i morti suona quasi come un «gioco dell’eternità»[14]. Stare fra i morti è un altro dei molti tragitti, evocati da Moresco nelle sue opere, compiuti per aspirare a una totalità immanente che possa vincere su una linearità temporale conducente a null’altro che all’annullamento definitivo. Nei Canti del caos, la narrazione prendeva avvio da una nascita (quella di un grande romanzo composto dal Matto) e a una nascita misteriosa, di portata cosmica, approdava, pur nella sparizione di tutti gli altri personaggi dell’opera; in La lucina il personaggio principale incontrava se stesso da bambino e si rovesciava in lui, annullando la sua contingenza per abbracciare, mano nella mano con il sé bambino, un infinito circolare sotto una volta stellata in montagna. Fin troppo si è insistito sulla scrittura di Moresco come vocazione alla nascita. In Fiaba d’amore, tuttavia, la rinascita non avviene, in coerenza con l’orizzonte fiabesco, nel quale la morte regge e conduce le sorti umane e non viene mai messa da parte (a differenza che, poniamo, nell’apologo o nella favola antica), ma si verifica un avvicinamento fantastico fra Antonio e Rosa. In un movimento simmetrico che contraddistingue l’ultima parte di Fiaba d’amore, la bellissima ragazza si riappropria, ancora senza un motivo apparente, del suo progetto d’amore e delle sue aspirazioni a una grandezza contro il mondo. Ricerca Antonio e, venuta a sapere della morte di lui, decide che per lei non c’è altro che imparare a vivere esattamente come l’amato, per strada. Poi si lascia morire.
I due si ritrovano nella città dei morti, per un caso che ha un fortissimo sapore di predestinazione. In una logica simmetrica, da morti ritornano nella città dei vivi, Antonio ricorda il suo passato e ritrova la casa che aveva abbandonato, una grande villa sepolta sotto la neve. La narrazione diviene enigmatica e non permette al lettore che di azzardare ipotesi: chi era il vecchio, un principe, un re, una persona potente? Oppure, facendo un’ipotesi spericolata, Antonio era Moresco stesso, che, il lettore esperto sa, da bambino viveva in una grande villa con la madre, a servizio da alcuni signori nella campagna mantovana[15]?
Di sicuro, l’amore che è stato dato da Rosa ad Antonio diviene reversibile, il bene che è stato fatto verrà restituito, in un’ottica di risarcimento universale: Antonio accoglie, pulisce, veste Rosa nella sua vecchia-nuova casa, sembra ringiovanire senza motivo, mentre lei cresce e da ragazza diventa donna. Qual è il senso di questo avvicinamento che riappiana le ferite del tempo? Non viene offerta alcuna spiegazione netta: «forse perché, da morti, si torna indietro, si deve arrivare più vicino al punto di partenza per poter nascere un’altra volta» (134). Ma attenzione, una rinascita integrale non è certa, il sonno finale dei due amanti manda un’eco tragica che richiama, in altri toni, l’Ecpirosi incarnata dei due amanti al finale di Gli incendiati. Il senso di Moresco per il mistero precario della vita è forte, e necessario riconoscere la propria impotenza, al modo in cui il lettore capisce che non si possono in effetti proporre letture troppo sottili intorno a questo testo (all’una o all’altra parte della barricata dei lettori toccherà decidere se ciò sia un bene o no, ma questa mi pare la sua grandezza iniziale, e il suo limite alla fin fine).
Leggendo Fiaba d’amore si ha l’impressione che non sia possibile una regressione perfetta proprio a causa dell’amore, che si mostra l’unico elemento capace di accelerare la compenetrazione fra morte e vita, quello che, in sostanza, fa precipitare il castello di carta del mondo bifronte dei vivi e dei morti, ripudiato da entrambi i protagonisti, per qualcosa di più grande che non sarà mai possibile esprimere con la letteratura: «Non c’è nient’altro da raccontare. Nella vita non c’è nient’altro. Non c’è nient’altro» (155). Su un altro piano, credo invece che per Moresco, abituato a confrontarsi con la soglia dell’indicibile e sempre più addentrato nella cruna della sua vocazione metafisica, ci sarà altro da dire, altre increazioni da ricreare, presto.
[1] Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, a cura di Raffaele Donnarumma, Gilda Policastro, Giovanna Taviani, in «allegoria», 57, gennaio-giugno 2008, pp. 7-93. V. anche in questo sito le riflessioni di Raffaele Donnarumma sull’”ipermodernità” e sul superamento del postmoderno letterario.
[2] Faccio mie alcune riflessioni orali di Luca Cristiano, che vanno parzialmente in un’altra direzione, sul rischio del “misticismo” nell’ultimo Moresco.
[3] Come scrive in Scuola di nudo Walter Siti: un autore, per certi versi, affine a Moresco, soprattutto per quanto riguarda la contestazione, non priva di affascinante, privatissimo rancore, verso l’establishment culturale fra gli anni ’70 e ’90 (per Moresco, v. soprattutto Lettere a nessuno, 1997).
[4] V. Romano Luperini, Intellettuali, non una voce, apparso in origine su «L’Unità» del 18 febbraio 2004. V. link per articolo completo: http://www.pasolini.net/saggistica_intellettuali_Luperini.htm
[5] Ad es. il reportage autobiografico Zio Demostene. Vita di randagi, Effigie, Milano 2005.
[6] «Dove sta andando, oggi, Antonio Moresco? Non sarà negli Incendiati che troveremo una risposta, o almeno non una risposta che siamo pronti a controfirmare. Un testo ascensionale, verticale (come sempre in Moresco non c’è movimento che non sia verticale): anche qui, dove pure gioca con i generi e con la loro “orizzontalità”, c’è un costante, convulso rilancio che si conclude (provvisoriamente viene da pensare) nel finale apocalittico, in quest’improbabile punto d’incontro tra videogame di bassa lega e testo sapienziale, pacchianata e mistero, dove i morti bombardano i vivi. Ma, soprattutto, lo fa usando una lingua scomposta, a tratti volutamente brutta; eppure non è la parola necessariamente scomposta di chi sta “sfondando”, dell'”invasore” (parole d’ordine moreschiane). Moresco sembra proseguire in un itinerario estremamente personale, senz’altro impervio, di difficile decifrazione, ma un tale avvitamento nel proprio idioletto rischia di apparire più la chiusura di fronte a un accerchiamento che l’apertura (a cosa, verso dove?) che annuncia. Mentre lo osserviamo allontanarsi viene il dubbio che siamo noi a non comprenderlo più, o forse non siamo ancora pronti», recensione di Francesco Guglieri a Gli incendiati, in «L’indice dei libri del mese», per il testo completo v. http://puntocritico.eu/?p=1176 .
[7] Questa, di fatto, potrebbe essere la sinossi del romanzo autobiografico Gli esordi. Per quanto concerne l’atteggiamento verso il mondo della letteratura, è necessario il rimando a quel diario-zibaldone di grande bellezza che è Lettere a nessuno nella sua prima edizione (1997, Bollati Boringhieri). Esso è stato poi ripreso da Moresco, in una forma più simile a una raccolta di eterogenea di scritti militanti e meno a una narrazione rapsodica per lampi e invettive, in un’edizione accresciuta (2008, Mondadori) in cui si riprende a raccontare da quando Moresco, a quarantacinque anni nel 1993, ha finalmente esordito.
[8] Ha qualcosa a che fare con il personaggio principale dei Canti del caos, il Matto, che viene a coincidere parzialmente nella terza parte di questo libro con la figura dell’autore Moresco.
[9] La narrazione è infatti intervallata da alcuni dialoghi fra il narratore e il suo pubblico, inseriti nei punti di snodo della vicenda. Anche questa è una forte novità rispetto alle opere precedenti, per quanto un uso sperimentale delle intersezioni fra punti di vista e voci narranti sia evidente in Canti del caos con ben altre ambizioni.
[10] Umberto Saba, Fanciulle. 12 in Canzoniere, Einaudi, Torino 2005, vv. 5-6.
[11] In ciò, Moresco recupera l’attitudine filosofante che c’era già forte in La lucina e che lo allontana parecchio dal racconto diretto della fiaba, dalla sua sapienza riappacificante (68-69 e segg.).
[12] «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ Ingenerò la sorte./ Cose quaggiù sì belle/ Altre il mondo non ha, non han le stelle», Giacomo Leopardi, Amore e morte in Canti, Mondadori, Milano 2004, vv.1-4.
[13] V. il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie nelle Operette morali.
[14] Di «giochi dell’eternità» parla il personaggio principale di Gli esordi nella prima pagina di quel romanzo.
[15] Lo ha raccontato l’autore sia in alcuni racconti (La camera blu in Clandestinità) che nelle pagine di Zio Demostene e in varie interviste.
[Immagine: Antonio Moresco].
E’ bello leggere finalmente un’analisi seria dell’opera di Moresco. Però non credo che Fiaba d’amore sia davvero un buon punto di partenza. Forse mi sbaglio, ma lo ritengo un episodio irrimediabilmente minore nella produzione di un autore ben più grande di quanto non dimostra in queste pagine.
Ti ringrazio molto, Luca. Sul valore di questo libro non ho ancora un parere precisissimo; credo che discordiamo soprattutto sul valore da assegnare a, schematizzo, Moresco “breve” rispetto al Moresco “lungo”.
Secondo me infatti è nelle prose brevi, in queste ultime come in “Clandestinità” e “La cipolla” che il nostro riesce meglio, mentre l’aspirazione più vasta delle opere grandi (“Gli esordi”, i “Canti del caos”) offre testi riusciti solo a tratti.
Struttura, forma e stile delle opere brevi hanno una riconoscibilità e sono immediatamente apprezzabili (o disprezzabili).
L’organismo formato da Esordi e Canti del caos segue regole che – mi pare – la critica letteraria non si è data pena di indagare. Però ci sono pochissimi lettori professionali che hanno il coraggio di dire “non ho capito”. Meno ancora avranno la cura di rileggere.
Non so in cosa dissentiamo, sono solo dodici anni che studio Moresco e quindi (non scherzo) non mi sono ancora fatto un’idea precisa.
Di certo so che bisogna analizzarlo. E non è facile.
Ah, Gli Esordi (non Esordi, come ho erroneamente scritto sopra) non credo possa dirsi un romanzo autobiografico come affermi nelle note. Non trovi?
Il punto di partenza per lo studio analitico dell’opera di Moresco deve a mio parere essere filosofico: bisogna cioè capire cosa il testo vuole dire: la forma, l’increazione come scrve A.M., é una conseguenza diretta della visione. A mio modesto avviso siamo nel panteismo immanentista di Spinoza, davvero distante dall’antropologia economico/sociale dell’oggi in Occidente.
Io intendevo dire che discordiamo su alcuni giudizi di valore – sono ben lontano dal padroneggiare Moresco. A me i romanzi lunghi piacciono poco, tu invece li trovi importanti. Però in questo caso devo dire che forse sono ancora lungi dal capirli bene. Soprattutto “Gli esordi”, che considero un romanzo autobiografico, almeno a grandi linee (c’è un personaggio chiaramente ricalcato su Moresco che racconta la sua vita, e il libro è una storia inventata, no?), ma che dovrei rileggere perché l’ho letto un po’ di tempo fa: alcuni passaggi fra il protagonista e il Gatto mi sono rimasti impressi. “Canti del caos” mi sembra ambizioso, ma troppo lungo e ripetitivo, pesante.
Errata corrige: alla nota 7 dico che l’edizione accresciuta di “Lettere a nessuno” è uscita con Mondadori. Invece è uscita con Einaudi, grazie a Luca che l’ha notato.
@Il Fu Giusco
grazie della notazione. Non conosco bene le cose di cui parla, quindi non replico.
Brevemente. Più ancora che filosofico (per rifarmi a Il Fu Giusco) il percorso di Moresco mi sembra iniziatico. Del resto è lui stesso ad affermarlo ogniqualvolta spiega come intende la letteratura e, più in particolare, i suoi scritti. Si tratta d’un “attraversamento”, di uno “sfondamento” che ha poco a che fare con la visione oggettiva di Lorenzo Marchese, peraltro sempre bravo e preparato. Con Moresco siamo più di fronte a un’esperienza che a un atto solo intellettuale, solo cognitivo e/o estetico; è questa la sua “differenza”: coinvolgere (o tentare di coinvolgere) zone della coscienza profonde, sopite o rimosse – di qui la sostanza spesso onirica e straniante dei suoi brani, il loro ossessivo moto a spirale, simile ai tunnel scavati da un popolo di talpe folli eppure sapienti. Qui non sto dicendo che ha ragione Moresco, o piuttosto Marchese; dico che Moresco è irriducibile a uno schema pressappoco razionalistico, e che in effetti la critica non sembra ancora pronta ad affrontare i suoi “mostri” – infatti ci si divide, come nota Marchese all’inizio, fra ammiratori e avversari.
Un’altra notazione. A mio avviso l’opera capitale, fra quelle brevi, è La lucina; un’opera senza fondo, nonostante le poche pagine; un’opera che ho davvero amato e amo e rileggo. Ma un’altra opera fondamentale – il corpus moreschiano è vasto, complesso, pieno d’anse – mi pare Lettere a nessuno. Direi che Moresco se la porta appresso come una chiocciola fa col guscio.
@Macioci
grazie! Non ho molto da aggiungere perché sono d’accordo su tutto più o meno. La critica nel complesso deve ancora attraversare Moresco, misurarcisi per bene senza pensare a incensarlo o distruggerlo. Il giudizio di valore è imprescindibile ma non può essere l’Alfa e l’Omega. Il primo passo sarebbe una classica analisi linguistica e stilistica; alcuni (Roberto Gerace, per es.) l’hanno fatto e lo stanno facendo.
A me viene in mente questo. Non aggiunge e non risolve niente, forse ridimensiona ma poco. Ci sono scrittori che fanno qualcosa con la mente di chi legge. E ci sono scrittori che fanno qualcosa anche, soprattutto con il corpo di chi legge. In questo secondo caso è più difficile “estrarre significati”, razionalizzare e trovare il modo di dire. Perché quando il corpo agisce o viene agito, ciò che resta è ben lontano da quel ch’è avvenuto. Poi, a complicare le cose, ci sono i leggenti indisponibili a essere toccati nel proprio corpo. E non è che non capiscono, come scrive l’autore di quest’interessante articolo, no è proprio che non sono. L’irradiazione di senso (che coincide coll’altro significato di senso) non avviene e, in poche parole, il lettore non c’è.
Io non mi sono fatto un’idea di Moresco. So però che leggere alcune sue cose mi ha modificato e che la modifica è passata nel corpo. Non so esprimere giudizi critici e, tra l’altro, credo di avere studiato troppo poco. (Sono stato però testimone parecchie volte di giudizi lapidari di lettori che, a mio modo di vedere, non ci sono).
Grazie del testo.
Ciao.
@dm, che scrive:
Poi, a complicare le cose, ci sono i leggenti indisponibili a essere toccati nel proprio corpo. E non è che non capiscono, come scrive l’autore di quest’interessante articolo, no è proprio che non sono.
Se ho ben capito, quindi, il problema di Luperini, Guglielmi, Cortellessa e tanti altri è che cercano di interpretare i testi, mentre dovrebbero solo lasciarsi penetrare da Moresco. Insomma, la loro mancanza è ontologica, pensano mentre dovrebbero sentire. Ho capito bene?
Poi, per precisione, non ho scritto che i suddetti “non capiscono”. Ho scritto “Non apprezzano”. Si può capire e non apprezzare, così come apprezzare senza capire. Ma soprattutto, volevo sradicare il cortocircuito semantico: “Se non ti piace allora vuol dire che non lo capisci”.
Mi associo alla predilezione per le Lettere a Nessuno e per La Lucina, ma il totem moreschiano sono i Canti del Caos: è lì che la visione si estenua e si arena, inevitabilmente per chi sta nello spazio-tempo, cioè tutti noi. Se Moresco fosse stato un matematico, avrebbe probabilmente trovato ristoro (anche fisico, potendo vedere la visione) nella teoria delle stringhe, superstringhe e D-brane, l’estrema frontiera oggi del sapere che il corpo non riesce ad esperire ma solo a teorizzare.
C’è uno sbaglio, mio. Ho attribuito a lei, Marchese, il commento di un altro. Capita. Fatta questa correzione, capirà facilmente che non mi riferivo ai critici che lei nomina. Di fronte ai quali sono così piccolo che non mi esprimo. Mi riferivo, più genericamente, ai “lettori professionali”, com’è scritto nel commento travisato. E pensavo, esplicito, alle viscere professionali dei lettori professionali, alla pelle professionale dei lettori professionali, all’immaginosità professionale dei lettori eccetera. E a quanto, insomma, sia difficile accostare la parola “professionale”, alle parole “viscere”, “pelle”, “immaginosità” (quest’ultima è brutta, ma tant’è). Pensavo, cioè, al mistero della lettura che, mi sa, ha qualcosa a che vedere con quello dell’uomo. Pensavo, insomma, che per quanto un lettore possa impegnarsi a leggere un testo come se ne fosse il lettore sarà comunque un. E che l’articolo indeterminativo ha il peso e la densità del corpo. La stessa differenza di quella resistenza.
Ci sono testi di fronte ai quali determinati corpi resistono, e si chiudono. Hai voglia a buttarla sulle competenze, sul background, sulla professionalità insomma. I lettori devono ammettere la differenza, l’articolo indeterminativo. Tanto per capirci: non è un paragone qualitativo. I lettori che rispondono in un certo modo ai testi di Moresco, non sono migliori o peggiori degli altri: semplicemente sono fatti così. Allo stesso modo i lettori che rispondono in un certo modo ai testi di Sempronio, non sono migliori o peggiori degli altri: semplicemente sono fatti così. Be’, sarà anche un’idea bislacca, ma relativizza e di molto il conflitto tra lettori, tra idee della letteratura, tra poetiche e via dicendo. Perché riporta tutto ad un livello più umano, e a quel punto è inutile litigarsi il corpo o, per così dire, una sensibilità. Dico ch’è bislacca l’idea per dare una possibilità di fuga pacifica a chi legge.
@Lorenzo: hai coniato la categoria dei critici vaginali? O sei ancora di orientamento inverso, deleziano?
Credo che si possa arrivare a comprendere Moresco anche con l’intelligenza testuale e l’analisi stilistica. I riufii mi sono sembrati, però, spesso, esercizi di pigrizia e supponenza.
Gli esordi da questo punto è esemplare: praticamente nessuno sa di cosa diavolo parli quel libro, ma pochissimi si danno la pena di rileggerlo.
La tua analisi è acuta e il tuo spirito ammirevole, ma la difesa di chi capiva pur senza apprezzare meno. Non capivano, punto e basta. Tra dieci anni la maggior parte dei lettori colti chiederà come mai sia stato preso un tale abbaglio.
La tua difesa terrebbe se stessimo parlando di qualcuno che si sia degnato, appunto, di analizzare: per esempio le critiche negative di Raffale Donnarumma (La guerra del racconto, su The italianist) sono tutte sensate, anche se io non ne condivido praticamente nessuna.
@Macioci: non è uno scrittore per iniziati. E’ uno scrittore che, come tutti quelli che introducono nuovi codici e formulazioni nuove dei vecchi, inizia. Questa favola messianica è stata per troppo tempo una scusa per l’impressionismo critico. Scusa l’irruenza…
Errata corrige: @maciochi de che? @enrico! :)
(macioci, non maciochi). Una delle peggiori miopie nella ricezione di Moresco mi pare l’incapacità, da parte di persone che si crederebbe lo facciano di mestiere, di separare l’uomo dal testo. Con la non piccola conseguenza di condannare il testo per non essere stati, magari addirittura de visu, all’altezza dell’uomo.
L’obiezione che sia lo stesso Moresco a chiedere la consustanzialità è, spero non ci sia bisogno di spiegarlo, risibile: se i critici obbedissero agli scrittori, staremmo freschi.
@Lorenzo. Qualcosa non mi tornava, così sono andato a rileggere. Ecco, tu scrivi:
“È innegabile che i libri di Moresco non si prestino a molti tipi di letture, ma paiano richiederne una sola, inequivocabile e richiesta esplicitamente dall’autore, quasi che comprenderlo nel modo che lui pretende sia l’unico modo di salvarlo e, insieme, salvarsi.”
Questo, semplicemente, non è vero Ma non è vero per niente, è anzi quasi l’esatto contrario della verità. Come potrebbe mai essere così? Una cosa del genere non può essere detta nemmeno di un testo sacro, a meno di assumere la prospettiva di un adepto ultra-ortodosso.
Prendi soltanto l’incipit di Canti del caos: con i diversi livelli di lettura esplicitamente consentiti dal testo, una volta, ho tenuto lezione per due ore di fila e sono stato costretto a lasciare fuori una marea di cose. Ci sono dentro, in ordine sparso: Goethe, Dostoevskij, Cervantes, Baudelaiare, Bulkakov, Roland Barthes, Poe… E parlo solo dei riferimenti precisi e dei tagli che si possono dare alla lettura. E, solo di quelli certificati dall’intertestualità che sono poi confermati nel resto del libro e danno una chiave d’accesso tale da determinare “un tipo di lettura” possibile.
Inoltre, se ci pensi, tutte le parti dell’ispettore Lanza sono contemporaneamente parodiche e serie nello stesso tempo, proprio perché non permettono, ma costringono a due tipi di letture! Lo stesso avviene ogni volta che parla il Gatto.
Ma infatti secondo me il problema è che la critica letteraria è per lo più, come buona parte del pensiero occidentale, una disciplina sostanzialista: che va, cioè, alla ricerca del sottostante. Mentre Moresco è uno scrittore che non si presta a essere decrittato: è uno scrittore energetico, nel senso aristotelico della differenza fra kìnesis ed enèrgheia (che è poi la differenza che faceva Carmelo Bene fra atto e azione, tipo qui: https://www.youtube.com/watch?v=hZ3EI5QAeqE); è uno scrittore (verissimo) spinoziano, ma anche plotiniano (a questo proposito, citerei a braccio quella che mi pare una frase molto significativa del suo ultimo libro: “I morti non si rendono conto di essere morti allo stesso modo in cui i vivi non si rendono conto di essere vivi”, affermazione neoplatonicissssssssima nel suo presupporre una degradazione emanazionistica da un Essere Supremo di cui bisogna ritrovare in sé la scintilla); è uno scrittore barocco (basta fare l’esempio dei suoi frequenti discorsi cosmologici, del suo interesse per l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, nei quali l’invito a provare meraviglia non è meno secentista del Cannocchiale aristotelico di Tesauro); è uno scrittore (sono d’accordo con chi l’ha detto) iniziatico, spirituale, ascetico, proprio perché la sua lettura impone una disciplina dei nervi e dei sensi attorno a cui ruota tutta l’impalcatura anche politica del suo pensiero (basti pensare a iniziative come il Cammina cammina oppure rimandare alla mente quell’articolo intitolato “Che fare?” in cui, alla domanda su come risollevare le sorti del mondo, rispondeva di prendersi due ore al giorno per leggere i grandi romanzi del passato; e, per inciso, se davvero è così, come si può pretendere che sia battezzato da un Luperini o da un Cortellessa?).
Credo comunque che la differenza fra movimento ed energia sia quella basilare, da cui il resto discende come corollario, ed è qui che casca l’asino, forse, se si vuole comprendere il concetto di increazione; per cui ve la sottopongo semplicemente per come l’ho scritta nella tesi:
“Se è così, l’increazione è il coté energetico della creazione. La creazione agisce finalisticamente e ha come compimento la separazione. L’increazione agisce autotelicamente e non ha compimento, né cominciamento, né fine; come la Sostanza spinoziana e l’Uno plotiniano, essa è causa di se stessa in perpetua attività.”
(è anche per questo che, secondo me, si fa confusione quando si fa passare il concetto di “esordio” come una semplice “nascita”; ci sarebbe tutta una riflessione da fare sull’uso che Moresco fa dei verbi atelici, ma ve la risparmio, così magari mi costringo a farne un articolo, finalmente, a più di un anno di distanza).
Ringrazio Lorenzo per il bell’articolo su un libro, anche secondo me, inferiore al precedente e per l’ottimo stimolo che mi ha fornito per parlarmi un po’ addosso.
Quanta carne al fuoco! Cerco di rispondere in due interventi.
@Il fu GiusCo
Interessante quanto dice, non ne so niente. Certo, se Moresco avesse le ruote sarebbe una carriola, ma la faccenda delle stringhe e delle super-stringhe e D-brane come “estrema frontiera del sapere” è affascinante. Me la spiegherebbe in breve?
@dm
grazie della replica. Concordo sul principio di fondo del suo intervento: il giudizio ultimo sul valore di un testo non è dato dalle competenze o dalla professionalità del lettore, ma sta in un corpo a corpo e in un innamoramento alla fin fine irriducibile alle teorie. Se un testo mi piace, in fondo, non riesco a dare motivazioni esaustive di questo mio sentire. Forse spingerei la cosa meno a fondo di lei, perché altrimenti qualunque discussione (o qualunque giudizio estetico) si ridurrebbe a un confronto senza sviluppi: “a me piace questo”, “a me quest’altro”, “non c’è altro da dire”. E non ci sarebbe più dialogo, insegnamento, comunicazione, in breve non ci sarebbe la letteratura. Secondo me, questo è un rischio a cui il suo ragionamento porta.
Un’altra cosa: a chi pensa quando parla di questa categoria dei “lettori professionali”?
@roberto: secondo me usi moresco per far vincere i filosofi che ti piacciono di più: il suo quadro ontologico non è così chiaro come lo fai sembrare. è inoltre aperto alla contraddizione, come spesso (sempre?) accade alla letteratura.
@lorenzo: a me non dici niente? non ho articolato bene (non so scrivere i commenti sui blog), però qualcosina speravo arrivasse.
@Luca
Usavo “penetrato” non in senso sessuale, e comunque era una domanda a dm =) Sui rifiuti e i critici più sospettosi verso Moresco, non attuo una squalifica in blocco. Se a loro Moresco non piace, alcuni saranno in malafede e altri no, né mi interessa fare la conta dei buoni e dei cattivi (e tanto meno cerco di difenderli: su questo sei fuori strada); può darsi pure che semplicemente abbiano trovato i suoi libri noiosi o brutti.
Quanto all’unica lettura richiesta: secondo me è il rischio che Moresco si porta nella sua scrittura, il più grande. Per il suo prendere la letteratura molto sul serio e per mille altri motivi. Ne è riprova ciò che tu hai detto prima sui critici che non lo hanno apprezzato perché non lo hanno capito. Ma vorrei precisare ancora meglio. Certamente si possono individuare referenti e modelli nella sua scrittura, si possono cogliere tracce e tracciare linee di lettura, l’ho fatto anche io nel mio pezzo. Eppure, secondo me non è la migliore strada per capire Moresco. Né mi pare che i suoi testi resistano a una lettura allegorica, per dire, a una lettura politica, e le situazioni di tensione o di indecidibilità che spesso si presentano in lui non reggono a una disamina chirurgica: magari le sue storie possono proporre due significati contemporaneamente, ma il lettore non può decidere di scegliere l’uno o l’altro senza perdere il piacere del testo, è il lettore stesso che deve (mi si conceda la licenza) per un attimo “increarsi”, sospendersi. Pensiamo a Siti: la sua scrittura si presta come un campo quasi ininterrotto di citazioni, rimandi, occhieggiamenti critici, livelli di lettura e rimandi intertestuali, è il suo marchio di fabbrica e ci ricorda la sua formazione (forse agli ideali destinatari di Siti si riferiva dm quando parlava di “lettori professionali”?). Moresco praticamente è sul versante opposto: non gli interessa stabilire quel tipo di rapporto col lettore.
Mentre scrivo, vedo l’intervento di Roberto e concordo quasi con tutto: Moresco non si presta a essere decrittato.
@Luca
calma, calma, un po’ ci devo pensare prima di rispondere …
@ Lorenzo Marchese
la Teoria del Tutto che la fisica teorica persegue oggi attraverso matematiche che suppongono un reale non a 4 dimensioni ma a 10 o 26 (noi viviamo le 3 spaziali e la temporale, che fa da quarta) è assolutamente consonante con il panteismo immanentista di Spinoza (secondo cui ciò che chiamiamo Dio è materialisticamente il creato stesso nella totalità delle sue espressioni, non un essere trascendente) e con parte della visione di Moresco (la terza dei Canti del Caos, dove azzarda un futuro immobile o un primadopo nel quale tutto è in potenza e potenza di se stesso).
La strumentazione analitica che il flebilmente heidegerriano @dm rifiuta a priori e che altri commentatori sviano in favore dell’esperienza corporale-iniziatica (cioè mistica), serve a demistificare (a spinozizzare) la materia, anche quella letteraria. Il punto è che siamo, con Moresco, al confine ultimo dello specifico letterario: tutto quello che sta in Italia in questo momento è al di qua, ancora nel letterario, dalla tanta poesia devitalizzata agli storicismi di varia natura.
L’allargamento dei saperi di cui si diceva in altro topic, con Moresco si fa decisivo: rifiutare questi strumenti è rimanere nella platonica caverna, ma è questo il destino dello specifico letterario? Moresco non è Einstein e neppure Spinoza, muove dal letterario come un novello Dante e non trova il Paradiso (il limite dello scibile del 1300) ma appunto il materialismo col quale la matematica oggi descrive il fondamento della materia.
Lorenzo Marchese, grazie della sua.
E come tutti, anch’io esprimo giudizi e cerco d’argomentarli per quel che posso. Ma, alla fin fine, quando cioè sui fucili si montano le baionette, forse è bene domandarsi quale sia l’oggetto della disputa. Insomma: se io dichiaro che Caio non ne capisce nulla poiché non apprezza l’opera di Sempronio, per chi o cosa sto mettendomi in gioco… Per il libro, l’opera? Per l’autore…? Per la mia persona, in quanto maschera o per il mio corpo? Ecco, il non argomento che ho cercato d’argomentare è un espediente, retorico ma non solo, per riportare la cosa tra uomini.
Ovviamente, come tutti sanno, ci sono persone che, per indole o, comprensibilmente, per interesse professionale non si possono permettere di relativizzare tutto quanto. Io capisco, e non voglio togliere, pur nel mio piccolo, il pane di bocca degli affamati. Ogni professione ci ha la sua materia bruta secondo me. Il lettore professionale ha la necessità di credere che la propria lettura coincida nelle possibilità con quella di tutti, o nella migliore delle ipotesi con la stragrande maggioranza dei lettori. La materia bruta della sua professione è l’uniformità, non so bene come dirlo. E quale che sia di preciso, le accordo un rispetto formale. : – )
Io direi che lettori professionali sono tutti i mediatori (tra l’opera e un qualunque gruppo di lettori organizzati). Nel mio piccolo non sono nella condizione di chiamare le persone per nome. Credo comunque di aver circoscritto parecchio il tipo. E poi, ci sono persone misteriose che riescono, non so come, a emulare il lettore ingenuo pur nella loro attività professionale. Ci sono cioè lettori talmente professionali che riescono a essere semplicemente lettori.
Tutto dal mio punto di vista, che ha un’angolo d’osservazione che è quel che è.
@Luca:
Mi piace molto Spinoza, non adoro Plotino, può darsi che ci metta del mio. In ogni caso non voglio schiacciare Moresco su questi pensatori: solo segnalarne la parentela. Riguardo all’apertura alla contraddizione, credo che quella fondamentale si riassuma nella chiusa delle Lettere a nessuno (ed. 2008): “Il mio ultimo sogno è che venga finalmente il giorno in cui mi dimenticherò persino di essere stato, un tempo, uno scrittore”; che forse, più che un’apertura, è una contraddizione vera e propria. E tuttavia mi pare che in Moresco la diagnosi, su cui può esercitarsi semmai la contraddittorietà della scelta, rimanga geometrica, limpida, coerentissima non solo nelle ultime opere, ma fin dai tempi di Clandestinità. E no, non penso che il suo pensiero sia irriducibile a una breve descrizione: che lo siano le sue opere, questo credo; ma la loro ricchezza sta sotto una formula, un marchio, un vero e proprio sistema, della cui catafratta organicità mi parrebbe sminuente dubitare.
Il fu GiusCo, lei scrive: tutto quello che sta in Italia in questo momento è al di qua, ancora nel letterario. cosa esiste al di là?
Due cose.
Nell’ultima riga dell’ultimo commento mio c’è un apostrofo di troppo, anche se un angolo femminile risulterebbe più aperto.
Fu Giusco mi dà del “flebilmente heideggerriano”, e mi fa piacere, soprattutto perché quando lessi Heidegger, a suo tempo, mi piacque tantissimo e non ci capii nulla.
Al di là c’è a mio modestissimo avviso il linguaggio simbolico della matematica moderna, formalizzatore logico di realtà e di potenzialità di impossibile dimostrazione (servirebbero strumenti grandi quanto galassie a fare quello che ora si sta facendo al CERN, se non proprio il reale in scala 1:1), quindi di novelle narrazioni induttive a beneficio della speculazione (cosa sono le ventisei dimensioni? come ci sta l’uomo dentro?) e, fra le altre, dell’estetica (che esseri, che relazioni e quale bellezza nel tutto a 26 dimensioni?). I commentatori che mi precedono hanno introdotto lo “stupor” che coglie il lettore aperto di Moresco, è in effetti uno stupore gnoseologico, la percezione dell’hic sunt leones se si continua a quel modo e Moresco non riesce a continuare, non avendone la padronanza matematico-formale e non potendo dunque increare ulteriore visione.
Per ordine:
@Il fu GiusCo
grazie, ora mi è più chiaro quello che intende dire. In effetti la multidimensionalità è un tema affrontato teoricamente da Moresco in alcuni suoi interventi, ricordo di averne sentito parlare anche in certe conferenze. Vedo che anche lei ragiona in termini di barricate, un po’ più seriamente di quanto abbia fatto io nel pezzo: al di qua, al di là … Su questo non sono d’accordo e mi associo alla domanda di Claudio Salvi. Né voglio squalificare in blocco i “Nuovi poeti italiani” o altri scrittori – o invogliarli a leggere Moresco per aprire i loro orizzonti, come se questo li potesse aiutare particolarmente.
@dm
Condivido quanto dice. Bisogna sempre tenere ben presenti soggetti e oggetti della disputa: un po’ di “distinzione” e critica sociale del gusto non fanno mai male. Non credo però che l’avere pareri più forti di semplici opinioni sia spiegabile solo col fatto che i critici devono pigliare uno stipendio: mi sembra una visione ristretta. Alla sua espressione “Il lettore professionale” io sostituisco “Colui che ama/odia la letteratura e la prende molto sul serio”: riflettere e disputare sui libri non può e non deve essere una funzione burocratica a esclusivo vantaggio di una categoria professionale. E che non sia burocrazia lo dimostra il fatto che lei sta discutendo con impegno, qui e ora, con me.
@roberto
Dietro Moresco c’è un sistema organico? Questa è una questione che mi angoscia parecchio e non ho trovato una soluzione. A naso, sempre sottolineando le aporie fra sistema filosofico e discorso della letteratura, valide in Moresco come in qualsiasi altro buon autore che non si faccia “piffero di una Weltanschauung”, direi che c’è un retroterra filosofico in lui, ma ci vorrebbe altro impegno per provarlo.
@Luca
Voglio aggiungere una cosa a quanto ti ho risposto prima. Quando si parla della “lettura univoca” che richiedono i testi di Moresco, secondo me bisogna anche distinguere i diversi settori della sua opera. I grandi romanzi (“Gli esordi”, “Canti del caos”) si prestano a una stratificazione letteraria e concettuale che forse gli ultimi romanzi brevi (o racconti lunghi? è da pensarci) non hanno, molto più serrati e lineari. Ti rimando alla recensione dell’Indice citata alla nota 6, a proposito.
@Lorenzo: credo di intuire di cosa parli, ma continuerei ad andarci cauto: Moresco nasconde le tracce. La superficie del testo è lineare e induce spesso l’impressione dell’univocità, mentre gli strati di senso sono celati in profondità, a livelli in cui l’autore ha impostato moltissimi piani di lettura, i più fecondi quasi mai nominati.
@Lorenzo e Roberto: se non si presta a essere ‘decrittato’ lo obblighiamo, che è anche più divertente.
@Lorenzo: vero, i romanzi brevi (soprattutto l’ultimo, che infatti a me piace meno) hanno peculiarità differenti.
Mentre scrivevo, non avevo letto gli ultimi interventi di dm e di Il fu GiusCo. Solo una cosa a quest’ultimo: non penso la letteratura debba interrogarsi troppo sui quesiti che lei pone fra parentesi nel suo intervento. Perché dovrebbe? Al massimo può essere un’eccezione, un tentativo “oltre”: noi parliamo soprattutto dello spazio e del tempo, di molte meno dimensioni. Non vorrà dirmi che se voglio essere preso sul serio devo considerare anche le altre 24, o che questo è il vero problema dei poeti oggi!
@Luca
piedi di piombo, certo. Non è detto che non cambierò idea .. Poi i critici ci sono apposta per tirare per le barbe gli autori (con Moresco è anche più facile), per essere intrusivi e per fare contraddittorio.
Solo una precisazione. Ho scritto “non voglio togliere, pur nel mio piccolo, il pane di bocca degli affamati”. Certo non pensavo alla fame degli stomaci. Ma, mi rendo conto, adoperare tutti questi traslati mi mette al riparo dalle critiche letterali, meno dai fraintendimenti. Certo non è questione di stipendio. E’ questione di terreno. Porre il problema della ricezione in quei termini, e magari argomentando in un modo più chiaro e scientifico, fa mancare la terra sotto ai piedi dei “pareri forti”. L’illusione dell’uniformità delle letture è indispensabile, non tanto all’economia (che prescinde dalla portata di verità del prodotto), quanto alla forma mentale di quel tipo speciale di “lettore professionale” che è il critico letterario.
@dm
Non potrebbe esprimersi in modo più comprensibile? Ho riletto molte volte questa frase:
Porre il problema della ricezione in quei termini, e magari argomentando in un modo più chiaro e scientifico, fa mancare la terra sotto ai piedi dei “pareri forti”.
Non riesco a capirla in relazione al resto del discorso. La chiarezza è indispensabile per un lettore, che sia professionale o meno. Forse per un “lettore professionale” la chiarezza, vale a dire la possibilità di trasmettersi messaggi e scambiarsi orientamenti pur partendo da campi, prospettive e linguaggi non coincidenti, è importante ben più dell'”illusione dell’uniformità di letture” (ma quale lettore, quale critico vorrebbe questo? Non esisterebbe più la critica!), che mi pare piuttosto un riferimento ideale che lei si è creato per sostenere le sue posizioni.
Il fu GiusCo, lei descrive cosa esiste al di là nella lingua letteraria che usa qui.
@Marchese: dovrà scegliere lei se fare il critico letterario, al di qua del recinto, o il sistemista che fa un discorso complessivo. Dipenderà dalla sua indole e dal tipo di vita che vorrà fare, in ogni caso le auguro buon lavoro.
@claudio salvi
traduco, ma cosa è la traduzione?
@Il fu GiusCo
grazie mille. Per curiosità, mi fa i nomi di qualche sistemista che si muove nelle 26 dimensioni? Così nel caso posso leggerli e imparare qualcosa di nuovo, e magari decidere se diventarlo. Mi creda, non sono ironico.
@ luca cristiano
Ma infatti dico: è iniziatico, non dico: è per iniziati. Poi sulla dimensione messianica, sai, il discorso sarebbe lunghissimo. Per me lui chiaramente attinge zone quantomeno inconsce, quando non proprio “mistiche” della nostra psiche (o anima?), come del resto fanno tutte le opere significative della modernità che io amo: da Moby Dick alla Saison, dalle poesie di Paul Celan alle parabole di Kafka fino a 2666 di Bolano, eccetera eccetera.
Sulla distinzione uomo/scrittore, beh, è un problema dei critici, se loro se lo pongono. Per quanto mi riguarda nessuna psicologia, nessuna analisi sessuale, nessuna diagnosi biografica può davvero spiegare in maniera esaustiva un’opera, se quest’opera è seria. Dunque permane intatto il mistero dell’opera di Moresco – il mistero, non vedo quale complimento più grande per un’opera letteraria. Forse davvero fra dieci anni Moresco sarà canonizzato, ma che significa, che l’enigma, il surplus della sua alchimia sarà sciolto? Mi auguro proprio di no! Ciao luca, a presto
Sistemisti non ce ne sono: il campo è aperto, ci si appoggia al proprio sapere settoriale ed eventualmente lo si ridiscute. A livello di base, può dare un’occhiata qui per la fisica http://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_del_tutto e magari seguire i risultati del neuroimaging funzionale http://it.wikipedia.org/wiki/Neuroimaging_funzionale su come lavora il cervello. Tutto il resto è, appunto, oltre il confine, quantomeno a livello di sistemazione. In un certo senso, siamo in un nuovo Medio Evo e magari gli specialisti di quell’epoca partono avvantaggiati. Comunque chiudo qui, gli spunti da Moresco sono tanti ed è giusto che altri lettori portino all’attenzione pubblica i loro. Saluti e di nuovo buon lavoro.
S’immagini una Repubblica, in qualche parte del mondo, isolata e completamente autonoma. All’interno delle mura alte alte, c’è tutto e si provvede a tutto, agricoltura allevamento manifattura terziario. Con l’esclusione di una sola cosa, le scarpe. Per qualche motivo, è illecito se non persino impossibile realizzare le scarpe. Le scarpe sono gli unici oggetti che, di tanto in tanto, vengono fatti passare su carri grandissimi attraverso la sola porta, da cui nessuno mai entra, né esce. Ed ecco il ruolo dei selezionatori di scarpe. Queste persone sono prima di tutto dei grandi camminatori e di conseguenza hanno sviluppato nella regione del piede un’enorme sensibilità. Sono loro che, ognuno secondo la propria autorità, danno disposizioni su quali scarpe tenere, perché vengano poi fatte circolare tra i camminatori di questa strana Repubblica. Ora, la gran parte dei selezionatori di scarpe considera il proprio piede la misura di tutto. Provano la scarpa: troppo stretta, troppo larga, troppo a punta? E la scarpa via. Le scarpe invece che calzano benissimo e si adattano perfettamente al loro cammino, le raccomandano le benedicono. Ora, ci saranno dei cittadini di questa Repubblica perfettamente in sintonia, pedestre, per così dire, con le scelte dei selezionatori. D’altra parte ciascuno ha il diritto di seguire il selezionatore più a propria misura. La stragrande maggioranza dei camminatori sarà rappresentata, nei piedi, da questi selezionatori. Ci saranno senz’altro tuttavia dei camminatori che, per differenza pedestre, avranno enormi difficoltà e scomodità colle scarpe che passa il convento, cioè l’elite dei selezionatori. Diranno che i selezionatori proprio non sanno camminare, no. Che sono in malafede. E le scarpe non le provano certo con imparzialità. Magari si rivolgeranno a quei selezionatori, pochi, che non considerano il proprio piede la misura universale.
L’uniformità di misura dei piedi è l’errore anatomico di fondo. La morale è: avere sempre i piedi in più scarpe, come anche mettersi nei piedi degli altri facilita l’utilità generale.
Mi perdoni, Marchese, e abbia pazienza: ciascuno ha il proprio modo di esprimersi. Può liberamente buttare l’apologo in un cestino.
@dm
non voglio buttare l’apologo in un cestino. A me interessa capire quello che dice, perché ci tengo a parlare con chi si spende per delle riflessioni serie in un dialogo da me avviato.
Le chiedo solo di cercare di essere più comprensibile, meno oracolare e allusivo di quanto è di solito nei suoi posts; oppure rischio di travisare quanto dice, e chi passa di qua penserà che lei stia scrivendo per nessuno. Il suo apologo per esempio, se lo interpreto alla luce della “distinzione” di cui parlavo prima, mi pare spunto utile. Qui, per esempio:
Ci saranno senz’altro tuttavia dei camminatori che, per differenza pedestre, avranno enormi difficoltà e scomodità colle scarpe che passa il convento, cioè l’elite dei selezionatori.
Con il risultato che, alla fine, credo le nostre posizioni non siano troppo lontane, nonostante alcune espressioni che non trovo veritiere (il “Lettore professionale”, l'”illusione dell’uniformità di letture”). Se guardo la sua conclusione mi trovo d’accordo – a prescindere dal senso da dare a quell'”utilità generale” a proposito della letteratura:
La morale è: avere sempre i piedi in più scarpe, come anche mettersi nei piedi degli altri facilita l’utilità generale.
“Dunque permane intatto il mistero dell’opera di Moresco – il mistero, non vedo quale complimento più grande per un’opera letteraria” (Macioci)
Si vede che i tempi sono davvero mutati. Io sono rimasto a quelli in cui un’opera valeva perché evelava, riduceva almeno un po’ il Mistero. Una che lo lascia “intatto” mi sa che gioca sporco. Ma i fan del mistero ( o Mistero) sono in aumento e cedo loro il passo.
@enrico: non è che tu abbia torto, sono io a essermi stancato della semantica sacralizzante come via per l’interpretazione di moresco. questo linguaggio finisce per essere l’eco di una parte del suo autocommento. io vedo roba più sostanziosa da altre parti, raggiungibile per altre vie magari più noiose e razionalistiche.
forse dico così perché ho bisogno di questo momento nella mia analisi dei suoi testi, non ne sono sicuro.
a presto!
@ ennio abate
Tutta la grande letteratura, da Omero a Sofocle, da Shakespeare a Cervantes, da Dostoevskij a Melville, da Kafka a Emily Dickinson e via andare, a me sembra intrisa di mistero; e per giunta non volta e svelarlo bensì a esplorarlo, che è diverso – più lo si esplora più il mistero s’infittisce, un po’ come accade con le scoperte sempre più sconvolgenti della scienza e della fisica, roba da far impallidire i più audaci scrittori fantasy. Non c’è dunque in me nessuna fumisteria da mistero con la emme maiuscola, come Lei lascia intendere, nessun isterico fanatismo. Però bisogna essere ciechi per non riconoscere che si vive immersi nel mistero, e che la letteratura seria indaga questo mistero proprio perché indaga la vita, e indagando moltiplica gl’interrogativi anziché le risposte. Moresco s’inserisce in una “faglia”, per utilizzare un altro termine a lui caro, che comincia pressappoco a metà Ottocento; son certo che troverà, come auspica Luca Cristiano, sempre più e sempre meglio un alveo interpretativo adeguato ad accoglierlo.
“Tutta la grande letteratura, da Omero a Sofocle, da Shakespeare a Cervantes, da Dostoevskij a Melville, da Kafka a Emily Dickinson e via andare, a me sembra intrisa di mistero; e per giunta non volta e svelarlo bensì a esplorarlo, che è diverso – più lo si esplora più il mistero s’infittisce, un po’ come accade con le scoperte sempre più sconvolgenti della scienza e della fisica, roba da far impallidire i più audaci scrittori fantasy.” (Macioci)
Cosa significa per lei *intrisa di mistero*? Che la letteratura ( e le scienze pure; e forse di più in certi momenti storici…) si occupa di cose che non si sanno ancora o no?
E lo fa perché il mistero sgomenta o no? O fa bene alla salute?
Non capisco poi la differenza (davvero tirata) che lei fa tra *svelare* (togliere i veli sia pur parzialmente…) ed *esplorare*. Mica si esplora per sport, eh!
Che poi, svelata “qual cosina” o ridotto appena un po’ il mistero (e/o il Mistero), questo “s’infittisce” : 1. non vuol dire che si debba o si possa impunemente svalutare la conoscenza acquisita come ormai si fa a spron battuto dileggiando le lotte per farla riconoscere; 2 né che gli “innamorati del mistero” (oggi in crescita…) spesso facciano di tutto perché resti tale, anche perché è comodo a chi col mistero e il suo infittirsi – ripeto – ci gioca sporco. Terra terra: pensi alle stragi degli anni Settanta e anche al “mistero” del caso Moro, per rimandare ad altra discussione qui su LPLC. Si tirassero fuori altre piccole verità e poi “s’infittisca” pure il mistero. Importante è vedere come ci si colloca: dalla parte della conquista di verità o dalla parte dell’apologia del mistero.
Prenda il risvolto positivo, Marchese. Chi passa di qua e pensa che scriva per nessuno, è probabile che creda di non essere nessuno – e dunque il mio scritto ha già avuto una sua utilità. (Di autostima c’è sempre bisogno).
Mi capita di partecipare a discussioni in cui tutto deve essere chiaro, riga per riga – e si ribatte passaggio per passaggio. Non mi pare questo il caso. Si sta parlando, pardon scrivendo della lettura. Lo stiamo facendo scrivendo e leggendoci. Per dire qualche cosa di vero, anche se magari non verificabile, occorre far leva sull’intuizione. In questo modo è possibile muovere qualcosa. Altrimenti si sguazza nei luoghi comuni della letteratura.
Comunque: l’uniformità delle letture. La lettura è un’attività che coinvolge tra l’altro:
– Il riverbero psichico della fonazione propriamente detta: il movimento delle corde vocali, della glottide, del palato molle eccetera.
– Le modalità di elaborazione del pensiero.
– Il corpo come veicolo di sensazione.
E’ evidente che gli organi fonatori, per quanto simili, sono fatti diversamente e soprattutto rispondono a abitudini fonatorie diverse: ci sono voci ingolate, arretrate, intubate, in maschera o perfettamente sul fiato. O a lei pare che, tra le persone che conosce, parlino tutti nello stesso modo? (Tra l’altro, tra le parentesi: un discorso a parte andrebbe fatto quanto alla connessione tra disturbi del linguaggio e abilità linguistiche, chiusa parentesi).
E’ poi evidente che l’elaborazione del pensiero non funziona nello stesso modo per tutti. (Ci sono pensatori caotici e pensatori ordinati. Pensatori molto immaginifici e pensatori eminentemente verbali. Pensatori cinestetici e pensatori astratti. Sono le prime distinzioni che mi saltano in mente.)
E’ anche evidente che abbiamo in dotazione corpi diversi. Abbiamo percezioni corporee incredibilmente distanti. Il riflesso del linguaggio sul corpo risponde a caratteristiche, vissuti, traumi e accidenti individuali irripetibili.
E, insomma, la lettura passa attraverso tutto ciò. Ne è l’esito inscindibile. Illudersi che ci sia “uniformità” tra le letture (“il libro di Sempronio è bello”) come se tutto ciò che le rende possibili fosse uniforme, è utile, cioè è un’illusione utile. Perché relativizzare il giusto (“il libro di Sempronio mi è bello”, diciamo) è poco efficace dal punto di vista retorico.
E così qualcuno prova a spacciarci la zozza della ‘nuova destra’: qualche dannunziano in trentaduesimo, qualche Zarathustra nostrale, qualche stordito ‘pastore dell’essere’ e – ca va sans dire – del ‘mistero’. Non varrebbe la pena di intervenire su un fenomeno il cui rilievo non supera i confini del folclore paraletterario, se questa ‘vague’ di stampo mitomodernista non fosse fin troppo congruente con un clima ideologico e culturale in cui spacciare culi di bottiglia per gioielli è considerato da taluni non un vizio ma un merito, e in cui sdilinquirsi per il fascino dell’aorgico contribuisce, con il suo ‘mix’ di apparente alternativa al sistema (e di reale organicità al medesimo), nonché di apparente evasione dalla realtà (e di reale apologia dell’esistente, fondata sul ricorso al mito e sulla falsa sublimazione romantica del quotidiano), a rendere più feconda la ‘humus’ in cui cresce e prospera la mobilitazione reazionaria degli intellettuali e delle masse. Perciò, oggi come non mai occorre riaffermare che la letteratura di cui abbiamo bisogno si riconosce dal potere che ha, se e quando lo ha, di restituirci l’amore per la vita e la percezione concreta di ciò che vogliamo dalla vita, spazzando via il torpore e la sottomissione alle idee correnti, alle perversioni e agli incubi che respiriamo nell’aria viziata e soffocante di questa società. La letteratura vera, che è appunto quella di cui abbiamo un estremo bisogno, non amoreggia con il mistero e con l’indefinito, ma, facendoci magari passare attraverso di essi, ci porta ‘a claritate ad claritatem’ e ci conduce a poco a poco, o anche di colpo, nel cuore stesso della verità.
@ ennio abate
“Cosa significa per lei *intrisa di mistero*? Che la letteratura ( e le scienze pure; e forse di più in certi momenti storici…) si occupa di cose che non si sanno ancora o no?”
Non so, mi dica lei: ne I demoni c’è mistero? In Amleto? In Macbeth? In Don Chisciotte? In Moby Dick? In Cime tempestose? Nelle tragedie greche? Nel Processo? Nel Castello? Sono domande serie e non retoriche, le mie; potrebbe rispondermi? Magari mi apre gli occhi, perché io vedo in queste – e in tantissime altre grandissime opere – molto mistero, talmente tanto che non saprei neppure da dove iniziare per chiarirle il motivo della mia espressione (che non è, va da sé, il mistero riguardante fatti di mera contingenza, bensì il mistero primario della condizione umana). I “fatti che non si sanno ancora”, come li chiama lei, mi sembrano attenere più alla sfera della scienza o, per chi ci crede, della metafisica. Direi che la scrittura in certi rari casi realizza intuizioni o mondi immaginativi capaci di plasmare il pensiero umano, con ripercussioni ad ampio raggio. Ma è un discorso lungo.
“E lo fa perché il mistero sgomenta o no? O fa bene alla salute?”
Certo che il mistero sgomenta. Quanto alla salute, non so se faccia più male il mistero o la mancanza di esso. Fa più male un’assenza di emozioni oppure una scarica di emozioni? Anche questa è una domanda non retorica.
“Non capisco poi la differenza (davvero tirata) che lei fa tra *svelare* (togliere i veli sia pur parzialmente…) ed *esplorare*. Mica si esplora per sport, eh!”
Si può esplorare senza mai svelare. Poi gli sport sono tanti, e per tutti i gusti. Per fortuna.
Il resto del suo post, senza offesa, è totalmente fuori tema rispetto al mio discorso, per cui non ho nulla da dire.
@ Enrico Macioci
“Fa più male un’assenza di emozioni?”. Ecco, direi che il succo stia qua. Basterebbe leggersi L’errore di Cartesio di Damasio. Non farebbe affatto male, probabilmente non si scriverebbe nulla. La dissoluzione totale (parafrasandoti)
@ Lorenzo Marchese
Perdona l’OT, stavo buono a leggere.
La “nuova destra” vincerà sicuramente il Premio Paranoia LPLC 2014.
Tutto molto interessante, tutto molto bello. Tutto, o in parte, un po’ troppo italiano però, un po’ troppo stantio.
Lo dico da autore, tanto per mettere le mani avanti, mi pare che dovremmo liberarci di un approccio critico ormai passato, relativo ad un’altra era geologica, di cui però il nostro Paese non riesce a liberarsi. Dovremmo mettere da parte le categorie e i pregiudizi e poi semplicemente godere dell’opera, in particolare di quella di Moresco. Cioè far spazio ad un nuovo modo di concepire la critica, come credo avvenga nel resto del pianeta.
Non è una critica semplicistica e presuntuosa a tutti voi intervenuti, sia chiaro, le mie sono parole più dettate dall’istinto che dalla ragione, perché probabilmente non vengo dal mondo accademico/letterario.
Bisognerebbe fare un passo in avanti, con coraggio, seguendo la direzione di autori come Moresco, e non cercare di ricacciarli dentro schemi e categorie che ormai non funzionano più.
Spero che vogliate perdonare questo mio intervento, è molto più il cuore che parla, e quindi forse non risulterà così utile.
@ Chiappanuvoli
Con simpatia, ma scusi: la ragione la si usa solo nel “mondo accademico/letterario” o è una prerogativa nazionale ( un po’ troppo italiana…)?
E perché dovremmo “godere dell’opera, in particolare di quella di Moresco”, se uno non gode affatto a leggerla? E’ stato per caso introdotto anche l’”obbligo al godimento”? E questo sarebbe “un nuovo modo di concepire la critica” o di abolirla? Ed è certo che quest’abolizione « avvenga nel resto del pianeta»?
@Marchese
Se ha interesse negli spunti di questo colonnino (non solo i miei) usi pure google e wikipedia, per cominciare. Saluti e di nuovo in bocca al lupo.
@ orbilius
Credo che la prima e un po’ pelosa parte del suo intervento fosse rivolta a me; vero o meno, non m’interessa. Due domande però. Una: quali sarebbero i “culi di bottiglia spacciati per gioielli”? Almeno si sa di che si parla. Due: quale sarebbe il “cuore stesso della verità”? Lei ha esperito un’esperienza di verità assoluta attraverso la lettura di opere letterarie? Se sì, in che consiste questa verità? E quali sono queste opere? Poi mi viene in mente un’altra domanda: il mistero non può essere a propria volta una forma (magari provvisoria) di verità?
Mi sembra insomma che si verifichi un fenomeno bizzarro: io vengo definito reazionario perché mi limito a rilevare ciò che le varie civiltà e le varie sapienze (religiose e scientifiche) hanno sempre osservato, ovvero che la nostra esistenza, cioè letteralmente tutto ciò che siamo e in cui viviamo, risulta un enigma. Non servono Rumi o Meister Eckart per capirlo, basta un bambino di sei anni, basta porsi due o tre domande radicali mettendo da parte un po’ di ego; o basta leggere un qualunque libro di fisica in cui viene spiegato che persino lo spazio e il tempo così come noi li percepiamo sono un grosso abbaglio… Gli stessi però che mi tacciano di oscurantismo e anacronismo o m’affibbiano assurde etichette politiche (!!!) non si degnano di rispondere alle mie domande – peggio ancora, alle domande sollevate dalle loro stesse avventate affermazioni…
L’articolo di Marchese è chiaro nelle sue premesse e nei suoi intenti, e non voglio contribuire a deviarlo o distorcerlo favorendo una deriva della discussione. Desidero quindi sottolineare, semmai ce ne fosse bisogno, che il mio frainteso discorso è proprio e con esattezza e fin dall’inizio attinente al tema, e cioè allo scrittore Antonio Moresco e alla sua poetica. Saluti
Caro Macioci,
Lei mi perdonerà se mi permetto di rispondere in modo esopico ai Suoi quesiti dal tono piuttosto ingiuntivo, ma il mio stile di pedagogo all’antica – diamine, sono stato il maestro di Orazio! – legittima, entro certi limiti, il ricorso a questa modalità espressiva.
«I due poli dell’intelligenza moderna nel campo dell’espressione sono la tendenza alla massima semplificazione del reale e la tendenza alla resa della sua complessità; tutti i valori e le punte massime della letteratura e dell’arte tendono verso l’uno o verso l’altro» (lettera del 18 gennaio 1957 a Francesco Arcangeli). «… l’America è un grande paese…, ma è il fatto accidenti che proprio non capiscono niente, non hanno il senso della storia, non hanno il senso delle antitesi, non hanno il senso della filosofia, non hanno Hegel…» (lettera a Franco Fortini – New York, vigilia di Natale del 1959). «… è da molto tempo che voglio dimostrare che i mali della prosa italiana vengono dal fatto che il significato decisivo della frase è rimandato continuamente sugli aggettivi, mentre sostantivi e verbi diventano sempre più generici e meno pregni di significato» (lettera del marzo 1964 a Mario Boselli). «Guardate però che Alessandro Manzoni, oltre a essere un autore molto più serio di me, ha scritto un libro che è bene non lasciar perdere: più lo si legge da ragazzi più farà compagnia per tutta la vita» (lettera del 24 aprile 1964 agli studenti di una IIª media milanese). «Vorrei insomma salvare la capra dell’universalismo proletario e i cavoli della razionalità storica e tecnica: i due pezzi d’un ideale umanesimo che ora sembrano più che mai inconciliabili» (lettera del 28 aprile 1964 a Norberto Bobbio). L’uomo è «la miglior occasione a noi nota che la materia ha avuto di dare a se stessa informazioni su se stessa» (lettera del 7 luglio 1970 a Sebastiano Timpanaro). «L’Italia è il paese depressivo per eccellenza: solo i depressi possono essere non cialtroni né contaballe» (lettera dell’11 gennaio 1976 a Andrea Zanzotto).
Ecco dunque un florilegio personale, ricavato dalla lettura di un libro folgorante che, oltre ad offrire uno spaccato assai suggestivo del dibattito politico-culturale fra anni ’40 e anni ’80 del secolo scorso, contiene l’autoritratto di uno dei maggiori scrittori italiani ed europei del secondo Novecento. Il piacere letterario e il guadagno conoscitivo che procurano le oltre 1600 pagine dell’epistolario di Italo Calvino (“Lettere 1940-1985”, I Meridiani Mondadori, Milano 2000) sono infatti così proficui ed intensi, che sarebbe un’imperdonabile trascuratezza non segnalare all’ottimo Macioci e agli altri frequentatori di questo blog non solo i tesori di intelligenza e di generosità contenuti nelle lettere-saggio, nelle lettere-cantiere e nelle lettere che sollecitano altre lettere, di cui tale epistolario si compone, ma anche (e soprattutto) la passione vera che lo percorre: passione per la letteratura e passione per una convivenza che riesca a togliersi di dosso, insieme con le mistificazioni e le falsificazioni, quella sciatteria intellettuale e morale da cui troppo spesso siamo avvolti.
Ah, dimenticavo di aggiungere che, una volta posta questa premessa, non dovrebbe essere poi così difficile distinguere tra i culi di bottiglia ed i gioielli…
Vedo che la discussione è andata avanti bene, ringrazio di nuovo tutti, soprattutto per aver discusso, pur da posizioni diverse, in modo molto civile e senza mai buttare tutto in caciara. Passo a rispondere singolarmente:
@dm
Inizialmente, ero stato abbagliato dalla brillantezza del suo ultimo intervento, e avevo avuto qualche difficoltà a discernere i contorni. Ma rileggendo ho capito meglio. Sono ovviamente d’accordo che l’intuizione sia utile, e anche sul fatto che siamo esseri individuati, unici e irripetibili. Sono meno d’accordo sulla sovrapposizione che lei mi sembra compiere fra “uniformità di letture” e giudizio di valore. L’illusione utile servirebbe da questa prospettiva solo a dire se un libro è bello, ma a me non interessa solo della bellezza, o del valore. Fondamentale, certo, ma c’è anche altro: quello che una volta si chiamava il messaggio, il valore storico, l’inconscio politico di un’opera, la sua peculiare bruttezza magari, che a volte dice più del valore assoluto. Pensi magari che tutte queste sfumature possono servire non a uniformare (o non solo) ma a esaltare le differenze, a creare ponti o a delimitare i contorni del territorio, farne la tassonomia o definire l’orizzonte in cui perdersi.
@Dfw vs Jf (David Foster Wallace versus John Fante? volevo chiedertelo da un po’)
ti vedrei bene come professore universitario, sei spesso a consigliare bibliografia =) … a parte tutto, in questa discussione di paranoia se n’è vista pochissima. Quella del “manesco Orbilio” mi sembra interessante, per motivi che ora dico.
@Chiappanuvoli
leggo sul suo sito che si è laureato all’università. Anche io, in lettere, l’anno scorso; non credo che ciò basti per etichettarmi come “proveniente dal mondo accademico-letterario”, come lei allude indirettamente. Tenga presente inoltre che non lavoro all’università, faccio un dottorato, né so se vorrò fare in futuro lavoro d’accademia. Lo stesso si può dire degli altri intervenuti, a parte Orbilius che non so chi sia. Abate ha insegnato a scuola, Cristiano è dottorando e non è un professore universitario, Gerace studia ancora, Macioci è scrittore e insegnante a scuola. Quindi, se vuole crearsi una contrapposizione critica nuova-vecchia accademia, faccia pure, ma essa non corrisponde, in questo momento, al vero.
Ciò detto, sono d’accordo con quanto dice, in parte. Credo che il mio pezzo possa essere interpretato anche come un tentativo riuscito a metà di operare un’analisi con strumenti critico-analitici (per dirla alla carlona) su un testo che richiede anche (non soltanto) un diverso approccio. Un approccio che in linea generale si può anche ascrivere al “cuore”, più che alla ragione. Certo è che Moresco sembra sfuggire a un certo tipo di letture strutturaliste e formaliste molto care a una certa tradizione novecentesca, e che anche una lettura freudiana (per dire) gli sta un po’ stretta. Che poi uno scrittore faccia libri che sfuggono a un’immediata catalogazione e comprensione, credo sia solo un bene per la letteratura. Anzi, meglio: la grande letteratura per me fa solo questo, sorprende e rende perigliose, spesso inadeguate, le nostre vecchie strumentazioni, impone una ridiscussione integrale dei paradigmi. Moresco in parte lo fa, con risultati alterni. Questo soprattutto miravo a sottolineare nel mio pezzo.
@Abate
Condivido le sue obiezioni, anche se ripeto che la lettura di Moresco impone anche di prendere atto del mistero, sottrae alcuni spazi a un dominio della ragione (e in tal senso rischia il misticismo, come diceva Luca Cristiano): le osservazioni di Macioci del 12 aprile h 15:01 mi sembrano ottime a riguardo, credo lo dicano anche molto bene (non me ne voglia Macioci, si scherza) Montaigne e Pascal. Non esattamente due mistici, destrorsi, reazionari o fascistoidi da bar. Non trascurerei nemmeno il fatto che a spingere sulla non obbligatorietà di una funzione critica inesausta e che nulla concede a un’intuizione pre-razionale siano due scrittori, Macioci e Chiappanuvoli. Due che appunto non fanno solo critica letteraria, ma hanno una riconoscibile fisionomia di scrittori, e hanno quindi al fondo dello scrivere, loro e altrui, una ragione che nessuno conosce all’infuori di loro stessi (copyright Fenoglio).
@Orbilius
Caro maestro! meno male che ci ha riportato brani di Calvino, invece di darci bacchettate come a un certo punto, dal suo primo intervento, temevo. La ringrazio anche perché mi ha insegnato una parola nuova: aorgico.
Non sono per niente d’accordo con quello che dice: un florilegio personale di Calvino (di interesse diseguale, per me) non ci aiuta a distinguere culi di bottiglia e gioielli, il breviario in questo caso fallisce. Ci vuole ben altro, purtroppo, e tocca spremersi le meningi di continuo. Sul pericolo della reazionarietà e del misticismo in Moresco, ho già detto e la rimando a più sopra. C’è anche da rilevare che Moresco mi pare sì uno spirito parecchio polemico ed engagé, ma non mi pare un autore di destra, nonostante la sua fascinazione per l’indistinto, la sua concezione talora nietzscheana del cosmo e della vita umana in esso contenuta: accuse di criptofascismo gli sono state rivolte (da Andrea Cortellessa, parecchi anni fa, ma credo abbia cambiato idea), ma mi pare semmai che lui appartenga all’altra parte, quella della sinistra estrema, extraparlamentare. Inoltre, per una curiosa coincidenza lei cita a exemplum di chiarezza proprio un autore, Calvino, verso cui Moresco ha avuto parecchio da ridire proprio a proposito di una “retorica” e di una capacità mistificatoria che contraddistinguerebbero Calvino. Dia un’occhiata al saggio “Il paese della merda e del galateo”, contenuto in “Il vulcano. Scritti critici e visionari”, oppure legga qui:
http://archiviostorico.corriere.it/1998/gennaio/08/Calvino_ovvero_come_retorica_puo_co_0_9801082598.shtml
@Il fu GiusCo
La ringrazio. Sono andato a leggere le pagine di Wikipedia che cita, le ho trovate molto interessanti: mi documenterò. Ma non riesco ancora a trovare i nomi dei critici o in generale delle persone che parlano di letteratura nel senso ampio che lei intende. Eppure ho cercato, non dico di no. come lei mi aveva detto. Prima ho digitato su Google “sistemista letteratura”, poi “critica letteraria teoria del tutto” e poi “critica letteraria neuroimagin funzionale”, infine “critica letteraria teoria delle stringhe”. Niente, quindi ho pensato che non era il caso di cercare di Wikipedia. Non potrebbe darmi una mano, segnalandomi almeno il nome di un critico che si occupa di queste cose? Se no, non so proprio da dove partire …
@Marchese, lei è simpatico, non vorrei farle andare a ramengo il dottorato suggerendo di partire da Bloom e dai suoi figliocci anglofoni per impostare un approccio sistematico e finanche positivistico. Dovesse il suo relatore (o peggio, i suoi esaminatori) impermalirsi, chi la porterebbe sulla coscienza? Riparliamone a dottorato felicemente terminato, via… avrà intanto modo di capire dentro di sé, continuando quel che sta facendo, ciò che serve per la sua vita, per il tipo di carriera che persegue e per eventualmente apportare un contributo mainstream alla portata anche di noi convenuti qui sul sito da chissà dove. Davvero, stia bene e si diverta. Saluti.
@ Lorenzo Marchese
“Mi sento abbastanza a disagio nell’avvicinarmi a uno scritto di Antonio Moresco partendo da una prospettiva di critico letterario, o aspirante tale.” Caro Marchese, capisco il disagio che prova e apprezzo l’umiltà che è sempre un riconoscere i propri limiti. La ringrazio anche del collegamento all’archivio storico del “Corrierone”, ma Lei perdonerà la mia rozzezza se mi asterrò dal leggere un contributo critico di tale spessore. Sono infatti un nostalgico dei bei vecchi tempi in cui, sotto la ferula di un altro Orbilius, a cui sono devoto, si redigeva una lista di “libri da non leggere”: fra questi, sicuramente sono da includere quelli di Moresco e di Galasso e, se mai Lei ne scriverà qualcuno, anche i Suoi.
@ Lorenzo Marchese
Johnatan Franzen. Docente di tetrapilectomia applicata. Metto i libri un po’ per correttezza, visto che scrivo sotto pseudonimo e che non ho studiato e un po’ per fornire solidità quando parlo di natura. Non volevo urtare ( o meglio, volevo ), ma già Abate che riesce in tre righe a fraintendere la letteratura, a mischiarla con la scienza e a buttarla in politica; poi l’aorgico e esopico Orbilius… Come direbbe Genna ho dovuto esorbitare. Io allibisco nell’apprendere che nel 2014 d.c. ci sia qualcuno che ancora possa pensare che la letteratura abbia dei doveri, dei compiti, che ci sia la letteratura vera e quella no eccetera. Poi non si può, e quando dico non si può intendo che c’è una palese contraddizione in corso d’opera, pretendere razionalità e parlare di cuore della verità. Se rifiuti il misticismo rifiuti pure l’idealismo, e accetti che non si possono stabilire criteri arbitrari per dare giudizi di valore sulla letteratura, ma solo ordini di preferenza soggettivi, ragionevoli e apprezzabili per tanti buoni motivi, ma soggettivi. Dopodiché si può tornare a parlare di razionalità.
Sei troppo italiano ( cit. )
@ orbilius
Grazie per avermi segnalato le preziose dritte di Calvino. Un autore che non solo avrebbe rifiutato l’espressione da lei usata più sopra “la vera letteratura ci porta nel cuore stesso della verità” (a meno che non si tratti d’una verità esclusivamente scientifica, il che nulla risolve), ma che marca la distanza fra la sua (di orbilius) e la mia idea senza bisogno alcuno d’ulteriori scambi. Basta Calvino, basta la parola – sette lettere, una sintesi fulminante! ps: le dirò: se Calvino m’avesse detto Guarda, un culo di bottiglia!, mi sarei precipitato a raccoglierlo perché ho sempre amato i gioielli…
@ lorenzo marchese
Io adoro Pascal! Ma anche Montaigne non scherza… :-)
@ dfw vs jf
Leggo in ritardo la tua “provocazione” sul non scrivere (più). Il discorso sarebbe sterminato, ma è a mio avviso interessantissimo e cruciale.
Rispondo sulla questione del rapporto tra verità e letteratura all’ottimo Macioci, che immagino intento a convertire alchemicamente in gioielli i culi di bottiglia indicati dallo scrittore ligure-franco-cubano (dubito però che in un’epoca di ‘opus nigrum’ questa operazione vada a buon fine), nonché ad un preopinante che si firma, per l’appunto, con un eteronimo degno delle “Cosmicomiche” di Italo Calvino. Il brano che riproduco di séguito è desunto dal romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno” (1947), in cui l’autore, confutando il revisionismo anti-antifascista di allora e di oggi, descrive il significato della guerra partigiana, esperienza da lui personalmente vissuta nella Liguria occidentale. È un testo fra i più profondi e incisivi che la letteratura della Resistenza annoveri ed illustra assai bene che cosa sia una letteratura che ci conduce nel cuore stesso della verità. Kim, giovane intellettuale e commissario politico di una brigata partigiana, parlando con il comandante Ferriera, che è di estrazione operaia, individua in “una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni” la molla che spinse giovani, operai, contadini e intellettuali a combattere nelle file della Resistenza.
« Ferriera mugola nella barba: – Quindi, lo spirito dei nostri… e quello della brigata nera… la stessa cosa? – La stessa cosa… – Kim s’è fermato… – la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava… su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo » (Italo Calvino, “Il sentiero dei nidi di ragno”, cap. IX).
@Il fu GiusCo
spero che non basti Bloom a mettermi in cattiva luce presso eventuali esaminatori – i relatori invece, se talvolta passano di qua, mi perdoneranno … Però su una cosa ci tengo a essere molto serio: spero di aver scritto un pezzo accessibile anche ai lettori non specialistici, comprensibile e aperto. Se non ci sono riuscito, non va bene.
@Orbilius
serve dire quanto mi lusinghi essere considerato degno di una non-lettura, o anche del suo caminetto di casa? Ne sono deliziato. Un po’ meno lo sono dall’essere accomunato a Moresco o a Galasso (intendeva Calasso?); non è che abbia moltissimo in comune con loro (se intendeva Calasso, se no faccia finta che non ho detto niente). Interessanti anche i pezzi su Calvino che continua a postare, anche se c’entrano un po’ come i cavoli a merenda sono sempre un piacere da leggere.
@dfw vs jf
Franzen! era così ovvio che non mi è venuto in mente. Ci tengo a rassicurarti: almeno per quanto mi riguarda, non mi hai urtato. Ci vorrebbero armi meno spuntate, altri mirini rispetto a “sei troppo italiano” (che significa di preciso?). Inoltre, tieni conto che concordo con te su questo punto:
Io allibisco nell’apprendere che nel 2014 d.c. ci sia qualcuno che ancora possa pensare che la letteratura abbia dei doveri, dei compiti, che ci sia la letteratura vera e quella no eccetera. Poi non si può, e quando dico non si può intendo che c’è una palese contraddizione in corso d’opera, pretendere razionalità e parlare di cuore della verità.
Meglio non “pretendere” e non parlare di “cuori”. Ogni volta che la letteratura viene incaricata di doveri, se ne smarca o diventa retorica, o qualcosa d’altro.
@ Lorenzo Marchese
Mi perdi colpi obnubilato da Orbilius! Sei troppo italiano è quello che dice sempre Stanis di Boris ( gli occhi del cuore, a proposito ), era una battuta riferita al primo commento di Chiappanuvoli. Se dovessi pubblicare in cartaceo ti comprerei :-*. Galasso, uno storico, immagino revisionista, vista la piega della discussione.
@ Orbilius
Il tuo problema ( che poi in sé e per sé non è neanche un problema ), così come quello di Marx ( sei in buona compagnia ), è un certo ammirevole utopismo inconsapevole ( costruire un’umanità? Ma ti rendi conto di quanto sia ignorante della natura questa concezione? Te ne sei accorto che non siamo dei pupazzetti Lego®? ) e una certa foga prescrittiva che invade i campi letterari. Calvino non va affatto al cuore della verità, semmai va al cuore di noialtri, e per tutti i santi numi, possibile che dopo il caso Moro pure la Resistenza ci tocchi? Ma perché mettere in gioco i sacrifici altrui per una discussione del genere? Per stilare liste di libri da non leggere poi? C’era bisogno di ricordare l’anti-fascismo? Qua il vero mistero è cosa diamine c’entri la tua passione per l’impegno in letteratura e per una società migliore ideale con i romanzi di uno scrittore.
@ Enrico Macioci
Credo che la mia fosse una provocazione meno affascinante di come l’hai presa, ma mi fa piacere lo stesso, anzi proprio per questo. Nel testo di Damasio c’è un paziente che in seguito a un’operazione al cervello si ritrova in una condizione amorfa, consapevole di come ci si comporta, di come risolvere un problema morale, ma di non saper decidere, proprio perché le emozioni sono direttamente connesse con la capacità di decidere. Per cui non si scriverebbe perché non ne saremmo capaci
ahhh Boris! purtroppo non guardo le serie tv, quindi sono molto ignorante in materia … Se mai scriverò un libro te lo manderò, allora: “se avete un tavolo che traballa, è l’ideale!” (cit.)
Il povero Moresco mi sembra essere stato un po’ lasciato per strada … Si può recuperare?
Preciso, per dissipare eventuali equivoci e per garantire una corretta comprensione del mio intervento, che, scrivendo per un ‘lapsus digitationis’ Galasso, non intendevo riferirmi a Giuseppe Galasso, probo storiografo di formazione crociana, ma a Roberto Calasso, perverso neognostico e tacito ispiratore di Moresco e dei suoi estimatori.
Marchese, rincaso oggi e leggo la sua risposta. Sì, ovviamente sono d’accordo con lei. La critica letteraria fa (dovrebbe fare) tutto quel che lei dice. E, com’è ovvio, non è possibile avere un atteggiamento da scettico, negando le possibilità di una conoscenza comune, negando l’esistenza stessa, in fin di conti, dell’opera, come potrebbe fare un discorso analogo al mio e portato fino alle estreme conseguenze. (Eppure, credo, si potrebbe facilmente dimostrare la “non uniformità delle letture”, proprio con dei piccoli esperimenti, con un’indagine sul funzionamento della lettura per un campione di persone: io, nel mio piccolo, ho fatto “ricerca” in questo senso ma il mio piccolo è troppo piccolo per poterne parlare qui). Insomma, sono d’accordo con lei. E credo – questo l’obiettivo del mio intervento qui – che ragionare sulla “non uniformità delle letture”, cioè sulla diversità non tanto dell’esito quanto del procedimento della lettura in ciascuno, ridimensioni certi conflitti insolubili, se non a colpi di delegittimazione personale, tra ammiratori e detrattori di opere e autori. Altrimenti, se si ragiona su un piano “scientifico”, il conflitto dovrà esser necessariamente interpretato come un conflitto tra chi ha più scienza e chi meno. Tra chi ha più acume e chi meno. Tra chi ha più coraggio e chi no. Tra buoni e cattivi (lettori), in ultima analisi.
La saluto e a presto.
dm
meno male che obelius ha dissipato, sennò avrei passato la vita convinto di essere sotto l’azione ispirante di wittgenstein, bukowski e dylan dog.
UN GIOVIN SIGNORE ALLA STATALE DI MILANO
A Orbilius (con mesta simpatia) e alle impeccabili (si spera…) carriere di AntonioMoresco-dm-LorenzoMarchese-EnricoMacioci-LucaCristiano-Dfw vs Jf (con graduabile ironia su quanto qui variamente esibito nei commenti)
I
Si è mai visto/ un vecchio / pedinare i giovani, figli per età suoi quasi/ disquisenti di Montale in via Bigli/ o al Corriere della sera/ nella stessa aula magna/ dove con fede truce e spretata dei Sessanta/ di potere operaio e studentesco in accoppiata/ altri udii parlare sull’ibrido soggettino/ a caccia d’identità e di felicità sociale?/ Invano li ascolto ancor oggi/ sempre a lezione/ sempre a ripetizione/
Avevo in mente Campoformio/ quando l’aspettavo/ – binario 13 della Centrale/ Lui giovin signore di sinistra/ E oh/ il vecchio che in via Legnano/ ancora aveva parlato d’alloro/ insidiato da insetti!/
II
«Mi chiese di Z/ stava benino/ mi chiese dei figli/ anch’essi sì/ fui reticente/ lodai il suo lavoro da stakanovista/ forse s’offese/ (leggeva ancora «il manifesto»!)/ ero frastornato dal viaggio/ l’appuntamento coi colleghi alle 15 avevo/ ma lui mi disse della poetessa “vulvanica” eppur “vulcanica”/ e mi allungò così – altro sbaglio – persino il percorso in metropolitana/ fuori pioveva/ un giovanotto orientale/ era appostato nell’atrio della Statale/ a dieci metri dalla pioggia/ gli comprai un ombrellino
III
noiose ‘ste lezioni a giovani liceali/ e a così solerti docenti accompagnatori/ Gadda, Montale e Porta/ Le loro immaginette di cartapesta/ immobili ascoltavano/ dal grande schermo a destra/ prima me e poi lo studioso di turno che/ compito rasato o occhialuto/ a tratti animato nel gesto e nel volto/ dalle carte estraeva (come me)/ la citazione giusta/ l’informazione biografica insolita/ l’aneddoto saporoso/ Bello / da mummie letterarie/ sentire parlare di te/oggi il postero, eh?/
In platea due ragazzotti/ sprecavano mezzora di giovinezza/ una bionda prendeva appunti/ chissà mai…
IV
Avessimo avuto quegli schermi a disposizione!/ avessimo avuto quel riscaldamento negli scantinati della militanza!/ o questo pubblico di faccia devota (maldicente solo nel bisbiglio all’orecchio!)/ «Il capitalismo è diventato unico/ sistema economico al mondo/ attraverso trasformazioni tecnologiche e organizzative»/ «Quella irakena è resistenza di popolo,/ di regime, di religiosi o dominata da Al Qaeda?»./ «Ciao, Abate, ci hai abbandonato…»/ «Se non si combina nulla più assieme…»
(4 dic. 03)
@Marchese
Non era la mia, una critica al suo pezzo che ho trovato, oltre che interessante, sincero e questo le fa più che onore. Come non voleva essere un’invettiva contro nessuno in particolare. Quindi mi spiace che sia stata interpretata in questo modo.
Le dirò di più, così rispondo in parte anche @Abate. Anch’io “amo e odio” Moresco, anch’io nutro dei dubbi sull’unica opera lunga che ho letto, Gli Esordi. Per i Canti del Caos ho bisogno ancora di aspettare.
Lo ritengo però tra i più migliori del momento, non l’unico, e in odore di diventare un immortale, solo se riuscirà a sopravvivere al mito che gli hanno fabbricato attorno e egli stesso ha contribuito a creare in larga parte.
Quel che mi interessava aggiungere alla conversazione, è una notazione di carattere prettamente sociologico attorno all’ambiente critico letterario che abbiamo in Italia. In particolar modo volevo ricordare che sebbene sia ovvio che la critica segua il tempo e le opere che si trova ad affrontare, nel nostro Paese, in letteratura come in tantissimi altri campi, siamo fermi di parecchi decenni, a mio parere sia assolutamente chiaro, e che quindi è sintomatico che per “assimilare” opere di confine, come quella di Moresco appunto, ci vorrà un po’ di tempo in più. A patto che, inoltre, e qui prendo posizione, la critica letteraria stessa sia disposta a mettere in gioco quelli che sono i suoi canoni e i suoi dogmi. Senza parlare dei giochi di potere tutti italici…
Certamente la natura troppo criptica del mio intervento ha generato qualche confusione. Me ne scuso.
@Abate
le sequenze III e IV sono fin troppo realistiche, anche se restano e resteranno (e chissà di non essere fra quelli) studiosi occhialuti e facce devote. Gli auguri che mi fa li apprezzo: la mia generazione, se va bene, inizierà a lavorare con continuità alle soglie dell’età pensionabile, risolvendo così (in modo infausto) due problemi in uno. Non parliamo di quei masochisti che in questi anni si sono messi in testa di campare formandosi sulle (chiamiamole così per comodità) scienze umane …
@chiappanuvoli
mi scuso anche io, ma avevo interpretato il suo precedente discorso, molto conciso, proprio in quel senso lì. Ma ho dei pensieri analoghi che ho provato a dispiegare nel pezzo: per comprendere Moresco, forse bisogna tentare nuovi strumenti, o quanto meno non restare a paradigmi critici del passato, validissimi ma da non riciclare in blocco. Quel che ho cercato di fare è stato proprio un compromesso, fra un’ipotesi di lettura analitica con tutti i crismi e alcune notazioni verso un ripensamento delle forme (che sono, come sapeva Kraus, il contenuto). L’unica cosa su cui non scommetto è l’immortalità di Moresco; francamente, non saprei proprio. Mi basta sia significativo qui e ora.
errata corrige: al rigo 2 doveva essere “studiosi occhialuti e facce devote che non vorranno vedere la realtà”.
@ luca cristiano
“…sennò avrei passato la vita convinto di essere sotto l’azione ispirante di wittgenstein, bukowski e dylan dog.” Mah, confesso che questa paralalia ha generato in me una sensazione mista di ilarità e irritazione, come quella che può provare chi venga preso a noci di cocco in testa da una bertuccia appollaiata su un albero.
@ Ennio Abate
Che cosa intende con “mesta simpatia”? Non vorrei ingannarmi ma temo di aver inteso. Guardi che non sono né un infermo né un disabile, ma godo di sana e robusta costituzione sia fisicamente sia mentalmente. Riponga pure la “mesta simpatia” nel cassetto assieme ai suoi mesti, autoreferenziali prosimetri e riservi la Sua degnazione e la Sua condiscendenza a situazioni e persone più appropriate.
@Orbilius
la ringrazio per la seconda parola nuova che ho imparato: paralalia.
Magari, in aggiunta, potrebbe darsi una calmata? Non mi va che in questa discussione si dia indirettamente della bertuccia a qualcuno, né la stizza aggressiva che sta trasudando (verso Abate, poi, del tutto immeritata: semplicemente simpatizzava col suo razionalismo e anti-misticismo). Confido nella sua pronta comprensione.
@ Orbilius
Le auguro sinceramente di non avere mai ragioni per essere mesto.
Mi sa, però, che ho sbagliato Orbilius. Io, in passato, avevo dialogato con questo:
http://immigratorio.blogspot.it/2011/07/su-carlo-oliva-lettera-una-studentessa.html
@ Marchese
Ho diversi amici nelle sue condizioni e so distinguere tra giovin signori ambivalenti per necessità (Fortini: “A un giovane che me ne chiedeva ho consigliato di scegliersi una morale di subordinato, di servo; come credo di aver fatto io”) e giovin signori fetenti.
“Vediamo quindi che la Mente può subire grandi cambiamenti, e passare ora da una certa perfezione ad una perfezione maggiore, e ora da una certa perfezione a una perfezione minore: e proprio queste passioni, o mutazioni della Mente, ci spiegano i sentimenti della Letizia e della Tristezza. Per Letizia, quindi, intenderò qui di séguito la passione per cagion della quale la Mente passa ad una perfezione maggiore; per Tristezza invece intenderò la passione per cagion della quale la Mente passa a una perfezione minore” (“Ethica”, III, prop.11). Del resto, è proprio Spinoza, “maestro di color che sanno” nell’età moderna, a metterci in guardia dai sentimenti che, come la tristezza e quella sua sorella minore che è la mestizia, nonché come l’ira alla quale ho ceduto, segnano il passaggio della mente da una perfezione maggiore ad una perfezione minore. Accade così che anche un razionalista come Orbilius non sia sempre all’altezza di quell’ideale di divina, olimpica perfezione intellettuale e morale che il pensatore olandese ha espresso nella classica formulazione: “Humanas res nec flere nec indignari, sed intelligere”.
Per quanto riguarda l’identità di Orbilius, faccio osservare ad Ennio Abate, un po’ per celia e un po’ sul serio, che stabilire l’identità reale di chi usa un eteronimo è un falso problema, poiché nella Rete vale la teoria di George Berkeley, oggi tornata di grande attualità, secondo cui “esse est percipi”. Il buon Abate troverà allora coerente con quel principio una strofetta di Ronald Knox ripresa da Bertrand Russell nella sua “Storia della filosofia occidentale”, dove viene esposta, per l’appunto, la menzionata teoria: «Si stupiva un dì un allocco: “Certo Dio trova assai sciocco che quel pino ancora esista se non c’è nessuno in vista”. Risposta: “Molto sciocco, mio signore, è soltanto il tuo stupore. Tu non hai pensato che se quel pino sempre c’è è perché lo guardo io. Ti saluto e sono Dio».
@ Orbilius
Ho inteso solo dire che ero abituato ad Orbilius più dialoganti di lei che, fin troppo professorale e sospettoso, qui mi redarguisce o mi tiene lezioni di filosofia (ben gradite comunque).
Il bello di Fiaba d’amore – comincio così, poi proverò a stupire qualcuno dicendo che io Moresco l’ho capito, ne capisco ogni romanzo, non ci trovo niente di difficile da capire se lo leggi dalla prima pagina all’ultima e, se hai qualche perplessità, se te lo rileggi pure – è che quando ti trovi tra le mani questo libro e constati che l’ha scritto lo stesso scrittore di un romanzo come “I canti del Caos” e di un piccolo reportage come “Zingari di merda” provi ammirazione, perché io verso gli scrittori che non scrivono mai lo stesso libro – ovvero non utilizzano mai la lingua del libro precedente – provo una grande ammirazione.
Fiaba d’amore (secondo me è più fiacco de La lucina – che merita applausi a scena aperta – e meno lavorato di “Gli incendiati”, attorno al quale mi sembra orbiti di più) ha il pregio di proporre una scrittura che si asciuga, che vuole dire sempre meno cose con meno parole, ma mentre in “La lucina” questo operazione di via-verso-l’essenziale conduce a vie inesplorate come niente fosse, in “Fiaba d’amore” l’essenziale ritorna l’evergreen dell’amore, come tutto fosse l’amore al di là della vita e della morte (con in più quell’avanzamento di cui Moresco non sa fare a meno, e quindi: l’amore al di là dell’amore finito). E il brano in cui Rosa ‘ripulisce’ Antonio nella doccia è da applauso a scena aperta, almeno lui.
Intitolare nel 2014 un libro “Fiaba d’amore”, eppoi, per la Mondadori è scandaloso cioè imbarazzante cioè contro le aspettative, così come sarebbe stato scandaloso farne pubblicare uno, trenta o anche venti anni fa, col titolo “Storia di una chiavata” per le Edizioni Paoline. Vabbé, ho esagerato.
La scrittura di Moresco – ‘esagerata’ (e la bravura di Moresco sta nell’aver sviluppato oltre che uno stile, un lessico, una operazione alla Alighieri proprio, e dico ‘alla Alighieri’ e non ‘dantesca’ perché dire ‘dantesco’ significa tutt’altro e ormai quasi niente) – in “Fiaba d’amore” tocca l’esagerazione con tutt’altri strumenti letterari; questo racconto-lungo è un interessantissimo esperimento, però non c’è modo peggiore di banalizzarlo – e in generale di banalizzare uno scrittore – se non cercandovi a forza la ‘trasposizione’ autore-protagonista.
Antonio si chiama lo scrittore del racconto che ha per protagonista un Antonio che – per chi ha visto una foto dell’Antonio-scrittore – all’Antonio scrittore gli assomiglia pure, però posso assicurare che Antonio mi chiamo pure io (io, in più, ho che Rosa si chiama la donna che amo) e non so quanto l’Antonio-scrittore si sia trasfigurato nell’Antonio-protagonista, ma so quanto l’Antonio-lettore (io) l’abbia fatto, potendolo fare e trovandocisi benissimo, senza avvertire affatto l’invadenza di un Antonio-scrittore che non lasciasse spazio per me, e aggiungo che l’operazione di trasfigurazione (di ‘esperienza’ che avviene tramite l’esercizio della letteratura) sarebbe potuta andare in porto benissimo anche se mi fossi chiamato Alvaro, se la donna che amo si chiamasse Berenice, e aggiungo pure che per ‘trasfigurazione’ non intendo la lagna secondo cui un libro è bello se “ti cali in uno dei suoi personaggio o nella sua storia”: intendo che la letteratura merita questo nome quando la scrittura attiva la visione al punto che la visione riesce a mettere in secondo piano la scrittura, sebbene la visione !è! la scrittura. Per dire: Moresco sa scrivere, lo sa fare benissimo, lo sa fare in più di un modo e quando Antonio Moresco sarà crepato finalmente ai suoi personaggi verrà riconosciuta quell’autonomia che in realtà hanno fin da adesso e da subito.
Fiaba d’amore è un bel racconto, minore se si ha a mente il resto dell’opera di Moresco, che ripeto: non ha niente di misterico, di sacerdotale, di estra-letterario cioè; a patto che non ce lo si voglia mettere a forza, chiaro che. Moresco opera una grande invenzione letteraria. Io stravedo per i suoi racconti o romanzi brevi (una qualità di scrittura imprevedibile fin dalla prima prova). Trovo la prima parte de “Lettere a nessuno” un grande romanzo e il miglior romanzo sull’Italia degli Anni Sessanta-Settanta. “Canti del Caos” è un’opera linguisticamente, letterariamente, rivoluzionaria. Appena ripasso da una libreria comprerò la nuova edizione de “Le favole della Maria”, attendo impaziente la pubblicazione de “Gli increati” e se qualcuno sa dirmi come riuscire a leggere il racconto “Tutto d’un fiato” nonostante non abbia un e-reader gli sarò esageratamente grato.
Antonio Moresco è uno scrittore. A me pare che di difficile ci sia capire chi sia uno scrittore, di questi tempi in cui pare sia più raro non esserlo che esserlo, e invece è rarissimo, come al solito.
Saluti!,
Antonio Coda
ringrazio Antonio Coda per il lungo commento.
Mi sembra doveroso segnalare un articolo che all’epoca della composizione di questo mio non avevo letto. Si tratta di un pezzo che risale a una decina di anni fa e che mi sembra centrare, spesso meglio di quanto abbia fatto io, alcune questioni che ho trattato nella prima parte del mio pezzo.
http://www.nazioneindiana.com/2003/10/12/il-problema-moresco/
Dell’articolo di Montanari mi paiono interessanti, per questo discorso, soprattutto due cose: il rischio della “confusione del giudizio estetico col giudizio di valore”, verso cui la lettura di Moresco fa propendere, e la difficoltà di “definire il concetto di grandezza letteraria” in rapporto alla ricezione di Moresco, da una certa data in poi.
@ Marchese
Ho letto l’articolo di Montanari. Intelligente, spigliato, certo. Ma si dibatte tra estetismo e psicologismo e accoglie una loro “pluralistica” convivenza (com’è di norma oggi). Mi permetto di dirle che, quando si trattano così le faccende letterarie, è perché si è persa la dimensione politica della conflittualità (ma anche quella della mediazione). Siamo grosso modo, in condizioni mutate e più complicate, alla contrapposizione (falsante) tra apocalittici e integrati. O qualcosa di simile.
Anche se parla di poesia e non di romanzo, le consiglio per il suo lavoro critico di rileggere (o leggere) di Fortini, sempre tenendo conto dei mutati tempi, “Poesia e antagonismo” in “Questioni di Frontiera” o quello complementare intitolato “Sui confini della poesia” in “Nuovi saggi italiani 2”.
Dell’articolo di Raul Montanari mi pare significativo, tra le cose, questo passo.
“Chiedo a chi ha deposto il libro di Moresco dopo qualche pagina o qualche decina di pagine la lucidità e la generosità intellettuale di dire: Forse la grandezza di questo autore, di cui sento tanto parlare, è al di là della portata del mio gusto di lettura. Non della mia intelligenza o competenza di lettore: del mio gusto, del mio piacere, della mia gioia di lettura. Le due cose non sono in contraddizione!”
A me pare – per riprendere e abbandonare per sempre il mio argomento – che spesso ci si litiga non un giudizio sull’opera e non un qualche significato, bensì la propria “intelligenza o competenza di lettore”. E l’oggetto della disputa diventa qualcosa di molto personale. E non si parla più di libri, ma di lettori.
Questo è basso e triste, mi pare.
Buone cose.
@dm
scusi, come fa a dire che “spesso ci si litiga non un giudizio sull’opera e non un qualche significato, bensì la propria “intelligenza o competenza di lettore”” a proposito del pezzo di Montanari, se Montanari fa dire al suo lettore ideale questo:
Forse la grandezza di questo autore, di cui sento tanto parlare, è al di là della portata del mio gusto di lettura. NON della mia intelligenza o competenza di lettore: del mio gusto, del mio piacere, della mia gioia di lettura. Le due cose non sono in contraddizione!
Cioè, Montanari sta dicendo proprio che non bisogna litigare sulla “intelligenza o competenza di lettore”. Dunque, o Montanari dice il contrario di quello che pensa (però, perché dovrebbe farlo qui? e come accorgersene?), o sta dicendo esattamente ciò che ha appena detto lei. Nulla di basso e triste, mi pare.
@abate
grazie delle indicazioni – ho letto ma vale sempre rileggere.
Marchese, un suggerimento: proceda nella lettura con un atteggiamento di presunzione di sensatezza, fino a prova contraria.
Sto facendo un esperimento di pazienza.
1) Ho portato avanti nei commenti una piccola, probabilmente inutile battaglia per relativizzare d’un po’ le letture.
2) Ho scritto: “…alla fin fine, quando cioè sui fucili si montano le baionette, forse è bene domandarsi quale sia l’oggetto della disputa. Insomma: se io dichiaro che Caio non ne capisce nulla poiché non apprezza l’opera di Sempronio, per chi o cosa sto mettendomi in gioco… Per il libro, l’opera? Per l’autore…?”
3) Ho scritto una banalità: “I lettori che rispondono in un certo modo ai testi di Moresco, non sono migliori o peggiori degli altri: semplicemente sono fatti così.”
4) Ho citato dall’articolo di Montanari: “Chiedo a chi ha deposto il libro di Moresco dopo qualche pagina o qualche decina di pagine la lucidità e la generosità intellettuale di dire: Forse la grandezza di questo autore, di cui sento tanto parlare, è al di là della portata del mio gusto di lettura. Non della mia intelligenza o competenza di lettore…”
5) Infine, ho aggiunto: “A me pare … che spesso ci si litiga non un giudizio sull’opera e non un qualche significato, bensì la propria ‘intelligenza o competenza di lettore'”,
Avviene, ovvero, spesso (ma non, per dio, nel pezzo di Montanari) che il confronto tra letture si trasformi in scontro fra lettori a contendersi competenze, capacità, preparazione culturale etc etc.
Ah ok, non avevo capito che citasse Montanari in questo senso.
Non faceva prima a spiegarsi?:-) ha ragione, che pazienza
Ma era ovvio, Marchese, solo la sua temibile mancanza di fiducia nel prossimo poteva frapporsi.
A lei buona domenica
o_O
Quindi nessuno ha una copia clandestina e cartacea di “Tutto d’un fiato” di Moresco? O una copia dei saggi fuori catalogo non intercettabili neppure tramite ebay quali “Il vulcano” o “L’invasione” o “Lo sbrego” o “Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno”? Il Moresco che a me convince di meno è il saggista dei propri impulsi, quello della seconda parte – secondo me superflua – de “Lettere a nessuno” e mi piacerebbe ricredermi leggendone dell’altro, eppoi i titoli sono belli come romanzi. Se qualcuno avesse informazioni sul come poterseli procurare, gli sarei esageratamente grato.
Ho letto l’articolo di Montanari, offre il bel racconto della sua esperienza di lettura di Moresco, è un po’ simile alla mia durante la lettura della trilogia del Caos, anche se io non sarei riuscito a chiamare dentro Coltrane e Taylor, e soprattutto non è a Calvino che mi fa pensare Moresco, per quanto forse va riconosciuta a Calvino del birichinismo formale, e credo la sua “cautela verso la suscettibilità del lettore” sia una strategia retorica per piratare meglio il suo giudizio (che è un giudizio critico, altrimenti non è nemmeno un giudizio, credo sia una questione addirittura etimologica).
Montanari non vuole fare una colpa all’eventuale lettore del suo non volersi far piacere la letteratura di Moresco, ma – chiacchierando di letteratura – che peso possono mai avere i lettori che “non se la sentono”? Neanche io ho nulla contro chi per leggere “Anna Karenina” di Tolstoj aspetta un caso di lunga degenza (non è che ce l’ho con Baricco, è che m’è venuta in mente questa sua strombettata da piccolo maestro per aspiranti scrittori ancora più piccoli), non ho nulla contro chi pensa la letteratura come un bene di consumo “neutro”, anzi “ironico” come la sit-com o la musica da autoradio, ma questo non toglie nulla alla riconosciuta statura letteraria di Tolstoj.
C’è chi a quadro di Bacon preferirà sempre un poster dell’Uomo Ragno (Bacon è il mio Tayloir, mi sa, e non è che sto paragonando Coltrane a Spiderman, sia chiaro): benone, costui potrà anche avere un quoziente intellettivo disgustosamente alto e essere l’individuo più in gamba della sua nazione, questo non mi cambia che di arte non ci capisce un cazzo, e sarebbe trattarlo doppiamente da idiota se non lo si reputasse in grado di capire che Bacon crea opere d’arte come Tolstoj e come Moresco e che se proprio non ci arriva, qualche difettuccio all’intelligenza ce l’ha pure lui, come me che di jazz non ci capisco niente, e questo non lo deve offendere: gli sarà servito a sapere qualcos’altro su se stesso, su un suo limite; hai detto niente.
Io, comunque, un album di Cecil Taylor ora vado a ascoltarmelo. Niente mi obbligherà a farmelo piacere, ma qualcosa che mi costringerà a capirne la maestria temo proprio che ce la troverò e se non ce la troverò i dubbi li avrò su di me, molti meno ne avrò su Cecil Taylor.
Saluti!,
Coda.
caro Antonio
condivido buona parte delle tue osservazioni. “Tutto d’un fiato” mi manca, né saprei come procurarmelo, sulle “Lettere a nessuno” parte seconda la penso più o meno uguale. La dirompenza formale della prima parte qui latita, la sua forma di apparente disordine, la commistione di diario e romanzo in una soluzione inedita, sono tutte cose che latitano nella parte seconda, tutta composta ex post. Però è un libro che salverei, per alcune pagine veramente belle ed esatte. Le riflessioni su Giuseppe Genna, a mio parere, dicono moltissimo su alcune fra le posture intellettuali più frequenti in un paese della merda e del galateo.
Sui saggi di Moresco. A parte confidare nelle biblioteche, che hanno sempre risorse nascoste, ti segnalo che “Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno” lo puoi ordinare qui: http://www.amazon.it/Scritti-viaggio-combattimento-Antonio-Moresco/dp/8834711289/ref=sr_1_2?ie=UTF8&qid=1399886087&sr=8-2&keywords=scritti+di+viaggio+di+combattimento . Per “Lo sbrego”, prova a fare una ricerca qui: http://www.lafeltrinelli.it/products/9788817006286/Lo_sbrego/Antonio_Moresco.html
Per quel che vale (zero), la mia esperienza di lettore di Moresco.
“Lettere a nessuno”, forte impressione, ammirazione per una sincerità estremista da kamikaze, domanda: “E adesso cosa fa questo?”
“Canti del caos”. Ascensione su una montagna di ghiaia. La montagna è alta, altissima; ogni tanto, quando il cielo si apre, si intravvede che sulla cima c’è qualcosa, forse un rifugio, forse una porta, chissà: ma poi subito le nuvole si richiudono, resta solo questo infinito sgambare e affondare a ogni passo nella ghiaia. Crampi, disidratazione, irritazione, stanchezza, primi gravi sintomi del “chi me lo fa fare”, attacchi di nostalgia per la montagna Thomas Mann. Mai arrivato in vetta.
Ogni tanto, un pensierino: “cosa vuole fare, questo?”
Rispostina dubbiosa: “Secondo me vuole 1) trasfigurarsi (lui, proprio lui Antonio Moresco) macinando se medesimo, simbolo e realtà, dentro la betoniera di una scrittura che gira gira gira all’infinito 2) eseguire un rituale di invocazione o evocazione della forma: macina e sversa il mondo intero aldilà compreso in un buco nero, e lo prega di restituirglielo ordinato (o lo sfida?). 3) si candida a Giovanni Battista di un Messia (non so quale, però un Messia).
Io passo; però, Moresco fa sul serio, molto sul serio. Onore a lui.
Salve Marchese,
un grazie enorme per i suoi link.
(Vivo su di me la insopportabile invidia delle biblioteche degli altri: ho amici a Firenze che trovano di tutto e io, a Napoli, è già tanto se la trovo aperta, la biblioteca.)
Della seconda parte de “Lettere a nessuno” a me colpisce anche la richiesta di Moresco a Parente (“Non diventare uno stronzo anche tu” e a me sembra che Parente, con Moresco, stronzo non ci sia diventato) e la descrizione che fa del suo incontro con Aldo Busi: Busi in pratica ne mette subito in forse la pubblicazione ma Moresco ha per lui parole prive di qualsiasi astio; “Ha il volto di chi ha molto sofferto” mi sembra abbia scritto, ricordo a braccio, e mi sembra pure che Moresco sia stato l’unico a aver mai espresso su Busi un commento che non fosse un risentimento, eppure una ragione di risentimento Moresco avrebbe potuto vantarla.
La seconda parte di “Lettere a nessuno” ha una sua indiscutibile validità, però snatura la colposa completezza della prima, le fa perdere la sua quasi insospettabile bellezza formale. Si sarebbe potuta pubblicare a parte, magari, poi non so s’è stata una decisione editoriale o autoriale. Spero comunque in una terza edizione dove si ritorni alla prima.
Altri saluti,
Coda
Ho visto ieri Moresco a Torino, ho avuto occasione di parlargli. Mi accodo ai commenti ulteriori, specie quello di Buffagni. All’immantentismo panteista alla Spinoza, aggiungo l’impressione di uno Stephen Hawking prestato alle Lettere, un astrofisico pacato e lontano con l’attitudine relazionale di un Diogene. Ha preannunciato “Gli increati” per il 2015, un volume di mille pagine nel quale renderà la visione del mondo, come gli è data. La grande fatica, gli squarci misti a dolorosi rannuvolamenti, sono evidenti. Nascono, sue parole, da una auto-educazione molto vorace e disordinata che lo ha portato mano mano ad attraversare il labirinto alla ricerca di un Minotauro e quindi una possibile via di fuga. Oggi, sue parole, non sono dati né il labirinto né un Minotauro rispetto al quale rapportarsi. Ha acconsentito ad una foto, che ho messo sulla mia paginetta in link.
@saverio
Abbiamo censurato il suo commento perché conteneva alcune offese personali. La invitiamo a riformularlo rispettando le nostre regole:
http://www.leparoleelecose.it/?p=12167
Lo avete censurato perché conteneva la verità. Vi siete qualificati da soli.
@saverio
La “verità” (cioè una sua legittima opinione), più diversi insulti. Lasci la “verità”, se ci tiene, ma tolga gli insulti.
ps
Il concetto ci sembra chiaro, quindi evitiamo di tornare sulla questione, grazie.
A distanza di qualche tempo, vorrei provare a rispondere all’obiezione di Luca Cristiano meglio di quanto non abbia fatto due mesi fa. Lui era giustamente stato colpito da questa mia affermazione un po’ apodittica:
“È innegabile che i libri di Moresco non si prestino a molti tipi di letture, ma paiano richiederne una sola, inequivocabile e richiesta esplicitamente dall’autore, quasi che comprenderlo nel modo che lui pretende sia l’unico modo di salvarlo e, insieme, salvarsi.”
Non pensavo a delle tangenze con la lettura ultra-ortodossa di testi sacri, ma a una maniera specifica di concepire la letteratura per Moresco, in antitesi a scrittori precedenti di cui Moresco ha sentito (usiamo questa espressione molto inflazionata) “l’angoscia dell’influenza”.
Penso in questi giorni a Beckett, che sto rileggendo. C’è un saggio famoso di Aldo Tagliaferri, intitolato “Beckett e l’iperdeterminazione letteraria” (1967), che parla per la trilogia romanzesca di Beckett (e non solo) di “un cospicuo complesso di possibilità di lettura del testo della trilogia” e della “simultanea iscrizione dell’immagine letteraria, o dell’evento narrato, in molteplici differenti serie causali, analogamente a quanto la teoria psicanalitica aveva indicato, sotto il nome appunto di iperdeterminazione psichica, per l’evento psichicoo verbale” (sto citando da p. XIII dell’introduzione di Tagliaferri all’edizione NUE della trilogia). In Beckett ci sono, dichiarate, molteplici chiavi interpretative che sovrappongono o incrociano differenti strutture o “storie” portanti, desunte dal mondo del mito, della religione cristiana o di altri campi, quello scientifico ad esempio. Questi mondi, come ha ben sottolineato Luca, sono presenti anche in Moresco: ma non mi sembra che in Moresco ci sia un continuo rinvio elusivo e combinatorio a significati sempre ulteriori. Anzi, mi pare avvenga il contrario, cioè le diverse storie e strutture confluiscano per creare un solo dominio di senso agli occhi del lettore, più vasto e indiviso, non iperdeterminato.
Di sfuggita, la stessa trilogia di Beckett potrebbe dire parecchio sui Canti del caos e su tutto un filone della scrittura moreschiana. I “nati alla morte” di Beckett, la figura di Malone imbozzolata in una prenatalità putrefatta che non può mai risolversi in una vera nascita, tutto ciò mi sembra ripreso con esplicita volontà di cambio di segno nelle figure dei Canti, e soprattutto nella grande nascita conclusiva della Terza parte. Credo che uno studio approfondito su Beckett e Moresco potrebbe dirci parecchio, e indicare anche che, se uno scrittore in Italia è particolarmente bravo, è anche perché è capace di scegliersi padri all’altezza.
Non farti sentire, caro Lorenzo: per avere detto e scritto che in Moresco si sente molto la presenza di Beckett, e che anche per questo il suo saggio contro Beckett non va, dovetti rompere l’amicizia con lui. C’erano naturalmente anche altri motivi.