di Remo Ceserani
[Questo intervento è già uscito su «Alias»].
È curioso che i partecipanti al dibattito sul realismo che si è venuto svolgendo, nel piccolo mondo italiano degli addetti alla letteratura (un piccolo mondo antico), abbiano solo raramente ricordato l’esempio, assai rilevante, dei manifesti e saggi e soprattutto dei romanzi dello scrittore americano Tom Wolfe. Si è fatto un gran parlare di ritorno alla realtà, auto-fiction, docu-fiction, new Italian epic (lascio da parte il parallelo dibattito filosofico sul nuovo realismo di Maurizio Ferraris e Markus Gabriel), ma nei vari documenti e manifesti si è parlato molto poco di Tom Wolfe. È d’altra parte vero che, nel mondo dei media, la parola d’ordine del “New Journalism”, lanciata da Wolfe, ha avuto una larga attenzione e che l’editoria italiana ha provveduto a tradurre non solo i suoi romanzi ma anche i suoi principali saggi e in particolare il suo vero e proprio manifesto uscito su “Harper’s” nel 1989 con il titolo Stalking the Billion-footed Beast. A literary manifesto for the new social novel (tradotto lo stesso anno da Leonardo con A caccia della bestia da un miliardo di piedi), mentre non mi pare che sia stata ancora tradotta la scoppiettante conferenza tenuta a Washington nel 2006 (per un onorario di 10.000 dollari) pubblicata sul sito del “National Endowment for the Humanities” con il semplice titolo Tom Wolfe Lecture. Ed è anche vero che gli osservatori più attenti dei rapporti fra letteratura e giornalismo, da Alberto Papuzzi a Clotilde Bertoni, affrontando quel tema con grande precisione, hanno dato il giusto peso all’esempio di Wolfe e al suo interessante rimescolamento di quei rapporti.
La scarsa attenzione, da parte dei nostri esperti di poetiche narrative, ai romanzi di Wolfe (Il falò delle vanità, 1987; Un uomo vero, 1998; Io sono Charlotte Simmons, 2004; cui ora si aggiunge Le ragioni del sangue, 2012, tutti pubblicati in Italia da Mondadori) si può spiegare in vari modi: Wolfe è politicamente schierato a destra (una destra abbastanza scettica e anarchica) e ha fatto oggetto delle sue tirate spesso violente e provocatorie molti dei miti del Sessantotto; Wolfe, come dichiara apertamente nel suo manifesto, si riallaccia alla tradizione del romanzo Ottocentesco e primo Novecentesco, saltando a piè pari tutti gli sperimentalismi delle avanguardie (suoi idoli sono Balzac, Dickens, Zola, Thackeray, Sinclair Lewis); Wolfe ha rimproverato (direi: ingiustamente) i suoi colleghi romanzieri americani di non aver avuto il coraggio di affrontare la realtà multiforme delle nuove grandi metropoli: New York, Chicago, San Francisco, Los Angeles, Atlanta (ad alcune di esse, e ora, nell’ultimo romanzo, a Miami, egli ha polemicamente dedicato le sue fatiche di scrittore); Wolfe ha inoltre dichiarato di aver preso ispirazione, anziché dalle analisi economico-sociali di Marx, da quelle sociologiche di Max Weber sui ceti, le professioni e le differenze di status nelle società moderne, e se il suo idolo Zola ha utilizzato le ipotesi scientifiche di Darwin, Lombroso e Claude Bernard, lui si è riempito la testa delle ricerche biologiche e neuroscientifiche di E. O. Wilson e tanti altri.
Come sempre in questi casi (a cominciare dal caso celebre di Balzac) alla resa dei conti quel che fa la differenza non è l’apparato ideologico o programmatico di uno scrittore, ma la resa e la capacità mitopoietica della sua scrittura. E Tom Wolfe nei suoi romanzi (ma anche nei suoi reportage giornalistici, che hanno strutture decisamente narrative) ha dimostrato di essere uno scrittore di grande talento. E lo dimostra anche in quest’ultimo romanzo.
La Miami che fa da vera protagonista al romanzo, con i suoi quartieri, le comunità etniche, le isole, le spiagge, il sole che dardeggia e fa sudare gli abitanti tutto il giorno, è la città dell’esagerazione e dell’ipertrofia. Ogni incontro fra persone di origine etnica diversa diventa uno scontro, ogni lingua un dialetto, ogni affermazione di identità si trasforma in orgoglio razziale, ogni costume diviene mania, ogni esperienza sessuale perversione e pornografia, ogni festa un’orgia, ogni prodotto culturale un esempio di Kitsch (Norman Mailer a suo tempo ha definito Miami “un pentolone di miasmi, il cui involucro esterno maschera un ventre sordido e infestato” e ha aggiunto che visitare Miami era come “fare l’amore con una donna di 130 chili che abbia deciso di mettersi sopra a cavallo”). Miami è città multietnica di immigrazione recente; è governata da un sindaco cubano ma invasa dalle merci, dai valori e dal predominio finanziario dell’America bianca. Gli abitanti anglosassoni (detti “anglo” o “gringos”), pensionati innamorati dei tropici o giovani rampanti, sono una minoranza rispetto alle altre comunità, in particolare quella maggioritaria cubana, che ha imposto quasi dovunque l’uso dello spagnolo, ma anche quella nera, quella haitiana, quella russa, che si è stabilita in un proprio quartiere. Di questo ibrido corpaccione sociale sono rappresentati nel romanzo di Wolfe soprattutto i movimenti profondi, viscerali, flatulenti e rumorosi, degli organi della nutrizione e della riproduzione: è un vero Ventre de Miami.
Wolfe non trascura di lanciare qua e là segnali-omaggio ai suoi idoli ispiratori: il ristorante alla moda dove si reca all’inizio del romanzo Ed Tippett, direttore “anglo” del giornale locale in inglese, il “Miami Herald” (che ha un gemello-rivale in spagnolo “El nuevo Herald”), si chiama “Balzac” (mentre quello russo alla moda si chiama “Gogol”); il personaggio del professore creolo, che vuol passare per francese raffinato e vanta improbabili origini normanne, si chiama Lantier e quindi porta il nome del personaggio psichicamente bacato della Bête humaine di Zola; lo psichiatra arrampicatore sociale, che cura gli ossessionati dal sesso ma è lui stesso ossessionato dal sesso, si chiama Lewis, come Sinclair. Egli ha una storia con la sua infermiera, la giovane cubana Magdalena, che è uno dei due personaggi principali del libro e cerca di salire velocemente la scala sociale usando la sua straordinaria bellezza e l’attrattiva sessuale. L’altro personaggio principale, Nestor Camacho, è un poliziotto, anche lui cubano, un vero eroe fisicamente potente e svelto di intelligenza, che è all’origine di tutte le complicazioni della trama. Questa parte infatti da un gesto iniziale di straordinaria agilità sportiva di Nestor, quando questi si è arrampicato sul palo di una nave per far scendere un emigrante illegale cubano, e si è con questo guadagnato l’ammirazione dei colleghi poliziotti, gringos e neri, ma il disprezzo della sua famiglia e di tutta la comunità cubana che lo accusa di aver tradito la sua gente consegnando lo sventurato cubano alle autorità di immigrazione. Alla fine del libro l’eroe epico, il generoso Nestor, lascia cadere la possibilità di una rappacificazione con una Magdalena sconfitta nei suoi tentativi di ascesa sociale attraverso il sesso, e preferisce l’ingenua, pura, virginale Ghislaine, giovane figlia di Lantier.
Il significato vero del romanzo non sta in questa trama, ma nelle descrizioni della vita ipertrofica di Miami. Per ottenere il suo scopo Wolfe ricorre alla tecnica narrativa tradizionale dei naturalisti francesi, con largo uso di quello che Philip Hamon chiama il “descrittivo” e un’altra studiosa di Zola, Naomi Schor, chiamava “il gusto ossessivo del dettaglio”. Infatti puntigliosamente elenca e descrive architetture, velieri, yachts, vestiti, automobili, merci, gadgets, cibi, droghe, ecc. tutti accuratamente e sociologicamente distinti per marche e per tipi di consumatori. L’altra tecnica tradizionale a cui ricorre è quella del narratore onnisciente, un narratore che ne sa molto di più dei personaggi, in particolare dei due protagonisti, i quali sono poveri di linguaggio e capacità di introspezione, come dimostrano i loro piccoli monologhi interiori, tutti segnalati sulla pagina con una innovativa (e alla fine un po’ stucchevole) serie di sei doppi punti affiancati, prima e dopo ogni brano di discorso. Succede, per esempio, che quando Magdalena e il suo nuovo amante, il magnate russo Sergej Koroyov, filano su una velocissima Aston Martin diretti prima a un lussuoso ristorante poi a una festa che si rivela essere un reality show organizzato da un produttore televisivo (“Come certamente immagina, in televisione bisogna creare un effetto di iperrealtà affinché lo spettatore percepisca una semplice realtà”), sulla pagina compare questa descrizione dello stato d’animo di Magdalena: “Che sensazione di leggerezza! Che visione sovrannaturale! Che proiezione astrale! Che felicità!”; ma subito dopo il narratore si sente in dovere di spiegare: “Non che Magdalena conoscesse i termini ‘visione sovrannaturale’ e ‘proiezione astrale’, ma erano i due elementi principali dell’euforia ultraterrena che provava. Aveva la sensazione – ma era più d’una sensazione, era una percezione reale – di stare seduta sul morbido sedile di pelle beige di quell’affascinante auto sportiva… e allo stesso tempo di fluttuarvi sopra…”. E subito dopo, sempre mentre i due filano silenziosi e Sergej guarda Magdalena e sorride, il narratore si alza un po’ sopra di loro e commenta: “Un osservatore esterno lo avrebbe definito un sorrisetto compiaciuto. A Magdalena non venne in mente quella parola. Oh no. Cortese, affabile, raffinato… così l’avrebbe definito”.
Un’altra tecnica, già usata da Wolfe nei romanzi precedenti e qui portata al parossismo, serve per esprimere l’essenza ipertrofica della vita di Miami: i brontolii, i gorgoglii, i rutti, gli sputacchi, le pernacchie, le cacofonie ad altissimo volume, i sudori, i vomiti, i rigonfiamenti degli slip, le rabbie, le bestemmie, le aggressioni, i terrori, tutte le manifestazioni di una vitalità corporea priva di freni. La tecnica consiste nell’uso abbondantissimo di espedienti retorici e grafici intesi a dare un corrispettivo stilistico a quella ipertrofia (e ciò ha creato non pochi problemi al pur bravo traduttore italiano, Giuseppe Costigliola): si tratta di punti esclamativi, maiuscole (“le onde SBATTEVANO contro lo scafo”), ellissi, allitterazioni, paragoni, metafore, onomatopee; di una grande mescolanza di lingue e slang, di voci e di suoni; di tentativi di trascrizione dei suoni che dominano la scena (tipo: “le luci dei freni si acceeeeeesero”); di abbondante presenza delle onomatopee in uso nei fumetti (“boing, crash, clang, pling, ciaff, bum, tin, tong”; per esempio: “pop e il sogno svanì”) e anche dell’uso di una nuova forma di superlativi: non più il superlativo tramite il raddoppiamento sintattico (tipo «pian piano», «bel bello» e simili), ma tramite una serie di parole ripetute quattro e anche sei volte, che tendono a creare un’eco, o una cacofonia musicale (per esempio: “Da quel momento si mise a escogitare escogitare escogitare escogitare architettare architettare architettare architettare un modo per rivederlo”; oppure: “una camicia a maniche lunghe di flanella… non era no no no l’ideale in una calda calda calda giornata a Miami”).
In questo modo, pian piano, la città di Miami acquista una qualità mitica, diventa, come scriveva Joan Didion: “non esattamente una città americana… non una vera città, ma una storia, un romanzo dei tropici, una specie di sogno a occhi aperti in cui può trovare o deve trovare una sua collocazione qualsiasi possibilità”.
[Immagine: Tom Wolfe].