di Walter Nardon
[È uscito in questi giorni il nuovo romanzo di Michele Mari, Roderick Duddle (Einaudi). Pubblichiamo di seguito la conversazione tenuta a Trento nell’ambito del quarto Seminario Internazionale sul Romanzo (SIR.IV 2011-2012), i cui lavori sono usciti a fine 2013 (Avventure da non credere. Romanzo e formazione, a cura di Walter Nardon, Editrice Università degli Studi di Trento)].
Walter Nardon: In un passo della Vita di Benvenuto Cellini (Libro I, cap. 12) si accenna alla “scuola del mondo”, vale a dire alla famosa vicenda in cui Michelangelo e Leonardo furono incaricati di affrescare ciascuno una parete nella Sala del Maggior Consiglio – poi Sala dei Cinquecento – in Palazzo Vecchio a Firenze. I due maestri cominciarono il lavoro, prepararono i cartoni, ma non conclusero mai le loro opere. Cellini ricorda che, finché i due lavori “gli stettero in piè, furno la scuola del mondo” perché tutti quelli che volevano intraprendere un mestiere nelle arti dovevano recarsi copiare le opere in progress. Le intenzioni dei maestri, come pure i due lavori incompiuti, sono noti oggi solo dalle copie che gli allievi realizzarono. Una copia famosa della Battaglia di Anghiari di Leonardo è opera di Rubens, che naturalmente la disegnò a partire da un’altra copia. La sala fu infatti conclusa seguendo un nuovo progetto: Giorgio Vasari ebbe l’incarico di risistemarla e di dipingerla, così gli abbozzi dei due lavori furono ricoperti e andarono perduti (anche se gli Americani li stanno ancora cercando). La vicenda, cui si ispira questo seminario, ricorda che chiunque voglia impegnarsi nell’arte deve confrontarsi con le opere dei maestri e deve cominciare a farlo fin dagli anni della sua formazione, oggi diremmo da quelli dell’istruzione scolastica. Quale forma prende, però, questo rapporto? In che modo ci si confronta con i maestri? Cosa resta di questo confronto? Molti anni fa, riflettendo su questo tema, Harold Bloom parlò di angoscia o ansia dell’influenza: The Anxiety of Influence. Scegliendo di intitolare questo incontro Il beneficio dell’influenza, tu hai espresso l’intenzione di partire da una prospettiva che si oppone decisamente al libro di Bloom. Ti ringrazio e ti cedo dunque subito la parola.
Michele Mari: Partirò dall’occasione contingente che mi ha fatto venire in mente questo titolo. Ero stato invitato da Marcello Fois a tenere una lezione in una scuola di scrittura, a studenti che avevano già superato numerosi corsi ed esami. Preciso che non ho mai voluto insegnare in una scuola di scrittura, perché non credo che la scrittura letteraria sia una materia insegnabile, perché non credo di essere la persona adatta, perché non saprei da che parte cominciare. Quando invece mi si chiede di parlare delle mie idiosincrasie, o del modo in cui io lavoro, allora rispondo: se vi interessa ve lo racconto, ma senza alcuna ambizione cattedratica e senza alcuna intenzione esemplare.
Fois mi disse: “Abbiamo un problema in cui da mesi siamo incartati. Vorrei la tua illuminante parola. Il problema è che io mi sto sforzando di far capire a questi ragazzi pieni di talento e di buona volontà l’importanza della lettura, della conoscenza dei classici – dove per classici non si intendono solo Eschilo o Tucidide, ma anche Kafka o Gadda – perché questi ragazzi hanno un senso della tradizione azzerato, o continuamente autoazzerantesi. Pensano che la lingua e la letteratura nascano con una nuova percezione del mondo e che tutto ciò che per loro è e sarà letteratura debba avere più o meno la loro età biologica. Il resto è vecchiume, qualcosa di molto rispettabile e di molto bello, come una vecchia magione di campagna tanto lussuosa da non essere mantenibile, perché per farlo ci vorrebbero maggiordomi, inservienti, giardinieri. Morale, la grande letteratura tanto è bella quanto impraticabile, e perciò la si lascia sullo sfondo. Vorrei far capire a questi studenti perché invece la grande letteratura deve essere aggredita, violentata, ci si debba dialogare, ci si debba muovere al suo interno, non ci si debba solo sentire nani sulle spalle dei giganti. Certo ci si può sentire nani, ma fra i piedi dei giganti, in mezzo ai giganti, non sulle loro spalle, come se quei fiumi, quell’erba, quelle radici non ci appartenessero più.”
Fois si è quindi tirato da parte. La discussione si è dunque svolta fra me e gli studenti, che hanno cominciato a pormi delle domande. L’obiezione più frequente era questa: “Io quando leggo un classico, e so che ne esistono tanti altri, vengo preso dallo sgomento e dalla mortificazione, perché mi dico: a che cosa vale che mi impegni a scrivere di quei dati turbamenti, di quei lutti, gioie, avventure, se sono state già raccontate così bene, e pare insuperabilmente, da Conrad, da Maupassant, da Gadda?” Di qui la convinzione che tutto sia stato già detto e che a noi non resti che il misero e avvilente ruolo di epigoni, di ricamatori alessandrini, di chi possa più o meno dottamente girare intorno alle cose, ma con lo spirito di chi scrive una nota al testo, non di chi entra nel testo. Altri mi hanno detto: “La grande letteratura è impraticabile, è imbarazzante, perché è ridotta a cartigli dei Baci Perugina. Quella famosa frase di Shakespeare non è più contestuale al mondo di Shakespeare, ma è divenuta contestuale ai cioccolatini. Dante: Amor ch’a nullo amato amar perdona, una frase divenuta ora kitsch, blasfema.” Su questo punto devo dire che ho avuto poco da rispondere. Ho avuto molto più da dire sul primo interrogativo, su ciò che quei ragazzi confessavano in termini di frustrazione e di rinuncia. Ho cercato di far capire che certe cose non solo si possono continuare a dire bene e originalmente anche se sono state già dette, ma che ci sono cose – anzi, la letteratura è proprio la patria di queste cose – che si possono dire solo perché sono state già dette, proprio perché sono state già dette. Ho citato quel famoso paradosso di La Rochefoucauld che dice più o meno: se gli uomini non avessero mai sentito parlare dell’amore, se non avessero mai letto un libro d’amore, se non sapessero che esiste al mondo qualcosa che si chiama innamoramento, non si innamorerebbero, ubbidirebbero solo ad impulsi primari e animali. Che è poi quel che ci dice anche Dante. Paolo e Francesca cadono nel peccato non perché – e in questo Dante si contraddice felicemente – siano lussuriosi e incontinenti, no, cadono nel peccato a causa della forza e del fascino della letteratura. Leggono del bacio di Lancillotto e Ginevra e in quel momento cambiano il loro destino, e diventano a loro volta personaggi letterari, perché quello che è stato il destino esemplare di Lancillotto e Ginevra diventa anche il loro. Chissà quanti adolescenti si sono dati il primo bacio (o almeno lo hanno immaginato) avendo letto di Paolo e Francesca…
Non solo. Se pensiamo a tutta una serie di situazioni che non esistevano nella percezione, che non avevano nome, e che hanno incominciato a definirsi alla nostra coscienza di lettori o di scrittori (qui non sto ancora distinguendo il rapporto che ha un lettore con la tradizione da quello che ha uno scrittore), ci rendiamo conto di quante percezioni e sensibilità ci siano state regalate dalla letteratura: come se la letteratura ci avesse dato dei filtri cromatici, delle lenti, degli amplificatori. Grazie alla potenza dell’arte noi leggiamo la realtà molto più profondamente, molto più archetipicamente (e molto più esteticamente) di quanto potremmo farlo senza letteratura. Quando, nella pagina sportiva di un quotidiano, si legge di un litigio fra il presidente e il suo allenatore, o tra l’allenatore e la squadra, e si apprende che all’interno dello spogliatoio della Cavese o della Sanbenedettese c’è una sorta di spaccatura shakespeariana, ci potrà essere un involontario effetto di parodia, ma sarà anche un’occasione per andare sotto alle cose, e vedere quanto di drammatico, di metastorico, di metacalcistico, si celi in esse.
E’ stato detto da tutti, ed è diventato un luogo comune, che dopo Leopardi la luna non è più la stessa. Non c’è solo la luna piena, quella calante, la falce a ponente, la gobba a levante, la luna limpida: no, dopo Leopardi c’è anche la luna leopardiana, che non è un satellite, è un pianeta. Esiste. Chiunque di noi in certe sere la guarda e la riconosce. La letteratura ha aggiunto qualcosa alla realtà, ha creato qualcosa. C’è un bellissimo racconto di Borges, Una rosa gialla, dove si narra del cavalier Marino che scrive l’Adone e si dispera perché ha l’ambizione di restituire la complessità gaddianamente barocca e imprendibile del mondo – un po’ come i geografi del famoso racconto della mappa dell’imperatore, che vogliono cartografare in scala 1:1 il mondo e alla fine soffocano il mondo sotto una carta grande come il mondo stesso. Marino ha l’ambizione di dare un corrispettivo verbale del mondo, e quindi scrive l’Adone, anche se è continuamente preso da momenti di sconforto perché si rende conto che per quanto lungo e bello il suo poema non sarà mai come il mondo. Il mondo sarà sempre più ricco, più vario del suo poema. Anche se per un istante il suo poema raggiungesse il mondo, un secondo dopo il mondo sarebbe già lontano, avrebbe già prodotto un nuovo filo d’erba, un nuovo girino, una nuova gemma. Di colpo Marino si rende conto di cosa sia l’arte: non specchio del mondo, come si va ripetendo platonicamente, non riflesso, epitome del mondo, rincorsa riassuntiva del mondo: no, l’arte è una cosa, una realtà, un oggetto che viene aggiunto al mondo, e di colpo Marino si rende conto del senso della propria vita: quella rosa gialla che descrive nell’Adone non è la copia vacua e verbale delle rose vere, ma è un’altra rosa, una rosa sui generis, che si aggiunge alle rose. Il rapporto non è vicario, non è subordinato.
Sono esempi un po’ difformi e casuali, ma sono esempi che ci portano a sospettare che, a furia di leggere libri, a furia di interiorizzare aggettivi anche abusati come kafkiano o proustiano (oggi anche chi non ha letto Kafka o Proust capisce, se non è del tutto sprovveduto, cosa si intende con questi termini), troviamo forme di arricchimento, forme di sensibilizzazione, sensori che fanno sì poi che, nei confronti della vita, o di quella vita di secondo grado che è la letteratura, il grande lettore abbia molte più antenne, perché ha vissuto più vite. Vi chiedo: perché quando leggo un romanzo – e posso addirittura essere pagato da un editore per farlo – posso stabilire (certo anche sbagliando) che si tratta di un capolavoro o di una schifezza, oppure posso sospendere il giudizio perché il romanzo appartiene ad un genere che non fa per me? Perché invece chi ha letto pochi romanzi, o li ha letti solo obbligato dalla scuola o dalla famiglia e mai per proprio piacere, non è capace di fare altrettanto? Perché io di romanzi ne ho letti infinitamente di più, perché li ho letti con passione e trasporto quasi religioso, perché li ho letti ogni volta come entrassi in un mondo di cui accettare ciecamente le convenzioni e le regole, come quando si sogna e si è totalmente pervasi da quelle angosce e da quelle gioie, secondo quella che Coleridge chiamava la volontaria sospensione dell’incredulità. Rimanete chiusi due ore in una sala cinematografica, vedete un film di fantascienza, totalmente inverosimile, ma trepidate, palpitate, vi emozionate, perché avete sospeso l’incredulità. Provate ad andare al cinema con una persona che non ha mai visto un film di fantascienza. E’ l’esperienza più irritante del mondo. Sei lì, vedi Alien e sei solo nell’astronave col mostro, e quell’altro ti comincia a dire, dopo due minuti: “Che scemenza. Ma figuriamoci”. E’ raggelante. Poi quello magari legge la Bibbia e non dice mai: “Ma figuriamoci”.
Aver letto tanto mi ha consentito di vivere tante vite alternative alla mia (che, evidentemente, se ero un tale compulsivo lettore, non doveva essere molto gratificante); e il fatto che per me la letteratura fosse quasi tutto ha fatto sì che, “da grande”, quasi per una sorta di riflesso pavloviamo, tutte le emozioni, distrazioni, evasioni, scioglimenti emotivi, commozioni, esaltazioni che già a loro tempo provocavano quel meccanismo di ricreazione che è il parlottio interiore (il vero lettore entra nel libro e a libro finito lo prosegue), si traducessero per contagio, per una sorta di infezione, in letteratura. Non esiste un gande libro che non sia infetto, diceva Manganelli, che non sia il regalo a doppio taglio di un untore. Un grande libro non ti lascia più come prima. Se hai letto la Cognizione del dolore non sei più come prima, soprattutto se hai avuto certe esperienze; ma anche se non le hai avute. Mi ricordo che in età non sospetta, quando lessi I turbamenti dei giovani Törless, ne rimasi turbato ben più del giovane Törless. I turbamenti erano i miei. Quando ho fatto il servizio militare e ho incontrato figure di prevaricatori simili a quelli che tormentano il povero Törless, ho vissuto il mio servizio in quella chiave. Il che mi è stato anche utile sul piano pratico, perché sapevo come il libro è andato a finire, e comunque sapevo anche quanta miseria e quanta povertà umana ci fosse dietro quella violenza. Era come se in quella vita ci fossi già passato. Con questo non voglio dare della letteratura un’idea di catalogo delle vite possibili, come se leggendo di più fossimo più attrezzati, perché posso leggermi tutta la letteratura sul pugilato, da Hemingway a Jack London, ma se poi litigo con uno più grosso di me, con quattro sberle mi mette a terra. Da questo punto di vista, anzi, la letteratura è per definizione ciò che “non serve”.
W. N.: Possiamo dunque comprendere il beneficio dell’influenza come amplificazione delle possibilità del lettore, come interesse per le vicende dei personaggi che seguiamo sulla pagina, “io sperimentali” che ci arricchiscono suscitando in noi la percezione di un’alternativa alla situazione che ci troviamo a vivere. Noi arricchiamo la nostra interpretazione della realtà di sfumature nuove, di aggettivi nuovi, di uno spazio e di un tempo nuovi. Questo se ci limitiamo all’influenza della lettura intesa in termini generali. La lettura di questi grandi libri, però, non cambia solo la nostra percezione del reale, ma interviene con qualcosa che diventa molto evidente quando ci poniamo davanti a un foglio di carta, o a una tastiera. Il tono generale di una pagina, il ritmo della frase conosciuto in un libro restano dentro di noi e tendono a riproporsi in quello che scriviamo; anzi, in qualche modo lo facilitano. E l’influenza è tanto più evidente quanto meno ne siamo coscienti. Tuttavia, se scegliamo di dedicare la vita a scrivere dobbiamo diventarne più che coscienti. Dobbiamo saper riconoscere questa influenza, se vogliamo conquistare la nostra espressione.
M. M.: La letteratura tradizionale preesisteva allo scrittore. Il canone, il genere, gli stili preesistevano allo scrittore. Chi decideva di intraprendere questa attività aveva davanti poche soluzioni: tragedia, commedia, epica, lirica. Una volta eletta una di queste macro-opzioni, sapeva che aveva delle scelte sempre più codificate, termini sempre più cogenti. Al limite, l’oggetto, lo stile, la lingua e il metro coincidevano: c’erano cose che potevano essere dette solo con un sonetto, quattordici endecasillabi divisi in un certo modo. Prima che con il barocco si incrinasse questo sistema e si incominciasse a sperimentare, ci sono stati secoli nella nostra tradizione in cui il problema della scelta dell’argomento e del modo non si ponevano. Il vero problema era quello dell’ortodossia, e al tempo stesso, nella coscienza degli autori più grandi, il problema di un rapporto dialettico con la tradizione. Essere dentro la tradizione senza ripeterla meccanicamente, essere riconoscibili come anelli di quella tradizione ma anche come personalità originali. Per questo occorreva un grandissimo rispetto della tradizione (ai limiti della venerazione), ma occorreva anche un forte carattere. Pensate a Torquato Tasso, che nel pieno della sua creatività si è quasi suicidato artisticamente massacrandosi più di quanto lo censurassero i retori. Tasso ha vissuto la sua originalità in termini di colpa, forse anche perché non aveva sufficiente narcisismo per dirsi: “Me ne infischio, vado avanti, sono Torquato Tasso”. Oggi questo tipo di conflitto è impensabile, perché la maggior parte degli scrittori non ha più alcun rapporto con la tradizione (e intendo un rapporto vitale con la grande tradizione), non più gloriosamente attraversata né drammaticamente subita ma semplicemente evitata, rimossa.
Più sbrigativamente voglio anche dire che l’influenza ci angoscia solo se ce ne facciamo influenzare. Nel caso mio, fin da bambino, la nozione di influenza – anche se non sapevo cosa fosse e non la chiamavo certo così – coincideva con la percezione di essere stato tenuto a battesimo e preso per mano da tanti maestri che mi avevano insegnato di tutto: uno, un ritmo; uno, una parola strana; uno, un termine marinaro; uno, l’arte dell’ambiguità; uno, l’arte della suspense; uno, l’intreccio. Ognuno qualcosa di distintivo. Questo ha fatto sì che quando ho cominciato a scribacchiare sentissi il problema opposto. Come se uno dovesse costruire una casa in un prato e gli altri paesani, per fargli un regalo, gli portassero delle carrettate di legname, chiodi, eccetera, tanto da avere materiale per costruire non una casa, ma dieci case, un paese intero. Mi sentivo nutrito, anche a livello di voci, di confabulazioni nella mia testa. E questo non mi paralizzava, mi dava anzi un senso di euforia, come se mi rendesse consapevole che tutto era già incamerato. Come dice Borges in un altro racconto, era come se io avessi già dentro di me tutti i racconti possibili e si trattasse solo di trovare le giuste combinazioni.
W. N.: Nella tradizione narrativa esiste, certo, una linea genealogica forte. In questa linea, ad esempio, uno scrittore può prendere in mano un libro di Thomas Mann e decretare che l’autore non sia nessuno, come faceva Nabokov. Qui ci troviamo in presenza di un artista che ha una personalità forte al punto da accettare un confronto con qualsiasi autore gli venga posto davanti, ma le cose non vanno sempre in questo modo. Ci sono casi più insicuri e tormentati, senza arrivare a quello di Tasso. E’ vero che il tormento affligge di norma persone orgogliose, tuttavia a volte questo tormento prende strade diverse, sotterranee, difficili da seguire. Il giovane Gadda del Racconto italiano di ignoto del Novecento non sa ancora dove andare, non sa se col lavoro di ingegnere riuscirà a diventare uno scrittore, ma ha un’intenzione chiara: vuol scrivere un romanzo in quattro mesi per concorrere al premio di un editore. Sappiamo, però, che Gadda non ha mai finito un romanzo in vita sua, non già in soli quattro mesi. Rispettare la scadenza gli è quindi impossibile. Così fallisce, ma diventa uno scrittore. Un altro esempio. Kafka non era privo di orgoglio – come scrive Canetti nell’Altro processo – ma anche in questo caso il tormento prese una strada sotterranea, in cui l’ego non era così manifestamente forte da portarlo a dire degli altri quello che Céline diceva di Proust.
M. M.: Céline si scagliava contro Proust perché quello era il suo modo di fare i conti con la tradizione; senza aver prima interiorizzato l’armonia sintattica proustiana non avrebbe mai “inventato” i suoi famosi tre puntini. Io ho avuto nei confronti di alcuni autori l’atteggiamento opposto: penso a Stevenson, Jack London, Conrad, Melville, un rapporto di venerazione tale per cui mai avrei potuto imporre la mia voce in termini di rifiuto della loro. Sto dicendo che se ti senti non esautorato in quanto tutto è già stato detto, ma una specie di ventriloquo attraverso cui quelle voci continuano a parlare, non sei più un pupazzo di legno, sei un essere vivo, un essere che senza nemmeno accorgersene se ne trova una tutta sua, di voce. Quante volte abbiamo visto film horror in cui una marionetta diventa un demone che costringe il suo padrone a fare ciò che essa vuole? Io come scrittore mi sono sentito così. Prima un balbettante apprendista, che ha fatto anche il ventriloquo perché, anche senza avere una concezione manieristica della letteratura, è inevitabile che all’inizio si faccia il verso a qualcuno. Poi, ed è sempre così, il ventriloquo ha trovato la propria voce. E’ così anche nei giochi. Perché il bambino gioca a cowboys e indiani? Perché ha visto un film di John Ford, poniamo, e allora parla e si atteggia secondo i canoni che ha appreso in termini cinematografici. Se non avesse visto il film giocherebbe in modo non convenzionale, e ci sono giochi in cui la convenzione è tutto.
Il primissimo racconto che ho scritto (nella mia fantasia era un romanzo), dato che in quel periodo leggevo molto Poe, Lovecraft, il Dracula di Bram Stoker, si intitolava L’incubo nel treno. Era un thriller-horror, se oggi dovessero collocarlo. La cosa particolare non è tanto il racconto in sé quanto il modo in cui l’ho scritto, in cui l’ho reificato, perché ho preso un cartoncino nero, ho messo dentro dei fogli – i miei erano grafici, perciò avevo in casa del materiale e avevo ereditato un po’ di pratica – li ho rilegati, ho goffrato e cucito la copertina, ho preparato un frontespizio. Ho messo “Michele Mari” come autore, “Mari Michele” come editore, e poi “Collana Libri neri, numero 1”. Il gioco, più che nel racconto, era nel confezionamento, frutto a sua volta dell’aver maneggiato tanti oggetti che erano libri. In questo caso l’influenza della letteratura nera o gialla è stata linfa, vita, energia.
Siccome penso che le forme artistiche siano ricche, generose, imprevedibili, interagenti di volta in volta in modo dialettico con le persone, ho sempre creduto che il tempo e la moltiplicazione dei romanzi non esaurisse il dicibile. Il 90% dei libri che escono sono tutti uguali, sono fatti con lo stampino. Cosa esauriscono? Esauriscono se stessi, non esauriscono nulla. Quindi, non solo di cose da dire ce ne sono sempre e sempre ce ne saranno, ma il fatto che i limiti sembrino essersi ristretti rende il gioco più interessante. E’ come quando Dante si trova a dover fare le acrobazie in una terzina per chiudere rime difficilissime. E guarda caso proprio in quei punti gli escono delle terzine geniali, perché ha il canto limitato. Naturalmente, poi, ogni autore ha le sue profilassi e i suoi campanelli d’allarme. Alcuni temi per me sono tabù, nel senso letterale del termine, perché so che lì darei il peggio di me, la mia prosa sarebbe opaca, stentata. Per esempio storie d’amore, scene di sesso.
Sempre rifacendomi al tema dell’incontro, alla parola beneficio, che non è una gran parola, lo ammetto, ma è quanto di meglio sia riuscito a trovare, specularmente, rispetto all’angoscia di Bloom, penso a tutto il filone della letteratura di mare. Sono convinto che Stevenson, Melville, Conrad, London, chi più chi meno – perché non tutti hanno sempre e solo scritto di mare – si siano divertiti, si siano appassionati proprio perché il filone già esisteva, abbiano sentito il piacere di essere una perla della collana. Credo che qui narcisismo ed ego contino poi fino a un certo punto, in quanto il piacere di far parte di una compagnia è premio a se stesso. Se io sono un appassionato del pallone e mi invitano a giocare nella mia squadra del cuore, o forse solo anche a portare le borse col ghiaccio, per me è un grandissimo onore. Non pretendo di diventare il numero dieci di quella squadra. Soltanto andare in pizzeria con loro, dopo la partita, lo riterrei un privilegio. So che può sembrare un discorso ingenuo, ma spesso scrivere di determinati argomenti, secondo determinate retoriche e determinate topiche dipende anche da un elemento affettivo. Così come noi ci scegliamo certi amici, andiamo in certi ristoranti, ci vestiamo in un certo modo, andiamo a funghi o non andiamo a funghi, andiamo a pesca o non andiamo a pesca. Frequentiamo certi scrittori e non altri per avere degli amici di famiglia, e gli scrittori pure, fra di loro, si frequentano e si vampirizzano, si copiano, si sfottono, gareggiano. Da qui nascono i grandi sodalizi, i grandi incroci per cui sembra che tutto il meglio della letteratura si sia consumato in quel trentennio in quel determinato punto del mondo, Londra o Vienna o Parigi o Roma.
C’erano due grandissimi amici, di solito considerati inglesi, mentre in realtà uno era un americano trapiantato in Inghilterra, Henry James, e l’altro uno scozzese, Robert Louis Stevenson. Questi due scrittori, che si stimavano enormemente e hanno intrattenuto un bellissimo carteggio in cui discutono dei propri libri, hanno parlato molto di queste cose. A Henry James, che aveva una stima assoluta di Stevenson, non andava giù che questi continuasse a scrivere storie di pirati. “Ma come, uno come te, con la penna che hai tu, che potrebbe scrivere le cose più profonde, più psicologicamente raffinate del mondo, bamboleggia con queste storie di pirati, di coccodrilli, di gente ubriaca di rum nelle taverne?” Stevenson gli rispose pubblicamente su una gazzetta da Edimburgo e gli disse: “Caro Henry, evidentemente tu non hai mai giocato ai pirati da bambino, perché se avessi giocato ai pirati non mi faresti questa obiezione.” Piccato, James, che forse non aveva bene inteso l’argomento, rispose: “Sì, in effetti non ho mai giocato ai pirati da bambino e ne sono ben contento, perché quello dei pirati era un gioco stupido.” Allora Stevenson, con la grazia che gli è propria, disse: “Benissimo, l’argomento è chiuso per sempre. Adesso sappiamo tutti quello che abbiamo sempre sospettato: il signor Henry James non è mai stato bambino.” Quindi, da parte di Stevenson, la frequentazione di questo genere è stato un atto volutamente regressivo. Pensiamo anche a uno scrittore così diverso come Dickens, che parla di scioperi, di problemi sociali, di governi: ma quand’è che Dickens è Dickens? Quando parla di bambini, quando parla di orfani, quando lui stesso torna bambino. Non penso solo a Oliver Twist o a David Copperfield, ma anche al suo racconto più famoso, il Racconto di Natale, in cui Dickens si è trasfuso in Ebenezer Scrooge, questo vecchio cattivo, misantropo, acido, che però ci commuove perché, quando vede se stesso bambino e capisce che è diventato così perché era un bambino sempre solo, che nessuno invitava a giocare, dà luogo a una grande trovata dello scrittore: noi ci commuoviamo, lui no. Lo vediamo solo nell’aula, mentre tutti stanno fuori a giocare e lui si dice: “Già, chissà perché me ne stavo tutto solo nell’aula? Forse mi andava così.” Noi ci commuoviamo, lui lo trova normale. (Questo tema regressivo, questa esuberanza del motivo infantile è anche il motivo per cui la letteratura libera l’inconscio e più lo libera quanto più è sorvegliata. Personalmente, ritengo che il più grande regista dei nostri tempi sia stato Kubrick perché, notoriamente perfezionista, ha fatto dei film – tranne l’ultimo, che gli perdoniamo – che sono dei cristalli, eppure sono i film più conturbanti e liberatori d’inconscio che io riesca ad immaginare, che fra l’altro è anche il motivo per cui ieri abbiamo parlato dei Pink Floyd e della loro classicità).
W. N.: Da una parte ci sono le letture d’infanzia, la lettura come momento determinante, che arriva a compensare anche alcune carenze affettive: letture private, dunque, che formano e accompagnano un ragazzo anche quando è cresciuto. Queste letture disegnano un albero genealogico personale che nel tuo caso comprende Conrad, Melville, Stevenson, London. Dall’altra ci sono le letture imposte dall’ambiente in cui si vive. Un fatto che raccontavi ieri, ossia che i Pink Floyd all’epoca in cui “erano i Pink Floyd” non ti interessavano, mi spinge a pensare alle nostre idiosincrasie e quindi a ciò che noi scegliamo rispetto a ciò che invece l’ambiente in cui viviamo ci propone e talvolta ci impone. A tuo parere, quale rapporto c’è fra le letture libere e quelle che ci troviamo a fare, quelle imposte dalla scuola, dall’università?
M. M.: Devo confessare che un’angoscia dell’influenza ce l’ho, fortissima, ed è quella della moda, del conformismo. Vedere che tutti leggono un libro mi dà un fastidio tale (una specie di aristocratico dispetto) che quel libro non lo leggo, e magari lo leggo vent’anni dopo, dicendomi: sì, in effetti non valeva niente; o al contrario: era un capolavoro, però al momento non mi sentivo di prenderlo in mano. E’ andata così con i Pink Floyd. Io non facevo nulla di quello che facevano i miei coetanei, e il fatto che tutti i miei coetanei comprassero gli album di questo gruppo ha fatto sì che io non li ascoltassi mai. Poi, dopo, la vita mi ha portato a colmare questo errore, perché è stata una mia perdita. Ma per fortuna, anche se tardi, ho colmato la lacuna. In ogni caso questo ritardo, questa sfasatura, è per me condizione ineludibile per appropriarmi di qualcosa.
Per ciò che riguarda le letture che “bisogna fare” devo dire che è difficile distinguere il confine tra ciò che la scuola impone e ciò che la scuola propone, gettando semi che possono dar frutto a seconda di dove vanno a cadere. Mi ricordo che al liceo ho avuto la fortuna di avere un bravissimo professore di italiano che quasi provocatoriamente finiva la lezione, senza alcun rapporto con ciò che aveva appena detto, dedicando gli ultimi tre, quattro minuti a mitragliare titoli di libri aggiungendo: “Dovreste leggerli”. E noi, come stenografi velocissimi, cercavamo di scrivere quanti più titoli possibile. Poi, naturalmente, non c’era il tempo materiale di leggerli tutti. Io facevo del mio meglio in una rincorsa continua, e per questo ho letto libri meravigliosi. Poi sono diventati quasi dei passaggi obbligati, perché negli anni Settanta non si poteva non aver letto Cent’anni di solitudine, ma nel 1973 non era ancora così scontato. Quel professore ci ha fatto leggere La città e i cani quando Vargas Llosa non era per niente conosciuto, vale a dire quarant’anni prima del Nobel. Ci ha fatto leggere Cosmo di Gombrowicz! Così anch’io nella mia prassi, sia insegnando al liceo, sia poi all’università, ho cercato di imitarlo. Durante una lezione sulle Grazie del Foscolo, per esempio, a proposito dei bestioni vichiani che vengono toccati dall’epifania delle Grazie, cito La macchina del tempo di Wells, con la città dei Morlocks, sottoterra e degli Eloj, sopra. E poi cito Metropolis, il film che Fritz Lang ha tratto da questo libro. Cito poi 2001: odissea nello spazio, perché l’apparizione del monolite è come l’epifania delle Grazie, perché da quel momento i bestioni non sono più tanto bestioni… Allora mi accorgo, dalle facce più o meno sgomente, che 2001 di solito è stato visto solo da alcuni, ma che già Metropolis quasi nessuno l’ha visto, e La macchina del tempo davvero nessuno l’ha letto. Allora impongo questi film e testi come compito. Gli studenti svegli si adeguano, tutti gli altri no. Io certo non andrò poi a controllare. Il mio compito pedagogico si esaurisce con il gettito dei semi: che ognuno ne faccia poi quello che vuole.
Voglio però tornare un attimo sulla questione del sostegno e della sicurezza che la tradizione può offrire a uno scrittore. In Fantasmagonia ho inserito un breve racconto fantastico sui fratelli Grimm, in cui immagino che oltre a Jakob e a Wilhelm ce ne siano altri due nascosti, segreti. Siccome questo racconto, come ambientazione storica e geografica, richiama un certo tipo di letteratura gotica primo-ottocentesca, immediatamente ho scritto: “All’alba di una fredda mattina del 18** (con gli asterischi, come si usa spesso nei romanzi di avventura), due gentiluomini percorrevano in carrozza la foresta dell’Assia, una delle più rigogliose foreste di querce…” Poi quest’estate per caso sono stato nell’Assia ed ho scoperto che non c’è neanche una quercia. Questo per dire che certe frasi: “Due gentiluomini percorrevano in carrozza…”, “Sul far del mattino, nell’anno…” sono soglie, attacchi rituali che hanno a che fare con certi attacchi altamente rituali dell’epica: “Cantami o diva”, “Io canto…” oppure, più prosaicamente, con gli attacchi delle fiabe. Quando il bambino sente il genitore che comincia con “C’era una volta…”, altro che beneficio dell’influenza, lì è la beatitudine dell’influenza, perché il bambino sa che sta per cominciare quel bel momento che è la fiaba. Provate a fare l’esperimento inverso. Provate a raccontare la fiaba di Pollicino col tono di un articolo di economia del “Sole24Ore”, e viceversa, leggete lo stesso articolo di economia cominciando con “C’era una volta” e con la vocina impostata, e questo diventa una fiaba. Se voi dite: “C’erano una volta gli eurobond…” il bambino non capisce niente, ma resta incantato. La letteratura è fatta anche di queste cose. E queste cose, se hai letto tante fiabe, tanti gialli, se hai visto tanti western, ce le hai, ti vengono spontaneamente. Sempre, al momento di un incipit, la memoria letteraria mi ha soccorso, anche se in modo subliminale e filologicamente indistinto: come gli spezzoni di frase che cito in Otto scrittori [da Tu, sanguinosa infanzia] e che non avrei saputo né saprei dire da chi mi venissero, se da Melville o da Conrad o da Salgari o da Stevenson o da Poe o se li avessi inventati io alla loro maniera. Certo, direte, è istinto di scrittore: sì, ma è un istinto che è stato alimentato ed educato lettura dopo lettura, questo dico per esempio nelle scuole di scrittura a studenti che vorrebbero diventare scrittori senza il necessario bagaglio di letture.
W. N.: Penso che la cassetta degli attrezzi ciascuno se la dovrebbe costruire da solo, guadagnandosi uno dopo l’altro i ferri del mestiere. A volte ho invece l’impressione che queste scuole forniscano il repertorio di attrezzi per scrivere un racconto pulito, o un romanzo ben fatto, un romanzo che spesso è in costume anche quando parla del presente, anzi soprattutto se parla del presente perché è un romanzo che rischia di essere costruito in maniera stereotipata. Ma vengo alla domanda. C’è un’attività in cui un autore si scopre e dice qualcosa di sé, qualcosa che a volte non emerge per intero dalle sue opere: nella traduzione. Penso a Celati, che viene indicato come il caposcuola di un movimento emiliano che ha tutta una serie di discepoli e di epigoni. Celati come studioso ha tradotto molto spesso autori lontani, programmaticamente lontani dalla sua espressione. Poi, nei saggi che ogni volta scrive come introduzione a queste traduzioni, emergono invece degli elementi di ricerca fortemente autobiografici, una cosa che si è vista a più riprese nella sua carriera e che dice molto di questa sua scelta.
So che stai traducendo L’isola del tesoro di Stevenson. Non c’è dubbio che si tratti di uno dei testi che fa parte del tuo Pantheon personale. Cosa si mette in gioco in questa attività?
M. M.: Qui veramente non so come rispondere. Nel senso che sono a metà dell’opera, e devo anche dire che è un’impresa che non ho mai condotto prima per un’estensione di pagine e di tempo così grande. Soprattutto sono in una fase di prima traduzione molto veloce, per mantenere lo slancio e l’entusiasmo, riservandomi poi tutta una fase di controlli, soprattutto terminologici. Certo, la cosa è imbarazzante, perché il romanzo lo so praticamente a memoria; l’inglese di Stevenson è uno di quelli che conosco meglio, sicché a volte traduco in modo quasi automatico. Questo ha i suoi vantaggi, perché dà slancio, ma anche i suoi svantaggi, perché può produrre qualche sciatteria, qualche opacità. Certo, essendo io un lettore che, prevalentemente – con poche eccezioni legate all’inglese e al francese, ma in modo molto discontinuo – ha fondamentalmente letto in italiano, credo di avere un imprinting italocentrico, panitaliano, per cui anche un’esperienza di traduzione mi lascerà prigioniero delle convenzioni e dei ritmi dell’italiano. Come quando ho avuto a che fare con Céline, perché pur avendo cercato di leggerlo in francese, il Céline che è passato nei miei libri è quello di Caproni, di Celati, di Guglielmi. A proposito di Céline, volevo aggiungere una cosa riguardo ai tabù, alle cose che si possono dire o non dire. C’è stato almeno un caso nella mia vita di scrittore, coincidente col romanzo Rondini sul filo, in cui ho affrontato una materia che adesso non voglio illustrare, ma comunque scabrosa per me, una vicenda di ossessione e di psicosi che ho scritto da autore ma anche da personaggio, perché il protagonista del libro si chiama Michele Mari, per cui non è che mi sia nascosto molto. Ebbene questo libro scabrosissimo (al limite dell’indicibilità, della non trasportabilità sul piano artistico) ho incominciato a scriverlo con la voce di Céline, o meglio di Bardamu, una voce sincopata, furibonda oppure lagnosa, argotica, frantumata, spesso sgrammaticata, che finisce quasi sempre con i puntini di sospensione. Ho deliberatamente scritto un romanzo “alla maniera di Céline” perché in questo modo non solo mi sentivo protetto, ma mi sentivo anche esaltato, autorizzato a dire di più, a peggiorare il mio quadro in uno stravolgimento iperbolico-espressionistico. Come se io dovessi parlare della corruzione italiana nelle amministrazioni pubbliche o negli ospedali, e non sapendo da che parte incominciare mi mettessi a parlare, con tutti i suoi tic e le sue gag, come Alberto Sordi quando fa l’italiano marpione, il medico della mutua. O come se mi mettessi a fare Totò. La maschera, del resto, nella commedia dell’arte ha funzionato così. Arlecchino poteva parlar male del Doge perché era Arlecchino, non avrebbe potuto dire le stesse cose col nome e cognome di un panettiere o di un cavaliere. Ecco, io ho potuto “dire” questa materia con la penna e con lo spirito di Céline, e credo che questo romanzo, per quanto mi riguarda, sia riuscito. Ho sentito, alla fine, un perfetto collimamento. La voce di Céline non è stata refrattaria, non ha lasciato fuori nulla di ciò che volevo dire.
Capisco di aver fatto un discorso molto autoreferenziale, avendo perlopiù parlato dei benefici della letteratura su di me. Alzando il tiro, non posso non parlare del libro che più tutti ha tematizzato la condizione di miseria e splendore del letterato isolato, Auto da fè di Elias Canetti. Peter Kien, il protagonista di questo libro è un dio nella sua biblioteca, ha tutti i libri, conosce tutte le lingue ed è signore del sapere. La sua creazione è la sua biblioteca, dalla quale guarda gli uomini come cimici, come vermi, ed è felice, è sovrano. Nel momento in cui si lascia tentare nel mondo, quando commette l’errore fatale di dare udienza prima a una cameriera, poi a un portinaio e rischia l’avventura mondana, da genio diventa un inetto, che non può più parlare le mille lingue della sua libreria, ma è costretto a balbettare i dialetti sboccati del mondo, quindi viene deriso, sputacchiato e fa un’orrenda fine. Ecco, io a volte mi sento così. Quando sono nel mondo, per strada, in metropolitana, nel treno, mi sento un po’ come Peter Kien. Mi sento in esilio, in un mondo brutto, esteticamente disgustoso, un mondo in cui non c’è più una vecchia bottega, una vecchia trattoria, perché tutto ha sempre il bisogno di rinnovarsi oscenamente. Un mondo in cui la gente continua a votare diversamente da come voterei io, un mondo in cui l’università è sempre più allo sbando, un mondo sempre più inquinato, cialtrone, ignorante. Ritorno in me solo quando sono fra i libri, come diceva Machiavelli quando si rinchiudeva nel suo studiolo. E senza quel beneficio, senza quel coro di voci libresche, Machiavelli sarebbe stato triturato dal mondo, esattamente come Kien. Capita poi, miracolosamente, che attraverso la cristallizzazione formale un artista restituisca al mondo i propri dolori e le proprie debolezze in termini di energia. Quante volte ero convinto di aver consegnato ai miei lettori qualcosa di disperato, e mi sono sentito dire che avevo scritto un romanzo o un racconto divertente! Per quanto sconcertante è una cosa lusinghiera, perché in effetti i grandi scrittori della tragicità, come Gadda e come Céline, sono anche gli scrittori più divertenti che abbia mai letto. A proposito di disarmonia e armonia: alcuni anni fa uscì un libretto che se fosse stato scritto con la necessaria levità e ironia sarebbe stato perfetto; invece era stato concepito con serietà e articolato con pedanteria; scritto da Alain de Botton, si intitolava: Come Proust può cambiarvi la vita, un libro che consisteva in una specie di centone, di massime tratte dalla Recherche. La premessa – in sé indiscutibile – era: come è possibile che Proust, che ha avuto una vita così disgraziata, così ferita, così bloccata, piena di ansie e di malattie immaginarie, abbia dispensato nella Recherche tante massime di saggezza olimpiche, auree? Evidentemente dovette compiere uno straordinario lavoro di alchimia su se stesso per ricavare il bene dal male. Allora perché sprecare tanto lavoro, visto che l’ha fatto per noi? Prendiamo le massime. E invece ne è venuto fuori un libretto che grida vendetta, perché sembra veramente di sentire parlare Madame Verdurin.
Io non ho mai creduto che l’arte, e tantomeno la letteratura, migliori il mondo. Quando ci furono i roghi nel 1933, a Berlino, si era in presenza di una grandissima letteratura, sia a livello scientifico, sia a livello narrativo (noi ce la sogniamo), eppure sappiamo la fine che hanno fatto i libri in quella circostanza. Non credo che i libri salvino il mondo, credo che i libri possano rendere più interessante, più vibrante la vita di una persona, ma possono anche renderla più fragile. Conosco molte coppie che hanno figli “tirati su” allo stesso modo, e non lontani di età: uno grande lettore, sensibile, introverso; l’altro, una capra. E tutti, tutti, mi dicono che la capra è molto più felice del lettore. Allora, cosa devo dire? Onestamente, cosa devo dire?
W. N.: D’accordo, spesso i libri sono considerati poco concreti, sono visti come uno strumento di evasione. Certo non producono un mutamento materiale immediatamente misurabile, ma incidono sulla nostra percezione nella misura in cui mutano le categorie che impieghiamo per interpretare il mondo: ad esempio l’aggettivo “kafkiano” che menzionavi prima identifica una realtà molto presente e molto chiara, anzi molto più chiara oggi di quanto non lo fosse allora. I romanzi insegnano una diversa forma di attenzione, un certo sguardo sulla realtà. Anche pensando solo ai lettori, come valuti, oggi, questo tipo di influenza?
M. M.: In questi anni ho cercato di far leggere a mio figlio, ora diciassettenne, un po’ di libri. Con risultati devo dire abbastanza deludenti, perché più che sbuffare non faceva. Quando ha letto L’isola del Tesoro era palesemente scocciato, ed è arrivato a dirmi (bestemmia delle bestemmie) che è meglio Il giovane Holden! Di tutti i libri che ha letto quelli che lo hanno colpito di più, al punto che mi ha perfino ringraziato, sono stati Fahrenheit 451 e 1984. Mi ha anche detto: ora ho capito perché il Grande Fratello si chiama Grande Fratello… Adesso, fortunatamente, guarda la trasmissione in modo negativo e critico, anzi non la guarda più, e questa è già una grande vittoria: mia e della letteratura, ma poi sua.
W. N.: Possiamo dire che i libri incidono prima di tutto sull’immaginario. Producono un mutamento rilevante perché l’immaginario è parte della nostra vita, e le esperienze dell’immaginario valgono a volte quasi tanto quanto le esperienze che noi diciamo “realmente accadute”. Del resto, quest’espressione andrebbe interpretata, perché anche i desideri in qualche modo accadono. Restando in questo ambito e cogliendo alcune sollecitazioni del pubblico, ti chiederei quale sia il tuo parere sulle riduzioni, trasposizioni, adattamenti dei romanzi, da quelli cinematografici, televisivi, a quelli a fumetti.
M. M.: Naturalmente mi è capitato di leggere un racconto, trovarlo poi trasposto e restarne deluso, che è quasi la norma, ma anche il contrario: Lolita di Kubrick, ad esempio, mi sembra infinitamente meglio del libro di Nabokov. In ogni caso penso che le filiazioni e i rifacimenti, le trasposizioni da un linguaggio all’altro, testimonino della vitalità di una storia, di un personaggio. Ho parlato di giganti, di montagne. Se ci abituiamo a pensare al panorama degli scrittori come ad una successione di valli, pianure, colline, abbiamo una specie di set, è un po’ come trovarsi nella Monument Valley dove John Ford ha girato quasi tutti i suoi western. Certo, quella valle è segnata. Ora noi vediamo quel monumento e pensiamo a Ombre rosse. Naturalmente i registi di oggi, se dovessero fare un western, andrebbero ovunque tranne che lì. Io invece, se un produttore mi coprisse di soldi per fare un western (uno dei grandi sogni della mia vita), andrei a farlo proprio lì, non fosse che per il piacere feticistico della continuità.
W. N.: Gli studenti, e non parlo solo di quelli più giovani, chiedono spesso di confrontare la conoscenza tratta dalla lettura con quella originata dalla viva esperienza della strada, del quotidiano, mostrando la tendenza a sottovalutare quella nata sui libri in quanto percepita come meno significativa. Per discuterne bisognerebbe prima di tutto chiarire il concetto di esperienza, perché i due casi in realtà non sono poi così lontani, ma anche al di là di questo, credo si possa dire qualcosa sul rapporto fra esperienza personale e ciò che si scrive, che forse è percepito in modo troppo romantico.
M. M.: Bisogna capire quanto per ciascuno di noi, in sede di elaborazione fantastica, conti la propria esperienza. Faccio un esempio. Salgari, senza avere la minima esperienza dei viaggi di mare e degli strangolatori del Gange, ha passato la vita in un buco squallido, prima a Verona, poi a Torino, a scrivere romanzi esotici mirabolanti. La sua esperienza era composta da atlanti, riviste, traduzioni: ma soprattutto dal ribollire della sua stessa mente. Poi c’è chi ha viaggiato come un dannato e ha scritto delle porcheriole, per cui si è visto che l’esperienza pratica non è poi così decisiva. E poi c’è chi, come Conrad, ha fatto l’uno e l’altro: ha viaggiato tutta la vita, ma ha scritto anche capolavori. Io vorrei rispondere in modo obliquo alla domanda perché, se penso alla mia, di vita – così rispondo con cognizione di causa – non ho fatto grandi esperienze nel senso del romanzo di iniziazione, del romanzo di avventure, della grande tradizione romanzesca sette-novecentesca. Ho fatto pochi viaggi, la mia vita non ha avuto molti sconvolgimenti materiali, a parte qualche terremoto familiare. Soprattutto ho fatto tutto tardi, ormai fuori tempo. Fino ai trent’anni la mia è stata una vita da studioso, anzi da monaco. Però, foss’anche solo per le migliaia di film visti, non ho mai sentito di avere un’esperienza povera a cui attingere: al contrario ho sempre avuto l’impressione di avere perfino troppe sollecitazioni, troppe cose che urgevano e sgomitavano per essere messe sulla pagina. Così come ci sarà chi per tutta la vita ha fatto l’avventuriero, il capo di stato, il rivoluzionario, chi si è sposato diciotto volte, chi è evaso come il Conte di Montecristo, e poi però (o proprio per questo) non sentirà il bisogno di scrivere, di rielaborare, di trasfigurare. Dobbiamo comunque sgombrare il terreno da un equivoco. Io ho giocato tanti anni a calcio, prima di ritirarmi per non finire nel patetico. Ho giocato a discreti livelli, con molto agonismo, e nel momento in cui non sono stato più in grado di mantenere quello standard, poiché non mi interessava giochicchiare, ho preferito smettere. Per me giocare a pallone è stata, soprattutto in certi anni, un’esperienza così piena e totalizzante – nel senso che vivevo ogni partitella con gli amici come una finale di Champions League – che tutto si bruciava nell’attesa, nel rituale della vestizione, nella partita, nel senso di svuotamento successivo, nel ripensare alle belle cose fatte, nel tormentarsi per le brutte. Proprio per questa pienezza, io mai – a meno che mi pagassero cifre stratosferiche – scriverei un racconto su una partita di calcio. Perché l’ho già vissuta. Di cosa potrei scrivere in un racconto su una partita di calcio? Posso scrivere dei palloni del signor Kurz [racconto incluso nella raccolta Euridice aveva un cane], di bambini che cercano di giocare a calcio ma non ci riescono perché c’è una specie di presunto uomo-ragno-mostro che sequestra i palloni e tutti si chiedono chi sia. Poi, uno dei più ardimentosi decide di provare a scalare il muro che divide il campetto dalla casa del mostro, e scopre che c’è una specie di museo dei palloni in cui i palloni non sono persi ma sono tesaurizzati, museificati. E’ un racconto di morte, di rinuncia, da cui risulta che le cose possono essere belle se cristallizzate, e cristallizzate solo se tolte dal flusso della vita. Ma se io sono vivo e voglio vivere e vado a giocare a pallone, sto nel flusso e mi infango. Anche Machiavelli nella famosa lettera del 10 dicembre 1513 al Vettori dice: sto tutto il giorno a gavazzare, a giocare a carte, divento bestia fra le bestie, litigo per un quattrino, mi ubriaco. Sfoga le sue frustrazioni, ma si distrae e passa il tempo. E vive. Poi finisce il momento della vita, torna a casa, si ripulisce, si mette abiti “reali e curiali” e si mette a sfogliare i classici. Quello è il mondo della cultura. Non saprei dire quale dei due Machiavelli fosse più contento, sospetto quello che giocava in trattoria. Dice che rinasce come un fiore, come l’araba fenice dalle sue ceneri, quando ritorna ai libri. Sono due modi diversi di felicità, di gratificazione, ma il Machiavelli ingaglioffito non parla di Plutarco, e il Machiavelli che parla di Plutarco si è dimenticato della trattoria e dei gaglioffi. Quindi, parlando di esperienza: io gioco a calcio e per me la letteratura non esiste in quel momento. Vorrei essere Maradona, non Proust. Poi torno a casa e vorrei essere Proust e non Maradona, perché sono fra i miei libri. Sarà una visione un po’ schizofrenica, ma per me non può essere diversamente.
[Immagine: Michele Mari].
Quest’intervista andrebbe stampata e distribuita in tutte le scuole. Sarebbe una bellissima semina.
Grandioso Michele Mari! Serve aggiungere altro? Parole che andrebbero divulgate nelle scuole italiane di ogni ordine e grado.
Sarebbe molto più giusto che la bella intervista di Mari la leggessero quelli che pensano che per scrivere dei bei libri basta parlare della terra dei fuochi (anche perché questa è un’intervista per scrittori, cosa c’entrano le scuole? mah…).
@Dinamo: c’entra perché mi pare che l’intervista ruoti attorno all’importanza della lettura e all’universo creato dai libri (dei “maestri”), principalmente.
Pezzo davvero folgorante, grazie! Anche secondo me, che sono stata insegnante per più di trent’anni, testo utilissimo per le scuole. A tratti mi sono perfino commossa per la verità del discorso. Si sa, a una certa età ci si commuove facile, ma in questo caso ho sentito sfiorate corde intime.
Eccome se la scuola c’entra! Dovrebbe essere la scuola a proporre e costruire un buon rapporto con la lettura. Troppo spesso invece la lettura viene “imposta” nella maniera sbagliata.
Eccezionale. Queste pagine andrebbero davvero distribuite ai ragazzi degli istituti superiori. Ma anche semplicemente divulgate da noi lettori tra gli amici..i conoscenti…i colleghi…. Perchè non esistono interviste “solo” per scrittori. Esistono interviste che arricchiscono chi le legge. Scrittori studenti o gente che per caso passa di qui….
Così si aiutano gli altri a comprendere. E a migliorare. Bravo Mari, davvero.
Stella Magni, la mia era una semplice constatazione nata dall’analisi di un testo erudito, iper-letterario e settoriale; per il resto la pace, l’uguaglianza e l’abbraccio tra i popoli ce li auguriamo tutti.
Mi permetto di far notare dallo scemo spatentato abbonato all’ultimo banco o a scorrazzare fuori dai cortili scolastici quale sono che mi sembra sopravvalutate enormemente studenti e (soprattutto) professori. Questa intervista è una bella testimonianza per gente che si interessa febbrilmente di letteratura e scrive e quindi ha piacere nel leggere i processi creativi e le opinioni critiche di un bravo scrittore come è Mari. Che poi brani del genere meriterebbero una visibilità maggiore è una proposta che si dovrebbe fare al sistema editoriale che notoriamente è quello che calibra i propri contenuti sul gusto del grande pubblico. Vedete che vi rispondono.
Ricordo che qualche anno fa mi capitò di leggere in una città del nord una frase di Balzac riportata come motto di una manifestazione culturale che si intitolava “Duemilalibri”: “Una notte d’amore è un libro letto in meno”. A mio giudizio, tale frase non rendeva giustizia né al grande autore della letteratura universale che l’ha concepita e scritta né alla stessa manifestazione di cui costituiva l’epigrafe, poiché il suo senso, ponendo la lettura in relazione inversa con la copulazione, piuttosto che incoraggiarla, la lettura, sembrava invitare ad una diversa attività sostitutiva.
D’altronde, è difficile negare che uno slogan che suoni in questi termini: “Fate di più l’amore e leggete meno libri”, appaia particolarmente congeniale all’edonismo postreaganiano di una destra catodica modellata sul prototipo populista e subculturale, se non dei barbieri (sia detto con il massimo rispetto verso questa benemerita categoria di artigiani), del “Grande Fratello” o dell’“Isola dei famosi”. Circostanza, questa, che legittimava la supposizione, davvero inquietante, che il vero messaggio che si intendeva comunicare con la citazione balzacchiana fosse quello che logicamente traspariva sotto traccia, e che suonava in questi termini: “Leggete più libri e farete meno all’amore”.
Orbene, il programma di quella “Settimana del libro e dell’autore” era lo specchio fedele della “transizione da una repubblica antifascista a una repubblica afascista”, cui attendevano alacremente il governo e le varie amministrazioni di centrodestra, fra le quali si segnalava quella della città in questione, che era la promotrice e l’organizzatrice della suddetta manifestazione. La quale si apriva – a quanto ricordo – con l’intervento del giornalista neofascista Buttafuoco, proseguiva con il ‘pamphlet’ anticomunista e anticinese di un certo Respinti, nonché con il libello antipartigiano della Carofigli, e, alternando autori locali e nazionali, collocava, quale ciliegina sulla torta, per la verità dal gusto più amaro che dolce, la partecipazione del ministro Gelmini, la cui foto, che la ritraeva con un sorriso smagliante (ma che cosa ci sarà stato di così divertente nel demolire la scuola pubblica?), faceva bella mostra di sé tanto nei ‘dépliant’ quanto negli opuscoli che, all’insegna di un’operazione smaccatamente propagandistica e filogovernativa, erano stati distribuiti nelle scuole.
Sennonché, dato che il ministro avrebbe parlato sul seguente tema: “I libri e la scuola: rapporto fecondo ma difficile”, veniva spontaneo chiedersi, da ultimo, se tra la citazione di Balzac e questo “rapporto fecondo ma difficile” non esistesse una qualche misteriosa affinità o segreta continuità. Stai a vedere che i tagli alla scuola pubblica avevano lo scopo latente e non dichiarato di contribuire alla ripresa demografica di questo paese…
Michele Mari credo che sia davvero il miglior poeta che ci sia adesso in circolazione in questo paese. Eppure dagli accademici non ne sento molto spesso parlare, e mi riferisco al Mari poeta e non al romanziere. qual è il motivo? anche nei blog che mi capita di visitare, e ci metto anche questo, la linea generale è sempre la stessa, e così tutti i commenti che seguono: De Angelis, Benedetti e tutti quegli altri che ruotano attorno.. visti ogni volta come portatori di verità universali. Insomma questo è un mio punto di vista ma mi piacerebbe molto se i poeti ricominciassero a fare un po’ più i poeti e un po’ meno i filosofi.
Senza definire il significato di tradizione, attorno a essa si può dire di tutto e il contrario di tutto. Nell’articolo è evidente che l’autore si riferisce a quella che è un tradizione esclusivamente propria alla letteratura, e non quella che sottende la conoscenza nel suo aspetto universale. Benché ogni cultura si trovi a essere su un piano diverso da quello riempito dalla Consapevolezza dei princìpi universali metafisici, nessuna cultura che ambisca alla comprensione della totalità della realtà relativa può non darsi, come obiettivo, la sintesi univoca alla quale solo i princìpi universali possono condurre, e quei princìpi sono la base di appoggio della Tradizione nel suo senso più elevato. Tradizione che è comunicazione dell’esprimibile alle orecchie delle intelligenze individuali, o trasmissione dell’inesprimibile a quelle sovra individuali caratterizzate da intelligenze di ordine universale. Dunque non si tratterà più di disquisire sulla molteplicità dei mezzi di esposizione utilizzabili dalle diverse culture, ma di farlo attorno alla qualità principiale dei valori universali a quelle culture associati.
Ha ragione Carlino, si dovrebbe dare più spazio a Mari poeta. Non a tutti gli accademici Ladyhawke è dispiaciuta, al contrario: ma è vero, in molti si sentono come colti in fallo ad ammetterlo.