di Rino Genovese
Nonostante gli sforzi, non ce la facciamo proprio a unirci allo sdegno morale per la violenza nelle manifestazioni di piazza, quando questa sia rivolta contro le cose e non contro le persone. Prendere di mira le vetrine di banche e negozi, dare fuoco alle auto in sosta, mettere a soqquadro le strade di una città non sono – non sono mai stati nella storia dei movimenti di massa – peccati gravi, tutt’al più veniali. Ma se una grande manifestazione, che ha i suoi obiettivi, intende svolgersi mediante un corteo pacifico, terminare con un comizio, o con incontri tematici in forma di assemblee, allora l’organizzazione di questa manifestazione è tenuta a isolare i violenti, cioè quelli che possono di fatto scompaginarla e disperderla. Pensare che non ci siano le frange estreme, o anche i provocatori, è una grande ingenuità da parte degli organizzatori di una manifestazione. È in primo luogo sulle loro spalle che ricade la responsabilità degli incidenti: per non essere riusciti a rendere marginali, ed eventualmente a espellere, quelli che vanno in piazza con scopi diversi. Non è possibile, infatti, invocare ex post l’intervento delle forze dell’ordine – che fanno il loro mestiere repressivo spesso in modo nient’affatto egregio -, perché questo vorrebbe dire rinunciare all’autonomia del movimento, che invece è tenuto anzitutto a difendersi da sé.
Detto questo, chi sono i “black bloc” che hanno impedito la manifestazione del 15 ottobre a Roma, arrogandosi il diritto di fare, da minoranza sia pure numerosa, di testa loro? Rispondere a questa domanda non è difficile. Infilarsi un casco e un giubbotto nero, presentarsi in piazza organizzati per “rompere”, con le bottiglie incendiarie e il resto, è una pratica diffusa, ormai a livello internazionale, nei gruppi giovanili anarchici o post-autonomi, uniti dalla volontà di un dissenso radicale nei confronti dell’ordine sociale neoliberista. Non si tratta, come nella rivolta delle banlieues in Francia qualche anno fa, di pura e semplice jacquerie urbana, sia pure con una capacità di durata (gli incendi notturni nei quartieri sensibili intorno a Parigi si protrassero per molte settimane); non si tratta, cioè, di una rivolta spontanea di giovanissimi usciti dal mondo dell’immigrazione: e di conseguenza non c’è quella miscela veramente esplosiva tra il momento sociale – la vita delle periferie fatta di disoccupazione ed emarginazione – e la riscoperta di un’identità etnica post-coloniale. No. Qui si tratta di gruppi, a loro modo politici, di giovani capaci di mobilitarsi e autoconvocarsi attraverso i nuovi media. A dispetto dei loro travisamenti, infatti, sono in realtà ben noti a tutti. E si può anche sapere in anticipo, o lo si può abbastanza facilmente prevedere, quando si muovono per scendere in piazza in modo pacifico e quando in modo violento. È una politica, per quanto distruttiva possa sembrarci, che prende le vesti di una rivolta sociale: non è un’autentica ribellione spontanea. Prove ne siano la puntualità e la velocità organizzate con cui la violenza appare e scompare.
Ciò, soprattutto in Italia, conoscendo il tessuto anche culturale di questo paese, presenta delle caratteristiche un po’ paradossali. Si sa che nel Belpaese lo Stato sociale è in gran parte delegato alle famiglie. Come potrebbero ancora reggere i giovani precari e disoccupati senza il sostegno delle famiglie, sebbene i loro risparmi si stiano a poco a poco assottigliando? In un articolo pubblicato dal Manifesto il 6 luglio scorso, sostenevo che in Italia non sarebbe mai potuto accadere quello che è avenuto a Madrid, dove i giovani hanno occupato in modo permanente una piazza tenendola per un lungo periodo. Una vera “indignazione” in Italia non è possibile, perché prevale il controllo sociale dell’istituzione familiare sui giovani. Alla luce di quanto è successo ieri a Roma, mi sento di confermare questo giudizio. Fare una manifestazione e disperderla provocando incidenti, o farsela disperdere da minoranze organizzate, è ben altra cosa da un’indignazione alla spagnola. È il prevalere di un “mordi e fuggi”, di una discontinuità del movimento, composto più da gruppi politici in competizione tra loro che da individui senza altra scelta se non quella di scendere in piazza. È, in un certo senso, l’altra faccia del populismo mediatico e leghista che ancora tiene stretta a sé una parte consistente del paese.
(già apparso su «Il Ponte», www.ilponterivista.com).
Sullo stesso argomento invito a leggere il commento di Barbare Spinelli apparso oggi su Repubblica on line.
Tuttavia trovo questo tipo di interventi pericoloso, laddove si scrive Lo trovo pericoloso perché mi puzza un po’ di caccia alle streghe, non nelle intenzioni dell’autore del pezzo probabilmente. Ma i tempi, pare, sono quelli che sono e credo che sia importante non essere così vaghi sull’utilizzo del web. Non tutti i “ggiovani” che si parlano sul web fanno parte di questi gruppi (smettiamo di chiamarli black bloc). Rimando a questo articolo, che, pur nella sua ingenuità e pur non essendo in toto condivisibile, può spiegare un po’ meglio quello che intendo. http://www.letteraviola.it/2011/10/lettera-aperta-dei-black-bloc-a-voi-pacifisti-dedichiamo-un-vaffanculo-testo/
saluti.
Purtroppo nel messaggio non risulta il pezzo che ho copiato e incollato, che era questo:
Qui si tratta di gruppi, a loro modo politici, di giovani capaci di mobilitarsi e autoconvocarsi attraverso i nuovi media. A dispetto dei loro travisamenti, infatti, sono in realtà ben noti a tutti. E si può anche sapere in anticipo, o lo si può abbastanza facilmente prevedere, quando si muovono per scendere in piazza in modo pacifico e quando in modo violento.
Francamente trovo eccessivo scrivere: sono ben noti a tutti. Francamente trovo pericoloso scrivere: si può sapere in anticipo. Mi sa davvero tanto di legge Reale.
Sono molto d’accordo sulla prima parte dell’analisi, il fatto che la mancanza di servizio d’ordine non possa essere un peccato veniale, ma, anzi, aggiungo, qualcosa che costringe a riflettere sul concetto ambiguo e finto-buonista, ai nostri giorni, di spontaneismo (del resto, ne ho scritto anche da me).
Sulla natura dei gruppi violenti e sull’impossibilità di una indignazione in Italia, credo che ci siano anche altre componenti – prima tra tutti (e ancora una volta in Italia la situazione è peculiare) questa tendenza superficiale a una indignazione senza passi avanti, che altro non è, forse, che l’ennesimo travestimento del plebiscitarismo ottocentesco da cui prende avvio il concetto stesso di nazione.
L’unica perplessità vera, forse, è sull’inizio. Capisco il senso della distinzione tra violenza alle cose e violenza alle persone. Tuttavia…
Grazie comunque per questa analisi lucida e piena di questioni su cui dibattere.
“Nonostante gli sforzi, non ce la facciamo proprio a unirci allo sdegno morale per la violenza nelle manifestazioni di piazza, quando questa sia rivolta contro le cose e non contro le persone. Prendere di mira le vetrine di banche e negozi, dare fuoco alle auto in sosta, mettere a soqquadro le strade di una città non sono – non sono mai stati nella storia dei movimenti di massa – peccati gravi, tutt’al più veniali”
Ecco, questo passaggio riassume un modo di pensare che non potrò mai condividere. Se la vetrina spaccata, la macchina bruciata, addirittura la casa bruciata, fossero le sue, lei considererebbe tali atti peccati veniali? Le auto distrutte non appartengono solo a ricchi manager o a imprenditori che guadagnano milioni, ma anche e soprattutto a gente normale che fatica ad arrivare alla fine del mese.
Ognuno ha le sue opinioni politiche, grazie a dio, ma proprio non concepisco questo atteggiamento. Devastare le cose altrui è poca cosa se non si fa male a qualcuno? Mi permetta di dire che è una logica fuori dal mondo. Ripeto, se fossero sue le cose distrutte come la penserebbe? Sarebbe così disposto ad accettare e a catalogare come “peccati veniali” o “cose da poco”?
Io condivido le motivazioni della protesta, ma ritengo che fino a quando ci si libererà di queste “convinzioni” non si potrà andare molto lontano.
errata corrige alla penultima riga: “fino a quando non ci si libererà”
Il tipo e le modalità della “violenza” del 15 ottobre a Roma, ossia quando la violenza non è insurrezionale, fanno gioco al sistema. Diatti, il risultato “politico” immediato sono state le invocazioni di una nuova legge Reale (ricordo che quella “vecchia” aveva dato alle forze di polizia la facoltà di sparare sulla gente al primo sospetto), da parte di certi tribuni del “ppoppolo” – che dimostrano così la loro vera caratura – e il divieto di Alemanno di fare manifestazioni a Roma per un mese (perché poi per un mese? mah). E non è escluso che dietro una parte almeno di quella “violenza” ci sia stata una accorta regia politica, come ci fu a Genova nel 2001, col via vai di incontri delle alte cariche istituzionali dello stato – oggi anche all’opposizione – con le alte cariche delle forze dell'”ordine”.
D’accordo nel distinguere tra violenza alle cose e violenza fisica alle persone, credo sia una distinzione elementare, soprattutto quando ci si dimentica che noi tutti cittadini dello Stato italiano siamo stati e siamo in guerra in Yugoslavia, Irak, Afghanistan, e oggi in Libia, che ci piaccia o no, perché l’unico modo per tirarcene fuori oggettivamente (e non per salvarci l’anima soggettivamente affermando la nostra – peraltro sempre più rara – contrarietà) sarebbe quello di cambiare nazionalità e continente.
I movimenti attuali dovrebbero fare un bel seminario definitivo sul concetto di violenza e le sue modalità “consentite”. Ma definirla a livello teorico non basta, perché poi nei fatti la violenza resta il nodo scorsoio stretto attorno al collo dei movimenti. Così è stato a Genova, dove i movimenti si sono sbriciolati sullo scoglio della “violenza” di quei giorni, e se ne sono tornati ciascuno al loro ovile, chi nelle parrocchie, chi nelle sedi di partiti “rivoluzionari”, chi in centri sociali e marce di Assisi e Tavole per la pace. Speriamo che quel copione non si ripeta oggi, e che i movimenti si dimostrino più maturi. Perché la posta in gioco non è roba da poco.
Abbiamo dato un forte messaggio con le elezioni amministrative, lo abbiamo ribadito e sostanziato con il referendum, i pochi grandi saggi superstiti del panorama italiano (Draghi, Napolitano, decido di citare confindustria e non i sindacati,…) hanno dichiarato che stiamo rovinando il futuro dei nostri figli (e la maggior parte degli italiani ha pensato che parlassero dei figli degli altri -io non ne ho ma sono molto preoccupata-) e la nostra classe politica cosa ha fatto? I fatti suoi e a noi continua a riservare una quantità di esposizione mediatica con dichiarazioni senza pudore che dovrebbero avere solo l’effetto di offenderci e indignarci.
E allora perchè ci meravigliamo se alcuni, senz’altro una minoranza, non credono più alle manifestazioni democratiche e pacifiche?
Ho letto sull’Internazionale – non ricordo più esattamente scritto da chi- che questa sarà una lotta tra chi non ha niente da perdere e chi ha tutto da perdere e, giusto per non lasciare nulla alla fantasia, questi ultimi siamo noi. Questa impotente e spaesata borghesia italiana che ha sempre avuto paura di decidere, che ha distolto lo sguardo quando le folle iniziavano a seguire il pifferaio magico non sdegnado di raccogliere qua e la quel che si poteva (e -devo aggiungere sottovoce perchè non amo le attenuanti – sempre snobbata dagli intellettuali di sinistra che, spero sia chairo a tutti, hanno le mani sporche più degli altri-)
Sarà la lotta tra padre e figlio senza però nessuna componente inconscia e simbolica. Sarà il figlio che brucerà la macchina del padre. Ma, prevedibilmente, saranno entrambi a perdere. Nel frattempo c’è chi aspetterà che passi, e a costo di essere brutale, voglio chiarire che non saremo noi
Non approvo nè condanno ciò che è avvenuto a Roma, ma ne prendo atto perchè credo stia arrivando il momento in cui la famiglia non avrà più le energie, la possibilità economica, la statura morale per sostituirsi allo Stato sociale.
Un possibile modo per arginare questo tipo di reazioni violente è forse quello di “annacquarlo” in una grande manifestazione oceanica che richieda a gran voce riforme scomode ma necessarie e sia così numerosa da riuscire a tacitare i singoli corporativismi che tanto hanno nociuto al nostro paese. Realismo e idealismo potranno mai convivere?
http://leonardo.blogspot.com/2011/10/perche-non-fanno-le-br.html
La lucidità, in politica, è tutto. Aprire un’analisi sui fatti del 15 ottobre reputando la violenza contro le cose un “peccato veniale” è assenza di lucidità. Le cose non sono solo i diritti che le persone hanno su di esse, e nei confronti di altri; sono anche, spesso, “il lavoro delle mie mani” (Locke), il legame diretto tra la persona e la faticosa costruzione del suo mondo. Il problema di questa violenza è quindi sia etico-giuridico (lo sdegno contro la violenza) sia politico (la funzione di quella violenza nel processo politico). Non tenere conto di entrambi i piani, nell’analisi, è un gesto estetizzante.