cropped-image.jpgdi Maria Borio

[Questo saggio è uscito negli atti del convegno Identità/diversità (Pacini 2014)].

A UN GIOVANE
«Non son colui, non son colui che credi.»
«E altro da veder che tu non vedi.»
(Inf. XIX, 62 e Inf. XXIX, 12)

Franco Fortini, 1985 [1]

1. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento la poesia italiana attraversa una delle sue fasi più interessanti. Sereni, Zanzotto, Risi, Giudici, Sanguineti raggiungono la maturità creativa negli anni Sessanta e pubblicano raccolte che contraddistinguono quel periodo come uno dei più fecondi per la lirica del Novecento. Allo stesso tempo, si formano i giovani poeti che scriveranno le loro prime opere nel corso del decennio successivo, spezzando ogni concezione ideologica di forma e di stile. Si sviluppa un rapporto complesso di identità\diversità tra la generazione dei padri e la nuova, che può essere rappresentato simbolicamente dall’uscita di Satura nel 1971: da un lato è messo in discussione il lirismo tragico del modello montaliano fino ad allora recepito e, dall’altro lato, il modo di leggere e interpretare la tradizione diventa sempre più elastico. Per comprendere questa fase di passaggio, può essere utile affrontare il rapporto tra due autori fondamentali per la poesia contemporanea, Franco Fortini e Milo De Angelis. La diversità apparente tra le loro opere si rivela, infatti, ricca di intersezioni profonde, che possono essere documentate attraverso le tappe della loro amicizia e che testimoniano l’incontro, più o meno conflittuale, tra due generazioni: quella che precede il Sessantotto e quella che lo segue.

In un’intervista del 1980, Fortini descrive il suo atteggiamento con gli studenti che erano nati negli anni Sessanta parlando di una comprensione emotiva più difficile di quella che c’era stata con la generazione precedente; aggiunge, però, che poteva esserci «meno nevrosi reciproca» e la possibilità di una comunicazione meno tesa e più produttiva[2]. Anche l’amicizia tra Fortini e De Angelis va letta in questa prospettiva, secondo uno slittamento dal ruolo di padre al ruolo di insegnante. Milo De Angelis incontra per la prima volta Fortini a Milano nel 1969: ha diciotto anni, è iscritto alla terza G del Liceo Berchet ed ha un rapporto burrascoso con il suo professore di italiano, Francesco Leonetti, che aveva fondato, insieme a Pasolini e Roversi, «Officina» ed era iscritto al gruppo milanese di «Servire il popolo». Le lezioni di Leonetti erano ispirate a un marxismo radicale: a un giovane come De Angelis, per nulla entusiasmato dalle rivoluzioni materialiste del Sessantotto, apparivano vicine all’indottrinamento. «Parlare di Pavese o Nietzsche con lui era impossibile», ha raccontato De Angelis[3] che, nel 1969, aveva già scritto il nucleo originario del suo primo libro, Somiglianze (1976)[4], e cercava una personalità intellettuale con cui potersi confrontare proprio sulla base di quelle prime poesie. Leonetti gli presenta Fortini, che insegnava dal 1966 in un istituto superiore milanese e aveva iniziato da qualche anno la collaborazione con Mondadori. Prende avvio un intenso rapporto. De Angelis ricorda una grande generosità da parte di Fortini: si fermava con scrupolo sui suoi testi, analizzava i dettagli, suggeriva soluzioni ed esercizi. Frequenti erano le discussioni sulla letteratura. De Angelis, ad esempio, attaccava la predilezione per Volponi, Roversi, Di Ruscio e il fatto che Fortini riducesse Campana ad un epigono di Rimbaud. Da parte sua, Fortini non si riconosceva nell’apprezzamento per Piovene e per Pavese. Nei confronti dello scrittore delle Langhe, però, non c’era un atteggiamento di rifiuto radicale e, ancora oggi, De Angelis suggerisce che la distanza tra i due poteva essere stata una conseguenza delle riserve di Pavese verso Foglio di via, come testimonia la stroncatura per l’eccesso di retorica partigiana. In fondo, esisteva una forte somiglianza caratteriale tra Pavese e Fortini, perché entrambi erano caratterizzati da una profonda severità tragica: «Pavese era un uomo fortiniano come severità»[5]. Punto d’incontro era Sereni, di cui sia Fortini sia De Angelis non condividevano l’inclusione nella linea lombarda di Anceschi, riconoscendo che la complessità sereniana non poteva essere livellata secondo il riferimento ad una poesia totalmente in re, oggettuale e referenziale, senza considerare gli aspetti di interiorizzazione psichica che la farebbero appartenere ad una linea lombarda più tragica, che va da Manzoni agli Scapigliati, da Testori ad Antonia Pozzi.

Nel 1974 un gruppo di testi di De Angelis sarebbe dovuto uscire sull’«Almanacco dello Specchio» con prefazione di Fortini che, però, si rifiuta di presentarli (la silloge, con il titolo L’idea centrale, uscirà sull’«Almanacco» nel 1975 con prefazione di Barberi Squarotti). Nello stesso anno Fortini invia a De Angelis un biglietto in cui sostiene la necessità di troncare il loro rapporto. Il contesto in cui si verifica questa rottura è quello post-Sessantotto. De Angelis, che non aveva mai aderito alle istanze ideologiche e collettivistiche del movimento, si era infatti spinto verso un recupero romantico ed assolutizzante della poesia. Questo non significava che non riconoscesse la necessità di una ‘rivoluzione’, ma rifiutava la carica sovrastrutturale e politicizzata di quella rivoluzione. La rivoluzione doveva essere avvertita come un «pericolo» che genera trasformazioni profonde del sentire individuale e sociale, che tocca i nuclei più fondativi dell’individuo e non si risolve solo in un discorso politico. Le parole d’ordine e le domande di appartenenza gli sembravano scatole vuote, formulate per un giudizio che non tiene in considerazione l’«esserci intellegibile rivoluzionario»[6], ossia la presa di coscienza più autentica di quello che il movimento sessantottesco stava generando – non solo nella politica e nei costumi, ma anche nella dimensione individuale, dell’interiorità, dello spirito. Quella rivoluzione che stava determinando trasformazioni culturali irreversibili, tragicamente nuove, come nota anche Fortini nel 1975 parlando della Milano post-Sessantotto: «Il tipo di grinta tragica che Milano ha indossato dopo il ’69, a partire dai duecentomila in piazza per le vittime alla Banca dell’Agricoltura, questo stillicidio di attentati, di morti, di conflitti, tutto questo ha rinvigorito il tono politico e culturale della città. Lo ha drammaticamente rinnovato»[7].

Anche Fortini rifiutava l’impostazione dottrinale del Sessantotto e coglieva le contraddizioni del movimento, tra cui la fede nell’ideologia marxista con frequente elusione dello storicismo dialettico del marxismo[8]. Non poteva, però, non avanzare riserve di fronte ad un’idea di poesia che, affondando nel romantico e nell’irrazionale, rappresentava ai suoi occhi un «pericoloso cedimento all’esistenzialismo»[9], un disconoscimento radicale del valore della storia, dell’impegno civile, della funzione umanistica della letteratura. Nel 1977, quando De Angelis partecipa alla redazione di «Niebo», Fortini si fa ancora più critico. Parla infatti di «rivista di classe», riducendo il suo messaggio ad una posizione sociale da cui diffidare, senza considerare le ragioni profonde che ne avevano stimolato la realizzazione: soprattutto la reazione all’annientamento dei valori dell’arte perpetuato dall’ideologia più radicale del Sessantotto, che aveva prodotto risultati letterari mediocri, ma che, con la sua adesione a un romanticismo orfico e eminentemente irrazionalistico, segnava uno dei confini del successo della scrittura materialista a sfondo politico ampiamente diffusa in quegli anni.

I rapporti tra Fortini e De Angelis riprendono solo un decennio più tardi. Inizia un dialogo sui testi di Paesaggio con serpente (1984), di cui De Angelis non capiva la necessità di alcuni versi troppo edificanti, come gli ultimi due della poesia La buona notte: «il cranio assorto dell’insonnia / che non parla ma guarda»[10]. La loro vicinanza si rafforza soprattutto dal 1991, durante l’elaborazione di Composita solvantur (1994), quando Fortini inizia ad avvertire che la ratio della verità della storia era molto più fallace e imprendibile rispetto ai lucidi entusiasmi di Poesia e errore (1957) e Una volta per sempre (1962), cui fanno da pendant le prose di Dieci inverni (1957) e di Verifica dei poteri (1962). Del materialismo fortiniano sopravvive il versante più dialettico e complesso che lo porta ad avvertire la possibilità di interrogare il fondo enigmatico dell’esistenza: la poetica dell’esemplarità allegorica si affievolisce e la dimensione del lirismo tragico si fa molto più cupa.

2. Attraverso le fasi di questo rapporto intenso e polemico si possono già intuire le ragioni che portarono De Angelis a riconoscere in Fortini un modello con cui instaurare un dialogo complesso, che non si riduceva a parole d’ordine e domande di appartenenza. La personalità individualistica e irrequieta di De Angelis, in cerca di una pronuncia autentica che provenisse dalle regioni profonde dell’io, ma che portasse con sè anche la testimonianza dell’esperienza vissuta e il problema della sua resa formale, trovava in Fortini una delle voci che, nel clima sessantottesco e dei primi anni Settanta, continuava a difendere la letteratura come pratica esperienziale e comunicativa totalizzante, in opposizione alle riduzioni materialistiche, settoriali, eversivo-tecnocratiche e scientistiche della poesia o, sul versante opposto, aristocratico-orfiche e spiritualistiche[11]. Quando Fortini afferma, nel saggio Astuti come colombe, che «è sogno del passato pre-elettronico» che «la lettura debba proporsi come discorso universale, quindi umanistico»[12], in realtà attacca con ironia quella scrittura che si occupa di fabbrica e di società pretendendo di assurgere a letteratura con valore politico costruttivo la specializzazione settoriale e l’attenzione per la scevra oggettività dei contenuti. Proprio per la specializzazione settoriale e per la mancanza di un’attenzione dialettica ai fenomeni della realtà, questa scrittura rappresenta invece solo l’illusione di un discorso etico e sociale davvero edificante. Anche per questo, Fortini criticava le prese di posizione e lo sperimentalismo della Neoavanguardia, privi – a suo avviso – di una vera «capacità dirompente nei confronti delle ideologie dominanti», che è posseduta solo dalle opere con un «carattere di profonda inattualità e ferrea conclusione»[13] – quelle opere, cioè, che riescono a fissare un legame tra la particolarità dialettica dei contenuti e l’universalità di un significato che le trascenda.

L’aspirazione a una totalità fondata su una dialettica di opposti, che Fortini eredita da Lukács e che va ben oltre le categorizzazioni ideologiche del Sessantotto, rappresenta un elemento di grande fascino per il giovane De Angelis, il quale poteva trovare un punto di incontro con la sua idea più percettivo-sensoriale e psichica di totalità, che richiamava in particolare le teorie di Blanchot, di cui De Angelis traduce L’Attente, l’oubli che uscirà nel 1978[14]. Inoltre, una lettura problematica come quella che Fortini diede all’antologia Poesie e realtà di Majorino (1977)[15], era per De Angelis una conferma ulteriore del fatto che la letteratura non potesse essere riportata meramente alla realtà oggettiva: quella del boom economico, ad esempio, che nella visione di De Angelis rischia di ridursi a sociopolitica e risulta interpretabile solo sul piano della cultura storica, dei quotidiani, dell’informazione. Esiste anche la realtà della tensione percettiva, quella per cui affermare, con Majorino, che Mallarmé sia un poeta «privato» e Majakovskij un poeta «pubblico»[16] significa annientare una totalità dialettica in nome di una ideologia parziale.

3. In Fortini la totalità va di pari passo con l’idea di un’essenza tragica della poesia, che è fondamentale anche nella poetica di De Angelis, in cui viene traslata dal discorso storico-sociale fortiniano a un discorso con una marca esistenzialista e viene interpretata sulla scia di Nietzsche. Nei testi di Fortini, il nucleo tragico è reso attraverso due elementi chiave: il simbolismo cosciente e la contrapposizione. La definizione di simbolismo cosciente proviene da Hegel ed è usata da Fortini per descrivere lo stile lirico di Brecht. «Il simbolismo cosciente – dice Hegel – è quello che non solo ha coscienza del significato ma che pone espressamente una distinzione tra questo e la sua rappresentazione». In questi termini, lo stile abbreviativo ed epigrafico di Brecht assume un significato preciso e opposto rispetto ai cortocircuiti dell’analogia surrealista: «la differenza – scrive Fortini – è nel fatto che lo choc del cortocircuito è, nell’analogia surrealista, possibile per chiunque […] partecipi del senso comune; mentre lo choc dell’abbreviazione brechtiana può essere avvertito solo da chi, almeno per un attimo, partecipi di un’ideologia specifica»[17]. Il simbolismo cosciente è assimilabile all’allegoria fortiniana, secondo la quale la realtà oggettiva e apparente si carica sempre di un valore storico e ideologico ulteriore. Nella poesia La gronda, ad esempio, il movimento di una rondine che spicca il volo da una grondaia affissa a una trave marcia diviene figura del presentimento della caduta improvvisa e irreparabile del capitalismo e della sua ideologia (vv. 9-13):

Scopro dalla finestra lo spigolo d’una gronda,
in una casa invecchiata, ch’è di legno corroso
e piegato da strati di tegole. Rondini vi sostano
qualche volta. Qua e là, sul tetto, sui giunti
e lungo i tubi, gore di catrame, calcine
di misere riparazioni. Ma vento e neve,
se stancano il piombo delle docce, la trave marcita
non la spezzano ancora.

Penso con qualche gioia
che un giorno, e non importa
se non ci sarò io, basterà che una rondine
si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti
irreparabilmente, quella volando via. [18]

Inoltre, sempre parlando di Brecht, Fortini riconosce in lui un poeta che «nel momento stesso in cui carica il suo testo di una energia provocatrice di scandalo e persuasione, aggiunge la forza diagrammatica di un’altra energia, quella della contrapposizione nuda, polare, fra positività e negatività, morale e civile, fisica e metafisica, essi e noi, quelli e tu»[19]. La contrapposizione è l’altro polo dell’essenza tragica nella poesia di Fortini, che si esplica straordinariamente in Questo muro (1973), raccolta-cerniera tra la prima fase della sua poesia e la seconda, di cui De Angelis assistette alla genesi proprio negli anni in cui scriveva i testi di Somiglianze. «La dialetticità innerva la poesia di Questo muro assolutamente ad ogni livello»[20]: c’è la contrapposizione allegorica e parabolica tra il mondo dei giovani e quello dei vecchi; tra la de-realizzazione del presente e l’invocazione del futuro, da un lato, e la certezza dei valori della storia, dunque del passato dall’altro lato; tra la natura-idillio e la natura distrutta dalla tecnologia; a livello logico-linguistico, tra enunciato e enunciato, tra coppie di testi in cui il secondo rettifica o invera il primo, tra un lessico della realtà e uno della mente. Ma la contrapposizione riguarda anche quelle che Raboni chiama le «voci di Fortini poeta», che compongono la «raffinata partitura» pluristratica e dialettica del libro: «dalla compattezza metafisico-artigianale dell’inno alla concisione “cinese” (o brechtiana) dell’epigramma; da una discorsività spettrale […] a una scrittura “automatica” […] che ribadisce la singolare connessione esistente fra certi modi fortiniani e la grande lezione surrealista»[21].

L’essenza tragica dei testi di Somiglianze si sviluppa in dialogo con il simbolismo cosciente dell’allegoria di Fortini e con il sistema dialettico di Questo muro. Nella realtà percettiva di Somiglianze la contraddizione si esplica in ogni fenomeno, facendo confluire in un unico stato la vita oggettiva e la vita psichica. Il dato referenziale con funzione allegorica, ad esempio, è recuperato dal metaforismo di De Angelis e stravolto in colate analogiche in cui si fondono esperienza e visione, come possiamo leggere nel primo movimento del testo Dove tutto è in relazione (vv. 1-15), che è un controcanto metaforico del dato referenziale stigmatizzato nel distico di chiusura (vv. 26-27), in cui si può forse avvertire anche l’eco della prosaicità secca e cronachistica di Marino Moretti spogliata della sua aura crepuscolare (il rinvio più immediato è all’incipit di A Cesena, «Piove. È mercoledì. Sono Cesena», in Il giardino dei frutti, 1915[22]):

Essendo stati chiamati
non è mai buio, qui,
ma è sempre più tardi, in mezzo
ai doveri, sui tram, immergendosi tra i cappotti
con le cose da finire, tutte le cose.
E anche adesso la pioggia
sui vetri lucidi
Non può essere né natura né storia
ma un episodio
che ogni inverno sa ripetere
vivente e circolare
mentre tutto esigeva una presenza diversa
che crede a ogni cosa
senza ripassarla, una cellula leggera,
sorriso del luogo giusto…
[…]
Via Pacini. Piove, sempre di più.
Qualcuno mi ha chiesto l’ora.[23]

La gronda e Dove tutto è in relazione sono l’esempio di due modi di rappresentare la tensione drammatica del simbolismo cosciente: letti in comparazione, mettono in scena una disposizione chiastica tra i contenuti oggettivi e il loro svolgimento simbolico (contenuti oggettivi: La gronda, vv. 1-8 – Dove tutto è in relazione, vv. 26-27; svolgimento simbolico: La gronda, vv. 9-13 – Dove tutto è in relazione, vv. 1-15). In altre poesie di De Angelis, però, l’influenza fortiniana è, a livello stilistico, molto più esplicita. In Le sentinelle, ad esempio, si nota un uso del procedimento sottrattivo che caratterizza Questo muro rispetto alle prime raccolte di Fortini, soprattutto per quanto riguarda l’uso degli aggettivi, rastremati verso un’essenzialità scandita e corrosiva. Le verbose analogie preposizionali dei testi di Somiglianze vengono qui ridotte. I versi dell’ultimo movimento (vv. 11-14), ad esempio, appaiono sentenze definite e asseverative che trasmettono la tragicità dell’evento narrato e lasciano in secondo piano le dinamiche percettive irrazionalistiche dei primi due movimenti:

Compiendo il gesto dove il fiume è profondo
nemmeno così, con i sonniferi
e il panico, si potrà far vedere qualcosa
a quelli che non l’hanno mai vista
durante la loro, lontana, e questa notte
che stanno guardando

in una lingua imprestata,
senza un solo atto imperativo,
si tengono in disparte
con parole, simboli di seconda mano,

parlano ma senza svelare l’inizio
hanno fatto dell’altrove un tempio abitabile
nella penombra lungo i burroni
si ritraggono dalla morte per scortarla.[24]

Subito evidente il contrasto tra i verbi al gerundio, che aprono il campo alla sospensione e all’indugio visionario («compiendo», «guardando»), e i verbi all’indicativo dell’ultima parte («parlano», «hanno fatto», «si ritraggono»), che sembrano risolvere e chiarire le sospensioni semantiche precedenti. Tra queste, il nodo analogico al verso 5 («durante la loro, lontana, e questa notte»), in cui l’aggettivo isolato a metà verso tra due virgole e la congiunzione paratattica che segue, producono un cortocircuito visionario tra il primo e il secondo movimento della poesia. Inoltre, l’ultima parte del testo è spogliata completamente degli incisi («con i sonniferi / e il panico», «senza un solo atto imperativo», «con parole, simboli di seconda mano»), frequenti in Somiglianze, che corroborano il flusso emozionale e descrittivo, e lo rendono dominante rispetto a quello della narrazione. Seguendo il procedimento sottrattivo, gli ultimi versi sembrano svuotarsi all’improvviso, per fissare con forza icastica le suggestioni percettive precedenti nella scena.

Se alcune poesie di De Angelis introiettano, in parte, la logicità fortiniana che tende ad asciugare la carica sensoriale analogica, vi sono anche alcuni testi di Fortini in cui l’eredità della lezione surrealista, in accordo con le percezioni associative di Somiglianze, appaiono funzione essenziale del discorso poetico. Un testo come Il seme, ad esempio, ha un’intonazione lirico-meditativa basata sull’incontro tra una comunicazione primaria e una comunicazione rimandata e ricostruibile, concentrata nelle punte d’intonazione visionaria, come il movimento finale, in cui la partitura dei versi è data da quattro proposizioni apparentemente slegate, che rappresentano l’esperienza scioccante della morte del padre e i suoi effetti sulla sfera psichica dell’io:

Caduti i cartocci giù
le foglie luccicano come piccioni
della magnolia altissima. Sotto i cedri
dove la luce del pomeriggio è fitta
vedo l’erba crudele acida profonda
e l’interrogazione ritorna
ai colpi di vento e si curva
si divide ritorna ma dicono i merli di no
camminando o fermi.

Mio padre
s’inteneriva della propria morte
udendo l’allegretto della Settima.
Negli angoli dove c’è a marzo maceria
con gran pianti i bimbi seppellirono
gli uccelli caduti dal nido. Ma nulla
sa più di noi e discorre da sola
coi suoi corni e le trombe la musica
tra questi muri sudati.
In luogo di lui ci sono io
o mio figlio o nessuno.

Tutti i fiori non sono che scene ironiche.
Ormai la piaga non si chiuderà.
Con tale vergogna scenderò
i seminterrati delle cliniche
e con rancore.
Non ancora è luglio
non ancora scaldato asciutto assoluto
il seme. [25]

Le proposizioni, pur nell’incastro appositivo in cui si avvicendano, mantengono un’integrità che evita sospensioni sintattiche violente. Inoltre, la serie aggettivale analogica del penultimo verso («scaldato asciutto assoluto», v. 27), che richiama circolarmente quella del primo movimento («crudele acida profonda», v. 5), è forse l’unico segmento del testo in cui si accenna una fusione completa tra dato oggettivo e dato psichico che però non si integrano mai del tutto, come avviene invece in De Angelis. Tendono piuttosto a corrispondersi attraverso l’allegoria, che stabilisce correlazioni e un limite diacritico alla fusione percettiva dei rispettivi campi semantici, come per i versi 13-15 («Negli angoli dove c’è a marzo maceria / con gran pianti i bimbi seppellirono / gli uccelli caduti dal nido»), in cui è tracciata la rappresentazione allegorica del sentimento di morte del padre ed è suggerita una riflessione critica sul rapporto tra la narrazione dei tre versi precedenti («Mio padre / s’inteneriva della propria morte / udendo l’allegretto della Settima») e la percezione psichica visionaria che segue.

L’incontro tra tensione drammatica e dinamiche percettive è svolto da Fortini con un’attenzione per la funzione etico-umanistica del testo, che si esplica con una decisa angolatura intellettuale del suo lirismo tragico. Il simbolismo cosciente e la contrapposizione sono strumenti di uno scavo sull’individuo e sulla società, in cui la visione critica tende ad essere sempre eminente rispetto alle ragioni psichiche. De Angelis si concentra su un’esplorazione della coscienza, di come la realtà interviene sulla percezione e influenza il modo di sentire e di capire. L’io di De Angelis appare il riflesso analogico di un profondo flusso emotivo, che apre la sintassi e la semantica per adattarla alla sua percezione dialettica con il mondo. In Fortini, invece, è un medium tra la funzione etica del suo discorso e l’azione critica che squadra i versi in immagini e figure esatte, come nella Gronda, per le quali il lirismo tragico si fonda su una tensione dialettica molto più perentoria rispetto a quella di De Angelis, psichica e sensoriale. In queste diverse posizioni si nota un suggestivo rispecchiamento di identità e di diversità che segna l’evoluzione del lirismo tragico canonico – così come era stato fissato da Fortini, da Sereni, ma soprattutto dai primi tre libri di Montale – verso una sua rappresentazione più fluida, aderente alle intermittenze dei sensi oltre che a una volontà di strutturare il testo in forma lirica con impianto narrativo o argomentativo. Somiglianze è un libro carico di una tensione rivoluzionaria profonda: non ha nulla a che vedere, direttamente, con le spinte ideologiche del Sessantotto, ma introietta la percezione di quelle spinte in una tragicità dialettica che corrode le delimitazioni figurali dei suoi modelli lirici.

4. De Angelis isola una rosa di poesie di Fortini fondamentali per la sua formazione: La gioia avvenire (da Foglio di via), La partenza (da Una volta per sempre), Il seme, Deducant te angeli (da Questo muro), La promessa, La buona notte (che De Angelis conosceva ben prima della pubblicazione di Paesaggio con serpente nel 1984, in cui sono confluite)[26]. Sono testi in cui emerge il versante esistenzialista di Fortini e in cui si rispecchia indirettamente la poetica di Somiglianze. L’aspirazione a una totalità che rappresenti il reale in modo dialettico e l’essenza tragica della poesia, esplicata soprattutto attraverso il simbolismo cosciente e la contraddizione, legano il discepolo al maestro, pur nelle reciproche diversità, e fanno da barriera sia contro gli sperimentalismi settoriali sia contro l’espettorazione irrazionalistica. Anche grazie al confronto con Fortini, De Angelis ha potuto incanalare il suo individualismo romantico, notturno e drammatico verso l’elaborazione di una scrittura che rappresenta l’esperienza vissuta, la sua realtà percettiva e il problema della sua forma, ereditando il lirismo tragico di autori come Sereni e Montale – che viene fuso con la visionarietà di Campana, Rimbaud e con il pensiero nietzschiano -, e interpretando in maniera organica i fermenti irrazionalistici post sessantotteschi.

Alla fine degli anni Settanta, Fortini parlava della poesia dei giovani come di una forma di autoanalisi, una presa di coscienza individuale o di gruppo: «si scrive per farsi leggere da chi a sua volta scrive: ecco perché alle nuove generazioni basta un ciclostilato oppure il testo di una canzone per intendersi. È sufficiente ritrovarsi insieme e leggere ad alta voce i propri versi. Si tratta, in sostanza, di una forma di autoaffermazione psicologica»[27]. Fortini descrive bene un fenomeno che aveva rotto i principi di stile e forma poetica, liberando il campo a una libertà espressiva che segue il mito dell’immediatezza e dell’autenticità[28], di cui gli impulsi dei giovani di «Niebo» o di certa poesia femminile esplosa in quegli anni rappresentano le intonazioni più profonde e irrazionali. Questa libertà si opponeva agli epigoni della Neoavanguardia, alle riformulazioni della lirica di Sereni, di Giudici, di Raboni (come in Cucchi), agli sperimentalismi linguistici su base psichica (come in Viviani), al manierismo nascosto in un sentimentalismo immediato ed ego-centrato (come in Bellezza), cioè a tutte quelle forme di scrittura che, in un modo o nell’altro, restano ancorate a principi riconoscibili di stile e di retorica.

Secondo Fortini, la società e il mercato producono da sempre una classe giovanile ribelle e immediatista che viene poi spremuta dalla ferocia del potere[29]. Tra gli anni Sessanta e Settanta il mercato avrebbe determinato l’indirizzamento della necessità di comunicazione dei giovani verso un delirio d’espressione per un’autoaffermazione psicologica e individualistica sempre più forte? Possiamo forse dar ragione a Fortini. L’individualità tragica di De Angelis non è stata assorbita da strutture ideologiche né da flussi collettivistici e li ha potuti interpretare, in parte, in modo organico. E’ uno dei primi esempi della formazione di quelle isole liriche monadiche che, dagli anni Settanta ai nostro giorni, cercano di tenersi a galla in un mare di scritture che spesso non riconoscono né la necessità di un’arte in cui siano salvaguardati i principi compositivi strutturali-estetici e comunicativi della letteratura, né la sua funzione critica e di mediazione.

Note

[1] Franco Fortini, A un giovane, in Id., L’ospite ingrato secondo, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di Luca Lenzini, con uno scritto di Rossana Rossanda, Milano, Mondadori, 2003, p. 1019.

[2] Cfr. Il tempo dei maestri e il tempo dei padri, «nuovo corriere senese», 19 novembre 1980, ora in Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 281.

[3] La ricostruzione dell’amicizia e del rapporto intellettuale tra Fortini e De Angelis si basa su parte dell’epistolario conservato nell’Archivio del Centro Studi Franco Fortini della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena e su una conversazione che ho avuto con Milo De Angelis a Milano nell’ottobre 2012. Tutte le citazioni dalla conversazione verranno indicate con la sigla MDA2012.

[4] Cfr. Milo De Angelis, Somiglianze, Milano, Guanda, 1976, ora in Id., Poesie, Introduzione di Eraldo Affinati, Milano, Mondadori, 2008.

[5] MDA2012, cit.

[6] Ibidem.

[7] Cfr. Franco Fortini, Nuova cultura a Milano, intervista a cura di Massimo Fini, «L’Europeo», 13 marzo 1975, in Id., Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Torino, Bollati Boringhieri, p. 155 (corsivi miei).

[8] Interessante, a proposito, l’intervista Niente antistoria, ho già pranzato… (di Enzo Golino, «Il Giornale, 22 ottobre 1974», poi in Franco Fortini, La distanza culturale. Intellettuali, mass media, società, Bologna Cappelli, 1980) in cui Fortini critica i fermenti del Sessantotto per la spinta verso il futuro che prospetta una perdita della memoria storica, in Id., Un dialogo ininterrotto, cit., pp. 146-149.

[9] MDA2012, cit.

[10] Ibidem.

[11] Cfr. Franco Fortini, Avanguardia e mediazione, in Id., Verifica dei poteri, Torino, Einaudi, 1962 (1969²), ora in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 105.

[12] Id., Astuti come colombe, in Id., Verifica dei poteri, cit., pp. 55-56.

[13] Id., Avanguardia e mediazione, cit., p. 95.

[14] Cfr. Maurice Blanchot, L’attesa, l’oblio, trad. it. e nota introduttiva di Milo De Angelis, Milano, Guanda, 1978.

[15] Franco Fortini, Trent’anni di scritture a altre realtà (recensione a Poesie e realtà ’45-’75, a cura di Giancarlo Majorino, Roma, Savelli, 1977), «il manifesto», 24 dicembre 1977, ora in Id., Disobbedienze. Gli anni dei movimenti. Scritti sul manifesto 1972-1985, Roma, manifestolibri, 1997, pp. 178-181.

[16] Ivi, p. 181.

[17] Id., Brecht o il cavallo parlante, in Id., Verifica dei poteri, cit., pp. 356-357.

[18] Cfr. Id., Una volta per sempre, Milano, Mondadori, 1963.

[19] Id., Introduzione a Bertold Brecht, Poesie e canzoni, Torino, Einaudi, 1959, ora in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 1351.

[20] Pier Vincenzo Mengaldo, «Questo muro» di Franco Fortini, in Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, vol. IV. II, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1996.

[21] Giovanni Raboni, Franco Fortini, in Letteratura italiana del Novecento. I contemporanei, a cura di G. Grana, Milano, Marzorati, 1979, pp. 8684-8686.

[22] Cfr. Marino Moretti, In verso e in prosa, a cura di G. Pampaloni, Milano, Mondadori, 1979.

[23] Cfr. Milo De Angelis, Poesie, cit., pp. 17-18.

[24] Cfr. Ivi, pp. 45.

[25] Cfr. Franco Fortini, Questo muro, Milano, Mondadori, 1973, pp. 36-37.

[26] MDA2012, cit.

[27] Franco Fortini, Una volta per sempre. Poesie 1938-1973: l’articolo è stato rintracciato incompleto e privo di fonte nell’Archivio Franco Fortini conservato nel Centro Franco Fortini della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena (Cfr. Id., Un dialogo ininterrotto, cit., pp. 217-218).

[28] Cfr. Id., Il mito dell’immediatezza, in «aut aut», 163, gennaio-febbraio 1978, in Id., Un dialogo ininterrotto, cit., pp. 206-215.

[29] Cfr. Id., Gioventù e mercato, in Id., L’ospite ingrato primo e secondo, Casale Monferrato, Marietti, 1985, ora in Id., Saggi ed epigrammi, cit., p. 1062.

[Immagine: Gabriele Basilico, Milano, Quartiere Isola, 1978 (gm)].

18 thoughts on “Franco Fortini, Milo De Angelis e la poesia degli anni Settanta

  1. @ Maria Borio

    Ho letto con molto interesse questo contribuito sui rapporti tra Fortini e De Angelis ( e le loro rispettive poesie). Trovo, però, abbastanza scontato che tra i testi poetici prodotti dai due – tra l’altro operanti nello stesso habitat culturale della Milano anni Settanta – ci siano sottili e sotterranee corrispondenze e influenze, al di là dei ruoli, delle differenze generazionali, delle rispettive impostazioni filosofiche e politiche. E fa bene ad evidenziarle e a studiarle.
    Tuttavia, mi chiedo: può bastare il rifiuto di entrambi per un certo immediatismo poetante post ‘68 o questo sotterraneo gioco dei reciproci influssi nello spazio – relativamente autonomo sempre – della poesia per avvicinare così tanto De Angelis a Fortini?
    Lo scontro tra i due avvenne *prima* o *a latere* del poetare. Avvenne sul piano storico-politico concreto (di quegli anni), letto diversamente dai due, come lei chiarisce. E la frattura tra loro restò insanabile, anche dopo, anche quando Fortini vecchio vide inabissarsi “la lotta per il comunismo”. A meno di non pensare che la nuova più “epocale” sconfitta lo abbia portato a dar ragione alla visione astorica e nicciana di De Angelis. (Secondo me, si continua a riproporre in altre forme ancora oggi).
    Le vicinanze (o le “fantasie d’avvicinamento”, per evocare Zanzotto, “antagonista-fratello” di Fortini, come De Angelis lo fu da “figlio”) possono tanto annebbiare o sfumare le distanze?
    Insomma, detto sbrigativamente, a me pare che lei sia portata a mettere troppo tra parentesi quel contrasto teorico-politico che ci fu tra i due.

  2. Se si cerca una figura di intellettuale che nella seconda metà del Novecento ha rappresentato la fusione organica tra ragione ed emozione, occorre volgere lo sguardo verso Franco Fortini. E che Fortini abbia incarnato, non meno nella sua saggistica che nella sua poesia, una tale fusione si può constatare proprio leggendo la sua ultima raccolta di versi, “Composita solvantur”, in cui, senza mai decampare dal dramma della storia in direzioni di pura evasione o di sterile introspezione, egli riesce ad andare oltre i confini del proprio Io, perdendo la propria anima nel magma incandescente della storia e sempre ritrovandola nel nitore della forma letteraria e nel rigore della razionalità dialettica. Ma qual era, se è possibile individuarlo e, una volta individuato, servirsene per misurare la distanza incolmabile dai poeti della generazione successiva, il filo conduttore che permetteva a Fortini di “componere soluta”? Io ritengo che fosse la capacità di collegare la critica spietata dell’esistente (il momento, per così dire, del ‘solvere’) con l’analisi positiva del presente (il momento del ‘componere’), tenendo sempre ben ferma la nozione agostiniana della memoria come presente del passato e presente del futuro.
    Certo, “Muses filles de mémoire”, ma anche “mères de l’avenir”: dunque, nulla di più dissonante rispetto alla cultura degli anni Settanta, ma anche nulla di più inattuale se confrontato con la cultura odierna, estremo precipitato di quegli “Adelphi della dissoluzione” e di quei “Cainiti” che, nutrendosi del riflusso e insieme alimentandolo, mossero i primi passi verso la fine degli anni Settanta.
    Se questo è il filo conduttore della tenace e pugnace ricerca di Fortini, non può destare alcuna meraviglia il fatto che questo grande intellettuale militante sia oggi sottoposto all’ostracismo. Ciò accade perché l’eredità che egli ci ha lasciato non è quella di una poetica, di una poesia e di una polemica da interpretare, ma quella di una poetica, di una poesia e di una polemica da applicare. Si tratta quindi di un’eredità quanto mai pericolosa per il potere ed estremamente impegnativa per chi intenda farla propria, perché non sollecita imitazioni prometeiche o degustazioni estetizzanti, ma una coraggiosa e ragionata scelta di campo.

  3. Trovo avvincente questo saggio per il modo in cui tratta il rapporto tra diverse generazioni di poeti. Anche questo richiamo a una rottura di relazioni e ad un successivo riappacificamento è molto calato nell’esperienza della vita di tutti i giorni. Che per il poeta e critico militante Franco Fortini non poteva non assumere i connotati dell’impegno civile e sociale, della trascinante passione politica e dell’ideologia. Più interiorizzata appare la poetica di Milo De Angelis, meno convinta di crolli improvvisi del capitalismo, da associare poi all’esperienza privata della morte del padre, come in Fortini. Notevole è poi l’intuizione di un rapporto con il filone tragico di un’ipotetica linea lombarda risalente al Manzoni. Letto in maniera laica e fuori da ogni visione provvidenzialistica della storia e anche nel valore lirico della sua poesia come è stato fatto in uno degli ultimi libri di Giovanni Macchia. La tragicità della storia può essere cantata in un disperato bisogno di relazione con gli altri, così come un grido disperato e isolato, ma non per questo meno significativo bisogno di espressione individuale.

  4. “Più interiorizzata appare la poetica di Milo De Angelis, meno convinta di crolli improvvisi del capitalismo” (G. Montorfano)

    Per un “giusto rapporto tra diverse generazioni di poeti” sarebbe utile non farsi sfiorare dall’idea che Fortini, uno che ha sempre sostenuto che “il socialismo non è inevitabile” ma solo *possibile* possa essere confuso con un teorico del crollo (addirittura improvviso!) del capitalismo. Così c’intenderemo meglio…

  5. Riguardo sia all’ipotesi concernente l’inserimento di Fortini nel filone tragico di una linea lombarda risalente al Manzoni sia alla correlativa lettura in chiave laica e non provvidenzialistica della visione storica dell’autore dei “Promessi Sposi”, è un passaggio obbligato il confronto con le 1.210 pagine dell’«Anticritica dei “Promessi Sposi”» di Aldo Spranzi, docente di Economia dell’arte presso l’università Bocconi di Milano: un libro monumentale in cui l’autore sostiene, argomentando il suo schema interpretativo incentrato sulla figura-chiave della monaca di Monza e sottoponendo i loro commenti del capolavoro di don Lisander ad un vaglio sistematico, che i maggiori critici italiani (dal De Sanctis al Croce, da Momigliano, Russo e Sapegno ad Angelini e Getto, da Bàrberi Squarotti, Asor Rosa e Raimondi a Pampaloni, Spinazzola e Sanguineti) non hanno capito che i «Promessi Sposi» sono un romanzo ateo, nichilista e anticristiano, il cui vero protagonista è l’odio (in tal modo, fra l’altro, la “troppa religione” presente nel romanzo, che già Moravia denunciava come insopportabile, viene cancellata con un sol colpo, giacché, secondo il nostro anti-critico, le figure ecclesiastiche, di cui il romanzo è fittamente popolato, sono in realtà del tutto prive di contenuto religioso e, in particolare, di contenuto cristiano). Certo, non intendo sottoscrivere ognuna delle tesi sostenute da Spranzi, il quale a volte, non per la tesi ma per l’atteggiamento, ricorda un po’ quei commoventi maniaci che si affànnano a denunciare certi errori commessi da Newton nella formulazione delle leggi della dinamica. Ciò nondimeno, l’ostracismo e la denigrazione con cui i barbassori della critica accademica (e, in particolare, quelli che rappresentano la cultura cattolica) hanno risposto all’«Anticritica» dello Spranzi, oltre a rendermi assai simpatico quest’ultimo, mi appaiono alquanto sospetti e rivelano, fra l’altro, una grave mancanza di onestà intellettuale.

  6. Ringrazio tutti per la lettura di questo lavoro che è nato a partire da un dialogo tra me e Milo De Angelis avvenuto nell’autunno del 2012 a Milano. Ennio Abbate mi scrive che l’analisi tralascia gli aspetti teorico-politici del rapporto tra Fortini e De Angelis. Il punto è che, nei momenti più significativi di questo rapporto (cioè fino alla metà delgli anni ’70, perchè poi Fortini si allontana), la politica è una questione molto marginale. Ampliare il discorso in tale direzione avrebbe potuto distorcere la natura del lavoro, che cerca di approfondire alcuni nuclei fondativi della scrittura, un dialogo ‘essenziale’ tra i due – così come Milo De Angelis me l’ha testimoniato. Fortini è una figura complessa, c’è un Fortini politico-militante e un Fortini intellettuale-tragico che vanno di pari passo, ma che non necessariamente, per un lettore, devono essere sempre la stessa cosa (perdonatemi la sintesi semplicistica): a De Angelis interessava il secondo, nella poesia di De Angelis si possono trovare le tracce del secondo. Grazie ancora a tutti.

  7. “a De Angelis interessava il secondo, nella poesia di De Angelis si possono trovare le tracce del secondo” (Borio)

    Non me ne voglia, ma lei fa la critica o la spalla di De Angelis?
    Si adatterebbe a De Angelis l’etichetta che una sera a Milano (fine gennaio 1986) al Centro sociale Scaldasole Fortini attribuì ad Umberto Eco. Lo definì uno degli “addetti alla distruzione delle tracce”.

  8. Ho apprezzato questo saggio di Maria Borio. Da assiduo frequentatore di Fortini un tempo (come lettore, intendo), mi ha colpito che il superdogmatico Leonetti abbia indirizzato il giovane De Angelis proprio da Fortini, indubbiamente più aperto… Ma qua vedo un problema: sia da saggista sia da poeta Fortini metteva insieme cose tra loro molto eterogenee: Lukács e Adorno, Brecht e il surrealismo – non l’esistenzialismo propriamente detto, ma Noventa sì – e tutto questo mescolato (magari dialettizzato, direbbe qualcuno…) in un cocktail che finiva sempre in forme di esortazione più morali che politiche. Anche per questo – devo dire – mi affascinava… Però quando mi è stato chiesto un intervento su di lui (proprio da Abate) non sono riuscito a scriverlo – neanche cercando di attenermi alla sua sola posizione di intelllettuale impegnato – perché mi è sembrato estremamente datato. E la mia risposta alla domanda: che cosa ha veramente detto? è stata: boh!

  9. @ Genovese

    Fortini datato? Certo. Fra poco sono vent’anni che è morto e i morti non parlano più (direttamente). Parlano se li interroghiamo (e bene), se rileggiamo i loro scritti magari sulla base di spunti offerti dal presente. Mi spiace che lei non sia riuscito a scrivere quell’intervento che le avevo chiesto. Vuol dire che naviga in altre orbite ormai. E lo si vede da quel che scrive qui su LPLC. Comunque io e vari amici preferiamo ancora aggirarci “nei dintorni di Fortini”.
    Anzi approfitto dell’occasione per invitare qualche intellettuale *senza boh!* a collaborare a questa nostra ipotesi di lavoro su Fortini preparata dall’amico Ezio Partesana [per contatti: poliscritture@gmail.com]:

    Un manuale per Fortini
    Introduzione allo studio delle opere di Franco Fortini
    di Ezio Partesana

    Un manuale è un testo serio dalla vita breve, va studiato per sapere come fare una cosa, e poi deve essere lasciato da parte quando si passa dal leggere al fare. Perché tra le tante discussione sul rapporto tra teoria e prassi i manuali sono, probabilmente, un esempio chiaro di come trascorrere dall’una all’altra, e tanto per chi li scrive quanto per chi li adopera.

    Sulla fortuna o sfortuna critica e letteraria di Franco Fortini cose sono state dette. Ma per quanto astuti e corretti gli scritti che analizzano i motivi per i quali le opere di Fortini sono sempre meno presenti nelle librerie e sempre più lontani dai lettori, non possono mutare la situazione; neanche un manuale, è vero, può farlo, ma almeno è in grado di togliere di mezzo una delle cause della difficoltà, forse la più semplice ma non certo l’ultima in ordine di tempo.

    Ecco detto già quasi che cosa si propone di fare, e cioè mettere insieme un testo che dia tutte le informazioni indispensabili per chi volesse leggere e studiare Fortini senza aver avuto, per età anagrafica o possibilità di studio, modo di sapere chi fosse e cosa abbia detto e scritto nel corso della sua vita.

    Un manuale con siffatti principi deve per forza di cose rivolgersi a lettori che non possono essere presupposti come dotati di una cultura generale di livello alto. E così gli scritti che saranno il corpo del libro, devono impegnarsi a rinunciare a dar per scontate conoscenze politiche, letterarie e storiche, ma anche a evitare termini tecnici se non indispensabili o a spiegarli bene quando inevitabili. È uno sforzo e un esercizio che, credo, non sarebbero dispiaciuti allo stesso Fortini.

    Il manuale dovrebbe essere diviso in più parti, indipendenti tra loro sebbene, va da sé; coerenti e correlate.

    1) Sinossi I della vita di Fortini e della storia d’Italia dal 1941 al 1994. Dovrebbe essere un racconto, non una tavola divisa per colonne, una spiegazione più che un elenco, un collegare cose apparentemente distanti sforzandosi di scegliere i nessi e di esplicitarli, non un’inutile completa serie di eventi biografici, titoli e fatti storici.

    2) Interruzione I: dieci motivi per i quali è importante leggere Fortini. Chi l’ha conosciuto o l’ha studiato spieghi in cento parole semplici perché leggere Fortini, perché solo nei suoi suoi scritti e non altrove si trova “quella cosa lì”, che cosa si perde a non farlo.

    3) Antologia I: scelta di interventi politici di Fortini, debitamente introdotti e contestualizzati. Vanno bene articoli di giornale o registrazioni radiofoniche, interventi in assemblee o lettere private, un po’ di tutto insomma. E anche a scapito della correttezza biografica, bisognerebbe tendere a presentare il Fortini “giovane” come una preparazione al Fortini maturo, senza soffermarsi troppo, insomma sull’evoluzione ma partendo semmai dagli anni della collaborazione ai Quaderni Rossi.

    4) Saggio I: Fortini e la Nuova sinistra. Lavoro grande, lo so, ma si tratta di ricostruire la storia degli interventi politici di Fortini, grosso modo da Quaderni Rossi alle lezioni a San Vittore.

    5) Variazione I: la poesia politica di Brecht. Spiegare, in modo elementare, chi fosse Brecht e perché scrivesse sopra tutto poesie politiche. Dare anche qualche esempio.

    6) Antologia II: Poesie politiche di Fortini. Naturalmente introdotte e contestualizzate, ma non commentate dal punto di vista delle storia delle letteratura.

    7) Sinossi II: gli amici e i “nemici” in poesia di Franco Fortini, Pasolini, Noventa, Montale, etc. etc. Solo coloro con i quali ha avuto un rapporto diretto, non i “grandi” della letteratura; non Manzoni, non Dante e non Tasso per intendersi. Anche qui un racconto, non una tabella.

    8) Saggio II: Poesia lirica di Fortini. Credo che si possano raggruppare per tematiche le poesie di Fortini che hanno a che fare con la religione, l’età, l’amore, la morte e via dicendo, e cercare di vedere somiglianze e differenze con gli altri poeti del ‘900.

    9) Saggio III: Fortini e la filosofia. È la parte che potrei svolgere io… raccontare la Scuola di Francoforte e spiegare perché sia stata così importante per Fortini.

    10) Interruzione II: Dieci poesie di Fortini scelte e commentate dal altrettanti suoi amici o studiosi.

    11) Antologia III: Tra poesia e prosa. Presentare per quanto possibile lo stesso oggetto trattato ora in versi ora in prosa da Fortini.

    12) Variazione II: Raccogliere e raccontare gli attacchi che furono portati a Fortini da intellettuali vari, spiegando le ragione dei suoi avversari ma senza necessariamente prendere posizione e difendere Fortini, anzi semmai…

    13) Antologia poetica di Fortini senza commenti. Come se la lettura fossero gli “esercizi” messi alla fine del manuale.

  10. LA BUONANOTTE

    a Franco

    Arrivammo a piccoli gruppi
    in una periferia di autocarri e brina
    per dare la parola
    alle ossa, alla lieve mussolina,
    epopea dei santi e delle bocche
    straziate oscuramente, in un silenzio
    di altiforni, suoni disadorni
    del tuo ritmo imprigionato e vivente.
    Morire è l’infinito presente
    di ciò che non si coniuga, una goccia
    sporca sui nostri visi ricomposti
    il medesimo stupore che tu fosti
    vivo tra i vivi in fila indiana, luce
    calcinata, stridere
    delle lenzuola, l’arcana
    musica abbreviata nella mente ritorna
    all’ora del prodigio, e il cielo
    è solo una stesura differente, che non apre
    le sue porte. Tu
    di nessun bacio, nessuno nei secoli
    dei secoli. Tu di qualsiasi morte.

    (Milo De Angelis, “Biografia sommaria”, Milano, Mondadori, 1999)

  11. Un saggio davvero illuminante. Complimenti a Maria Borio e grazie a LPLC per averlo pubblicato.

  12. Caro Barone,
    grazie di avermi segnalato questo libro di Spranzi, che non conoscevo affatto. Non me lo perdo per niente al mondo, una follia metodica come questa merita più di tante platitudes. E in effetti, a pensarci bene, se dai “Promessi Sposi” sottrai la fede cristiana del narratore, o se decidi che si tratta di una impostura nevrotica di Manzoni (psicologicamente plausibilissimo) il romanzo diventa, in effetti, opera di un satanismo che mette il freddo nelle ossa, perchè alle tremila camionate di malvagità che Manzoni descrive con sadica minuzia si aggiunge il nichilismo raccapricciante di uno che *prende per il culo* sogghignando le vittime innocenti, alle quali non resta nemmeno più l’innocenza, degradata a ridicola idiozia da boccaloni.
    E la conclusione del lettore odierno e smaliziato del Manzoni diventa la stessa che trae Rino Genovese su Fortini: “datato”.
    In effetti, se uno si dice che il comunismo, o il cristianesimo, sono state imposture e/o coglionerie dalle quali ci siamo fortunatamente liberati, sapendola perciò soltanto assai più lunga, deve concluderne che chi nel medioevo ne ha unto i muri e le pagine dei libri questo, è: datato, e perdipiù con la data sbagliata.

  13. @ennio abate

    “Ma lei fa la critica o la spalla di De Angelis?” scrive Ennio Abate – la spalla per antonomasia di Fortini – rivolgendosi a Maria Borio, che per fortuna non risponde alla sua volgarità. Non contento, Abate aggiunge – tramite una frase dello stesso Fortini – un possibile accostamento tra De Angelis e Unberto Eco. Ho capito bene? Umberto Eco e Milo De Angelis avrebbero qualcosa in comune?

    Elena

  14. @ elena francisci

    Vuol mettere, essere la spalla di Fortini piuttosto che di De Angelis?
    “Per antonomasia” poi! Mi fa un complimento troppo grosso.
    Sì, Eco e De Angelis per me hanno questo in comune: sono entrambi (assieme a molti altri) nella schiera degli “addetti alla distruzione delle tracce” di quanto di buono si tentò di costruire in quegli anni ’60-’70. Politicamente (non volgarmente) parlando.

  15. @Abate

    Abate, tra una spalla e l’altra non saprei scegliere. Scelga lei, che è esperto del mestiere. Lo confesso: preferisco De Angelis a Fortini. Ma soprattutto preferisco entrambi a lei, Ennio Abate, che insiste con un paragone assurdo tra Eco e De Angelis. Milo De Angelis non c’entera nulla con Umberto Eco. De Angelis è un poeta ossessionato dalla tradizione. Può essere accusato di passatismo, ma di sicuro è uno che ha vissuto tutta la vita tra i morti, gli antichi e le tracce. De Angelis parla sempre, come un maniaco, della staffetta che, attraverso i secoli, arriva fino a noi. Umberto Eco invece è un semiologo effimero, presentissimo e senza dramma. Non se ne è accorto, abate mio dolcissimo?

    Elena

  16. @ Francisci

    Commosso dal “dolcissimo”, le faccio presente che ho parlato “politicamente (non volgarmente)”. Le tracce cancellate da Eco, da De Angelis e tanti altri sono di natura storico-politica. La staffetta attraverso i secoli che ossessionerebbe De Angelis ha saltato quelle tracce (quella storia – oggi squalificata come “politica” o “ideologica” – di quegli anni). Che abbia “vissuto tutta la vita tra i morti [quali? veda, che si è scelto certi morti e non altri…] e gli antichi [quali? veda che si è scelto certi antichi e non altri…]” vuol dire seguire certe tracce e lasciarne perdere altre. Quelle di Nietzsche non sono quelle di Marx, tanto per capirci.

  17. Ho trovato di ottimo livello il saggio di Maria Borio, anche se mettere a confronto due poeti è sempre un rischio
    ed è quasi inevitabile operare delle forzature. In tal senso può avere ragione Ennio Abate ad evidenziare i contrasti tra i due, che sono molti e fondamentali. Basti pensare al rapporto (inesistente) di De Angelis con l’autore contemporaneo più caro a Fortini, Bertold Brecht e il rapporto (inesistente) di Fortini con Cesare Pavese . A mio parere le “somiglianze” di De Angelis vanno cercate in altri grandi fiorentini di quel tempo (Mario Luzi, Piero Bigongiari, Giorgio Colli) che De Angelis frequentò prima e dopo la rottura con Fortini. C’è però un elemento che forse può collegare Fortini a De Angelis ed è quella che si potrebbe chiamare una “ricerca di totalità”. Ne ho già scritto due anni fa proprio sul blog di Ennio Abate e provo a tornarci su, con qualche precisazione, anche se sulla questione della totalità in Fortini/De Angelis e sulla tensione di entrambi verso questa meta, bisognerebbe scrivere un intero libro. In effetti è significativo che due poeti così lontani tra di loro siano accomunati da una violenta e insistente (e quasi ignota ai loro contemporanei) “quête de joie”, come due religiosi senza dio: un marxista e un nichilista animati dalla stessa furia di completezza e da un grido di soccorso (grido logico in Fortini, sconnesso in De Angelis) che accompagna la battaglia contro il finito.

    Direi innanzitutto che il termine “totalità” appartiene più a Fortini che a De Angelis, essendo termine di ascendenza hegeliana. Per Franco Fortini la totalità è sempre da intendersi nel processo di superamento storico e temporale. Fortini aggiunge in “Verifica dei poteri” di sentire egualmente nemico chi parla di morte senza parlare di Rivoluzione e chi parla di Rivoluzione senza parlare di morte. E’ attraverso un processo di integrale mutamento storico e materiale che si potrà intravedere la gioia, serbando però vivo, e in qualche modo eternizzandolo, ciò che di drammatico ci ha condotti fino a lì.
    Ricordiamo i famosi versi che concludono “La gioia avvenire”, poesia giovanile di Fortini:
    “Ma prima di giungervi/Prima la miseria profonda come la lebbra/E le maledizioni imbrogliate e la vera morte/Tu che credi dimenticare vanitoso/O mascherato di rivoluzione/La scuola della gioia è piena di pianto e sangue/Ma anche di eternità/E dalle bocche sparite dei santi/Come le siepi del marzo brillano le verità”.

    Milo De Angelis non ha mai usato, che io sappia, la parola “totalità”. Ha usato parole come “tutto” “assoluto”, “compimento”, che appartengono a un altro ambito. E non ha mai pensato che tale compimento potesse darsi in un processo dialettico, ma semmai in qualcosa di più antico e primitivo, che sovverte la natura stessa del desiderio e delle sue incrostazioni secolari:
    “Ed è atroce
    ma bisogna dire di no alla sua fronte che
    piange e non capisce, e ama
    come per millenni si è amato, promettendo
    in una terrazza buia, accarezzandosi
    tra le foglie minacciose”.

    Tutto in De Angelis – e qui la distanza da Fortini è enorme – tende alla sospensione del processo (“il tempo/se non resistiamo, non può farci nulla” – “come quel ponte rimane là/è calmo, non è più/ciò che unisce due rive”) gettandoci in una compresenza di giorni e stagioni lontanissima dall’ordine fortiniano. Il tempo infatti in De Angelis non ha uno svolgimento fenomenologico. E’ piuttosto un brusco ingresso dell’archetipo nel presente, uno smembramento di quest’ultimo e uno slancio verso l’estasi, in senso etimologico, verso l’uscita dal tempo e da se stessi. Tutto questo – se rileggete “Il corvo bianco” o “Le mura di Pistoia” ve ne renderete conto – è presente anche in Piero Bigongiari. E il rapporto Bigongiari- De Angelis (a mio parere ben più importante di quello Fortini-De Angelis) andrebbe studiato in nome di questa comune irruzione dell’antico e dell’infanzia in ciò che siamo.

    Marco Azzolini

  18. La città di Milo De Angelis è una città di rovine scolastiche, ma ancora parlanti, con un linguaggio più rarefatto ma proprio per questo più ineludibile (l’ampiezza delle ombre che è sempre maggiore e più pervasiva dell’oggetto che le produce). E’ una città di atleti-samurai e del loro eroismo quotidiano, un paesaggio lunare ma fertile, abitato, un parco della preistoria in cui sono confitti i rituali memorabili dell’adolescenza. Uno tra questi, assieme alla scuola, è la pratica sportiva, elemento costante della poesia di De Angelis, che egli avvicina con un taglio realistico, di resoconto cronachistico, per accedere meglio però a un suo uso metaforico. Nella poesia di De Angelis lo sport – soprattutto l’atletica e il calcio, ambiti privilegiati – è un’esperienza nella quale, alla rievocazione dell’evento agonistico circoscritto e fulmineo, apparentemente persino illogico o banale, si annoda l’allegoria del cimento come presenza esistenziale e resistenziale, l’esperienza tangibile del nostro passaggio quando esso ci sembrava contatto eterno e immutabile, punto fermo del nostro esserci, nostro vessillo irrevocabile. Sullo sfondo di questo scenario poetico possiamo ascoltare gli echi di un periodo di ambizioni e perseguimento dell’assoluto, di appartenenza, in cui l’utopismo storico degli anni Settanta, più sfumato, e quello universale della giovinezza si intrecciano rafforzandosi reciprocamente nelle rispettive aperture e prospettive. Milo De Angelis condensa nei suoi versi, appunto, questa congiuntura storico-anagrafica, questa concomitanza tra la forza dell’idea e quella della giovinezza, convergenza che egli ha attraversato in pieno e che pervade l’altezza della sua lirica costituendone anche la chiave.

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