di Mario Pezzella
[Questo articolo uscirà, con un altro titolo, sul numero 5 di «Il Ponte» (maggio 2014)].
“Sotto le amene apparenze Napoli è stata sempre, per me, Natura primordiale e indomabile in contrasto con una plurisecolare Storia irredimibile; e questo contrasto è assurto in me a valore di simbolo…” [1]. E’ un mito quello che si esprime in queste parole di La Capria, comune a molti intellettuali napoletani della sua generazione: in effetti egli chiede di valutarne l’oggettività poetica, non quella storica. Non sempre però è facile separare radicalmente le due cose: anche a livello fantastico, perché la storia di Napoli sarebbe più irredimibile di quella di Auschwitz o di Dresda? Perché la natura sarebbe più indomabile che al Cairo o a Città del Messico? La città –afferma La Capria- è stata tagliata fuori dal progresso del capitalismo moderno, che si è realizzato almeno in parte nell’Italia del Nord: questa storia dimezzata è però comune a larga parte del mondo e alle stesse periferie delle metropoli europee. Non è dunque qui che può essere cercata una “specificità” napoletana.
Ciò non toglie che quel mito abbia una sua validità oggettiva: come immaginario collettivo e fantasma di ciò che si pensa di essere, o anche come un modo di esprimere, forse di estetizzare i propri conflitti. Esso fa parte di quella stessa napoletanità, che La Capria ha descritto così bene, ne costituisce anzi il sostrato e la giustificazione più profonda: dopo il trauma storico della Rivoluzione fallita del 1799, “Napoli diventò la città della piccola borghesia, una piccola borghesia dominata dalla paura della plebe, che per restaurare ad ogni costo l’armonia perduta o solo sognata, si mise a recitarla, e così creò a poco a poco una forma di civiltà fondata sulla recita collettiva”[2]. Questa lacerazione profonda tra la plebe e la borghesia appartiene alla storia: mentre quella tra “natura” e “cultura” ne è già la fabulazione mitizzata.
La Capria è anche lo sceneggiatore di Mani sulla città di Rosi, e nel film i mali di Napoli non derivano affatto dalla natura indomabile, in verità sottomessa e deturpata, ma da una classe dirigente storicamente determinabile e di basso livello. Nel film viene addirittura preso in giro chi attribuisce ogni responsabilità del malessere della città ai vulcani, al bradisismo, alle fatalità ataviche. I mali hanno invece proprio una causa storica. Per rimanere solo ai più recenti, “la città scoppiò, i palazzi si ammassarono l’uno sull’altro; e quando dopo venti anni, negli anni Settanta, non fu più possibile costruire un solo vano all’interno della città, la marea delle case debordò all’esterno nel territorio circostante”, dando vita a “una grande e desolata periferia…che stringe fra le sue spire la città e la uccide”[3]. La ferisce a morte.
Il presupposto del mito è la sproporzione fra la “grande bellezza”[4] della natura, che sembra promettere una immediata e immemoriale felicità, e la palude delle realizzazioni storiche, in cui quella sembra diventare un alibi e una fuga dalla realtà. Questa delusione mitica esprime un sentimento immaginario profondo e tuttavia dev’essere decifrata e interpretata.
Scrivendo di Pasolini e del suo elogio della premodernità di Napoli, La Capria propone l’ipotesi che nella città si sia realizzata solo una mezza modernità o modernità mal riuscita, fatta di speculazione e consumismo, senza conquista di diritti civili e di maggiore cittadinanza. Certo, Pasolini trasfigura miticamente la plebe di Napoli, come le borgate romane o gli slums del Terzo Mondo, e rischia di estetizzare la miseria. Tuttavia, la crisi economica che stiamo vivendo mostra che il compromesso storico tra capitalismo e democrazia si è rotto e che le sue basi erano fragili da sempre; il mito della “buona modernità” capitalista cade di fronte alla situazione neocoloniale di tutta l’Europa mediterranea di fronte ai poteri forti della finanza europea. Lo slancio della modernità si arresta per motivi strutturali nell’incompletezza e nella disuguaglianza dello sviluppo. Cosicchè quella mezza modernità diventa generale e diffusa.
Non è forse accaduto in Italia –dopo l’unificazione- qualcosa di simile a quello che accade oggi nei rapporti tra Europa del Nord e Europa mediterranea? “Il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel Nord un blocco “urbano” (di industriali e operai) che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale. Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte”. Repressione poliziesca e compravendita degli intellettuali (oggi si direbbe: dei “tecnici”) si alternano con continuità, cosicché “lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale, diventava invece uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata”[5]. Esiste –secondo un Gramsci oggi rivalutato dagli studiosi postcoloniali- una complementarità strutturale tra lo sviluppo capitalistico delle metropoli e la “mezza modernità” fatta di consumi e intrallazzi mediocri dei paesi colonizzati. Il Nord stesso dell’Italia è oggi ricaduto in una modernità dimezzata, con paure e regressioni antropologiche, di cui si è fatta espressione la Lega.
L’opacità indomabile della natura è la trasfigurazione mitica di una realtà storica: la plebe di Napoli, l’essere compatto inespressivo privo di logos, meno che umano, che popola i suoi vicoli e le sue periferie, essere questo sì irredimibile, secondo la visione di chi detiene il potere della parola. Essere senza parte, secondo la definizione di Rancière, escluso dall’ordine del dicibile, e dunque dalla partizione tra chi ha diritto di cittadinanza e identità simbolica e chi non ne possiede alcuna. Se la plebe con la sua amorfa natura è quasi assente in Ferito a morte, diviene invece la figura decisiva negli scritti successivi di La Capria su Napoli, anzi il “personaggio” più importante: il conflitto che –nella sfera del mito- si svolgeva tra Cosmos e Logos, tra Natura e Storia, diviene molto più concretamente quello tra strati sociali, tra una borghesia che non riesce a imporre la sua visione e il corso “progressivo” della modernità e una plebe che in questa non riesce a entrare, nemmeno diventando popolo o classe operaia, e rimane ostinatamente chiusa nella sua arcaica impenetrabilità.
Per La Capria il trauma storico collettivo fondamentale della storia di Napoli è il fallimento della Rivoluzione del 1799, quando la borghesia e l’aristocrazia illuminata furono selvaggiamente distrutte dalla plebe: quella stessa che appare nei quadri di Micco Spadaro, come “massa di corpi che non sono corpi ma una ‘sopressata’ di carne viva, uno addossato all’altro, schiacciato sull’altro, confuso e aggrovigliato nella calca, intento ognuno alla sua quotidiana peripezia , e pure impastato nella stessa colla, che tutti lega, impigliato nella stessa vischiosa dannazione”[6]. Golem che si innalza per un poco nel furore di delitti e tumulti e poi ricade nella sua inerte inespressività. Così -dice La Capria- la borghesia vede la plebe di Napoli, dopo il 1799, così la vedono ancora negli anni Cinquanta del Novecento i suoi intellettuali “illuminati”, come la Ortese o Compagnone, così in parte la vede lui stesso. Il disastro del 1799 iscrive un trauma, una “ferita invisibile”, “sepolta nell’inconscio collettivo”, che come quelle descritte da Freud non cessa di ritornare, di ossessionare la coscienza desta, pesando come una costellazione infausta di generazione in generazione. In termini lacaniani è un “reale” privo di qualsiasi articolazione simbolica.
Ma è davvero così? Davvero la plebe è natura inespressiva e muta, priva di ogni codice? O non si tratta forse di una cultura decaduta e divenuta silente, ma che aveva la sua specificità, in quel mondo magico premoderno, che le ricerche di De Martino hanno riportato alla luce? L’inespressività non è forse una conseguenza, e non una causa, dell’impatto distruttivo che la modernità aggressiva del capitale ha imposto ai miti, ai riti, al sapere diffuso che quella cultura pure conteneva in se stessa? Ancora una volta: non è forse proprio la storia del capitalismo modernoad aver determinato il carattere inquietante della plebe del Sud?
Questa verità affiora in un saggio dello stesso La Capria, quando l’autore parla, in opposizione a quello edulcorato della napoletanità, del dialetto “tosto” e scabro, che si troverebbe – ad esempio – nei racconti di Giambattista Basile, animati dai miti e dalla vitalità del popolo minuto: “Ma tutto il libro, scritto, si badi bene, da un borghese qual era il Basile, rispecchia forme di vita, desideri, atteggiamenti, passioni, abitudini, sogni, propri della plebe napoletana”, la quale, come dicevamo prima non è a priori esclusa dalla cultura, ma ne ha una sua propria, fatta –come certi scrittori sudamericani hanno teorizzato per la propria gente- di un “realismo magico”: “E le fate, che così spesso qui appaiono, e trasformano i destini degli uomini, sono un aspetto della mentalità di questa plebe per cui la realtà è sottoposta al continuo intervento del meraviglioso. La fantasia della plebe napoletana in questo senso è aperta alle possibilità più surreali”[7]. Una lingua di questo tipo non traduce forse in modo incomparabile quell’incontro tra borghesia di penna e plebe, di cui si lamenta la mancanza? Il dialetto “tosto” (scabro e conciso), se ha un valore, se è ben superiore a quello del mezo cazetto, è perché articola simbolicamente la cultura magico-mitica della plebe, la eleva a espressione, la rende dicibile e comprensibile entro un linguaggio scritto, che non può certo essere semplice espressione di naturalità o addirittura di barbarie.
La Capria chiede che il suo libro non venga giudicato secondo il rigore dell’oggettività storica (è veramente mai esistita l’epoca dell’armonia? Davvero può essere giudicato tale quell’esiguo periodo che copre a malapena la seconda metà del ‘700, “cominciato sotto Carlo III e bruscamente interrotto nel 1799”[8]?) ma come una mitopoiesi. Dobbiamo prenderlo in parola e proporre allora una fantasia diversa: non era forse possibile un incontro tra plebe e cultura “alta”, come quello che si delineava nel libro di Basile, in cui, invece di scindersi ferocemente, le due componenti avrebbero dato vita a una storia alternativa, fatta dell’espressione, dell’interpretazione -e non della cancellazione- dell’identità premoderna e del suo essere comunitario?
E’ lo stesso problema che P. Clastres ci ha proposto più in generale a proposito delle “società senza Stato”, dotate di una propria legge e stratificazione simbolica, che poi il Leviatano moderno ha non solo distrutto, ma ridotto all’inesistenza e all’espulsione dalla memoria[9].
Io credo che La Capria abbia profondamente ragione quando pensa che un trauma storico possa rimanere inciso nell’inconscio collettivo, riemergere e ripresentarsi a distanza di tempo, di generazioni, e ritornare persecutorio nel reale, se non è elaborato da una memoria culturale e simbolica articolata. Questo affermava Freud, soprattutto nel Mosé e il monoteismo, riferendosi alla lunga durata dell’accadere storico, se la si considera dal punto di vista dell’inconscio: il trauma rimosso ha un “effetto ritardato”, possiede una “latenza”, che la spinge a ritornare e ripetersi in condizioni apparentemente diverse, ma in realtà mantenendo la sua coazione sempre uguale. Ciò è vero naturalmente soprattutto nell’eziologia individuale delle nevrosi: ma Freud estende questo ragionamento al collettivo e alla storia e suppone l’esistenza di “eredità arcaiche”, che si manifestano con la stessa modalità degli eventi trumatici personali, trasmettendosi di generazione in generazione.
D’altra parte un trauma storico davvero forte, come è stata la Shoah o anche la dittatura argentina dal 1976 al 1983, distrugge o allenta in modo irreparabile l’ordine simbolico esistente, riconducendo il singolo ai suoi fantasmi primordiali, alla sua esposizione nuda alla minaccia del corpo in frammenti e di una incontenibile pulsione di morte. Tutto questo La Capria lo attribuisce alla violenza della rivoluzione del 1799 a Napoli e agli orrori senza nome che ne conseguirono, in particolare all’emergere del furore della plebe come un mostro arcaico e dissolutivo.
Ma questo puro furore è un destino? Forse il trauma di cui stiamo parlando risale più indietro nel tempo, forse è a sua volta la ripetizione di eventi più remoti e rimasti incompresi. Per non andare troppo lontano, seguiamo l’esempio di Cuoco, alla fine del suo Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, quando evoca una corrispondenza tra ciò che è accaduto nel 1799 e un’altra rivoluzione, che diede vita alla prima repubblica napoletana, quella del 1647: “Masaniello senza i nostri lumi, ma nel tempo istesso senza i nostri vizi e gli errori nostri suscitò in tempi meno felici una gran rivoluzione in quel regno: la spinse felicemente avanti perché la nazione la desiderava, ed ebbe tutta la nazione con lui perché egli voleva solo ciò che la nazione bramava”[10].
A leggere la lunga storia che Rosario Villari ha dedicato alla prima repubblica napoletana e al suo “sogno di libertà”, sembra che sia stata questa la “grande occasione” perduta dalla città, che ebbe per qualche tempo innanzi agli occhi il grande esempio della “anomalia olandese”; e del resto si sa che Spinoza considerava Masaniello un eroe repubblicano e popolare[11]. In questa rivoluzione si realizzò in effetti una cosa inaudita, e cioè il connubio e l’articolazione simbolica reciproca tra il così detto “popolo civile”, la “borghesia” e la plebe, in un moto rivoluzionario diretto all’indipendenza. Il fallimento di questo patto, la distruzione di questo tentativo e la tremenda repressione che seguì da parte del potere coloniale spagnolo (accompagnata per altro dal tradimento dei francesi che inizialmente avevano promesso il loro appoggio alla repubblica) ha gettato per sempre l’ombra del fallimento e dell’impossibilità ad elevare la sua condizione nel cuore della plebe napoletana, che era allora proprio quella gente fiera e “tosta” che appare nelle novelle di Basile (che furono pubblicate nel 1634-1636).
Non sarà questa sconfitta, la negazione imposta alla plebe della sua volontà di diventare popolo, il vero trauma storico della città, e ciò che condusse alla definitiva e selvaggia disgregazione della sua cultura? Sembra questo il filo della narrazione di Villari, che ha il merito di mostrare come nel 1647 non avvenga un breve e improvviso tumulto irrazionale, ma venga a maturazione una breccia di libertà che si preparava da quasi un secolo, contro l’ oppressione coloniale del Viceregno. Sotto le ceneri della sottomissione si sentiva ancora distintamente la possibilità e la potenza del “divenire popolo”: “Il sogno di libertà è storia: un movimento composito e multiforme che coinvolse popolazioni e singole personalità, uomini e donne, si collegò idealmente con le correnti di riforma dei centri più importanti dell’Europa moderna e della stessa Spagna, e culminò nella rivoluzione del 1647, prevista e sorprendente”[12].
Note
[1] R. La Capria, Opere, Meridiani Mondadori, Milano 2003, p. 907.
[2] Ivi, p. 774.
[3] Ivi, p. 916.
[4] Pare che Sorrentino pensasse di fare un film tratto da Ferito a morte. Qualcosa è rimasto di questo progetto nel suo film La grande bellezza?
[5] A. Gramsci, Il risorgimento, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 127.
[6] R. La Capria, Opere, cit., p. 696.
[7] R. La Capria, Napoli, Mondadori, Milano 2009, p. 308.
[8] R. La Capria, Opere, cit., p. 664.
[9] Cfr. La terre sans mal. Le prophétisme Tupi-Guarani, Seuil, Paris1975.
[10] V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, BUR, Milano 2006, p. 312.
[11] Secondo il suo biografo Colerus, Spinoza ha ritratto Masaniello in un disegno, che ha le stesse fattezze del filosofo. Del resto fu anche coniata una moneta, in Inghilterra, che ritraeva, recto-verso, Cromwell e Masaniello.
[12] R. Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero, Mondadori, Milano 2012, p.
[Immagine: Jorge Castro, Napoli, quartieri spagnoli (gm) – https://www.flickr.com/photos/
Vorrei avere più tempo per scrivere di più sullamia città, che è come se fosse formata da scatole cinesi:ognuna diversa dalle altre..Ma è la classe borghese che non ha saputo donare un’unità alla città.Dopo il 99 non si è mosso. più niente.
Solo gruppi sparuti di cultura, teatro, cinema d’essai. La borghesia napoletana, pur colta, pur legata a Croce, non ha formato scuole filosofiche e storiche adatte ai tempi. E’ rimasta mummificata nelle sue case coleme arazzi edi libri, ma non si è spesaper diffondere la cultura e la scienza, non ha ricercato, vissuto, lottato anche contro quel fenomeno che continua a rovinarci le terre nei dintorni, nella terra dei fuochi, cioè la camorra. Senon ne avesseparlato Saviano, i benestanti ne avrebbero taciuti, siano pure essi studiosi di storia, non sono mai usciti di casa a vedere cosa succedeva nel rione Sanità, a Scampia, a Casal di Principe. Non molto diversaè la storia della classe dirigente italiana, che si è divisa nelle varie regioni e non ha saputo ricercare, scoprire, studiare, progredire. Le rivoluzioni che abbiamo avuto hanno solo inculcato la paura, il timore di perderequalcosa.
Non c’è solo La Capria, ma anche Striano a Napoli,che parla però dell’unica classe colta che aveva progetti politici, quella del 99. Nei salotti buoni non si parla mai di camorra, che inquina l’economia, l’aria, i giovani. Non è elegante parlare di queste cose. Eppure ci vorrebbe qualcuno, oltre Saviano, chelo facesse. La Capria se ne scappòdagiovane, e forse non sa molto di Napoli.La Ortese rimase qui , con pochi soldi, in una casa buia dei vicoli che lei odiava. Voi dite che Saviano non è un grande scrittore, ma senza di lui, no sarebbe venuto alla luce il sommerso di Napoli. Nella Grande Bellezza Roma è più vicina ai ministeri, agli spettacoli, allaChiesa potente e ricca. alla RAI. Ma è sempre la stessa borgesia che dorme i suoi sonni tranquilli, che balla, fa circolo.
Noi abbiamo avuto anche Lauro. Ricordiamo ‘Le mani sulla città’. Ma la ‘Sfida’ fu un equivoco di Rosi, non ho mai capito perchè l’abbia voluto girare. Forse perchè noi napoletani siamo così.Così come anche il grande imbroglione di Bassolino che ci promise un nuovo Rinascimento, fece costruire delle magnifiche metropolitane da artisti famosi, e poi diede appalti ,sprecò soldi lasciandoci in una situazione peggiore. Ci abbiamo creduto.
Ma non succede anche nel resto d’Italia?Forse Napoli è l’emblema di tutta un’Italia che non ha avuto un processo unitario degno di tal nome, che non ha avuto una classe egemone colta e politicamente impegnata, dedita al servizio degli altri. Abbiamo piazzale Tecchio progettato da Cosenza, con un centro commerciale simile al Beaubourg, , ma che sta briciolandosi, come si sbricioleranno le metropolitane. Un magnifico museo di Capodimonte, con la Maddalena in rosso,di Masaccio,e la stanza splendida di Tiziano, Caravaggioetc ma non è frequentato. Forse dovremmo leggere Ginsborg e altri storiografi di origine inglese per capirci qualcosa. Abbiamo anche un grande regista, non molto diffuso:Antonio Napolitano, che Sorrentino stima molto. Ma non basta. Napoli è il simbolo di tuttaun’Italia, in cui la politica è l’artedi arrangiarsi, e la cultura un must da esporre ogni tanto, per far vedere che abbiamo un passato di tutto rispetto. Non è un destino il nostro,di napletani e italiani, ma una paura atvica, un’angoscia del vivere che ci impediscedi allargare gli orizzonti…..
E così abbiamo splendide , splendide opere d’arte, citta cariche di Storia come Capua. metropolitane,
Chiedo scusa dei refusi: Parlavo di Antonio Capuano……da vedere.. assolutamente
Proprio perché nell’articolo di Mario Pezzella non vi è un solo riferimento (perlomeno storico) alla classe operaia napoletana, mi sembra necessario sganciare la questione di Napoli sia da un approccio che rischia di ridurne lo spessore e la complessità ad una tematica di carattere sociologico-folcloristico sia da un’eccessiva dipendenza dall’immagine che di Napoli ci ha consegnato Raffaele La Capria con il ‘topos’ dell'”armonia perduta”. Un valido correttivo può essere, da questo diverso punto di vista, il romanzo di Ermanno Rea, “La dismissione”, il cui ‘incipit’ è quanto mai significativo: “Noi amavamo Bagnoli. Perché rappresentava mille cose insieme ma, prima di tutto, perché incarnava ai nostri occhi una salutare
contro-cartolina della città. L’amavamo perché introduceva in una città inquinata – la Napoli della guerra fredda, dell’abusivismo selvaggio, del contrabbando – valori inusuali: la solidarietà; l’orgoglio di chi si guadagna la vita; l’etica del lavoro; il senso della legalità…”.
Riassumo la trama di questo romanzo, sperando di spingere alla lettura coloro che avessero mancato, per la fretta o la disattenzione, questo appuntamento letterario e politico. Dopo circa un secolo di vita l’Ilva, la grande acciaieria di Napoli, è condannata a scomparire e Vincenzo Bonocore, ex operaio diventato tecnico delle colate continue, viene invitato ad organizzare lo smontaggio del “suo” impianto, venduto alla Cina. Al centro di un romanzo sospeso tra la realtà e la finzione, ma in cui è nondimeno continua la martellante interrogazione della realtà, vi è l’interesse per l’aspetto umano di questa storia, per il suo impatto sulle persone e sulle coscienze. La fabbrica che lentamente si disfa e scompare è una sorta di basso continuo che accompagna questo libro dal principio alla fine. La stessa ossessione di Bonocore – smontare le colate continue “a regola d’arte” senza provocare il benché minimo danno all’impianto – inquieta come un tagliente atto d’accusa. Ferropoli, infatti, avrebbe dovuto essere, sia in quanto motore della modernizzazione di una città che si liberava dai suoi fantasmi e dalle sue eredità negative sia in quanto prodotto del sacrificio e del lavoro di generazioni di operai, lo strumento del riscatto di Napoli. In primo piano vi sono perciò gli operai, i riti dell’altoforno, la solidarietà, le grida di rabbia e l’angoscia, che in parecchi casi diviene malattia e depressione. In primo piano, soprattutto, vi è lo sgomento di Bagnoli, il quartiere che perde di colpo, assieme al lavoro industriale, tutte le sue sicurezze, e che per il lettore ha principalmente il volto di una giovane donna, Marcella, che con la sua gioventù, con la sua bellezza e con la sua malinconia rischia di sconvolgere ancor di più la vita di Bonocore. Ma se Marcella sta al centro del palcoscenico schiacciata dal peso del suo amaro destino, vastissimo è il coro di uomini e di donne che la circondano: personaggi reali ma anche di fantasia, che fanno di questo libro, fra l’altro, un caso quasi senza precedenti di commistione di generi.
In una pagina introduttiva, stampata in corsivo e in corpo minore, Rea dice di avere scritto questo libro insieme con Vincenzo Bonocore, il quale non è quindi frutto di un’invenzione letteraria ma esiste nella realtà, anche se ha un altro cognome. Lo scrittore per mesi ha ascoltato “le sue confidenze: tutti i giorni dalle due alle tre e perfino alle quattro ore consecutive”. Da questa straordinaria inchiesta sulla memoria di un lavoratore che, nel lessico leninista, si potrebbe definire come un rappresentante tipico dell’aristocrazia operaia, deriva una compattezza senza smagliature, ma anche una trama avvincente. Leggendo, si desidera andare avanti, non perché ci siano colpi di scena romanzeschi, ma perché si è presi dal fluire e dalla consequenzialità della narrazione. D’altronde, proprio questa è una caratteristica morale del
personaggio-chiave, che si è trasformata in stile e si rivela nell’uso costante di termini tecnici e nella descrizione particolareggiata dei processi di produzione (le colate, le siviere, i laminatoi, i parchi minerali ecc.). Bonocore, non a caso, ama l’ordine e l’esattezza. La stessa esattezza di cui Rea ha tessuto l’elogio in un passo di “Mistero napoletano”: “Chi dice che l’esattezza è fredda? Che la precisione è neutra? Come la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza, io credo che anche l’esattezza sia una virtù cardinale, sia dentro alla passione, non fuori”.
Se Rea non fosse, come il Paolo Volponi de “Le mosche del capitale” e il Primo Levi della “Chiave a stella”, uno dei non molti scrittori della nostra letteratura che hanno dato voce, corpo, forma e spessore al mondo industriale e alla classe operaia, sarebbe difficile incontrare nella letteratura italiana il protagonista della vicenda da lui raccontata: un operaio che diventa quadro tecnico, crescendo all’ombra degli impianti dell’acciaieria e al fuoco delle colate continue. Un’altra caratteristica che colpisce ne “La dismissione” è che si tratta di un libro adulto. Il motto è: “Nessun rimpianto, nessuna nostalgia”. Eppure sarebbe stato facile farsi sedurre da entrambi gli stati d’animo. Dopotutto, attraverso la dismissione di una fabbrica, si racconta la fine di un mondo o forse meglio il trapasso ad un altro mondo, i cui contorni non sono facili da individuare. La trasformazione dell’immensa area in un parco turistico e la ricostruzione dell’impianto in Cina lo indicano chiaramente. La dismissione è dunque un ‘Leitmotiv’ su cui l’autore si arrovella, perché non è solo un fatto reale, ma è la metafora della fine di un ciclo della modernità, di una fase storica, forse di una civiltà. Questa ‘dismissione’, sembra suggerire lo scrittore, è un mostro che ha le fauci spalancate e sembra voler inghiottire tutto: non solo la singola fabbrica, ma anche i sentimenti, l’umanità e le speranze.
Quanto Barone scrive sulla bella cooperazione “militante” tra l’intellettuale-romanziere Ermanno Rea e l’ex-operaio Vincenzo Bonocore mi ha fatto venire in mente il filone dimenticato della cosiddetta *conricerca* sviluppata in termini pionieristici (ed extra-accademici) negli anni ’60-’70 dal cremonese Danilo Montaldi (http://it.wikipedia.org/wiki/Danilo_Montaldi), autore di “Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati” (1960), “Autobiografie della leggera” (1961), “Militanti politici di base” (1970).
in riferimento alla nota4, se posso permettermi, segnalo un articolo:
http://fuoriposto.com/la-grande-occasione-mancata-paolo-sorrentino-non-incontra-raffaele-la-capria/