di Luca Illetterati
[Una versione più breve di questo intervento è uscita sul «Manifesto»].
Esiste davvero qualcosa come il Veneto? E non voglio dire con questa domanda della vaghezza dei confini regionali, della loro approssimazione o anche della loro artificialità. E nemmeno intendo mettere in questione l’esistenza di una tradizione, di una storia peculiare, di una declinazione della lingua. Intendo piuttosto, se così si può dire, una categoria dello spirito, una costellazione di stati d’animo, pensieri, gesti e abitudini intorno a cui si produce tanto il senso di un’appartenenza quanto il desiderio della fuga, tanto la nostalgia di un’identità, quanto la meccanica inconscia dei gusti e delle parole. Viene da pensarci un po’ seriamente a questa domanda soprattutto di fronte allo scherno sempre altezzoso di chi in queste settimane si trova a raccontare di improbabili e folcloristici indipendentismi o di goffe ribellioni impudicamente appoggiate a un abisso di nulla che qui, più che altrove, sembra venire a superficie. E viene da pensarci perché sembra che del Veneto ci si accorga sempre comunque dopo, a cose accadute. Come se il Veneto fosse tanto la cloaca del tempo che siamo quanto la sveglia sempre fastidiosa e sempre inopportuna di una giornata che comincia.
Poco più di 50 anni fa in un testo quasi d’occasione – una conferenza di presentazione del romanzo Le Furie di Guido Piovene, preparata per l’inaugurazione della libreria di Virgilio Scapin a Vicenza e intitolata Un sogno improbabile – Goffredo Parise immaginava di discutere appunto con Piovene intorno all’essenza della vicentinità. E quello che dicevano i due vale benissimo, per molti aspetti, per la venetudine. Questo strano modo d’essere e di sentire, diceva Parise, è “la costante tendenza (…) a frenare e forse a dissolvere prima del loro compiersi quei moti dell’animo, del pensiero e della carne che conducono ai fatti e, di conseguenza, alle conseguenze”. Una sorta di paradossale impulso di non soddisfare il desiderio che pure si prova. Una capacità di avvertire le cose e insieme una sorta di incapacità di afferrarle, di mangiarsele, di coglierle nella loro corporea concretezza: “cioè, ancora, una forma di prudenza, di diffidenza, di avarizia che potrebbe apparire anche soltanto borghese, o per meglio dire di amministrazione dei sentimenti, che tende inesorabilmente alla staticità, alla immobilità, al monologo e non al dialogo, insomma alla fantasia, alla nevrastenia, talvolta alla narcisistica follia”.
Il testo di Parise è del 1963, ma sembra descrivere perfettamente le cose di oggi, non tanto a segno che poco è cambiato, quanto soprattutto del fatto che le cose di cui parliamo in questi giorni e di cui mostrano le televisioni più o meno santorescamente hanno a che fare con modi antichi del sentire, con forme di vita che si radicano nel sottosuolo carsico della nostra quotidianità. Non c’è forse commento più attuale e sul pezzo in relazione a queste storie di individui che costruiscono ipotesi balenghe di rivoluzione dentro qualcuno degli orridi capannoni che hanno devastato questa terra che si chiama Veneto, di quello che elaborano, accalorandosi, Parise e Piovene in questo sogno di mezzo secolo fa, quando quei capannoni non c’erano o appena iniziavano ad esserci, quando pure esisteva ancora un brandello di senso nelle pratiche sociali condivise, quando non tutto era ancora stato sbrindellato e trangugiato dal desiderio narcisistico di affermarsi di contro a un Altro (lo Stato, L’Italia, la Politica, i Giornali) sempre senza volto e senza sguardo e proprio per questo vissuto come autentico nemico. Il Veneto, diceva Parise, è questo “groviglio interiore che non si esprime mai, questo pasticcio di cose improbabili che diventano probabili per virtù di farnetico”.
Forse è proprio da qui che andrebbe ripensato molto di questi luoghi e delle vicende che li hanno coinvolti. Forse è anche da qui, ad esempio, che varrebbe la pena riprendere un discorso sulla specifica venetudine di alcuni dei movimenti più radicalmente estremi che hanno caratterizzato le agitazioni di destra e di sinistra negli anni ’60, ’70, ’80 e che ancora segnano le microgalassie politiche che si pongono perlopiù ai bordi dello scontro istituzionale.
Si insiste sempre molto, quando si parla di questa gente e di queste terre, su un cattolicesimo e su un bigottismo onnipervasivo. Cattolicesimo e religione servono invece meno di quanto si creda qui come chiavi di lettura. La trascendenza non è di casa da queste parti. E la religione ha funzionato (nel male, ma anche nel bene) più come agenzia di controllo sociale e organizzazione del potere che come pratica di vita, esistenziale e storica. Il cristianesimo di queste terre è più democristiano che cristiano, ed è certamente più bisagliano e rumoriano che dossettiano. Il senso tragico della croce è per molti versi estraneo a queste comunità dove l’attenzione dominante è sempre sul contingente, sull’adesso, sull’imminente: dove la salvezza è adesso o niente. E’ il mondo che descrive accuratamente con la puntualità del documentarista Alessandro Rossetto in Piccola Patria. Un mondo dominato da una fatica e da un dolore che sembra consustanziale all’anima di Luisa e Renata, le ragazze insieme antiche e moderne, e che più contemporanee non si potrebbe, di cui narra il film. Un mondo che è ancora assolutamente rurale, nel quale si tira il collo alle galline in cortile, ma che è allo stesso tempo, proprio nello stesso tempo, senza contraddizione percepita, la modernità dell’industria, della chimica, dell’elettronica, del tessile globalizzato, dell’immigrazione necessaria, accolta più intimamente di quanto si pensi e rifiutata più radicalmente di quanto si immagini, delle fattorie dentro i nuclei urbani e degli alberghi con piscina e maneggio per cavalli nel deserto di niente dei campi coltivati.
Per molti versi il Veneto è l’Austria di Thomas Bernhard. Un luogo che vive il passato come fosse presente e il presente come fosse passato. E dove il futuro è qualcosa che fa paura. Non credo sia un caso che alcuni degli scrittori veneti di questa generazione che è nata più o meno quando Parise sognava di discutere di vicentinità con Piovene, abbia assunto Thomas Bernhard come proprio modello stilistico. Penso ad esempio a Vitaliano Trevisan (I quindicimila passi, Il ponte, Un mondo meraviglioso, Grotteschi e arabeschi, tutti per Einaudi Stile Libero) o a Francesco Maino, recentissimo vincitore del Premio Calvino con Cartongesso (Einaudi), una potente e bernhardiana invettiva, dolorosa come un urlo accanito e viscerale come un delirio matto, carica di odio e di amore contro questo Veneto e questo Paese, che non si capisce bene se a sua volta sia come lo specchio deformato del Veneto o se trovi nel Veneto la sua rappresentazione più intensa e mostruosa. L’Austria di Bernhard, come il Veneto di Trevisan e Maino, ma in fondo, seppure e su registri sicuramente diversi, anche quello di Luigi Meneghello, è l’ipocrisia, la mancanza di grandezza che si crede grande, il culto della piccola popolarità, il rispetto pedante delle forme e delle liturgie senza conoscerne il senso. In fondo la Vienna dei grandi palazzi e la Salisburgo aristocratica e vescovile dalle quali Bernhard fugge non sono così diverse dalla Vicenza museale, olimpica e palladiana dalla quale Parise è fuggito o da quel Wonderful World di Vitaliano Trevisan dove la banda di Povolaro – un paese ai margini della periferia vicentina – in Piazza dei Signori, suonando in modo davvero orribile, in un modo così orribile che è persino impossibile descriverlo, si trasforma, nello stato di trance dentro il quale si è come perso il protagonista, in una big band degli anni d’oro del jazz. E quando la musica finisce l’io narrante (che non a caso si chiama Thomas) si chiede facendo assurgere una questione assolutamente contingente al livello di domanda metafisica: “Come sono arrivato qui? (…) tra la basilica palladiana e la loggia del Capitanio”.
L’impressione è che al fondo di questa venetudine inafferrabbile, che nel midollo di questo Veneto contraddittorio, ci sia come una vergogna non riconosciuta; una vergogna atavica e quasi ancestrale, un desiderio doloroso di essere diversi da ciò che si è che si traduceva un tempo soprattutto in una forma di terribile timidezza, silente e sottomessa, e ora sempre più in esasperato e orrido orgoglio di se stessi. Il Veneto si vergogna di non sapere parlare l’italiano, si sente inadeguato alla lingua delle scuole e della televisione e per questo quando la conquista dissimula se stesso e quando non la conquista trasforma in altezzosa e volgare superbia la propria debolezza.
Dentro a questa vergogna c’è però forse anche qualcosa che assomiglia a un’opportunità, la traccia di una sorta di senso etico profondo e primordiale rispetto al quale, solamente, un sentimento come quello della vergogna assume senso. E’ questa, ad esempio, la vergogna che analizza un filosofo come Bernard Williams in relazione al mondo greco classico e che, per quanto in una sua specifica, magari bastarda e non di rado arida declinazione, riecheggia nello smascheramento delle retoriche del potere che costituiscono la cifra più profonda del Veneto di Meneghello, degli eroi sempre sottotraccia di Libera nos a malo odi Piccoli maestri. Una vergogna che è anche il segno della capacità di uno sguardo schietto e feroce sul mondo, dell’idea che non basta una rima buona o un pensiero arguto per accomodare la terra, le bestie e gli uomini.
Pensare il Veneto oggi significa, al di là degli stampini e delle figurine comode per i telegiornali, provare a scendere nel sottosuolo di questa vergogna e guardarla dritta in faccia, sfidandone lo sguardo e rispettandone la forza. Perché se non la si rispetta, la vergogna può trasformare improvvisamente la più patetica e rocambolesca delle commedie in una vicenda terribile e deflagrante.
[Immagine: Giorgio Meneghetti, Vicenza (gm) – https://www.flickr.com/photos/
“L’immigrazione necessaria, accolta più intimamente di quanto si pensi e rifiutata più radicalmente di quanto si immagini.” Così scrive Luca Illetterati in questo suo ritratto del Veneto: un ritratto in parte inquietante e in parte consolatorio. Vale però la pena di insistere, per cogliere sino in fondo gli aspetti più inquietanti della questione veneta, sui processi di discriminazione e segregazione razziale che sono avanzati in varie città del Veneto, una regione in cui sono presenti, secondo i dati della Charitas, circa 400.000 stranieri regolari (più quelli non registrati), giunti colà fra il 2000 e il 2013.
Toni Fontana, un giornalista dell'”Unità”, ha descritto a suo tempo in un piccolo libro intitolato “Viaggio nel regime di segregazione che sta nascendo nel Nord-Est”, le esperienze compiute nel Veneto, sua regione natale, dopo un lungo periodo di residenza trascorso fuori di tale regione, e ha descritto la paura e la diffidenza che caratterizzano i rapporti fra gli autoctoni e gli immigrati, e in particolare gli immigrati di seconda generazione, in una regione fra le più industrializzate del nostro paese. In quei territori allo sfruttamento economico della manodopera immigrata si aggiunge l’emarginazione sociale: basti pensare che nei dintorni della stazione di Treviso non esistono panchine. Tutto ciò avviene nonostante che un buon numero di immigrati lavorino regolarmente in aziende come la Benetton, la De Longhi ecc. Non solo: un buon numero di immigrati musulmani, fra i quali non mancano imprenditori e artigiani con tanto di partita Iva, sono costretti a girare con un tappetino sotto braccio in cerca di un posto dove pregare.
Sennonché ora stanno arrivando sulla scena sociale i loro figli, immigrati di seconda generazione, che vivono un triplice disagio: nel rapporto con i loro paesi di origine, poiché hanno acquisito stili di vita diversi e simili a quelli dei nostri figli; nel rapporto con la loro famiglia, poiché quegli stili spesso non corrispondono alle aspettative dei loro genitori; ma soprattutto nel rapporto, sempre più conflittuale, con le istituzioni. A questo proposito, è ancora ben vivo il ricordo del discorso che il prosindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini, pronunciò nel settembre del 2008 alla manifestazione della Lega Nord a Venezia davanti a ministri del governo italiano (manifestazione che fu trasmessa in diretta dalla Rai). Ecco alcuni dei passaggi di quel discorso: “Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari… Io ne ho distrutti due a Treviso e adesso non ce n’è più neanche uno… Voglio eliminare i bambini che vanno a rubare agli anziani… Voglio la rivoluzione contro quelli che vogliono aprire le moschee, i centri islamici, comprese le gerarchie ecclesiastiche che dicono: ‘lasciamoli pregare’… No, vadano a pregare nei deserti… Voglio la rivoluzione contro la magistratura: ad applicare le leggi devono essere giudici veneti… Questo è il mio Vangelo: voglio la rivoluzione contro i ‘call center’, i cui avventori si mettono a mangiare in piena notte e poi pisciano sui muri… Che vadano a pisciare nelle loro moschee… Voglio la rivoluzione contro chi vorrebbe dare il voto agli immigrati extracomunitari… Non voglio vedere neri, marroni o grigi che insegnino ai nostri bambini… Non voglio vedere questa gente”. Orbene, discorsi di questo genere sono purtroppo comuni, quotidiani, incessanti. I vari amministratori leghisti si passano il testimone l’uno con l’altro e ripetono continuamente questi discorsi, in modo che l’immigrato, e in primo luogo il figlio degli immigrati di prima generazione (ossia un cittadino italiano con regolare passaporto), riceva questo messaggio: “Tu non sei uno dei nostri e non lo sarai mai”.
Questo è dunque, come risulta dal breve e denso ‘reportage’ di Toni Fontana, il conflitto drammatico che si è aperto in una parte dell’Italia, che naturalmente non ha il monopolio del razzismo, dal momento che questo sta ormai imperversando su scala nazionale. Semmai si può e si deve parlare, nel Nord-Est, di un razzismo specifico, di carattere istituzionale. È l’istituzione che fa propria l’ideologia razzista e la diffonde perfino in quella che dovrebbe essere la casa di tutti: il municipio. In realtà, il sindaco, in questi Comuni, è il sindaco non di tutti, ma di una parte dei cittadini. Non vi è pertanto da sorprendersi se, come riferisce l’autore, nelle camere di questi ragazzi (immigrati di seconda generazione), che sono oggetto di una sistematica discriminazione, esercitata verso di loro in forma sia strisciante che aperta, si vedano le foto della ‘banlieu’ francese in fiamme, le foto di automobili che bruciano. Questi giovani sono stati posti, dai processi di segregazione che organizzano le istituzioni, nella condizione di sognare la ribellione, poiché non accettano di sottomettersi come i loro padri e le loro madri. Coloro che organizzano questa sistematica e martellante pressione razzista rendono quindi sempre più esplosivo un terreno sociale sempre più sensibile, ignari (o forse ben consapevoli) che chi semina vento raccoglie tempesta.
E il mondialismo non è forse dolore e vergogna? Chi ha stabilito che dobbiamo essere cittadini del mondo?
Il più classico degli articoli intellettualoidi: ricco di riferimenti superflui, terribilmente snob, e soprattutto distantissimo dalla vera e concreta realtà. Il Veneto è terra di contraddizioni, certamente. Ma poco o nulla di quello che qui è scritto le coglie.