di Camilla Panichi
[Quando ho terminato La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013) di Francesco Pecoraro, ho avuto la netta impressione di essere di fronte a un romanzo italiano senza precedenti. Ho deciso di intervistare l’autore. Ci siamo incontrati alcuni mesi fa a Roma in un giorno di diluvio universale che ricordava quello raccontato nel romanzo; ne è nata una conversazione di tre ore, da cui ho selezionato le seguenti parti. Francesco Pecoraro è autore anche di una raccolta di racconti, Dove credi di andare (Mondadori 2007); le prose inizialmente pubblicate sul suo blog con lo pseudonimo di Tashtego sono state raccolte nel volume Questa e altre preistorie (Le Lettere, 2008). Con La vita in tempo di pace Pecoraro ha vinto il premio Mondello e il Premio Volponi. È candidato al premio Strega 2014 (cp)].
Francesco Pecoraro (P)
Camilla Panichi (C)
C: La tua formazione è di architetto. Come sei arrivato alla scrittura e quanto è stata determinante l’esperienza di scrittura sul blog? (http://tash-tego.blogspot.it/)
P: Ho iniziato a scrivere negli anni Ottanta, essenzialmente versi. Da un certo momento in poi, all’inizio degli anni Novanta ho cominciato a produrre prosa. Assieme a molto materiale sparso, scrissi un piccolo libro, mai pubblicato, di riflessioni sull’Isola, di cui alcuni spunti mi sono poi serviti per i capitoli Sofrano e Il senso del mare della Vita in tempo di pace. Nei primi anni Duemila ho iniziato a lavorare con l’intenzione di produrre qualcosa di formalmente definito. Il web è stato molto importante, non esisterei come scrittore se non esistesse il web: per me è stata una palestra fondamentale, mi ha aiutato a fluidificare la scrittura, a renderla veloce, disinibita, a staccarla definitivamente dalla nozione liceale che ancora ne avevo.
Ho iniziato intervenendo sui forum letterari e sulle chat. Poi nel 2005 ho aperto un blog, altra modalità fondamentale di esercizio di scrittura individuale. E poi naturalmente facebook. Facebook è diverso, ancora non ho capito cos’è, ma credo vi si producano dei momenti di letteratura collettiva, degli sprazzi molto interessanti, come per esempio può accadere nel tennis: vedi una partita noiosa e d’improvviso assisti a quattro, cinque colpi meravigliosi, di pura qualità e invenzione. Questo su facebook può succedere, come del resto accadeva nei forum o in alcuni momenti di chat collettiva, dove ogni tanto l’intelligenza altrui si manifestava in modo abbagliante.
Per quanto mi riguarda, il mezzo tecnico è stato decisivo: sia il computer che il web hanno rappresentato un passo importante rispetto alla macchina da scrivere: con questa incidi lettera per lettera, con il computer è come scrivere sull’acqua, cancelli, rifai, sposti, sperimenti, butti. Vista la sua resa stilistica mi stupisce che David Foster Wallace scrivesse a penna. Il mio approdo alla prosa è piuttosto casuale, voglio dire non molto meditato. Dal 1980 lavoravo in un ufficio pubblico come architetto e urbanista. Qualche anno fa ebbi un contrasto con persone che in quel momento e in quell’ambito erano più forti di me, cosa che comportò per un certo periodo la mia completa esclusione da qualsiasi attività lavorativa. Sai quella cosa che si chiama mobbing? Fui collocato in un ufficio isolato, chiuso in una stanza a fare nulla, attaccato al telefono alla ricerca di un appiglio per rientrare e con una certa quantità di antidepressivi nel sangue. In questo tempo vuoto ho cominciato a scrivere, a dare forma a una serie di cose su cui stavo riflettendo. Mi sentivo una persona completamente fallita, annientata, persa e i miei primi racconti rispecchiano questo stato d’animo. Ma assieme a questo stato d’animo c’erano la felicità della scrittura, una certa incoscienza e una certa libertà. Ho scritto un buon numero di pezzi e li ho messi da parte. Nel frattempo coltivavo il blog, tramite il quale fui contattato da Silvia Bortoli che mi ha aiutato a pubblicare la raccolta Dove credi di andare. Oggi, quando incontro la persona con la quale ebbi quel contrasto, penso: ma davvero sei tu che mi hai fatto diventare uno scrittore?
C: Nella raccolta Questa e altre preistorie, c’è un frammento, Sessant’anni di guerra, che è un embrione di alcune delle riflessioni che verranno poi sviluppate nel tuo romanzo. Dunque che cosa significa ‘vivere in un tempo di pace’?
P: Vivere tutta la propria vita in tempo di pace è un’esperienza storica che credo sia capitata soltanto alla mia generazione. Spero che capiti anche alla vostra, ma non ne sono tanto sicuro. Sono nato nel 1945, alla fine della guerra, e sono invecchiato dentro la pace, guardando alla guerra come a una cosa mitica di cui da bambino mi venivano fatti molti racconti, soprattutto dalle donne. Questa memoria bellica indiretta incise molto su di me e costruì l’idea iniziale che mi feci dell’Italia come un paese perdente. Il racconto della guerra, l’esperienza vitale bellica sono tra le cose che ancora oggi mi incuriosiscono di più. M’interessa soprattutto il combattimento, perché comporta l’agire in modalità vita/morte per obbligo esterno e non per il proprio diretto interesse, se non per il fatto che in quei momenti il proprio interesse coincide interamente col sopravvivere. Mio padre era stato pilota di guerra. Raccontava pochissimo, ma una volta (ero ancora abbastanza piccolo) mi disse che ogni mattina, quando indossava la tuta di volo e saliva sull’aereo, diceva addio alla vita, perché sapeva che anche quel giorno c’erano fortissime probabilità che venisse ucciso («Se eri su un aereo da bombardamento, uno Spitfire neanche lo vedevi arrivare», disse, e per me da quel momento lo Spitfire entrò nell’olimpo delle divinità). Aggiunse che quella sensazione di vivere le ultime ore della propria esistenza gli davano un senso di pace assoluta. È sopravvissuto.
Rifiuto radicalmente la guerra, tuttavia ho sempre pensato che l’esperienza dell’agire in modalità vita/morte fosse l’unico vero modo per conoscere certi luoghi di sé. Ma l’esperienza del conflitto fisico, inesorabile e aperto, per fortuna mi è stata risparmiata. In tempo di pace il conflitto si svolge in maniera lenta, viscosa, sotterranea, e per tutta la durata della tua vita – tranne quando ti scontri fisicamente con qualcuno – non diventa mai esplicito. È una battaglia silenziosa e sottile, in cui occorrono astuzia, strategia, opportunismo, lungimiranza. Una lotta che alla lunga ti può demolire, perché tu hai, o credi di avere, un obiettivo, ma tra te e questo obiettivo ci sono tutte le persone che vogliono la stessa cosa, più tutti quelli che, in modo casuale o intenzionale, interferiranno con la tua azione, contrastandola, annullandola. Così, se non sei attrezzato, finirai in luoghi molto lontani da quelli dove ti eri prefisso di andare. Brandani da giovane decide di voler essere un costruttore di ponti, studia, si applica, ma per tutta la vita non riuscirà a progettarne nessuno.
C: Dunque la modalità vita/morte consentiva di pensare la vita in termini di solidità e di concatenazione, anziché di fluidità e dispersione, come oggi.
P: La modalità vita/morte è una fantasia di Ivo Brandani e forse anche mia. Una fantasia che riguarda il raggiungimento della coscienza di ciò che si è capaci o non capaci di fare nell’agire ultimativo. Ma poi non credo che nella realtà sia questo: c’è un bel film di Robert Rossen, Cordura, con Gary Cooper, in cui si espone la tesi che l’eroismo non abbia nulla di etico, né di consapevole. Essendo nato nel ’45 ho vissuto in un clima che potrei definire l’onda d’urto dell’esplosione bellica, che fu appunto un’esperienza terrificante e collettiva della modalità vita/morte. Ho vissuto tutta l’energia del dopoguerra, la sua spinta vitalistica (le ultime tre pagine di La vita in tempo di pace vogliono raccontare questa atmosfera), che fu anche una selvaggia e tenera spinta sessuale. Per me fu come trovarsi dentro l’onda d’urto di un’esplosione vicina, silenziosa ma molto forte. Nel dopoguerra ci fu il baby-boom e io sono figlio di quello spirito di rinascita, di ritorno alla vita, ne faccio parte ancora oggi.
C: In La vita in tempo di pace c’è un intero capitolo, Ponte e porta, dedicato ai moti studenteschi del Sessantotto e ai fatti di Valle Giulia, ed è narrato attraverso lo sguardo straniato del protagonista. Ivo Brandani attraversa un pezzo di storia che non è privo di eventi. Questo non può essere considerato un evento fondativo per l’esperienza individuale e collettiva? Che cosa ha rappresentato il Sessantotto nel flusso storico dei sessanta anni di pace?
P: In questo caso l’autore non coincide del tutto con il suo personaggio. Per me quegli anni sono stati un momento formativo formidabile. Per Ivo Brandani anche, ma in modo diverso, perché dirazza e decide che la tecnica è l’unica cosa che gli interessa: nella sua formazione l’impronta sessantottesca resta indelebile al punto che determina alcuni suoi errori di valutazione, come quello di sentirsi diverso. Cosa abbia effettivamente rappresentato il Sessantotto non posso dirlo perché non lo so, ma so che dopo l’Italia non fu più la stessa, anche se i giovani della mia generazione realmente coinvolti nel movimento furono una minoranza: considerando tutte le università e le scuole si calcola che siano stati al massimo cinquantamila, mentre ho letto che all’epoca i ragazzi italiani tra i 20 e i 29 anni erano più di 7 milioni, molti dei quali non se ne saranno neanche accorti. Occorre ammettere che a marcare gli anni successivi fu l’azione di queste avanguardie. E non poco.
C: Quindi tu hai deciso di raccontare questa non partecipazione, una partecipazione laterale come quella di Ivo.
P: No, Ivo partecipa e in modo molto assiduo: frequenta le assemblee e i seminari nelle facoltà occupate, va alle manifestazioni, ne discute continuamente, legge i sacri testi, eccetera, però senza mai riuscire a entrare davvero, cioè con l’anima, nel Movimento. E, quando lo scontro politico diventa scontro fisico, non riesce ad agire. Il mio personaggio non riesce a provare l’odio o l’eccitazione che ti servono in uno scontro di piazza e ti fanno superare la paura, mentre è capace di agire solo nella violenza privata. Ivo, soprattutto nell’infanzia, vive continuamente momenti di violenza e impara persino a gestirli, al punto che nelle strade che circondano la sua parrocchia diventa «uno che mena». Nell’inferno del tempo di pace non c’è la guerra, ma c’è la violenza. Quella privata e quella politica, che somiglia alla violenza militare, quindi alla guerra, dove si deve vincere la paura a freddo, cosa che Ivo non riesce a fare. La violenza guerresca e quella privata sono due cose profondamente differenti.
C: Oggi, il modello Ivo Brandani sembra aver vinto. Domina cioè il modello che ha protetto se stesso e i proprio interessi, che si è messo al riparo dalla Storia. Per come è strutturata oggi la nostra società civile e i modelli politici dominanti, quale reale cambiamento ha portato il Sessantotto?
P: La generazione che ha fatto il Sessantotto è riuscita a inserire elementi di democratizzazione, di modernizzazione, di civiltà sociale in un paese dominato da un eterno centro destra, clericale e autoritario. La figura di Franco Sala, che talvolta parla a nome dell’autore, sostiene – come del resto Ivo è costretto ad ammettere a se stesso – che tutto ciò che è stato fatto in quegli anni è stato fatto perché serviva al Capitale. Perché le società chiuse e autoritarie, come quella italiana del dopoguerra, dovevano aprirsi, evolversi, fluidificarsi, diventare più tolleranti e accoglienti per il consumismo che si stava allora instaurando. La mia sensazione è che il Sessantotto abbia trasformato completamente la scuola, oltre a consentire l’affermazione di due leggi fondamentali: il divorzio e l’aborto. Quindi l’Italia ha avuto una fase di ascesa civile dopo la quale è ricaduta molto più in basso da dove era partita. Questo è accaduto per una serie di fattori: uno di questi è stato il terrorismo (altro prodotto del Sessantotto), ma anche la debolezza culturale della classe media ha avuto un ruolo importante. In linea di massima credo che la lettura classica delle trasformazioni culturali dei primi anni Ottanta – che assegna un ruolo cruciale alla televisione commerciale – sia corretta. È un discorso complesso nel quale non sono a mio agio, ma, rispetto alla mia formazione marxista che voleva la cultura come un dato sovrastrutturale, mi sono reso conto che in una democrazia mediatica come la nostra la cultura è diventata un dato strutturale. È quando il potere, attraverso la televisione, riesce a parlare direttamente alle coscienze individuali e ad orientarle senza la mediazione dei partiti e dei blocchi culturali (dunque in definitiva degli intellettuali) che avevano caratterizzato fino ad allora la circolazione delle idee.
Una cosa che le persone della tua età non hanno vissuto e di cui non si possono rendere conto è che fino ai primi anni Novanta non c’era questa (apparente) fluidità. C’erano le Quattro Culture: quella cattolica con i democristiani, quella social-comunista, quella liberale & libertaria e quella fascista, ancora molto forte. Queste culture si esprimevano attraverso i partiti. Erano dei veri e propri sistemi complessivi d’interpretazione della realtà e di progettazione del futuro, ai quali si apparteneva e che facevano da filtro dell’informazione e quindi del giudizio: era una cosa capillare per via della diffusione sul territorio delle organizzazioni politiche. La cultura cattolica non era trasversale come oggi: i cattolici erano tutti dentro la democrazia cristiana, che aveva il 40% dei voti e nonostante le sue molte correnti era un blocco compatto. Invece la cultura social-comunista, che faceva capo al pensiero marxista e socialista, era divisa in tre o quattro partiti. La cultura liberale ne aveva due: il partito liberale e quello repubblicano…
C: Volendo individuare una data, a partire dal 1994 questo sistema è venuto meno.
P: Secondo me è cominciato a venir meno a partire dagli anni Ottanta.
C: Ti riferisci alla marcia dei quarantamila quadri della Fiat?
P: Non so, per me quello non è stato un evento così significativo. Non mi riferivo alla crisi del pensiero comunista, che secondo me è venuta a piena maturazione dopo il 1989, con la caduta del muro di Berlino. Sto parlando del processo di disappartenenza. Da un certo momento in poi il vecchio sistema politico-culturale ha iniziato a smontarsi e ciascuno dei blocchi di appartenenza da cui era formato non ha più avuto la funzione di filtro ideologico, non ha più organizzato il consenso o il dissenso nei confronti del potere in quel momento dominante. C’è anche da dire che queste culture interferivano fortemente, non erano isole impermeabili, ma si influenzavano a vicenda. Era una cosa strana: con la televisione di Stato bastava cambiare canale per passare da un paese all’altro, da una lettura all’altra. Ma c’erano collegamenti, trasversalità, momenti di osmosi. Poi gradualmente il potere si è procurato da solo il consenso attraverso la televisione commerciale, parlando direttamente alle menti, senza più alcuna mediazione ideologica. L’idea che la tua generazione si è fatta, e cioè che tutti quelli che hanno fatto il Sessantotto sono diventati classe dirigente non credo sia esatta. Saranno diventate vera classe dirigente, cioè gente con vero potere, centocinquanta persone, forse anche meno. Gli altri si sono persi nella società, come succede a ciascuno di noi, ma trattandosi di gente che aveva studiato, con ogni probabilità col tempo si saranno ritrovati in posizione dirigente: se per classe dirigente si intende questo, allora sì, ma è vero per ogni generazione. C’è stato un momento, legato agli anni Sessanta e alla cultura giovanile, in cui la spinta al cambiamento è stata molto forte: un libro molto bello di Henry Roth che si intitola Alla mercé di una brutale corrente: quando ripenso a quegli anni e alla mia vita mi viene sempre in mente l’immagine di un flusso storico che mi trasporta via con sé, senza che possa davvero oppormi.
C: La tendenza che tu hai individuato nella mia generazione è quella di guardare alle generazioni precedenti come qualcosa di costruito e stabile a differenza di una condizione attuale di disagio e precarietà. Dunque l’atteggiamento è quello di una costante negazione del passato, che però non produce un vero rifiuto e una radicalizzazione: il passato che contestiamo è quello che ci esclude, quello a cui vorremmo aderire.
P: Oggi non c’è neanche vero scontro culturale fra generazioni, perché in fondo si condivide la stessa cultura. Lo scontro degli anni Sessanta è stato fra due culture molto strutturate e in forte opposizione. Oggi i ragazzi vanno ancora a sentire i Rolling Stones, non ostante abbiano settant’anni e siano portatori di moduli estetici di 50 anni fa. Dopo non c’è stato niente di paragonabile a quel fenomeno economico-culturale che è stata l’invenzione della gioventù. Prima degli anni Sessanta non esistevano i giovani, adesso esistono e se ne parla in quanto giovani. Esistevano i giovani uomini, ma non esistevano i giovani con la loro cultura, con un loro linguaggio, diversi da quello dei genitori.
C: La lotta è un altro tema centrale del tuo romanzo. Lungo tutto il corso della narrazione emerge una forte e personale visione darwiniana.
P: Darwin è stato il pensatore più importante per la mia modesta visione del mondo. Molto importanti sono anche i neodarwinisti, i grandi divulgatori come Stephen J. Gould e Richard Dawkins, soprattutto quest’ultimo: L’orologiaio cieco è oltretutto un libro scritto superbamente. Un amico filosofo mi ha detto che La vita in tempo di pace è l’unico romanzo autenticamente darwinista che gli sembra di aver mai letto. Sono convinto che dobbiamo sforzarci di vedere il mondo senza cedimenti attraverso la chiave del materialismo evoluzionista. È necessario per sgombrare il campo da ogni illusione spiritualista. In questo sono d’accordo con l’ing. Brandani: tutto ciò che siamo è materia, tutto ciò con cui abbiamo a che fare è frutto di un cieco processo di evoluzione: imperfetto, impreciso e soprattutto mai compiuto. La vita è una grande zuppa ostile a se stessa, che sopravvive solo nella sopraffazione di sé. È stato detto che questa è una visione disperata. Non lo credo.
C: È un processo di trasformazione ciclico?
P: C’è un passaggio nel libro in cui Ivo si sforza di vedere il piede della ragazza seduta davanti a lui in aeroporto come il frutto dell’evoluzione di una mano, come una mano deformata, adattata alla deambulazione. È un processo non lineare che coinvolge ogni aspetto dell’esistente; tutto è in trasformazione, ma senza uno scopo che non sia adattativo: l’evoluzione non ha un fine, se si arresta, o rallenta, lo fa solo temporaneamente: tutti i file restano aperti fino all’ultimo, non c’è conclusione finale, ma solo chiusura per estinzione. Tuttavia è un processo che produce bellezza, cioè cose, organismi che a noi sembrano belli – e questo è uno dei misteri –, crea realtà inimmaginabili, complessità preterintenzionali, il cui scopo è leggibile solo a posteriori o non è leggibile affatto.
C: L’accettazione è ciò che permette a un individuo di fare un passo in più e di salvarsi rispetto a chi non riesce ad assumere lo stato di cose presente. Per usare, con molte virgolette, un’immagine di Primo Levi potremmo dire che chi riesce ad accettare la realtà è un ‘salvato’, gli altri sono dei ‘sommersi’.
P: Qui la mia visione personale e quella di Ivo si sovrappongono. Ivo non raggiunge i suoi obiettivi che, in fondo, sono minimali: vuole costruire ponti, vuole una donna con cui stare e fare dei figli, ma non riesce ad ottenere queste cose perché non sa veramente lottare, se non in modo fisico. Nella vita in tempo di pace non riesce a cavarsela nel conflitto strisciante silenzioso e violentissimo che ci investe per tutta la nostra esistenza e che produce come dice Primo Levi, ‘sommersi’ e ‘salvati’. Ivo in fondo non è un sommerso, perché le sue competenze di ingegnere gli garantiscono un buon livello di vita. È un vantaggio di partenza che ha sfruttato male, ma che gli ha dato comunque dei vantaggi. Non ho una concezione darwiniana della società, anzi, la combatto, perché in questo caso tutto diventerebbe ineluttabile, varrebbe soltanto la legge naturale del più forte e la sinistra è tale solo se è integralmente cultura, cioè se integralmente si oppone alla natura.
Una società è civile nella misura in cui salva i sommersi dando loro un minimo di garanzie. Se una persona povera può comunque essere ricoverata in ospedale, questo fa di noi un gruppo sociale. Se i sommersi diventano una maggioranza di soccombenti senza nessuna difesa, allora non siamo una società, siamo qualcosa di diverso. La società deve garantire esistenza e dignità anche e soprattutto al perdente. La cultura deve puntare a mantenere in piedi questa idea di società in opposizione a una natura fascista, fondata sulla sopraffazione, che si nutre di se stessa… La natura deve restare fuori le mura della civitas. Ma queste sono inferenze tutte mie: l’ing. Brandani non mi ricordo cosa pensa in proposito.
C: Dunque il concetto di ‘delimitare e abitare’, che hai espresso in Questa e altre preistorie, è porre dei confini tra ‘cultura’ e ‘natura’ (per altro Ivo Brandani muore a causa di un parassita, la Naegleria fowleri, cioè di un organismo unicellulare presente in natura).
P: Certamente, è un po’ una mia ossessione. Parecchi anni fa scrissi un saggio, Casa, uscito sulla rivista «Controspazio» (gennaio-aprile 1979) incentrato sull’analisi del rapporto esterno/interno, nel tentativo di spiegare il piacere di stare dentro, cioè in uno spazio delimitato rispetto al quale c’è un fuori. Analizzavo alcune pitture, come la Rotonda dei bagni Palmieri (Giovanni Fattori 1866) o The wind from the sea di Andrew Wyeth (1947), cercando di centrare l’idea che la nostra vita si nutre e si struttura nell’opposizione esterno/interno, che è alla base dell’abitare, e individuavo il corpo, la pelle, come un involucro abitativo ultimo, violato il quale siamo morti. Quindi vivere e abitare (noi stessi) sono la stessa cosa. Ovviamente una tale impostazione apre una quantità di problemi, che ora non sto a dire.
C: La struttura di La vita in tempo di pace sembra tenere conto di questa distinzione tra dentro e fuori tra ordine e disordine. Il libro è diviso in capitoli che alternano l’‘ordine’ inscritto nello sviluppo della trama e il ‘disordine’ inscritto nel flusso di coscienza di Ivo.
P: L’immagine strutturale che mi proponi è esatta e molto acuta. Ho scritto separatamente i capitoli narrativi e tutto insieme quello che possiamo convenzionalmente chiamare il flusso di coscienza, anche se propriamente non lo è. Successivamente ho deciso di spezzarlo e intervallarlo con i blocchi di testo che narrano diversi momenti dell’esperienza vitale dell’ing. Brandani. È difficile far funzionare da solo il flusso di coscienza, perché si ha sempre bisogno di dire cose che non siano filtrate dallo sguardo del protagonista: cosa sta realmente accadendo? Quando ho descritto gli scontri di piazza ho avuto serie difficoltà nel dire tutto dal punto di vista di Ivo: quando mi sta accadendo una cosa io non dico a me stesso “mi sta accadendo questa cosa”, lì lo sto dicendo al lettore e quindi c’è un artificio di scrittura. Il flusso di coscienza funziona bene solo a scapito della trasmissione del senso. Volevo che il lettore sapesse e capisse, per questo ho accetto un certo livello di ambiguità.
C: Qual è stato il principio teorico alla base della tua scelta narrativa?
P: Un vero e proprio principio teorico direi che non c’è. Solo qualche criterio, qualche scelta a naso. Sapevo solo di voler scrivere molto, di voler vuotare il sacco. Poi la messa a punto della struttura ha richiesto molto tempo, finché non ho capito che l’andamento doveva essere a ritroso. Ero convinto di non poter narrare in termini lineari: mi piaceva l’idea dello scavo all’indietro, oltre le radici, fino al niente dell’emozione erotica che è alla base delle nostre esistenze. Volevo evitare che si leggesse un rapporto di causa effetto tra il prima e il dopo e soprattutto niente “romanzo di formazione”. Tutto doveva risultare un po’ confuso, si doveva capire solo qualcosa e tenevo all’epilogo dove, prima della sofferenza vitale di chi nascerà, c’è un momento di felicità assoluta. Insomma il libro è costruito con precisione: soprattutto non volevo che i momenti di narrazione più strutturati, cioè quelli inframmezzati al flusso di coscienza aeroportuale, suonassero come flash back prodotti dalla mente di Ivo, perché sono prerogativa del narratore. Il problema più grosso per me era (ed è) entrare/uscire dalla testa delle figure che metto in scena. Insomma sono un narratore dell’inizio del XXI secolo, non credo più nella linearità del testo e nella trama: del resto la vita non ha trama, la vita è una cosa confusa e indecifrabile, se voglio provare a parlarne seriamente devo limitare la trama ai momenti in cui ci succedono cose concatenabili in un plausibile rapporto di causa-effetto. Questi momenti nel libro sono resi tendendo a una maggiore intensità narrativa, ma si tratta soltanto di porzioni quantiche in cui l’esperienza vitale può essere detta in questo modo, per il resto no.
C: Leggendoti ho pensato spesso a Joyce e Kafka (soprattutto per alcuni racconti in Dove credi di andare?) Ti riconosci in questi scrittori? Quali sono i tuoi modelli?
P: Sono stato per tutta la vita perdutamente innamorato di Hemingway che, con Joyce, è considerato un autore modernista. Un vero scrittore modernista italiano è Fenoglio, che non a caso traduce i propri libri da una prima stesura in inglese. Il tuo scrittore è quello che, se hai diciassette anni ed è un pomeriggio di pioggia, scegli di leggerti sdraiato sul letto dopo i compiti. Gli scrittori che passano attraverso la scuola sono appannaggio della cultura cui si appartiene e smettono di essere personali. Non c’è dubbio che si debba passare attraverso questo perché si crei una tradizione, ma nel momento in cui canonizzi uno scrittore salvandolo dall’oblio, lo ammazzi presso le nuove generazioni.
Poi ci sono stati i racconti di Kafka, per me molto più importanti dei romanzi. Kafka non si può neanche definire uno scrittore, non è uno di noi, sta altrove, è qualcosa di inimmaginabile. Ma se dovessi dirti un libro fondamentale per la mia formazione, quello è Pinocchio, che lessi da molto piccolo in edizione illustrata, traendone un’impressione indelebile e la nozione fondamentale che non ci si possa fidare di nessuno, perché tutti (compresi i tuoi amici) perseguono fini personali, diversi dal tuo, oppure, peggio, coincidenti col tuo. Amo la letteratura di movimento. Mi sono fatto l’idea che esistano due tipi fondamentali di letteratura, quella di relazione e quella di movimento. L’universo femminile è relazionale, l’orizzonte è prevalentemente sociale. L’universo maschile è prevalentemente di movimento, l’orizzonte è spaziale. Come spiega Matt Ridley in La regina rossa, dal punto di vista evolutivo le femmine del sapiens hanno sviluppato una forte sensibilità relazionale, mentre i maschi, socialmente molto più ottusi, hanno una visione marcatamente spaziale. Le prime sanno affrontare gli eventi che si verificano all’interno del recinto sociale, i secondi sono più preparati ad affrontare gli eventi esterni. È come se i due sessi si fossero divisi i compiti: alle femmine l’interno, ai maschi l’esterno.
C: Alice Munro è l’archetipo della scrittura relazione; i suoi racconti modulano le infinite variazione dei rapporti all’interno delle cerchie sociali, eppure anche quando la narrazione resta serrata tra le mura di un salotto, Munro ha la capacità di aprire una finestra sul mondo, restituendo così un’idea di ‘movimento’.
P: Alice Munro rappresenta un’eccezione. Ce ne sono altre. La letteratura relazionale non mi interessa particolarmente. Mi interessa la letteratura in cui è prevalentemente l’agire nello spazio fisico che provoca gli eventi. Da ragazzino giocavo con gli scavatori, non con le bambole, e questa visione mi è rimasta. Poi c’è la grande scrittura, che riconosci subito, come quella di Alice Munro che mescola sapientemente esterno e interno.
Ti faccio un esempio: Williams ha scritto due libri, Stoner e Butcher’s crossing, il primo non mi è piaciuto per niente, il secondo moltissimo. Ai miei occhi Stoner rappresenta la letteratura relazionale, mentre Butcher’s crossing è letteratura dinamica. Butcher’s crossing – è la storia di una tragica caccia al bisonte, disperata e pazzesca: persone che stabiliscono relazioni gerarchiche ed economiche tra di loro, partono, compiono un’azione e ritornano, ma non prima di aver profondamente trasformato la realtà – di solito piace molto meno dell’altro, ma per me è molto più interessante di Stoner.
C: Dunque la tua idea di romanzo si rifà al modello d’avventura e alle narrazioni degli esploratori come Salgari.
P: Per me ci sono i famosi ‘cinque’ della letteratura anglosassone e coloniale: Melville, Stevenson, London, Conrad e Kipling. Salgari non sono mai riuscito a leggerlo, mentre mi piaceva molto Verne. Ho letto tutti i diari di viaggio di Cook, sono costantemente affascinato dalla vicenda dell’ammutinamento del Bounty: è bellissima e totalmente, disperatamente simbolica. Ho letto molta fantascienza e mi piacciono le narrazioni di guerra di cui spesso mi restano immagini indelebili, come le cose narrate da Ambrose Bierce sulla Guerra di Secessione. Capolavoro assoluto è Il nudo e il morto di Mailer, l’unico libro che descrive la guerra da un’ottica totalmente di classe: il conflitto e l’odio sociali che si mantengono e si riproducono anche nei momenti di più intenso combattimento. Mailer ha un forte e coerente portato ideologico e Il nudo e il morto è il primo (e forse l’ultimo) romanzo seriamente marxista che ho letto. Mailer ci mostra due conflitti, di cui quello più importante ed epocale non è la Seconda guerra mondiale, ma il conflitto di classe, che è molto più profondo e ineluttabile e crudele.
C: L’espressione ‘portato ideologico’ oggi ha un’accezione negativa.
P: È vero, anche se siamo totalmente immersi nell’ideologia da quando ci alziamo la mattina a quando andiamo a dormire. Ma per me avere un’ideologia significa avere un punto di vista, cioè una chiave di interpretazione della realtà e della storia: se non ce l’hai riesci a raccontarle solo in modo fenomenico. Non importa qual è il punto di vista, ciò che conta è che ci sia. Se Canaletto deve dipingere una delle sue (noiose) vedute è necessario che scelga un punto di vista da cui sviluppare la messa in scena prospettica: la scelta del punto di vista determinerà l’altezza della linea dell’orizzonte e la posizione di tutti i punti di fuga sul piano quadro. Se non si costruisce il piano quadro e non si stabilisce la posizione e l’altezza del narratore rispetto agli oggetti narrati, non si riesce a realizzare un’immagine, dunque a narrare. Questo serve per la scrittura, ma soprattutto per l’immagine mentale che abbiamo del mondo. È sbagliata? Tutte le immagini sono sbagliate, anche quelle matematiche sono approssimazioni, però è necessario avere una visione del mondo, che è sempre ideologica. Senza le ideologie non avremmo niente da dirci ed è quello che sta accadendo.
C: Piuttosto siamo di fronte a una moltiplicazione dei centri e dei punti di vista.
P: Non sono d’accordo: siamo alla fine della molteplicità delle visioni. Sono finite le ideologie oppositive, restano vive solo quelle parzialmente o totalmente consensuali. I giovani non si accorgono nemmeno di essere tutti liberali, perché l’opposizione all’ideologia liberale non ha più voce né sostanza. Così vivono nella contraddizione, inconscia e terribile, dell’aderire ideologicamente al sistema, che li vuole alla propria mercé in una condizione eternamente precaria e fluttuante, e il disperato bisogno di solidità per costruire la propria esistenza. Dal punto di vista politico è grave che questo disagio non trovi sbocco, cioè che non riesca a farsi politica.
[Immagine: Josh Smith, Tennessee Fish (2008)].
Interessante questo romanzo di Pecoraro. E l’intervista di Panichi (classe 1986: brava Camilla!). Mi ha lasciato perplessa solo il punto in cui Pecoraro fa una distinzione netta tra letteratura relazionale e di movimento (la prima femminile, la seconda maschile). Mi viene da dire: e allora i racconti di Cechov che cosa sono: scrittura ‘interna’ o ‘esterna’? E “La montagna incantata”, anzi “magica”? E “L’educazione sentimentale”? E, per dire un romanzo che si ambienta nello spazio esterno di una guerra coloniale, “Tempo di uccidere”? Per me, per esempio, quest’ultimo è uno splendido romanzo e maschile e di relazione. Personalmente penso che la letteratura persegua il doppio e inscindibile fine di indagine sulla natura umana e di sguardo-decifrazione del mondo. La letteratura vera (e qui, lo so, si tocca una ‘vexata quaestio’) credo che sia quella impegnata sui due fronti. Al di là del sesso dell’autore.
A tre voci (2004)
– O Capitano, mio Capitano Bligh,
dopo cinquemila miglia di tribolazioni
Timor è in vista! Quale lupo di mare
ce l’avrebbe mai fatta solo con un sestante
in questa dannata scialuppa?
– La Regia Marina Britannica, però,
dovrebbe dargli caccia spietata:
si nascondessero pure
sotto larghe gonne tahitiane,
meritano solo la forca.
– Questa non era una passeggiata
romantica a spese di Sua Maestà.
Forse un dì avremo l’onore di vederli
faccia a faccia mordersi la lingua.
[L’ammutinamento del Bounty fu accolto da Lord G. G. Byron con entusiasmo, poiché la marina militare di allora era ineccipibilmente severa e qualcosa doveva cambiare. Tre sono le versioni cinematografiche sul tema: una con Clarke Gable, un’altra con Marlon Brando, una terza con Mel Gibson, ma pur evidenziando un aspetto romantico della vicenda, essendo ambientate in luogo esotico, esse peccano di non veridicità. Secondo gli Atti del processo che, secoli fa, si tenne in Gran Bretagna, si evince che William Bligh e Fletcher Christian avevano una relazione gay, cosa non rara tra uomini di mare, e che quest’ultimo aveva capeggiato l’ammutinamento perché indignato dalle vessazioni subite come passivo. Ci sarà mai una quarta versione filmica che rispetti la scomoda verità?].