di Paola Quadrelli
Marina Cvetaeva asseriva nel saggio Un poeta a proposito della critica che «la creazione è successione e gradualità» e che dunque «la cronologia è la chiave per la comprensione» dell’opera di un artista. L’intensa e travagliata biografia della poetessa russa è invero nota anche al lettore italiano grazie all’attenzione particolare che l’editoria del nostro Paese ha riservato alla Cveateva a partire dagli anni Ottanta. Numerosi sono i testi a cui far riferimento per conoscere fatti esteriori ed evoluzione letteraria e psicologica della poetessa; le prose autobiografiche degli anni Trenta, in cui la Cvetaeva, dalla lontananza dell’esilio, rievoca persone ed episodi della sua infanzia (Il diavolo, Editori Riuniti 1981), gli scritti raccolti in Indizi terrestri, che costituiscono una cronaca della vita di Marina a Mosca negli anni 1917-1919 (Guanda 1980), i due volumi adelphiani delle lettere, nonché l’esaustiva biografia di Viktoria Schweitzer (Mondadori 2006) permettono, infatti, di conoscere nel dettaglio le esperienze, gli incontri, le letture e i tragici colpi del destino che segnarono la biografia della poetessa, nata a Mosca nel 1892 e morta suicida a Elabuga nel 1941.
A questo ampio novero di opere si aggiungono ora i taccuini relativi al biennio 1919-1921 (Taccuini 1919-1921, traduzione e cura di Pina Napolitano, pp. 428, € 20,00) che Voland pubblica in un’edizione ricca di note e di illustrazioni e corredata di un’utile prefazione della curatrice volta a enucleare e illustrare i temi portanti di queste annotazioni. Si tratta di materiale rimasto a lungo inedito anche in patria e reso accessibile ai ricercatori solamente dopo il 2000, ovvero allo scadere del divieto di accesso al lascito della poetessa posto dalla figlia Ariadna Efron.
All’inizio degli appunti Marina vive sola a Mosca con le due figlie piccole, senza ricevere più da mesi notizia alcuna del marito, Sergej Efron, che si è unito all’esercito volontario antibolscevico nel Sud della Russia. Le condizioni di vita a Mosca negli anni del “comunismo di guerra” sono terribili: i viveri scarseggiano, per il pane e i beni di prima necessità è stato introdotto il tesseramento, nelle case mancano il riscaldamento, la luce elettrica e l’acqua. Gli ampi appartamenti di proprietà delle famiglie borghesi sono stati ridivisi e pure nell’appartamento di vicolo Boris e Gleb in cui la Cvetaeva abita dal 1912 si sono installati nuovi inquilini. Per scrivere Marina si rifugia nella mansarda, una soffitta fatiscente e polverosa in cui regnano il disordine e il gelo e le cui travi vengono spesso utilizzate come legna per alimentare la stufa. Proprio nelle prime pagine del taccuino Marina descrive la tipica routine di una giornata qualsiasi: lavare, andare in giro nei mercati della città alla ricerca di cibo, pelare patate, segare la legna, provvedere alle figlie. Alcuni anni dopo, ormai all’estero, la Cvetaeva creerà sulla base di queste note il testo In soffitta, contenuto in Indizi terrestri, un libro a cui la poetessa va già pensando in questi ultimi mesi del 1919, quando annota: «Scriverò un giorno una Storia della vita quotidiana a Mosca nel 1919!». La natura dei taccuini è in stretta correlazione con il completo scardinamento delle abitudini quotidiane provocato dalla Rivoluzione; la Cvetaeva, adusa sino ad allora a frequentare esclusivamente ambienti dell’élite intellettuale, entra ora in contatto, nei mercati o nelle file davanti ai negozi, con la gente comune, sviluppando una sensibilità per la lingua popolare e per le tradizioni folcloriche che non resterà priva di conseguenze per la sua produzione letteraria. I taccuini nascono dunque dal bisogno di annotare ciò che ella vede e sente, dall’esigenza di cogliere e trattenere quanto di nuovo ha fatto irruzione nella sua vita: «adesso sono appassionatamente assorbita dai taccuini: tutto quello che sento per strada, quello che dicono gli altri, che penso io…» dichiara la Cvetaeva nel maggio 1920 in una lunga e importante conversazione con il poeta Vjačeslav Ivanov, a sua volta riportata nei taccuini. L’osservazione del mondo esterno («osservare diventa per me una passione, mi rende una creatura per metà astratta, quasi invulnerabile») si pone, del resto, come una pratica antitetica al narcisismo, all’egocentrismo e all’auscultazione del sé che la Cvetaeva sente come caratteristiche specifiche della propria personalità; «per ora vedo solo me stessa e le mie cose nel mondo», obietta, infatti a Ivanov, che la esorta a scrivere un «Romanzo, un vero grande romanzo».
I taccuini testimoniano, poi, della (prima) tragedia che investì la famiglia di Marina: la morte per stenti della seconda figlia Irina, affidata dalla madre, insieme alla sorella Alja, a un orfanotrofio, nella speranza che lì potesse ricevere un’alimentazione adeguata. Intense e commoventi sono le pagine in cui descrive le visite alle figlie e in cui annota pensieri e relativi a Irina, una bambina affetta da un ritardo nello sviluppo, non amata da Marina, in vita, ma oggetto di laceranti sensi di colpa dopo la morte: «Irina! Com’è morta? Cosa provava? Si dondolava? Che ricordi le sfilavano davanti? Forse un angolino della casa di Borisoglebskij – Alja – me? Cantava “Ai dudu-dudu-dudu”… Capiva qualcosa? Qual è stata l’ultima cosa che ha detto? (…) Irina! Se esiste un cielo, tu sei in cielo, comprendimi e perdonami se sono stata per te una cattiva madre, che non ha saputo superare la sua avversione per la tua natura oscura e incomprensibile. – Perché sei esistita? – Per avere fame – per cantare “Ai dudu”…, per camminare sul letto, scuotere le sbarre, dondolarti (…). Strana – incomprensibile – misteriosa creatura (…)».
Agli “indizi terrestri”, agli appunti inerenti la vita quotidiana, si uniscono poi nei taccuini pagine di memorie (splendido il ritratto della madre, poi rielaborato in Mia madre e la musica), brevi annotazioni, quasi aforismi, sulla poesia e l’amore, appunti della precocissima figlia Alja, narrazioni di sogni, minute di lettere, ritratti di contemporanei, resoconti di incontri, conversazioni e serate di poesia. La durezza della vita quotidiana e le sciagure private non frenano, infatti, la vivacità e la curiosità intellettuale e umana della Cvetaeva; le già citate pagine iniziali dei taccuini, in cui la poetessa annota la faticosa lotta quotidiana per la sopravvivenza, forniscono al contempo testimonianza dell’orgogliosa e appassionata vitalità di Marina: «Non ho annotato la cosa più importante: l’allegria, l’acutezza del pensiero, la gioia per ogni minimo successo, i progetti di lavori teatrali (…)». In questi anni la Cveateva compone, infatti, oltre a poesie e poemi, anche sei pièces in versi, destinate agli attori del Secondo e Terzo studio del Teatro d’Arte di Mosca che ella allora frequentava. Al gruppo degli attori del Secondo Studio, diretto da Vachtangov, apparteneva pure Sofia Holliday con cui la Cvetaeva intrattenne un intenso rapporto di amorosa amicizia e che immortalò, molti anni dopo, ne Il racconto di Sonecka (La Tartaruga 2002).
L’amara esistenza quotidiana e la sublime vita dello spirito coesistono dunque in questi diari e proprio da questa coesistenza scaturisce lo stile originalissimo, poetico e vibrante e al contempo nitido e diretto, che li connota. La tensione tra aderenza alla terra e aspirazione al cielo, tra concretezza e sentimento, del resto, informa di sé la straordinaria personalità della Cvetaeva, donna lucida e appassionata, rigorosa e inquieta, che in commovente passo dei taccuini definisce così la parte che la poesia occupa nella sua vita:
Forse tutta la mia debolezza consiste nel fatto che ho guardato sempre alla scrittura come a un lusso, non l’ho mai presa – sufficientemente – au sérieux (mai, neanche per un giorno!) – non l’ho tenuta in conto, per lei non ho lasciato niente e nessuno, – così una donna felicemente sposata – o che ha forse semplicemente deciso di restare onesta! – tratta il suo cavalier servant o il suo paggio, che non diventerà mai il suo amante. (E che amerà – forse – più di suo marito!)
Non è pigrizia – perché scrivo con passione, e questa mia passione – questa mia felicità – non ha eguali.
No, è il mio eterno spirito spartano, quella stessa severità che ho anche nei confronti dell’amore.
– Non si può passare il giorno a odorare le rose! – (Sebbene io di nulla abbia bisogno, se non di questo!)
[Immagine: Marina Cvetaeva (dbr)].
L’articolo pur nella sua brevità esprime bene il dramma vissuto da Marina e il prezzo pagato alla poesia e per la poesia.