[È uscita in questi giorni, per l’editore Carocci, la Storia dell’italiano scritto, a cura di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin. All’opera, che si compone di tre volumi (I. Poesia; II. Prosa letteraria; III. Italiano dell’uso), hanno partecipato trenta autori. I loro contributi prendono in considerazione i generi e le tradizioni testuali dell’italiano scritto attraverso i secoli, analizzando tra l’altro il rapporto tra dimensione estetica e dimensione funzionale della lingua, discutendo alcuni luoghi comuni (il ‘parlato’ antico è davvero irrecuperabile?) e aggiornandoci sulla stato di salute della lingua italiana di oggi. La Storia dell’italiano scritto viene presentata oggi alle 14 al Salone del libro di Torino da Stefano Bartezzaghi, Stefano Salis, Tiziano Scarpa e Enrico Testa].
di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese, Lorenzo Tomasin
L’italiano in cui sono scritte queste righe e le pagine di questo giornale è una lingua parlata e scritta, oggi, da milioni di persone. Una lingua varia nelle sue articolazioni interne – geografiche, sociali, culturali, stilistiche –, ma anche unitaria e ben riconoscibile nella sua fisionomia complessiva. Come molte lingue contemporanee, l’italiano quotidianamente prodotto, ascoltato e letto da tutti (o quasi) gli italiani è una lingua ormai desacralizzata nella sua dimensione scritta, proprio perché ormai (e finalmente) buona per tutti gli usi. Non più o non solo lingua del bel cantare o del dolce poetare, ma codice di comunicazione quotidiana, urlata, digitata, funzionale.
Ciò ne fa, naturalmente, una lingua viva e (ne siamo convinti) complessivamente in salute. Ma ne fa anche qualcosa di diverso da ciò che è stata gran parte della sua storia, visto che almeno fino alla metà del secolo scorso tra lingua del parlato e lingua dello scritto c’è stata una separazione molto netta. Banale osservare che la dimensione parlata della lingua è di fatto irrecuperabile – per ragioni legate all’impossibilità di registrazione della voce – fino a un periodo tutto sommato recente. Banale, anzi falso; visto che molto del parlato «antico» ci è ancora oggi restituito, se pure in modo indiretto o distorto, proprio dai testi dell’italiano scritto. È nel «parlato trascritto» delle deposizioni dei testimoni negli atti giudiziari, a partire da quelle, formulari, con cui – prima dell’anno Mille – comincia la nostra storia linguistica: «Sao ko kelle terre …». Ma anche nelle scritture dei semianalfabeti (emigranti, mezzadri, monache, streghe: quanta sgrammaticata naturalezza parlata nei testi che oggi chiamiamo semicolti) o nelle estemporanee scritte disseminate sui muri del nostro Paese (nel 1977, in piena contestazione, in un’università si leggeva: «distuggiamola grammatica», con chiosa autoironica nella stessa vernice spray: «come vedete da sopra, avevo spontaneamente cominciato»).
Ma una storia dell’italiano scritto, come quella che abbiamo tentato di proporre coordinando il lavoro di una trentina di autori, è prima di tutto la storia di una grande e non del tutto trapassata lingua letteraria. Proprio grazie al prestigio dei modelli letterari trecenteschi (Dante, Petrarca, Boccaccio), il fiorentino antico riuscì progressivamente ad affermarsi sulle altre parlate locali, imponendosi come lingua condivisa in un’Italia politicamente divisa (e trasformando, dalla metà del Cinquecento, il ruolo dei diversi volgari divenuti ormai dialetti). La costruzione di questa identità dell’italiano è un altro dei prodigi del Rinascimento: le Prose della volgar lingua (1525) dell’umanista Pietro Bembo, a cui si deve la codificazione della nostra lingua sul modello dei classici, sono figlie degli stessi ambienti in cui Raffaello reinventava l’antico. Questo senso del passato nel moderno costituirà uno dei punti di forza dell’italiano: è attraverso la sua storia letteraria che l’italiano – lingua di poeti e di scrittori (spesso tutt’altro che santi) – è diventata una lingua di cultura universalmente riconosciuta come tale.
Oggi, dopo che abbiamo assistito – sia in prosa sia in poesia – alla sua radicale trasformazione, la lingua letteraria continua a essere vissuta con ammirazione mista a disagio. Ma soprattutto con scarsa attenzione per il suo valore storico, che non è semplicemente quello di uno strumento neutro per veicolare contenuti letterari o idee. Sempre più numerosi sono i tentativi di riscrittura dei nostri classici in italiano moderno. Ma Boccaccio, Machiavelli, Castiglione non sono anche, precisamente, la lingua del Decameron, del Principe o del Cortegiano? Al di là delle esigenze di leggibilità, negli esperimenti di chi mette tra parentesi la lingua in cui si sono espressi i nostri scrittori si coglie una difficoltà nel percepire la lingua letteraria – quella «difficile» e a prima vista «lontana» dei grandi autori del Medioevo, del Rinascimento o anche di età più vicine – come qualcosa che ha valore in sé. Un valore che non può essere rimosso, ma va semmai spiegato con paziente attenzione proprio perché possa essere apprezzato da un pubblico più ampio dei soli addetti ai lavori. Anche questo si propone di fare un’opera di sintesi non puramente manualistica come la nostra, altrimenti difficile da giustificare qui e oggi.
Alla base c’è l’idea che la storicità dei fatti linguistici sia qualcosa con cui bisogna misurarsi dal punto di vista culturale, prima ancora che estetico. Un punto di vista che accomuna tutti e tre i volumi di questa Storia dell’italiano scritto, dedicati rispettivamente alla Poesia, alla Prosa e all’Italiano dell’uso. Due terzi dell’opera come si vede (cioè circa un migliaio di pagine) sono dedicati ai generi della scrittura letteraria, ma lasciando spazio – accanto ai grandi istituti canonici (il romanzo, la poesia lirica) – anche a generi che forse siamo meno abituati a pensare come importanti nella storia della nostra lingua.
L’epistolografia degli eleganti prosatori cinquecenteschi («le lettere s’hanno a scrivere con un certo nè troppo, nè poco di famigliarità», scriveva Stefano Guazzo), la poesia comico-realistica di tradizione municipale (come il Cecco Angiolieri di S’i’ fosse fuoco arderei ’l mondo) o la prosa teatrale costantemente contaminata dai dialetti (come in tante opere di Goldoni e nei memorabili tic linguistici dei suoi personaggi: «Vegnimo a dire el merito»). E se oggi la storiografia e la trattatistica si sono semplicemente dissolte nell’àmbito non-letterario delle scritture scientifiche («saggistica», negli scaffali delle librerie), per secoli sono state luogo di travaso di una sapiente retorica nel vivo dell’attualità, della natura, del cosmo: dalla grande prosa di Galileo – scienza e letteratura insieme – alla divulgazione piacevole declinata dagli scritti razionalisti e illuministi (basti pensare al Newtonianismo per le dame di Francesco Algarotti, 1737). Senza trascurare l’importanza di certe letture trasversalmente diffuse nella società, come i romanzi d’appendice o più di recente i fumetti: quella che gli specialisti chiamano «paraletteratura».
Tra letteratura, non-letteratura e para-letteratura, la Storia dell’italiano scritto ripercorre il retroterra di ciò che oggi identifichiamo con la lingua nazionale, sforzandosi di dargli una sistemazione complessiva. Nella convinzione che riordinare significhi – in un caso come questo – interpretare.
[Questo articolo è già apparso su «Il Sole 24 ORE – Domenica»].
[Immagine: Tano Festa, Da Michelangelo (gm)].
Un angolo di osservazione quanto mai significativo per misurare il rapporto tra lingua e società è quello offerto dall’analisi dei fattori che intervengono nei concreti comportamenti linguistici. Come è noto, quattro sono principalmente i fattori che influiscono su tali comportamenti: la situazione comunicativa (diafasìa), la classe sociale e il grado di istruzione e di cultura di chi parla o scrive (diastratìa), il mezzo di comunicazione, scritto o parlato, di chi usa la lingua (diamesìa) e la sua provenienza geografica (diatopìa). L’italiano parlato, ad esempio, può essere formale, come accade in una lezione o in un discorso pubblico, oppure informale, come accade in una conversazione famigliare o in un colloquio con amici e conoscenti, allorché l’uso della lingua italiana assume una crescente caratterizzazione regionale o locale, sino a sfumare, con il prevalere dei relativi tratti fonetici e lessicali, nel dialetto.
Visto che nell’articolo sulla “Storia dell’italiano scritto” non vi è traccia di un’analisi socio-linguistica sugli usi contemporanei della nostra lingua, sarà utile segnalare i quadri con cui taluni studiosi hanno posto in luce le corrispondenze tra i vari tipi di italiano parlato e le classi o frazioni di classe che ne fanno uso. Il Mioni, ad esempio, dopo aver distinto quattro tipi di italiano (italiano comune, italiano comune regionale, italiano regionale, italiano regionale popolare) e quattro tipi di dialetto (‘koiné’ – ossia parlata comune – dialettale, dialetto dei centri provinciali, dialetto dei centri minori e dialetti locali), correla l’alta borghesia all’italiano comune e alla ‘koiné’ dialettale, la piccola borghesia all’italiano comune regionale e al dialetto dei centri provinciali, gli operai all’italiano regionale e al dialetto dei centri minori e i contadini all’italiano regionale popolare e ai dialetti locali. Lo schema è chiaro e suggestivo, anche se non è facile comprendere la distinzione tra l’italiano “comune regionale” e l’italiano “regionale”. Un altro studioso, il Sanga, ha elaborato uno schema più complesso e articolato, distinguendo un italiano anglicizzato, un italiano letterario standard e un italiano regionale, usati dalla borghesia; un italiano colloquiale usato dalla borghesia e dalle classi medie; un italiano burocratico usato dalle classi medie; un italiano popolare usato dalle classi medie e popolari; un italiano dialettale, un italiano-dialetto, un dialetto italianizzato, usati dalle classi popolari; una ‘koiné’ dialettale, un dialetto urbano (provinciale) e un dialetto locale civile, usati dalle classi popolari e medie; un dialetto locale rustico usato dai contadini; un ‘argot’ (ossia un gergo) italiano regionale e un ‘argot’ dialettale urbano, usati dalla classe degli emarginati; un ‘argot’ dialettale rustico, usato dai contadini.
I quadri or ora illustrati confermano l’incidenza dell’italiano regionale e locale nei concreti usi linguistici, soprattutto in quelli che, come il parlato, hanno luogo in situazioni non formali, ma indicano anche come siano ormai lontani i tempi in cui l’italiano si identificava con l’uso scritto e il dialetto con quello orale. Infine, mostrano che la lingua non è uno strumento più o meno neutro a disposizione di chi lo voglia e sappia usare, ma, per dirla con Marx, una delle condizioni della produzione e riproduzione della vita materiale, inscindibilmente connessa, pur nella sua relativa autonomia, alla struttura classista della società esistente.