[Luca Rastello ha scritto, fra le altre cose, uno dei romanzi italiani più importanti degli anni Zero, Piove all’insù (Bollati Boringhieri, 2006). Nelle scorse settimane è uscito il suo secondo romanzo, I Buoni (chiarelettere). Pubblichiamo le recensioni di Daniele Giglioli (apparsa su La Lettura del «Corriere della Sera») e di Massimo Raffaeli (apparsa su Tuttolibri di «La Stampa»)].
Daniele Giglioli
Con I Buoni, Luca Rastello torna al romanzo dopo il folgorante esordio di Piove all’insù, la migliore narrazione dedicata ai nostri anni Settanta. Si tratta di un’opera molto disturbante, e preziosa per questo, che ha suscitato al suo apparire un grande equivoco, sgradevole ma forse anche provvidenziale, comunque inaggirabile. L’autore non poteva non saperlo. Ne parleremo, perciò, ma prima i fatti.
Bucarest, fine millennio scorso. Un gruppo di disperati che vive nelle fogne entra in contatto con due volontari italiani, Mauro e Andrea: tra questi spicca Aza, ventenne, violenze inenarrabili alle spalle, un presente da clown che dovrebbe restituire il sorriso a un mondo irredimibile. Mauro e Andrea non possono che lasciarli al loro inferno, testimoniandolo e sentendosi per questo non si sa se impotenti o se migliori. Dieci anni, e Aza ricompare nella città italiana in cui opera, solo argine alla brutalità senza cuore dei rapporti di classe, l’associazione no profit In punta di piedi. Andrea e Mauro la accolgono e la presentano, dopo un lungo itinerario iniziatico, a don Silvano, il carismatico fondatore attorno a cui ruotano volontari, cooperanti, dipendenti, imprenditori, banchieri, signore di buon cuore, avvocati di successo, celebrità, politici, ex terroristi pentiti e magistrati antiterrorismo con ancora la placca di sceriffo sulla giacca. Don Silvano diventa il padre che non ha mai avuto. Sotto la sua guida Aza fa progressi, si iscrive all’università, scala in fretta la gerarchia dell’organizzazione. Da oggetto di carità a soggetto attivo, da assistita a responsabile, dunque libera. Non è una bella storia?
Purtroppo no. Più si addentra nel cosmo di cui don Silvano è il sole intramontabile, più si accorge che quel regno del Bene è retto da rapporti di potere altrettanto ferrei di quelli che vigevano nelle fogne di Bucarest: diversi i metodi, minore la violenza esplicita, infinitamente maggiore l’ipocrisia. A cominciare da Don Silvano: insindacabile, incensurabile, cui nulla sfugge e senza il consenso del quale nulla si decide. Lo puoi solo approvare. Amarlo è un obbligo. Chi non ci sta può andarsene, con le buone o con le cattive, se necessario attraverso la menzogna, l’intrigo, la maldicenza, i bilanci falsificati: non cacciato, questo mai, piuttosto «accompagnato», nella neolingua mistificatoria che è d’obbligo nell’organizzazione; gli si chiede di «guardarsi intorno». Di Don Silvano si può essere solo figli o orfani, mai pari. Il Bene è un suo possesso, la legalità un certificato che lui solo è autorizzato a rilasciare.
Della legalità si è fatto un idolo: «Se la legalità fosse un valore, allora qualche anno fa era giusto ammazzare gli ebrei», commenta amaramente un fuoriuscito. Non spaventano tanto i profittatori che lo attorniano, quanto la buona fede che lo ha reso un mostro a sua insaputa. Che Rastello, nell’ultima parte del romanzo, lanci sulla sua pista un angelo sterminatore, Adrian, criminale rumeno cui manca poco da vivere giunto in Italia per ritrovare Aza scomparsa, è perturbante quanto giusto. Come in Pulp Fiction, Adrian parla a colpi di versetti dei profeti. E tale è sempre stata la funzione dei profeti: non è questo il comandamento che ti avevo dato. La vendetta è mia, dice il Signore. Il romanzo ci lascia con Adrian che aspetta don Silvano per ucciderlo.
Veniamo all’equivoco. I Buoni è stato letto come un attacco al mondo del volontariato nella persona del suo rappresentante più illustre, don Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e poi di Libera. E sarebbe nascondersi dietro un dito ribattere che non è lecito scambiare un romanzo per un reportage, non riconoscere alla finzione il diritto di sperimentare, portando all’estremo quanto nella realtà è chiaroscurato, sfumato, troppo umano. Il che è vero, come è vero che don Ciotti e don Silvano non coincidono. Ma non è questo che conta, e l’attacco mosso a Rastello da personaggi pubblici come Giancarlo Caselli o Nando Dalla Chiesa va preso più sul serio. Ciò che essi avversano realmente è l’aspra verità additata nel romanzo: il peggior Male è quello che si compie in nome del Bene. In se stesso il Male è solo violenza sui corpi. Motivato col Bene infetta le coscienze. Non con don Ciotti, è con don Silvano che sono solidali. Identificano la libertà col Male e stanno ipso facto dalla parte del Grande Inquisitore di Dostoevskij quando fa arrestare Cristo tornato sulla terra: tu li vuoi liberi, ma gli uomini amano essere guidati.
Su questo è giusto dividersi: tra chi crede che a non volerli liberi sia solo chi ha la pretesa di guidarli, e chi identifica umanità e assoggettamento. Nel primo caso il Male è un rischio; nel secondo una certezza. Un equivoco dunque benvenuto, che permette un chiarimento senza sconti. Rastello non dà soluzioni, lascia al lettore libertà di scelta. Si capisce da ciò che cosa ha scelto lui.
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Massimo Raffaeli
Il contrario del bene non è il male, non necessariamente, perché il contrario del male può anche essere il bene interdetto, ipotecato, oppure un desiderio di bene che rimane tale perché del suo presunto opposto ha introiettato le dinamiche e gli alibi più inattaccabili. Che nominare l’infamia del male non escluda il venire a patti e accettarne gli strumenti elettivi è una questione a lungo meditata, per interposti personaggi, nel romanzo di Luca Rastello I Buoni (chiarelettere) che si segnala sia per la scelta di un tema tanto rischioso sia per la compattezza (il che vuol dire la tenuta, la qualità) dell’ordito linguistico-stilistico e le campiture sintattiche già note ai lettori di Rastello dal romanzo d’esordio, Piove all’insù (Bollati Boringhieri 2006): qui si tratta di un romanzo al presente che rigettale scorciatoie del mimetismo appiattito, da reportage magari indignato, come il privilegio di una inventiva svincolata dalla oltranza, scabrosa e imbarazzante, dei fatti cui si riferisce. Il set è ben riconoscibile ed è Torino al passaggio del secolo, poco prima delle Olimpiadi invernali, e dunque una città-cantiere, formicolante e indaffarata, non ancora colpita dalla crisi e invece agognata, alla pari di un miraggio salvifico, dal popolo di clandestini che ne abitano gli inferi e la notte, i migranti. A costoro si rivolge, per accoglierli e inserirli/organizzarli, la Ong denominata “In Punta di Piedi” o più semplicemente “I Piedi” il cui fondatore, don Silvano, è un religioso dalla fisionomia ambivalente, che associa la schiettezza del prete di base (dai modi semplici e fraterni, nel cui linguaggio torna come un mantra l’espressione che vorrebbe essere misericordiosa dello “sporcarsi le mani”) alla distanza siderale e al profilo impenetrabile di un uomo di mondo, colui che tratta alla pari, e sempre ne riceve donazioni e prebende, coi politici, i magistrati, gli imprenditori, i giornalisti e insomma coi nemici, gli agenti dei poteri costituiti.
L’universo dei “Piedi” che accoglie i migranti e i paria della postmodernità sia pure a segno rovesciato è speculare a quello che li produce e li espelle da sé: don Silvano a sua volta è il premier di una comunità che si presume virtuosa e intangibile, comunque portatrice del bene, al cospetto di quella con cui ogni giorno deve ineluttabilmente patteggiare e, appunto, “sporcarsi le mani”. Don Silvano è una specie di amministratore delegato della bontà (è il mito di una corte di reduci dagli anni dell’antagonismo che lavorano con lui e per lui) ma nel suo agire c’è tanto il candore della falsa coscienza quanto la disinvoltura di chi si sente, dopo tutto, indenne dal male e perciò legibus solutus. E’ ciò che, senza mai proclamarlo, gli rivela Azalea detta Aza, la ragazza inviatagli direttamente dagli inferi, l’ex paria dell’Est cui Rastello, scolpendo un ritratto indimenticabile di donna, affida la peripezia del romanzo e, insieme, la cognizione del dolore che ne autentica la verità: “Azalea cammina sulla ghiaia di uno spartitraffico, accanto alla corsia delle auto che vanno via veloci e l’aria del viale è soltanto congestione, rancore feriale, sogni rimandati e marmitte. Ma lei non cammina in quell’aria: la sua testa si perde nel silenzio che disegna un cerchio intorno ai suoi passi e appena qualche centimetro più in là cede il campo alla città. Si guarda le punte dei piedi, poi svolta e attraversa nel traffico”. Nella peripezia di Aza il bene e il male sono mescolati fino a rendersi irriconoscibili, o meglio: per lei, sono entrambi il risultato di azioni prodigate o subite senza la necessità di un accredito oppure di una reprimenda. Per questo Aza può inoltrarsi nella vita finalmente libera, indenne, consapevole di sé, senza sentirsi affatto buona e, anzi, senza il bisogno di aggiungere nemmeno una parola.
[Immagine: Europe Direct Firenze, Bucarest (gm) – https://www.flickr.com/photos/
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