cropped-025_IEC_Adriatico_2010_©Sabrina-Ragucci.jpgdi Andrea Cortellessa

[Esce in questi giorni presso L’orma editore di Roma La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), a cura di Andrea Cortellessa, dalla cui ampia introduzione riproduciamo qui qualche brano. L’antologia raccoglie trenta autori che hanno esordito dal 1999 in poi: Tommaso Pincio, Paolo Nori, Ugo Cornia, Antonio Pascale, Francesco Permunian, Nicola Lagioia, Christian Raimo, Leonardo Pica Ciamarra, Laura Pugno, Franco Arminio, Valerio Magrelli, Paolo Morelli, Emanuele Trevi, Mariano Bàino, Giorgio Falco, Giuseppe A. Samonà, Eugenio Baroncelli, Ornela Vorpsi, Luca Ricci, Luca Rastello, Roberto Saviano, Babsi Jones, Andrea Bajani, Francesco Pecoraro, Giorgio Vasta, Gherardo Bortolotti, Gabriele Pedullà, Gilda Policastro, Davide Orecchio ed  Emmanuela Carbé. Per ogni autore circa venti pagine di testi sono accompagnate da  un cappello critico  del curatore, un profilo biobibliografico dell’autore, una sua pagina di “poetica” e un’ampia antologia della critica. Una prima versione dell’antologia, comprensiva di venticinque narratori, era uscita come numero speciale del 2011 della rivista «L’illuminista»,  edita da Ponte Sisto].

 Antologia

 Ci sono infinitamente più cose nella prosa e nella narrazione “reali”, oggi in Italia, di quante ne prescriva l’odierna filosofia del romanzo. Per «filosofia del romanzo» non intendo quella che i teorici della letteratura ci propongono, oggi assai meno d’un tempo[1], bensì quella che nei fatti – non dichiarata, e dunque non sottoposta a pubblica discussione[2] – viene applicata nella sede che la narrativa, per ovvi motivi con molto maggiore efficacia che la poesia, da tempo s’è arrogata il diritto di regolamentare: l’editoria. Si parla di quella di scala maggiore, ovviamente, che – in virtù del controllo che pochi gruppi riescono oggi a esercitare su tutta la filiera del libro compresa la promozione: che a tutti gli effetti ha ormai inglobato, esautorandola, la pubblica discussione[3] – ha non solo il potere di condizionare i consumi del pubblico, il che è desolante ma ovvio, ma anche, e questo in teoria meno ovvio dovrebbe essere, quanto la teoria di un tempo definiva l’«orizzonte d’attesa» degli autori. I poteri che condizionavano chi scriveva nelle società d’ancien régime erano almeno istituzioni di diritto (ancorché un diritto autopromulgato): a differenza di quelli della mercatocrazia odierna, che nessuno è chiamato a riconoscere in sede formale ma non per questo (anzi!) sono meno rigidamente vigenti. In ogni caso la libertà espressiva di cui hanno goduto gli artisti in quella che a conti fatti è stata una “finestra” storicamente assai breve – coincidente in sostanza col secolo scarso fuori d’Italia definito “modernismo” – rappresenta, oggi, un ricordo sempre più lontano. […]

Le specie multicolori della narrativa, che appena un decennio prima parevano aver trovato ricetto e terreno fertile nei cataloghi più paludati, all’improvviso venivano sottoposte a una risoluta uniformazione: sotto il segno di una produzione standard orientata al consumo più rapido possibile. Da allora la polemica è proseguita: su diversi fronti e attraverso diversi media. Non la ricapitolerò – per brevità e anche, per quanto riguarda certi temi, per un certo grado di saturazione personale. Mi pare difficile da discutere, comunque, che la diversità letteraria sia oggi ridotta in spazi editorialmente sempre più marginali. Il che al di là della mia faziosità, anche su un più posato piano storico-fenomenologico, francamente stupisce: in una fase di ridefinizione mediale profonda che ovviamente coinvolgerà – sta coinvolgendo – il mercato e i suoi dogmi. E che in analoghi tempi di trasformazione, in passato, ha al contrario incoraggiato una mobilità, un dinamismo di temi e forme che oggi la “grande” editoria, e in generale il sistema dei media, appaiono lontani dal voler incoraggiare. […]

 Rispetto al più o meno dichiarato contenutismo della forma-antologia standard, il presupposto del presente lavoro è all’incirca contrario. La selezione degli autori, e dei testi, non osserva infatti alcun criterio geografico né (anagraficamente) generazionale. Ancorché, nei criteri d’accesso e nell’ordinamento interno degli autori, segua un criterio ordinato sull’asse cronologico (e, come vedremo, nella loro lettura quello spaziale finisca per essere un asse privilegiato): per cui fa fede non la data di nascita e neppure quella di esordio dei singoli autori ma (al modo di Albert Thibaudet, fatto proprio ai nostri tempi da Mengaldo o Raboni […]) il loro floruit. Ossia a quando, per dirla alla maniera di Nietzsche, un autore «diventa se stesso» (cioè supera quelle che il compilatore giudica prove d’apprendistato per raggiungere una sua rappresentativa maturità). Questo criterio ha il vantaggio di fotografare la condizione storica dell’esperienza di ciascun autore: il suo collocarsi in un tempo, cioè, e dunque l’essere letto (per esempio dagli altri scrittori) in quel tempo e non in un altro.

Lo svantaggio – soprattutto avendo a che fare con una periodizzazione relativamente breve come quella decennale – consiste invece nel perdere di vista la simultaneità con la quale i testi degli autori “nuovi” vengono letti insieme a quelli delle generazioni (letterarie) precedenti. Il problema non è tanto quello dei “maestri” degli anni Settanta e Ottanta […], ma soprattutto quello degli autori affermatisi negli anni Novanta. Riguardo ai quali non si può che registrare un “buco” storico-antologico che sarebbe decisamente il caso di colmare (in poesia atti mancati come questi hanno prodotto “salti di generazione” in seguito difficili da correggere). Per fare l’esempio più macroscopico, è un peccato che la formula qui adottata non consenta di leggere “insieme” Walter Siti e i diversi autori “fioriti” dopo Scuola di nudo ma che hanno guardato soprattutto a Troppi paradisi o al Contagio. […]

 Narratori

 […] Permango […] convinto che abbia valore in generale, e anzi sempre maggiore, una considerazione svolta molto tempo fa da Gabriele Frasca a proposito di Samuel Beckett: per cui in situazioni di testualità avanzata non può che prodursi una «prolifica indistinzione dei generi (il permanere dei quali, nei nostri anni, è una sorta di rigidità cadaverica)»[4]. E sarebbe insomma molto interessante – forse più interessante, in effetti – proporre […] un’antologia della prosa – delle tante diverse prose – nella letteratura italiana contemporanea.

Ha prevalso un intento senz’altro meno à la page ma forse, e magari proprio per questo, più utile. La sufficienza […] che la maggior parte dei nostri migliori critici da tempo ostenta nei confronti dell’ultima leva di narratori è infatti per molti aspetti comprensibile: l’effetto della sovrapproduzione narrativa di «scritture a perdere» da parte dell’editoria industriale, come le ha definite Giulio Ferroni[5], non può che essere infatti – in chi legge per professione – di saturazione, assedio, asfissia. Ne è un sintomo il titolo stesso dell’ultimo libro di Berardinelli: Non incoraggiate il romanzo. Che condivisibilmente esordisce con una filippica contro «il romanzo come genere editoriale» (format di puro «consumo» e «intrattenimento») per giungere a una conclusione, però, che non solo non condivido ma reputo perniciosa:

 La quantità è soverchiante. Siamo a un bivio: la critica «giornaliera» come la concepiva Geno Pampaloni o è impossibile o inattendibile.
La democrazia letteraria di massa, potenziata dall’uso del computer, vanifica l’autorità della critica e crea una letteratura senza forma e senza confini, che nel suo insieme si sottrae a ogni definizione. Smettiamola perciò di processare i critici e di stilare piccoli canoni. Legga chi vuole quello che vuole. Un’altra epoca si chiude: quella dei giudizi.[6]

[…] Restando legato a un’idea della critica come servizio, nei confronti di autori e lettori, l’ufficio del vaglio e, in prospettiva, anche del canone – a dispetto delle difficoltà oggettive cui ci troviamo di fronte – francamente non mi spaventa. Mi pare anzi coincidere, l’ho già detto, con l’etimo – e dunque la «missione» – di quanto chiamiamo «critica». […]

A fronte di un alibi non molto dissimile da quello oggi dichiarato sulla narrativa, che lo stesso Berardinelli professava in una data non sospetta come il 1984, la scelta fatta in ambito poetico è stata quella del lavoro di gruppo. E fu il tempo, per molte ragioni irripetibile, di Parola plurale. Lo sforzo individuale di oggi si vale invece (com’è sempre, poi, per ogni critico) del lavoro di selezione svolto, partitamente e responsabilmente ciascuno per suo conto, dagli altri critici. I quali sono infatti convocati con larghezza, nelle pagine che seguono. E che per fortuna […] non hanno affatto abdicato alla missione del giudizio.

Che narratori siano, dunque: quelli raccolti in questa sede. Fra le diverse possibili funzioni della prosa, e magari fra le diverse tipologie di prosa prodotte dai rispettivi autori, i testi qui raccolti sono infatti esclusivamente testi narrativi (ancorché magari concentrati in una micro-misura: come le biografie di Eugenio Baroncelli, le lasse di Gherardo Bortolotti o, ancor più radicalmente, le cartoline di Franco Arminio)[7]. Com’è ovvio si potrebbe discuterne a lungo, ma per brevità preferisco attenermi a un unico riferimento teorico, dall’età ormai venerabile ma che non ha affatto esaurito, a mio parere, la sua “spinta propulsiva” (che anzi pare accentuata, come vedremo, dall’odierna voga dello spatial turn): quello di Jurij M. Lotman. Se dunque ogni «opera d’arte è in fondo immagine dell’infinito nel finito, del tutto nell’episodio»[8], se «la struttura dello spazio del testo diventa modello della struttura dello spazio dell’universo», e se (in continuità, in questo caso, con la tradizione narratologica dei formalisti russi) «alla base del concetto di intreccio c’è la rappresentazione dell’avvenimento», la narratività di un testo potrà essere definita dall’escursione o meno dei suoi personaggi all’interno del modello spaziale rappresentato dal testo stesso: «nel testo l’avvenimento è il trasferimento del personaggio oltre i confini del campo semantico». […]

 Border-line col regime della poesia (indipendentemente dall’uso o meno del verso) si trovano […] alcuni fra i testi più suggestivi fra quelli qui raccolti. Le Tecniche di basso livello di Gherardo Bortolotti sono davvero un caso-limite […], ma benché i loro «nanopersonaggi» vengano rappresentati in una condizione del tutto statica (in un «esterno che non aveva fine»), sia dal punto di vista sociale che emotivo (in tal senso va letta anche l’adozione del tempo imperfetto, una delle stimmate più riconoscibili dell’opera), la clinicità persino lancinante nei confronti del nostro tempo le ascrive di diritto, mi pare, allo status della narrativa. Il che può dirsi altresì d’un altro testo in prosa scritto da un poeta, e fra i migliori dell’attuale panorama, come L’uomo avanzato di Mariano Bàino: che a scanso di equivoci presenta letteralmente isolato il proprio unico personaggio e voce narrante, «Roberto Crusca», solo appunto su un’isola deserta come il proprio antecedente letterario, il Robinson Crusoe di Defoe. E mentre questi – che persino in tali avverse condizioni riusciva ad affermare la propria vocazione positivamente sociale e “costruttiva” – poteva divenire personaggio per antonomasia “romanzesco” in un classico dell’interpretazione in chiave sociale della letteratura come Le origini del romanzo borghese di Ian Watt, la fuga dal commercio umano del personaggio di Bàino, che all’explicit finisce per definitivamente “liquidarsi”, rappresenta un capovolgimento di natura assai diversa, rispetto all’ipotesto, di quello operato da una precedente e a sua volta celebre riscrittura come Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier.

Anche Nel condominio di carne di Valerio Magrelli, sebbene al momento della pubblicazione fosse stato presentato come «l’esordio narrativo di uno dei nostri maggiori poeti», a ben vedere mostra un tasso assai ridotto di narratività. Eppure si trovano proprio in questo testo i “semi” di quella Geologia di un padre che, assai più di recente, ha segnato il definitivo passaggio della linea d’ombra della narratività da parte dell’autore (una voce narrante che mostra sì, in questo caso, una pronunciata escursione psichica nell’ambito del testo: accudendo come fa, lungo tutta la sua estensione, più che la persona fisica del padre quella mentale del suo spettro). […]

Un testo narrativo ha insomma la forma di un ponte: consiste di un’arcata, compie un valico. Non è un caso che il testo italiano recente che ha compiuto il maggior sforzo possibile per architettare una struttura compiutamente, credibilmente romanzesca – La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro – abbia il proprio perno e baricentro, appunto in termini strutturali, nell’episodio della visita al Forth Bridge, in Scozia: il grande ponte ferroviario massimo raggiungimento dell’homo faber moderno. Per Ivo Brandani, il protagonista di Pecoraro, «la forma più alta dell’esistenza»[9]. Quel concepire (col Georg Simmel di Ponte e porta) le due rive attraversate appunto dal ponte «come due entità separate, ma non “una fuori dell’altra”, concepirle cioè come qualcosa che può essere ri-unificato, come l’interruzione di un continuum di cui si può concepire il superamento», è principio dall’evidente valenza metaforica: non solo in termini esistenziali (nella vita del personaggio di Pecoraro, che ha il problema di ri-connettere se stesso a una linea genealogica spezzata) ma, appunto, strutturalmente letterari. Il nevrastenico prosatore breve di Questa e altre preistorie ha dovuto riplasmare tutto se stesso nello sforzo di farsi pontifex[10] e, anzi, direttamente ponte.

Credo che quando il massimo narratore moderno, Kafka, in una brevissima allegoria contenuta in Durante la costruzione della muraglia cinese dà veramente voce al Ponte, in effetti raffiguri la tentazione insita in ogni testo narrativo degno di questo nome. Quella di divenire ciò che non è:

me ne stavo e aspettavo. Dovevo aspettare. Un ponte, una volta costruito, non può cessare di esser ponte, senza precipitare.
Una volta, era verso sera – la prima? la millesima? non lo so –, i miei pensieri erano sempre confusi e giravano in tondo. Verso sera, d’estate, il torrente scrosciava più buio, udii un passo d’uomo. […]
Quello venne, mi percosse con la punta ferrata di un bastone […]. Ma poi […] mi balzò in mezzo al corpo a piedi pari. Rabbrividii per un dolore lancinante, ignaro di tutto. Chi era? Un bambino? Un sogno? Un bandito? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi girai per vederlo.
Un ponte che si volta! Non mi ero ancora voltato che già precipitavo e già ero straziato e infilzato sui sassi aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacifici dall’acqua impietosa.[11]

Volgersi – come fa un verso, appunto – porta al precipizio, alla catastrofe: quella splendida catastrofe che chiamiamo poesia. […]

Optare per la narratività, d’altra parte, non significa certo cedere le armi di fronte a quello che Franco Cordelli, già alla fine degli anni Novanta, chiamava «feticcio del romanzo»[12]. Proprio Cordelli, qualche anno prima nella Democrazia magica, s’era infatti accorto che le fortune del romanzo contemporaneo avevano seguito un curioso chiasmo. In pari tempo col decadere sempre più evidente della sua rappresentatività entro il campo letterario, l’«ideologia dominante […] colloca il romanzo al centro della scena, o nel più alto dei cieli, dove con chiarezza il più glorioso è chi vende di più; come prima, lo era chi vendeva di meno, chi era meno letto, meno amato»[13].

Cosa si diceva in quel tempo per noi, oggi, addirittura paradossale? Era il 1965 quando un diretto interessato alla questione, Italo Calvino – confrontandosi con un caso-limite, al riguardo, quello di Giorgio Manganelli; ma con un occhio alla lezione a quell’altezza ancora in fieri di Roland Barthes –, scriveva che era tempo ormai di demistificare quello che per la loro generazione, «nel ventennio ’40-’60», era stato l’«imperativo del romanzo». Se è vero che «la “specializzazione” nel senso del romanzo sette-ottocentesco ha appena scalfito la nostra letteratura, in cui la nozione di prosa è rimasta dominante su ogni distinzione di generi, e comprensiva d’una continuità dal Trecento a oggi», continuava Calvino, «forse è giunto il momento per trasformare il nostro irrecuperabile ritardo in un vantaggio»: la «nozione di prosa dovrebbe ormai essere riscattata dalla accezione lirica, evocativa, puristica che fu propria della «prosa d’arte» (un episodio di «specializzazione» estinto e già lontano)», per inserirci finalmente «nella problematica attuale dell’écriture»[14].

Si dirà – s’è ripetuto sino allo sfinimento, in effetti, in quest’ultimo ventennio – che i furori antiromanzeschi degli anni Sessanta sono qualcosa che abbiamo alle spalle. Frusta attrezzeria di un’avanguardia malintesa e fuori tempo massimo[15]. A me pare di nuovo assai attuale, invece, l’idea di una presa di vantaggio dalle dominanti di lungo periodo della nostra cultura letteraria: a fronte di quello che, dagli anni Ottanta a oggi, può ben essere considerato un nuovo imperativo del romanzo. In un saggio del ’97 Berardinelli retrodatava la rinascita di «una cultura del narrare» al successo internazionale di Gabriel García Marquez, fine anni Sessanta; ma non c’è dubbio che la sua egemonia culturale si cominci ad avvertire più avanti (per la cultura letteraria italiana data di non ritorno è senz’altro quella, da molti indicata, del Nome della rosa di Umberto Eco: 1980 appunto): «il Novecento, il secolo della crisi del romanzo, si sta rovesciando. All’autocritica del romanzo (e di tutta l’arte) sta seguendo l’autocritica dell’autocritica. Cioè la rinuncia alla critica, il ritorno al mito e a ogni specie di miti». Ma, ciò malgrado, quella del romanzo resta la forma delegata di «un mondo culturale che vuole sentirsi pacificato e normalizzato». Insomma: «la democrazia uccide il romanzo incoraggiandolo. O lo incoraggia così tanto perché sa di averlo già ucciso»[16]. Quanto è seguito nei quindici anni successivi (e che grosso modo coincidono col periodo qui preso in esame) ha le sembianze di una sopravvivenza postuma. Nella maggior parte dei casi, nient’altro che una superstizione[17].

Ho la netta impressione, insomma, che valgano almeno altrettanto per i giovani degli anni Novanta, e in misura ancora maggiore per quelli degli anni Zero, le parole – dal trasparente autobiografismo – di quel Calvino anni Sessanta: la disperata ambizione a “fare romanzo” non fu che una «trappola ritardatrice in cui cascarono anche i più avvertiti, che avrebbero avuto i mezzi culturali per infischiarsene e andare avanti; e per gli allora più giovani le ambizioni malposte, i talenti sprecati, le fatiche inutili»[18].

Se in questa sede, come detto, non è il caso di accedere alle delizie dell’écriture e insomma della prosa (quella, diceva Calvino, «di quando Gadda spiega il risotto o la chirurgia o il cemento armato») possiamo però valerci di una tradizione plurale, com’è con tutta evidenza quella italiana, pur restando nel campo della narrazione. Una tradizione che viene però scientemente occultata dalla monocultura del romanzo propagandata, in modo sempre più tambureggiante, dall’industria editoriale. Basti pensare alla forma-racconto: nella quale i narratori italiani – da Boccaccio a Landolfi – hanno sempre dato il meglio di sé, ma che editorialmente viene considerata non meno che una iattura (sicché, quando proprio ci si arrende a pubblicare una raccolta di racconti, sempre più spesso ci si spinge a scrivere in copertina – anche di fronte all’evidenza contraria – «romanzo»).

Ma non è solo e non tanto per il suo innegabile prestigio storico che la forma-racconto (la quale ha pure il pregio di agevolare, com’è ovvio, il lavoro dell’antologista) annovera qui rappresentanti eccellenti e anche veri e propri virtuosi del genere (da Christian Raimo a Gabriele Pedullà, da Luca Ricci a Giorgio Falco, da Francesco Pecoraro a Ornela Vorpsi): come ha scritto Giulio Ferroni, questa forma appare oggi «davvero la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica ed espressiva: essa può costituire una risposta critica allo zapping interminabile della comunicazione e alla sua apparente continuità e scorrevolezza»[19]. Valga l’esempio di Giorgio Falco: quella schiacciante modularità del vivere, quella cattiva infinità della frammentazione del tempo e dello spazio che nel voluminoso impianto di Pausa caffè veniva tematizzata ma strutturalmente finiva per diluirsi e attutirsi, ha acquistato nell’Ubicazione del bene un’economia espressiva non meno che lancinante. Così porgendo uno specchio impietoso alla nostra esistenza: «registrando l’agitato corrodersi della vita collettiva, nel ritmo incessante del suo abnorme crescere su se stessa, del suo consumare e consumarsi, riprodursi, ripetersi, dislocarsi, frantumarsi: Cortesforza è il mondo tutto, e insieme è questo mondo qui, è l’Italia e Milano che sembrano voler cancellare se stesse»[20].

Non è un caso che il narratore-critico che più in profondità aveva per tempo sondato la tradizione del romanzo moderno, il Celati di Finzioni occidentali, sia tornato da ultimo a insistere su una tradizione, quella della novella, che sposa la brevità della tradizione italiana con quella modalità che negli anni Settanta definiva fabulazione e che non è in alcun modo debitrice nei confronti del «metodo realistico» (affermatosi solo nel XVIII secolo)[21]. Mentre il «racconto realistico-naturalistico» si presenta infatti come «la registrazione d’una esperienza della realtà, con questo sottinteso per il lettore: “Se tu fossi stato in quel posto, mentre avvenivano questi fatti, avresti visto e sentito quello che dico io”», nella fabulazione e nella novella «la convenzione con il lettore mi sembra questa: “Ti racconto qualcosa di cui si è sentito parlare da quelle parti”»[22] (una distinzione simile a quella enunciata da un autore, Peter Handke, al quale Celati a un certo punto del suo percorso ha certo guardato: «È molto bello raccontare, ma non chiedetemi di raccontare una storia»)[23].

È, quello appena sintetizzato, il “metodo” seguito dal libro di Celati che più ha fatto scuola nei decenni successivi, Narratori delle pianure. Ma si capisce bene pure, in queste parole, come la vera e propria “scuola dell’oralità” cui Celati ha dato vita negli anni Novanta (col progetto Viva Voce promosso dalla Fondazione San Carlo di Modena, e poi con la rivista «Il semplice»), e dalla quale sono usciti quattro dei nostri autori – Paolo Nori, Ugo Cornia, Franco Arminio e Paolo Morelli – ma che ha senz’altro avuto un influsso, per esempio, pure su Antonio Pascale, non tenda solo e necessariamente a una sorta di vaudeville umorale e umoristico, che rende al meglio (come in effetti rende) nella performance orale: ma è in primo luogo un modo per mettere in discussione il dispositivo in base al quale, come dice Celati, la «gente […] crede soltanto alla cosiddetta realtà». La fabulazione si contrappone al romanzo (e la novella al novel) proprio in questo: che il romanzo è concepito «come specchio della supposta realtà», «è l’idea di amministrare i pensieri degli altri, per portarli verso una completa razionalizzazione della cosiddetta realtà». Mentre nel regime della fabulazione «la testa può andare a far giri di esplorazione o sentire delle voci, che sono poi come l’aldilà di Dante, oppure come un manicomio personale che mi porto dietro»[24]. […]

Si spiega soprattutto per questa congiunzione di parzialità e inattendibilità, penso, la straordinaria fortuna incontrata da Thomas Bernhard, dagli anni Novanta in poi, presso i nostri narratori: un “maestro” il cui prestigio, nel nostro periodo, non teme confronti (ai nomi citati prima si aggiungano almeno, infatti, Francesco Permunian, Leonardo Pica Ciamarra e Luca Ricci, tra gli autori qui compresi; e naturalmente quello che a lungo è apparso un “clone” di Bernhard, Vitaliano Trevisan, che in quest’antologia è senza dubbio l’assenza più rimarchevole e per me – anche per questo motivo – la più dolorosa)[25]. Un’influenza che si può oltretutto sommare a quella esercitata subito dopo (per esempio su Emanuele Trevi) da quello che per quest’aspetto è il suo più degno erede, Winfried G. Sebald.

Non solo quello costituito da Bernhard, infatti, è il modello più gestibile di prosa polivalente, a cavallo tra narrazione, monologo teatrale e appunto “fabulazione” (senz’altro più agevole, in ogni caso, del suo precedente in questa “funzione”, Beckett); ma a importare è anche, appunto, il radicale (e “strutturale”) scetticismo comportato da una simile farneticazione della voce narrante. […] Ricorda le parole di Celati, Bernhard, quando scrive che ogni «volontà di verità è […] la via più rapida per la falsificazione e per la contraffazione di un fatto»[26]. E può far pensare persino a Manganelli quando afferma «ciò che è reale è sempre in realtà diverso, è il contrario che in realtà è sempre reale», o che «alla fine quello che importa è soltanto il contenuto di verità di una menzogna». […]

A proposito delle «forme brevi», nelle quali condivisibilmente ravvisava «la vera vocazione della letteratura italiana, povera di romanzieri ma sempre ricca di poeti», nelle Lezioni americane Calvino menziona quello che è il vero e maggiore modello, non solo suo evidentemente, di “prosa d’invenzione” non romanzesca: «quel libro senza uguali in altre letterature che è le Operette morali di Leopardi»[27]. Proprio Cornia, col suo titolo Operette ipotetiche, mostra a sua volta – nella combinazione di andamento riflessivo-speculativo e sintassi pseudo-trattatistica – la tuttora straordinaria fertilità di quel modello. Ma erratica come sempre la «linea leopardiana della prosa», spesso evocata da Celati, s’incontra in diversi altri autori: da Franco Arminio a Eugenio Baroncelli, da Emanuele Trevi a Gilda Policastro (questi due ultimi, fra l’altro, di Leopardi anche studiosi); e sue presenze più oblique, ma forse proprio per questo ancor più rivelatrici, si riscontrano in autori fra loro molto diversi come Giorgio Vasta, Antonio Pascale o Francesco Permunian.

La condizione fluida e polimorfa della prosa – che nel secondo Novecento ha avuto i suoi phares senz’altro in Beckett e Bernhard – ha attecchito bene, da noi, proprio grazie a questo sostrato nutriente. E grande importanza continua ad averla – come diceva Calvino – la poesia. È assai noto che nelle prime pagine dello Zibaldone Leopardi aveva sostenuto, per sé e in generale, come fosse «la prosa la nutrice del verso» – e dal punto di vista dei poeti resta una considerazione assai vera. Ma sapeva pure (anche se la citazione, presa poco più avanti, è assai meno vulgata) che «la prosa per essere veram. bella […] bisogna che abbia sempre qualcosa del poetico, non già qualche cosa particolare, ma una mezza tinta generale». E si vede, infatti, come sia almeno altrettanto vero che la poesia è «nutrice» della prosa: a scavare nell’archeologia di tanti narratori qui convocati – da Permunian a Bajani, da Arminio a Raimo, da Pecoraro a Policastro e Trevi – non è un caso trovare un più o meno segreto background poetico (o una parallela, consistente produzione in versi, come nel caso di Laura Pugno). Né è un caso che persino prosatori “puri”, come Pincio o Pascale, si siano potuti leggere con modalità che sono quelle, piuttosto, della poesia[28] E la primitiva vocazione lirica di Andrea Bajani, se non ha ancora fatto uscire dal loro riserbo le sue poesie “vere e proprie”, ha trovato una limpida formazione di compromesso nei racconti brevi di La vita non è in ordine alfabetico: che si ispirano a un archetipo preciso, nella nostra tradizione recente, come i Sillabari di Goffredo Parise; e che oltretutto si valgono di un dispositivo- marchio di fabbrica, retoricamente infallibile, come il «tu» sperimentato nel capolavoro Se consideri le colpe. […]

Sostiene Filippo La Porta, dei testi brevi (originati sulla Rete) del Francesco Pecoraro di Questa e altre preistorie, che «eleva il blog e abbassa il saggio fino a farli incontrare in una zona di confine che crea un nuovo genere letterario». Si dovrebbe poter dire lo stesso un po’ per tutti questi scrittori. È il caso per esempio delle scritture più recenti di Francesco Permunian, come Il gabinetto del dottor Kafka:in cui i confini – tra quello che si definisce personal essay, la «fabulazione» narrativa e la spigolatura erudita – sono oltrepassati così di frequente da risultare, di fatto, aboliti. E un caso-limite, in tal senso, è rappresentato dalla singolarissima formazione di compromesso messa a punto da Davide Orecchio per le «biografie infedeli» che compongono il suo libro d’esordio, Città distrutte, senz’altro il “caso” letterario del 2012: una non-fiction ricalcata, con scrupoli documentari e bibliografici da storico di professione, su fatti e personaggi autentici cui però l’autore deforma i connotati sin quasi a renderli irriconoscibili. Biografia? Storiografia? Fiction e meta-fiction? Tutto questo insieme e nulla di tutto questo: in un mélange ricco e strano che parrebbe squisitamente postmoderno ma, pure, con tutta evidenza vorrebbe da questo frame evadere.

Il “campo” testuale, nel senso di Lotman, comprende “confini”, al proprio interno, che sono anzitutto – dunque – quelli fra i generi del discorso (prima che dei generi letterari in senso stretto): uno spazio testuale, un campo letterario che questi autori attivano, mobilizzano, occupano dinamicamente: contribuendo in misura decisiva a tenerlo in vita. […]

Italiani

[…] L’Italia è bella perché è varia. Perché geograficamente, cioè, è ricca di confini e partizioni interne. Di soglie insomma: per le quali si transita di continuo, uscendo ed entrando dappertutto. Ma così è, pure, la sua letteratura. La nostra è infatti, lo si accennava, una tradizione plurale. Lo è in poesia […] ma lo è anche nella narrativa. Non è un’ipotesi così peregrina che questa pluralità di modelli sia organicamente collegata alla pluralità geografica del nostro Paese: del resto ragione non ultima, in negativo, della sua secolare frammentazione politica ma anche, in positivo, della sua ricchissima stratificazione linguistica. […]

Solo a posteriori […] mi sono reso conto che l’insieme dei testi qui selezionati poteva servire anche da specimen “cartografico” dell’Italia di oggi: frammenti, per dirla con Celati, di un «pensare-immaginare su come è fatta». All’apparire del primo “vero” libro di Franco Arminio, il meraviglioso Viaggio nel cratere, quello che non a caso è il miglior lettore appunto di Celati (il quale da parte sua aveva accompagnato il discepolo irpino con una sua lettera-traduzione da una poesia di Nietzsche…), Marco Belpoliti, scriveva:

Forse un libro come questo […] spingerà finalmente qualcuno a raccontare con sguardo asciutto cosa è diventata nell’ultimo decennio l’Italia, quella delle villette in Brianza, dei centri commerciali di Biella, delle case a schiera di Pordenone, dei condomini di Mirandola, quell’immensa periferia italiana dove l’illuminismo e il progressismo delle classi borghesi hanno fatto bancarotta e in cui «ognuno aderisce al suo paese come un anello al dito di uno scheletro».[29]

C’è voluto un po’, ma quello «sguardo asciutto» sull’«immensa periferia italiana» alla fine è apparso: L’ubicazione del bene di Giorgio Falco. Proprio accostando questi due autori – fra loro distantissimi quanto a estrazione geografica (appunto) e tradizione letteraria, ma antitetici poi per attitudine: laddove Arminio individua i suoi paesi in un’infinita e dettagliatissima nomenclatura (e che nell’ultimo libro, Terracarne, si spinge sino a inserire – come già aveva fatto nel Galateo in Bosco l’autore da lui omaggiato nel suo titolo, Andrea Zanzotto – vere e proprie carte geografiche)[30], Falco viceversa costruisce una contrada, Cortesforza, topograficamente quanto mai laconica e in ogni caso del tutto immaginaria, ancorché ricalcata sulla Brianza “reale” – si vede come l’organizzazione di un paesaggio possa essere già il palinsesto della scrittura. In entrambi, a dispetto delle differenze menzionate, il paesaggio non è più configurabile come “di città” o “di campagna”: due dimensioni che appartengono a una fase superata dell’insediamento umano. Siamo di fronte, invece, a uno spazio sfinito nel quale appunto i confini – che lo spazio identificano e connotano – si presentano indistinti, intermittenti, evanescenti. Uno spazio di «frazioni», in senso urbanistico ovviamente, ma prima di tutto emotivo e psichico: una «geometria frattale di pietre, cemento e asfalto» – per dirla con Arminio – che mostra sempre più evidente «l’intima fragilità di tutte le cose»[31]. […]

Frammentarie e interstiziali si presentano le testualità di Falco e Arminio. Coincidenza tanto più significativa dal momento che anche da un punto di vista letterario i due provengono da direzioni opposte: da un romanzo testualmente corposo e tentato dalla dimensione “epica” come Pausa caffè il primo, dalla coazione a ripetere di un’infinità di esili componimenti poetici il secondo. E nello splendido ultimo lavoro narrativo di Falco (forse il primo, fra i suoi, che si possa pienamente definire “romanzo”) La gemella H – che pure si colloca a grande distanza dagli spazi, e dai ritmi, tanto di Pausa caffè che dell’Ubicazione del bene – lo spazio “generico” della “villeggiatura” (l’«H» del titolo sta anche per l’hotel in cui lavorano i membri della famiglia Hinner che del romanzo sono protagonisti), spersonalizzato e astratto, in quel non-luogo di massa insomma in cui si è progressivamente trasformata la Riviera Romagnola (come per tempo già visto, con scopi tutti diversi, da Pier Vittorio Tondelli), è ancora una volta infallibile correlativo oggettivo di un mondo in cui «ha vinto» Hans Hinner, il non pentito nazista capostipite della famiglia. Un mondo in cui «la sopraffazione dell’altro avviene senza clamori, con il pieno consenso del soccombente, che preferisce cedere tutto per avere in cambio la perdita di ciò che è pubblico e la conquista di se stesso, del privato». Un mondo in cui «la morte […] è ovunque, diluita». […]

Un testo assai rappresentativo come Occidente per principianti di Nicola Lagioia rivisita dichiaratamente la tradizione del Viaggio in Italia: in una frenetica accelerazione di percorsi che estremizza la dromomania dei suoi più immediati modelli (Arbasino e Busi) finendo per intenzionalmente frullare ogni luogo nella «Cartoonia collettiva» della postmodernità postrema. E non è neppure un caso che siano a loro volta ben rappresentati gli spazi di transito – i «non-luoghi», cioè, secondo un concetto di Marc Augé fortunato sino all’impronunciabilità –: l’aeroporto di Gatwick del magnifico racconto di Leonardo Pica Ciamarra, gli allusivi aeroporti che puntuali sorvegliano le soglie dei romanzi di Andrea Bajani. E la stessa discesa all’Ade del Roberto Saviano di Gomorra non prende forse le mosse dal Porto di Napoli, vera e propria Ianua Inferi della globalizzazione? È lo stesso scenario che deliberatamente stravolge un testo che a Napoli è dedicato, Dal rumore bianco di Mariano Bàino: virtuosistico esercizio di stile che, nel rielaborare col massimo “piacere del testo” modelli letterari e stereotipi culturali, è capace però anche di fantasmagoricamente decostruire tempi e spazi secondo prospettive visionarie.

Significativa la condizione del narratore, fra tutti i nostri, forse più consapevole: Giorgio Vasta. Il quale, manco a farlo apposta, geograficamente ha disteso la propria esistenza fra due “estremi” d’Italia: Palermo e Torino. La Palermo del Tempo materiale, in questo senso, può essere a sua volta accostata alla Cortesforza dell’Ubicazione del bene di Falco. Due titoli entrambi ossimorici, pur valendosi di espressioni d’uso comune (o, nel caso di quello di Falco, burocratico-commerciale): segnalando l’intenzione risoluta di narrativamente materializzare ciò che per definizione non ha forma né sostanza (il Bene, il Tempo). Proprio a questo scopo è orientata la loro pratica di fornire coordinate fisiche, spietatamente materiali appunto, alla geografia mentale ed emotiva esplorata dai loro testi. Ma è nel successivo Spaesamento che, ancora una volta sin dal titolo, Vasta ci presenta il più sintomatico dei paradossi: il luogo che ci si presenta come davvero estraneo, infatti, è quello dell’origine (la città lasciata nell’adolescenza che si scopre, dal tempo materiale, profondamente trasformata): il luogo dove splende «l’indistinzione», via specificamente italiana all’«autodistruzione». […]

Ma l’autore che con più minuziosa coerenza si è comportato in questo modo, sin dall’inizio della propria parabola, è senz’altro Tommaso Pincio: naturalmente a partire dalla scelta di prendere per sé un nome alienato dalla storia della letteratura […]. La «Neu-Berlin» sotto il cui duchampiano «Grossen Glass» s’inscena la quête di M. inaugura “ufficialmente” il tempo presente della nostra narrativa (dove l’aggettivo possessivo ha insite tutte le virgolette del caso) almeno quanto il subito seguente Spazio sfinito […]. Ha scritto Walter Pedullà che «sono scritti in italiano» – l’italiano “alieno” di Pincio, appunto – «due dei più bei romanzi “americani” del primo lustro del secolo» (il citato Un amore dell’altro mondo e La ragazza che non era lei)[32]. Altrettanto si potrebbe dire che, nello stesso tempo, recano per significante la sua America “aliena” le storie più pregne di significato italiano prodotte dalla “nostra” letteratura. L’unica cosa certa – per dirla con parole sue – è che «la realtà non è di questo mondo»[33]. […]

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Note

[1] Commendevole eccezione che va senz’altro citata è quella recente che reca il titolo impegnativo di Teoria del romanzo, appunto, di Guido Mazzoni (il Mulino 2011).

[2] Anche se piuttosto spudorate esternazioni, in tal senso, hanno cominciato negli ultimi tempi a farsi sentire, confidando nell’atrofizzazione e nel discredito delle sedi che alla pubblica di-scussione sarebbero appunto deputate. Rinvio al mio Confidare ancora nei galantuomini? I classici nel tempo del cinismo, in «alfalibri» 5, ottobre 2011 (e in «doppiozero»: http://www.doppiozero.com/rubriche/13/201111/confidare-ancora-nei-galantuomini).

[3] Sino a quella che si è potuta a ragione definire «censura del mercato»: André Schiffrin, Editoria senza editori [1999], a cura di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri 2000, p. 53.

[4] Gabriele Frasca, La tegola dal cielo, in «Il piccolo Hans», 64, 1989-90, p. 218.

[5] Cfr. Giulio Ferroni, Scritture a perdere. La letteratura degli anni zero, Laterza 2010.

[6] Alfonso Berardinelli, Premessa. Il romanzo come genere editoriale, in Id., Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana, Marsilio 2011, pp. 10-1.

[7] Direi che a fare eccezione in questo libro siano solo, sempre di Arminio, le Dicerie di Nevica e ho le prove: testo al quale sono però particolarmente affezionato in quanto una loro selezione era presente nel numero che curai del «verri» dal titolo Il libro a venire (L, 28, maggio 2005, col titolo Cabaret dell’ipocondria, alle pp. 20-32) che fu in molti sensi il laboratorio della collana fuoriformato, alla quale ho lavorato dall’anno seguente prima presso Le Lettere di Firenze e ora qui a L’orma. Un testo molto diverso di Arminio, Circo dell’ipocondria, appunto nell’autunno del 2006 fu il primo numero della collana.

[8] Jurij M. Lotman, La composizione dell’opera letteraria, in Id., La struttura del testo poetico [1970], a cura di Eridano Bazzarelli, Mursia 1972, p. 253.

[9] Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace, Milano, Ponte alle Grazie, 2013, p. 288.

[10] «la forma di pensiero più alta, astratta, e contemporaneamente la più concreta e visibile, percorribile, utile, è quella del pontifex, cioe del costruttore, del facitore, di ponti, del superatore di dis-continuita, reali & incontestabili»: ivi, p. 282.

[11] Franz Kafka, Il ponte [1917], in Id., Durante la costruzione della muraglia cinese, in Id., Racconti, a cura di Ervino Pocar, Mondadori 1970, pp. 381-382.

[12] Franco Cordelli, L’ultimo decennio del secolo, in Id., Lontano dal romanzo, a cura di Massimo Raffaeli, Le Lettere 2002, p. 306 (in questo pezzo, vero e proprio bilancio del panorama narrativo alla fine degli anni Novanta, le scelte si indirizzavano su Antonio Franchini, Giuseppe Montesano, Tiziano Scarpa, Michele Mari, Edoardo Albinati, Eraldo Affinati e Paolo Di Stefano).

[13] Id., La democrazia magica. Il narratore, il romanziere, lo scrittore, Torino, Einaudi, 1996, p. XII (di questo saggio – di notevole importanza nella mia formazione, anche per contrasto – nel 2012 è uscita una nuova edizione presso Fandango, con prefazione di Carlo Carabba).

[14] Italo Calvino, Notizia su Giorgio Manganelli [1965], in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori 1995, pp. 1155-6.

[15] Nello stesso anno, settembre 1965, su teneva a Palermo il terzo convegno del Gruppo 63, dedicato al Romanzo sperimentale: i tumultuosi lavori trovarono l’anno dopo riflesso nel volume omonimo curato per Feltrinelli da Nanni Balestrini. Il primo volume della rinata «fuoriformato» presso L’orma, lo scorso ottobre, è stata la riedizione anastatica di quel libro, con una corposa sezione a mia cura intitolata Col senno di poi, nella quale quindici “reduci” di allora e trentadue “postumi” di oggi – autori e critici delle generazioni successive – misurano lo “spazio” trascorso da allora a oggi.

[16] Alfonso Berardinelli, Non incoraggiate il romanzo [1997], in Id., Non incoraggiate il romanzo, cit., pp. 35-7.

[17] Il che non toglie che – appunto in forma superstiziosa, o di credo quia absurdum – di romanzi importanti se ne scrivano, se ne continuino a scrivere, anche in Italia (rinvio al mio Cordelli, la superstizione del romanzo, in «La Rivista dei Libri», ottobre 2002).

[18] Italo Calvino, Notizia su Giorgio Manganelli, cit., p. 1155.

[19] Giulio Ferroni, Scritture a perdere, cit., pp. 67-8. […]

[20] Giulio Ferroni, Scritture a perdere, cit., p. 79 (ora qui a p. 461).

[21] Cfr. Gianni Celati, Finzioni occidentali, in Id., Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Torino, Einaudi, 1975, 20013, pp. 36 sgg.

[22] Id., Elogio della novella, in Id., Conversazioni del vento volatore, Quodlibet 2011, p. 41. Originariamente si trattava di una conversazione con Silvana Tamiozzo Goldmann, che poi Celati ha rivisto e fortemente sintetizzato: cfr. la versione originale, però, in Scrittori contemporanei. Interviste a Sandra Petrignani, Giovanni Raboni, Gianni Celati, in «Leggiadre donne…». Novella e racconto breve in Italia, Atti del Corso di aggiornamento della Fondazione Cini, Venezia, 1999, a cura di Francesco Bruni, Marsilio 2000, pp. 318-46. Rinvio altresì, su temi simili, a un’altra intervista concessami da Celati: L’assoluto della prosa. Conversazione con Gianni Celati, in «il verri», XLVII, 19, maggio 2002, pp. 56-64.

[23] Cit. da Angelo Ferracuti, Micro-racconti esatti di Andrea Bajani, il mandante è Parise, «Alias», 23 marzo 2014 (ora qui a p. 473).

[24] Gianni Celati, Elogio della novella, cit., pp. 41-3. […]

[25] Ma il floruit di Trevisan, esordiente nel ’95, non può essere posticipato rispetto al 1997 di Un mondo meraviglioso. Uno standard, Roma-Napoli, Theoria, 1997; Torino, Einaudi, 20032.

[26] Thomas Bernhard, Der Keller. Eine Entziehung, Residenz 1976, p. 42 (traduzione italiana di Eugenio Bernardi, La cantina. Una via di scampo, Adelphi 1984), cit. ivi, p. 9.

[27] Italo Calvino, Rapidità, in Id. Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, nota di Esther Calvino, Garzanti 1988; ora in Id., Saggi 1945-1985, cit., p. 671. Proprio parafrasando la frase appena citata di Calvino si intitolava un volume curato da Novella Bellucci e me, «Quel libro senza uguali». Le Operette morali e il Novecento italiano, Bulzoni, 2000 […].

[28] Per quanto riguarda Pincio, rappresenta un approdo da tempo previsto la produzione poetica attribuita a un suo ulteriore eteronimo, «Mario Esquilino», al momento contenuta nel libro d’artista Acque chete. Sillabario delle basilari possibilità di esistere, realizzato insieme a Eugenio Tibaldi (Mirror 2014): si tratta di haiku bilingui, inglesi e italiani, che “storpiano” le biografie di personaggi celebri come «Ramboo» (Rimbaud) o «Phroyd» (Freud), con spirito forse non troppo diverso dai «Ritratti pedanti» che Pincio va dipingendo da qualche anno (cfr. qui sotto a p. 71; ma un confronto interessante si potrebbe pure fare con le «biografie infedeli» del Davide Orecchio di Città distrutte).

[29] Marco Belpoliti, Il Sud che non c’è, in «L’Espresso», 3 aprile 2003 (ora qui, a p. 321).

[30] Non casuale dunque l’attenzione nei suoi confronti di quello che è il maggior geografo non solo italiano, Franco Farinelli (si veda qui sotto alle pp. 324-5).

[31] Franco Arminio, Viaggio nel cratere, con una lettera di Gianni Celati, Milano, Sironi, 2003, p. 38 e p. 29. Sulla “fragilità” dei legami sociali nell’odierna «suburbizzazione» globale, rinvio ai testi di Michele Smargiassi e Francesco Erspamer su Giorgio Falco (qui alle pp. 458-9 e 460).

[32] Walter Pedullà, Con Pincio, in America, dove è finita la nostalgia, in «Il Messaggero», 2 giugno 2005; poi in Id., Quadrare il cerchio. Il riso, il gioco, le avanguardie nella letteratura del Novecento, Donzelli 2005, p. 460.

[33] Tommaso Pincio, Cinacittà. Memorie del mio delitto efferato, Einaudi 2008, controfrontespizio.

[Sabrina Ragucci, Da Italian East Co(a)st (particolare) (gm)].

3 thoughts on “La terra della prosa

  1. Non amo il genere antologia, diciamo anche che il genere antologia è simile alla democrazia: necessaria, a volte, ma portatrice di disuguaglianza.
    Nascosto dietro parole molto difficili si potrebbe nascondere il niente più assoluto. E quindi, non riesco a comprendere, nonostante spiegate con cura e dovizia, i criteri di selezione degli autori.
    Trovo accanto ad autori (tre, forse) di un certo peso (escluso il caso di Pecoraro, predestinato prima ancora di essere, romanzo bellissimo comunque il suo), trovo altri che non sono, come dice il curatore, in una fase avanzata dopo l’apprendistato, ma sono, a mio parere, ancora alla dimensione del tentativo dilettantistico. E non è certo la quantità dello scritto che definisce quando l’apprendistato sia arrivato e poi finito.
    Comunque il curatore, dovrebbe smettere di pubblicare e sponsorizzare la solita cricca (premetto che non parlo per invidia o chissà quale rivalsa di vita, ma solo per amore della verità) e pensare che solo se vorrà il destino scoprirà lui stesso un vero talento e non cercando a tutti i costi che questo accada tramite mezzi mediatici.

    Mi dispiace per la casa editrice; si era fino ad ora distinta bene.

  2. Ho acquistato e letto “La terra della prosa” di Andrea Cortellessa. L’ho trovato un saggio utile se l’obiettivo è studiare la prima metà dei cosiddetti “anni zero” della nostra narrativa. Fino al 2005 mi pare tutto molto utile. Per la seconda metà, credo sia pacifico che i libri decisivi sono due, entrambi del 2008: Il tempo materiale di Giorgio Vasta (e ok) e Gli interessi in comune di Vanni Santoni, il vero cancello di chiusura dell’era delle post-avanguardie che riapre finalmente il discorso del romanzo italiano. L’assenza di questo secondo rischia quasi di inficiare la prospettiva storica generale del saggio. So che altri hanno obiettato l’assenza di Personaggi precari dello stesso autore, libro la cui importanza risulta più immediata per ragioni di forma e riferimenti (Schwob, Wilcock, Manganelli, ecc.) ma Gli interessi in comune in qualche modo “contiene” Personaggi precari ed è, con quello di Vasta, IL libro italiano del 2008.

  3. Errata: intendevo, chiaramente, in chiusura di commento, “degli anni zero”, non “del 2008”.

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