di Matteo Marchesini
[Questo intervento è uscito su «Il Foglio»]
Ho letto per la prima volta Berardinelli alla fine del liceo. Ed è stato subito un sollievo. Quel critico epigrafico e cordiale dava ordine e autorevolezza a molti pensieri che avevo già rimuginato a lungo in solitudine. Con una combinazione di empirismo e finezza teorica a me ignota, spiegava cosa succede ai libri in alcune situazioni pubbliche che tendono a neutralizzarne la carica eversiva: dentro le aule scolastiche, in mezzo alle assemblee politiche, nelle redazioni e negli uffici editoriali. Era il mio tema; e mie erano anche le sue conclusioni polemiche. Vivevo infatti in un microcosmo bolognese in cui la cultura veniva usata come un mero lasciapassare sociale, e si presentava come un insieme di gerghi amministrati da gruppi sedicenti alternativi che emarginavano chiunque contestasse i loro rigidi quanto opachi presupposti ideologici. Leggendo Berardinelli mi sentivo meno solo. Eppure, non divorai subito la sua opera omnia. Forse perché, malgrado l’empatia, mi sembrava un po’ sfuggente. Alla mia fame lirica e filosofica, la sue polemiche apparivano troppo generiche, troppo asistematiche e povere di proposte. Spesso Berardinelli mi abbandonava sulla soglia di un’intuizione, di un’analisi, di un’invettiva, senza darmi la soddisfazione di veder ristabilito almeno a parole un “ordine nuovo” diverso da quello improbabile che avevo davanti. Capii le ragioni del suo stile dopo averlo conosciuto. Un pomeriggio dell’aprile 2006, mentre vagavamo battibeccando per Tuscania, aprì le braccia in un gesto spazientito e umoristico. “Io voglio solo che ognuno mostri quello che è” mi disse. “Io voglio solo che ognuno mostri quello che è”: ecco, qui stava la poetica del mio autore! Dietro la sua attitudine dimissionaria scoprii allora un segreto tao critico, una scelta meditata che mirava a salvarlo dalle sclerotizzazioni. E’ il fraintendimento di questa vocazione, è il tentativo di trascinarla su un terreno non suo che provoca il fastidio dei lettori “specialisti”: ai quali, di conseguenza, Alfonso sembra presuntuoso o avaro, ovvio o snob, troppo moderato o comodamente apocalittico. Oggi, quella sua frase mi aiuta a spiegare da dove sia nata la maliziosa idea dello “Scrittore invisibile”, la raccolta di interviste e articoli su Berardinelli uscita da Gaffi per i suoi settant’anni. Anziché godersi gli omaggi delle Festschriften, il festeggiato ha voluto che il libro fosse composto da tutti i contributi più rilevanti sulla sua opera, comprese le molte stroncature. Così, davvero, gran parte della cultura italiana degli ultimi trent’anni si mostra qui per quella che è. In queste pagine troviamo sia le discussioni sorte intorno alle satire più note di Berardinelli (quelle contro i semiologi, i profondismi ideologici o estetizzanti, il midcult di Eco e Scalfari) sia i dibattiti suscitati dai suoi tentativi di riscrivere la storia letteraria dell’Otto-Novecento in chiave meno unilateralmente modernista.
Più che criticarlo, i detrattori dello “scrittore invisibile” ripetono che dovrebbe diventare qualcos’altro. Nella sua identità, fiutano un pericolo per la loro. Come facevo io a vent’anni, gli imputano una latitanza. Vorrebbero che si applicasse di più, che non abdicasse davanti alle presunte urgenze della cronaca politica o poetica. Possibile, si chiedono ad esempio, che la sua ironia così spregiudicata risparmi solo una letteratura così vicina al senso comune? Questa obiezione è subito formulata da Angelo Guglielmi, che davanti a “Tra il libro e la vita” sbotta: non serviva mica tanta “bravura” per proporre un canone da “professore di liceo incapace di sopportare gli eccessi della modernità”, coi Giudici, le Cavalli e gli Scalise! Altri accusano Berardinelli di populismo e snobismo. Nel commentare la sua scelta di lasciare l’università, Cortellessa parla di un gesto da sacerdote o da dandy che disprezza la dura vita quotidiana. Più velenoso, Cordelli insinua che il suo ex sodale bersaglierebbe gli intellettuali egemoni per attirare su di sé un po’ della loro fama. Questa critica cade nel ’93, quando Berardinelli pubblica su “Diario” i pamphlet contro Zolla, Tronti, Calasso e Fortini; e segue a un articolo in cui, sul moderato e potente “Corriere”, Raboni accusava i redattori di quella rivista radicale e fuori mercato di avere ucciso il padre marxiano per approdare al “centrismo”. Nel 2007, sullo “Straniero”, Tricomi torna a esprimere una preoccupazione comune agli amici “impegnati” di Berardinelli: non vorrà mica “salvarsi da solo”?
Anziché contestare i termini in cui lo scrittore invisibile pone le sue questioni, questi critici tendono a ignorarli. Un esempio. Fin dai suoi esordi, Berardinelli ha stigmatizzato l’accademizzazione tardonovecentesca delle filosofie e poetiche moderne, associandola alle esigenze omologatrici di una nuova e ubiqua middle class. Secondo lui, gli esperimenti che fino agli anni Trenta implicavano un reale rischio sono divenuti un modo per farsi subito accettare. Con questa analisi si può concordare o meno. Ma non ha senso giudicare le preferenze del critico senza discuterla. Come può Guglielmi pretendere che si occupi coraggiosamente di qualche oltranza formale neo-neo-avanguardista, quando ritiene che proprio quelle presunte oltranze rivelino una mancanza di coraggio, e dunque gli sembrano molto più audaci le scritture che, senza rivendicare legittimazioni teoriche gravate da uno storicismo ormai inservibile, si reggono sulla sola abilità artigiana? Quanto poi agli aspetti “ideologici”, Berardinelli non è uno di quegli apocalittici adelphiani che ridicolizza di continuo. Non disprezza le masse e non le mitizza: sa di farne parte. Solo, non crede nella fusione di politica e cultura. La sua insofferenza per i clan lo ha aiutato a intuire precocemente il ruolo perverso giocato nei movimenti politici dalla seduzione “culturale”. Del resto, nel denunciare i rapporti equivoci tra sapere e potere non fa che approfondire alcune analisi di Fortini, da cui il padre della Nuova Sinistra, sopravvalutando l’influenza pratica della letteratura, non trasse le conseguenze dovute. E’ per salvaguardare la “funzione” intellettuale contro la sua riduzione a “ruolo” che Berardinelli ha abbandonato l’università. Ritorcendo contro Fortini le sue tesi, gli ha dimostrato che la critica dell’ideologia non può più basarsi su una filosofia della storia, e deve quindi rifarsi empirica, individuale e inutilizzabile. Per questo ha tradotto lo stile storicisticamente congestionato di Adorno nella lingua sciolta di Orwell, Wilson e Wright Mills. E così, nota Febbraro, si è assunto “le responsabilità intellettuali” dell’impegno “senza sposarne i progetti”: scelta che gli ha consentito di rinunciare fortinianamente ai propri privilegi ma non ai propri doveri.
Smarcandosi anche su questo piano dalle prospettive moderniste, Berardinelli propone una dimensione pubblica “comunitaria, amicale”. Invita a liberarsi dalle mitizzazioni della politica rischiando un’apparente “irrilevanza”, e ricorda che i Grandi Eventi non sono più reali di una “lezione di grammatica in una scuola di campagna”. A questo proposito, si veda come lo scrittore invisibile liquida i visibilissimi Lévy, Glucksmann e Hitchens, che sorvolano le zone calde del pianeta “come puri spiriti”: “La loro coscienza è ubiqua. Il loro giornalismo è titanico. Guardano in faccia il Mondo (…) Eredi di Sartre? Ma oggi Sartre è più anacronistico di Socrate, che chiacchierava con metodo per le strade di Atene e diceva di non sapere neppure quello che tutti sapevano…”. Ecco: come Chiaromonte, Berardinelli propone un modello d’intervento “pubblico” di tipo socratico, cioè fondato su quel dialogo non competitivo in cui tutta l’attenzione si concentra sulle idee. “Credo davvero che la cultura nasca dalla conversazione”, dichiara in un’intervista. Solo l’accettazione del rischio connaturato a ogni dialogo autentico può rivelare qualcosa di vero. Perché la verità si mostra sempre in situazione: emerge da un esame dei massimi sistemi condotto senza schermi, ma inscindibile dal teatro in cui questi sistemi vengono evocati. E qualcosa di simile accade nel saggio: genere della conversazione a distanza di cui Berardinelli è divenuto un teorico e un rappresentante esemplare.
Dunque, lo scrittore invisibile non ha ripudiato la dialettica. Ha tentato, invece, di ricondurla alla forma ariosa di un dialogo “per le strade di Atene” o di un morantiano “gioco della verità”. Per questo si è sottratto ai pulpiti tribunizi, e ha assunto i connotati di un personaggio un po’ appartato, in apparenza accidioso, che ricompare sulla scena a intervalli irregolari, ma con una tempestività e una laicità lontanissime dalle amministrazioni carismatiche del silenzio a cui si affidano i maîtres à penser della finis sinistrae. Ha capito che i bersagli grossi della società di massa si possono colpire solo evitando di farsene ipnotizzare, e che dall’inquinamento comunicativo non ci si difende sprofondando nel buio dei gerghi, ma solo tenendosi in equilibrio, con concisione e flessibilità omeopatica, su un filo sospeso tra volgarità massmediale e specialismo imbecille. Dovendo schivare ogni giorno queste mistificazioni, è comprensibile che il critico abbia finito per appassionarsi più ai contesti che ai testi. Anche perché i testi letterari che oggi monopolizzano la scena hanno un valore più sociologico che estetico. “Volendo fare della critica militante con una certa franchezza”, ha spiegato, “non c’era altra strada che quella della satira”.
A richiedere un tale distanziamento è una situazione in cui l’arte autentica, che nasce dalle esperienze scontate in proprio, viene scambiata coi souvenir di un turismo culturale enfaticamente cosmopolita. Dagli anni Sessanta, gli scrittori vogliono competere con l’eccesso di input offerti dai media: di qui viene la bulimia citazionista di Arbasino, e quel desiderio di “essere tutto” che in Tiziano Scarpa si traduce in un esibizionismo grottesco, in una perenne ansia da prestazione indotta dalla paura dell’invisibilità e del declassamento. Un altro effetto di questa tendenza è la riduzione delle tradizioni e dei saperi a una scolastica omogenea, decorativa e innocua. In Eco, Derrida e Severino, quell’attitudine a mettere in relazione i fenomeni più diversi che, se utilizzata bene, è un tipico segno d’intelligenza saggistica, diventa un modo per eludere le differenze, e per affogare ogni oggetto in un’oratoria uniformemente irenica o minacciosa, divulgativa o barocca. Una tale reductio ad unum è ancora più estrema nei neodecadenti Cioran, Calasso, Zolla e Citati, che esaltano climi culturali di cui non hanno esperienza diretta, e in cui dunque, direbbe Chiaromonte, possono “credere” solo in malafede: abissi mistici, visioni presocratiche, scelte esistenziali estreme… La conseguenza della malafede è il volontarismo, che trasforma questi esteti nei predicatori di una sapienza esoterica incompatibile con la predicazione. A un tale bovarismo metafisico, Berardinelli oppone un saggismo che anche nei momenti di massima radicalità teorica non dimentica le esperienze dei singoli individui. Come per la Weil, per lui il male coincide col distacco dal reale, con l’irrealtà. Perciò l’atto più civile gli sembra quello di mostrare cos’è ognuno in realtà, rinunciando a deformazioni e a sogni palingenetici. “La realtà/non ha bisogno di essere perfezionata/ma guardata molto a lungo, amata, descritta/e lasciata a se stessa”, recita una sua poesia. Come notano la Borghesi e La Porta, nei suoi smascheramenti Berardinelli lavora in levare e “non aggiunge nulla”. Per questo anche le sue satire più violente sono tecnicamente umoristiche: non comunicano foga né rabbia, ma la gioia che scaturisce da ogni riconquista del senso di realtà. Scelta la giusta distanza dall’avversario, Berardinelli fa leva su due o tre punti deboli e lo stende col minimo sforzo, sfruttando il suo stesso peso come in certe arti marziali. Così a Zinato, che difende la critica marxista e freudiana, replica che “marxismo e freudismo sono culture molto limitate, mentre la letteratura occidentale contiene quasi tutto il resto di quello che è stato scritto”, e dunque “è meglio una teoria shakespeariana di Marx e una teoria dostoevskiana di Freud piuttosto che Shakespeare e Dostoevskij letti tramite Marx o Freud”.
Anche questa tecnica judo è un modo per usare la dialettica senza esibirla: in un breve giro di frase si prendono le misure a sé stessi e all’interlocutore, inquadrando simultaneamente il contesto del dialogo. Come quelli di Fortini e Garboli, gli attacchi dei saggi berardinelliani sembrano più conclusioni aforistiche che incipit: nascono quando il critico ha già bruciato tutta una serie di equivoci che in quelle prime parole sono liquidati e implicati a un tempo. “Non mi piace leggere Landolfi. Se mi piacesse, non credo che la cosa piacerebbe a lui”, esordisce in un pezzo di “Non incoraggiate il romanzo”: e questo esordio non contiene solo la diffidenza per l’autore, ma anche per quei suoi apologeti che facendone un artista risolto tradiscono la sua disperata coscienza di epigono. Di solito, dopo l’incipit la diagnosi si allarga, e ogni osservazione discende dalla precedente con un irresistibile effetto domino: finché il pensiero, come ha visto Barenghi, torna a condensarsi nell’aforisma della chiusa. L’effetto di questa lapidarietà è liberatorio: semplificando le cose senza volgarizzarle, Berardinelli rivitalizza le capacità percettive del lettore, e ricorda che basta riformulare certe tesi considerate ovvie per scoprirne implicazioni impreviste. Ecco, a proposito di semplicità, un aforisma sui gerghi delle scienze sociali: “Direi che è definibile ‘complessa’ quella società i cui scienziati non sono in grado di spiegare”. Ed eccone uno sul decostruzionismo: “Di qualunque cosa Derrida annunci di parlare, parlerà del modo in cui sta parlando della cosa di cui non parla”. Notevole è poi la definizione insieme minimalista e massimalista della letteratura: “dire nel modo migliore qualcosa di interessante”. Quanto al politico, è “colui che vuole controllare attività che non svolge”.
Se Garboli traveste da domande delle affermazioni fin troppo sicure di sé, Berardinelli filtra i dubbi attraverso la nettezza dell’apodissi: le sue accelerazioni verso l’aforisma tendono a una perentorietà perplessa. E se in Garboli il mistero che avvolge la forma saggistica si esprime in un’oratoria sinuosa e chiaroscurata, in Berardinelli si annida tra gli asindeti che separano proposizioni di per sé chiarissime. E’ questo mistero a indicare la parentela dei saggi coi versi degli esordi. Nella sua prosa contano le ellissi, le simmetrie, i ritmi percussivi: e Febbraro lo definisce giustamente “saggista strofico”. Lirica e saggismo s’intrecciano in molti dei suoi autori preferiti: il neoclassico Auden, saggista in poesia, il Pasolini poeta della saggistica, l’allegorico Enzensberger. Col tedesco, lo scrittore invisibile condivide l’enunciazione in forme antiestremistiche di idee in sé molto radicali su piccola borghesia e progresso. Se Enzensberger somiglia a un incrocio tra Fortini e Calvino, anche Berardinelli dosa la furia dell’ospite ingrato con l’umorismo malinconico del barone rampante. Non a caso ha dedicato a Calvino un ritratto insolitamente lungo. Come lui, Berardinelli insegue una scrittura agile, ridefinendo a ogni passo le basi del sapere nel modo più schematico ed elegante. Per questo entrambi gli scrittori amano i sillabari, le enciclopedie scientifiche, le tipologie. Tutti e due, inoltre, alimentano un vigile pathos della distanza, un’originaria diffidenza per il loro io privato. Ma le differenze contano quanto le somiglianze. Calvino schiva la poesia e la critica dell’ideologia, due generi tipicamente berardinelliani che costringono a fare i conti con le parti più infette della realtà. E quanto alla loro vocazione ecologica, il bisogno di disintossicarsi dai virus culturalisti che muove Berardinelli è altra cosa dalle fobie igieniste di Calvino. Infatti, nella ostentazione calviniana di lievità l’ex allievo di Fortini vede un’aprioristica rimozione del dolore. Anche Calvino non vuol mostrare ciò che è. Al contrario di Berardinelli, ha degli scopi “politici”: e dunque non può accettare davvero la natura metamorfica della vita.
Se Enzensberger ci appare, con Piergiorgio Bellocchio, il più fraterno compagno di strada dello scrittore invisibile, il suo modello rimane Herzen, il saggista che contro Marx previde il trionfo della borghesia bottegaia. Anche l’opera del russo, come i pezzi di Berardinelli, è mossa da una violenta allergia a quei mandarini che entrambi satireggiano senza sosta, l’uno catalogandoli per specie botaniche, l’altro ribattezzandoli con nomi tolti alle merci dei supermarket. A tutti e due, la distruzione degli idoli si presenta come il solo vero lavoro costruttivo, mentre la tendenza a edificare sembra una velleità retorica e magari catastrofica. “La distruzione, da sola, ripugna all’uomo” ha scritto l’autore di “Passato e pensieri”. “Quando si accinge a demolire, egli vagheggia senza volere qualche ideale di edificio futuro; ma spesso è soltanto la canzone del muratore che butta giù una parete”. Chi capisce che la volontà è inconciliabile con la “facoltà passiva” dell’intelligenza non può giustificare nessun meccanismo compensatorio. Certo, se “il pericolo della fede è il fanatismo”, il rischio del dubbio è “l’inazione”. “Ma forse”, dice il laotsetiano Berardinelli, “è un programma più astuto evitare di fare il male che decidere di fare il bene”. Nelle interviste cita il “Basta con Amleto!” opposto dall’impaziente Bakunin a Herzen, per ribadire che lui sta invece con l’impolitico principe di Danimarca. Accanto ad Amleto pone il misantropo idealista Alceste e il fascinoso Andrej. E forse è proprio il principe tolstojano, col suo sguardo attento ma distante, col suo misto di fiera virilità e passività femminea, il personaggio più vicino allo scrittore invisibile: che in lui ammira un uomo il quale, anziché dominare gli eventi, agli eventi “non cede” e “non somiglia”, anche se ne viene “ridotto in polvere”.
“Non dominare né essere dominati. Non ingannare né essere ingannati. Non dare né ricevere ordini”: questo è l’ideale critico di Berardinelli. Una volta lo definii “uno che non sopporta i ricatti”. Sono ancora d’accordo con me stesso. E’ dalla reazione a psicologie e situazioni ricattatorie che nascono i suoi saggi. Ma non c’entrerà anche l’ambizione di cui dice Cordelli? Sì, certo: perfino lo scrittore che accetta il rischio dell’invisibilità cerca un po’ di ascolto. Altrimenti, la percezione della vanità di ogni attivismo diverrebbe così forte da ammutolirlo, e Berardinelli sarebbe Niccolò Gallo. Se ci si esprime pubblicamente e letterariamente, il narcisismo è inevitabile. Il problema è come lo si trasforma in strumento d’analisi senza subirlo ciecamente. Due maestri di questa alchimia sono Saba e Proust: autori lontani da Alfonso, che crede molto meno nel proprio io (e che per questo vive meglio). Ma attraverso Debenedetti, li ha studiati con cura. E forse, sulla parodia e sull’aforisma, ha imparato qualcosa anche da loro.
[Immagine: Alfonso Berardinelli].
E se “scrittore invisibile” fosse un eufemismo per dire “poeta fallito”?
gentile candido, nello spirito del mio ritratto, potresti continuare a “mostrare quello che sei” scrivendo il tuo nome e cognome. ad esempio. aiuta, in questi casi.
“Scelta la giusta distanza dall’avversario, Berardinelli fa leva su due o tre punti deboli e lo stende col minimo sforzo, sfruttando il suo stesso peso come in certe arti marziali. Così a Zinato, che difende la critica marxista e freudiana, replica che “marxismo e freudismo sono culture molto limitate, mentre la letteratura occidentale contiene quasi tutto il resto di quello che è stato scritto”, e dunque “è meglio una teoria shakespeariana di Marx e una teoria dostoevskiana di Freud piuttosto che Shakespeare e Dostoevskij letti tramite Marx o Freud”.
Leggo solo ora su LPLC questo testo di Marchesini che avevo già letto in formato cartaceo…Non mi pare corretta questa icona di Berardinelli-Chuck Norris che sferra calci rotanti, solo contro tutti. Pare un po’ dello stesso stampo della recente mappa idiosincratica di Cordelli ( fatta di caricature di critici e di scrittori).
Ricordo a Marchesini – che per la sua intelligenza ha di certo tutte le risorse per rispettarla – una semplice regola di ecologia della critica: tener conto di ciò che l’altro ha scritto. Nel libro per le Lettere, Il critico come intruso, antesignano del volume curato da Angela Borghesi per Gaffi, con Berardinelli istituisco un dialogo ravvicinato, non un duello: in cui vi sono differenze, non trincee.
Ma anche l’immagine fumettistica, ideologica e caricaturale della critica marxfreudiana, in questo caso attribuita a me che attacco, pesante, e volo via grazie alle arti marziali leggere di Berardinelli (ad uso e consumo, direi, della politica culturale implicita del Foglio) mi pare poco attenta ai dati di realtà.
La riflessione – di quella tradizione critica – sul nesso, solidale o oppositivo, tra letteratura e ideologia, non si esaurisce nel “realismo socialista” e nello zdanovismo: inizia viceversa già nell’Ottocento, e in forme assai originali, con lo stesso Marx e prosegue nel Novecento, contro e oltre lo stalinismo (con Adorno, Benjamin, e anche Fortini). A differenza dei dirigenti marxisti che impostarono nel Novecento la politica culturale dei partiti della Terza Internazionale, Marx riconobbe esplicitamente nel secolo precedente i diritti del godimento estetico e l’autonomia relativa della letteratura e delle arti dalle ideologie e dalla “struttura” economica. Nell’ Introduzione alla critica dell’economia politica, scritta nel 1857, Marx cercò di dare una spiegazione al lungo perdurare del fascino di grandi opere letterarie ben oltre il quadro socioeconomico in cui sono state prodotte e, in particolare, dell’arte greca antica nel mutato contesto della modernità tecnologica. Marx stesso ha cercato di dare, insomma, in modo non deterministico, piena cittadinanza e legittimità al piacere procurato dall’esperienza estetica (un piacere negato dal successivo marxismo dogmatico) e alla lunga durata di forme simboliche del passato arcaico nel nuovo orizzonte industriale. Per dare voce a queste costanti, a questo fascino e a questa verità, (che a ben guardare costituiscono il problema epistemologico principe di ogni teoria della letteratura, come accade a esempio in Orlando) Marx ha fatto ricorso alla forza materiale e culturale della regressione: riconoscendo cioè alla “fanciullezza dell’umanità” una “verità primordiale” che le arti s’incaricano di formalizzare e “riprodurre a un livello più alto”. Una simile idea della letteratura, che circolò nell’ Europa romantica da Schiller a Leopardi, è palesemente estranea alla concezione dello scrittore come “ingegnere di anime” e al “realismo socialista” propugnati per via istituzionale dal marxismo divenuto un regime dittatoriale novecentesco.
il riconoscimento dell’autonomia della letteratura dall’ideologia politica viene insomma da lontano, si trova là dove non ci si aspetterebbe di trovarlo, e le caricature, invece, non fanno onore al contenuto di verità delle opere, anche e soprattutto quelle più irriducibili alle ideologie. A tutte le ideologie: anche a quelle neoliberali.
“ Giovedì 2 settembre 1999 – « Mi sono accorto tardi di essere italiano », dice Alfonso Berardinelli nella prefazione – Naturalmente senza patria – a Autoritratto italiano / Un dossier letterario 1945-1998, l’antologia di scritti sull’Italia – c’è Elsa Morante, c’è Pasolini, c’è Gadda, c’è Nicola Chiaromonte, c’è Fofi, c’è Bollati, etc. – che ha pubblicato con Donzelli nel ‘98. Berardinelli dice che fino a dopo il ‘68 non sapeva di stare in Italia o comunque preferiva pensare di stare semplicemente nel mondo. Per esempio, dice, non gli piaceva Totò, perché era una comicità troppo povera, troppo italiana, invece gli piacevano Burt Lancaster o Marlon Brando o Montgomery Clift, etc. etc. Quello che io penso è che Berardinelli si sbaglia. Perché quello che ha capito tardi, anzi che non ha ancora capito, è che il problema non è l’Italia, ma qualcos’altro. Per esempio Totò. O Burt Lancaster, o Marlon Brando, o Montgomery Clift. Che, a ben vedere, sono la stessa cosa. Cioè il problema è il cinema. Che non è mai un problema di tempo. E neanche di patria. Lo dico un po’ alla svelta, ma il fatto è che è tardi davvero, più tardi di quanto Berardinelli riesca ad immaginare. “
“ Mercoledì 18 settembre 2002 – Sono andato a comprare il libro di Berardinelli, ma il punto non è questo. Il punto è che, mentre ero alla cassa, è entrata una coppia, lei non bella ma vispa, lui alto con una grossa borsa. Il punto è proprio la borsa, perché è dalla borsa che ho capito che il tizio era una specie di professore. Borse grosse così non ce l’ha nessuno, ci sono quelle dei propagandisti scientifici alias piazzisti di medicinali, ma sono squadrate – come i medicinali – e lucide – come una farmacia. Quelle dei professori invece hanno sempre un’aria un po’ misteriosa: che ci sarà là dentro di così voluminoso da riempire quell’enorme spazio: libri, oppure carte, appunti, un saggio, un’opera omnia? Mi ricordo sempre quella di Cantimori, forse la borsa più enorme che abbia mai visto, c’era chi giurava che ci portasse dentro i fiaschi del vino, chissà, forse era solo una leggenda. La borsa del tizio di poco fa, va comunque detto, era bella: deformata, screpolata, invecchiata al punto giusto – ho pensato che forse le vendono già così, come i jeans. Di borse ne ho avute tante anche io. È un po’ come andare ancora a scuola. O come viaggiare, anche se non si va lontano. È bello riempirla – di libri o di vino, è lo stesso -, è bello che pesi – così poi viene la spalla un po’ storta, che anche quello fa « professore » -, è bello portare tutto con sé, omnia mea mecum porto, come diceva quella barbona che veniva a scaldarsi in biblioteca. Un uomo con una borsa non è la stessa cosa di un uomo senza una borsa. Chissà se aveva anche la merendina. « E la forma del saggio? » È come la borsa: ci puoi mettere dentro tutto quello che vuoi, basta che c’entri. « Ma sei proprio sicuro che fosse un professore? » E chi lo sa, magari era solo un borsista. “
“ Lunedì 12 ottobre 2002 – Leggo Berardinelli, e penso che sto perdendo tempo. Lo leggo volentieri, mi piace, mi interessa molto quello che scrive e anche come lo scrive, ma la sensazione che sia tutto tempo perso non mi abbandona un istante. Nella mia situazione, penso, alla mia età, dovrei forse fare qualcosa di meglio: inventarmi una fonte integrativa di reddito, prepararmi seriamente alla pensione, togliermi qualcuna delle mie residue curiosità sessuali, fare un viaggio, fare ginnastica, curarmi, godermi un po’ le mie nipotine. Oppure cercare di scrivere qualcosa di meno inutile di questo diario che non legge nessuno, che non leggerà mai nessuno. Invece scrivo solo il diario e, soprattutto, leggo: leggo Berardinelli. Forse chissà, quell’antagonismo della letteratura su cui Berardinelli pensosamente si interroga, chiedendosi, ad esempio, come possa essere comunicato, anzi insegnato – lui, dopotutto, è un professore -, consiste proprio in questa disposizione della letteratura a fare perdere tempo. Perché le cose che fanno perdere tempo sono tante, ma come fa perdere tempo la let(tera)tura non lo fa nessuno. “