cropped-AdamMagyar_AMUF006_11.jpgdi Charles Taylor

[È in uscita in questi giorni per la collana “La ginestra – Biblioteca per un individualismo solidale” della casa editrice Diabasis il volume La democrazia e i suoi dilemmi (a cura di P. Costa), dove sono raccolti tre saggi sulla democrazia scritti dal filosofo politico canadese Charles Taylor nell’arco degli ultimi trent’anni. I dilemmi a cui fa riferimento il titolo sono quelli della comunità, della solidarietà e della dialettica tra inclusione ed esclusione. Anticipiamo qui uno stralcio del terzo capitolo, dedicato all’esclusione democratica]

Alla base della democrazia, in particolare della democrazia liberale, vi è una grande filosofia dell’inclusione. Il governo del popolo, dal popolo, per il popolo; e laddove per ‘popolo’ (a differenza che nelle epoche passate) si intende tutti – senza le tacite restrizioni di un tempo: contadini, donne, schiavi, ecc. – si dischiude l’orizzonte della forma politica più inclusiva della storia dell’umanità.

Eppure, nella dinamica democratica c’è anche qualcosa che spinge verso l’esclusione. Ciò risulta più evidente nelle varianti più antiche di questa forma di governo – si pensi solo alle poleis o alle repubbliche antiche – ma oggi è fonte di grande disagio. Nelle pagine seguenti intendo anzitutto esaminare a fondo questa dinamica e poi soffermarmi sulle varie soluzioni escogitate per compensarla o minimizzarla.

1. Da che cosa dipende la spinta verso l’esclusione? Potremmo dire così: ciò che rende inclusiva la democrazia è il fatto che è il governo di tutto il popolo; a favorire l’esclusione è invece il fatto che è il governo di tutto il popolo. L’esclusione è il sottoprodotto di qualcos’altro: il bisogno, nelle società che si autogovernano, di un alto livello di coesione. Gli stati democratici necessitano di qualcosa di simile a un’identità comune.

Il perché risulta chiaro non appena riflettiamo sui requisiti dell’autogoverno, sui presupposti del modello fondamentale di legittimazione di questi stati e su che cosa significhi basarsi sulla sovranità popolare. Ebbene, per essere sovrano il popolo deve costituire un’entità e avere una personalità.

Le rivoluzioni che resero possibili i regimi di sovranità popolare trasferirono il potere dal re alla ‘nazione’ o al ‘popolo’. Nel corso del processo inventarono un nuovo modello di azione collettiva. Le parole esistevano già, ma la cosa che finirono per indicare, questo nuovo tipo di azione, non aveva precedenti, quantomeno nel contesto dell’Europa primo-moderna. Fino ad allora il concetto di ‘popolo’ poteva certamente essere applicato all’insieme dei sudditi di un regno, o agli strati inferiori della società, ma prima di quella svolta non stava a indicare un’entità che poteva decidere e agire insieme e alla quale si potesse attribuire una volontà.

Perché questo nuovo tipo di entità richiede un alto grado di coesione? Il concetto di sovranità popolare non equivale forse a quello di volontà della maggioranza, più o meno limitata dal rispetto della libertà e dei diritti? Il fatto è che questo tipo di regola decisionale può essere adottata da qualsiasi organismo, anche dalle aggregazioni meno coese. Immaginiamo che durante una conferenza pubblica alcuni si lamentino del caldo opprimente e chiedano di aprire le finestre, mentre altri vi si oppongano. In questo caso la decisione finale può essere facilmente presa per alzata di mano e i presenti la accetteranno come legittima. E, tuttavia, il pubblico di una conferenza può essere composto dalla più disparata congerie di individui, sconosciuti gli uni agli altri, assembrati soltanto dall’evento.

Questo esempio mostra ex negativo ciò di cui hanno bisogno le società democratiche. Sembra intuitivamente chiaro che debbano avere un legame più forte di quello che tiene insieme un gruppo casuale. Ma come possiamo comprendere questa necessità?

La si potrebbe comprendere come un’estensione della logica della sovranità popolare, che non prevede solo un certo tipo di procedure decisionali – quelle fondate in ultima istanza sulla maggioranza (fatti salvi i limiti) – ma offre anche una giustificazione speciale. In un regime basato sulla sovranità popolare siamo liberi in un modo sconosciuto, per esempio, ai sudditi di una monarchia assoluta, o di un’aristocrazia consolidata.

Supponiamo ora di vedere le cose dal punto di vista di un individuo. Immaginiamo di finire in minoranza su una questione importante. Sono così costretto ad attenermi a una regola che non condivido. La mia volontà non è fatta. Perché mai dovrei ritenermi libero? Conta forse il fatto che sono stato scavalcato dalla maggioranza dei miei concittadini, anziché dalle decisioni di un monarca? Perché mai questa circostanza dovrebbe essere decisiva? Possiamo persino immaginare che un potenziale monarca, in attesa di ritornare al potere grazie a un colpo di stato, sia d’accordo con me sulla questione, contro la maggioranza. Non sarei allora più libero dopo la controrivoluzione? Dopo tutto, in questo caso la mia volontà verrebbe pienamente esaudita.

È facile capire che non si tratta qui di una questione meramente teorica. Raramente viene sollevata nel nome di singoli individui, ma sorge regolarmente nel caso di sottogruppi, per esempio di minoranze nazionali che si sentono oppresse. Può darsi che nessuna risposta possa soddisfarle: nulla può convincerle a sentirsi parte di questo più ampio popolo sovrano e, perciò, ai loro occhi il suo potere apparirà illegittimo proprio in virtù della logica stessa della sovranità popolare.

È evidente qui l’intimo legame tra la sovranità popolare e l’idea di popolo come agente collettivo, in un senso molto più forte rispetto all’esempio proposto sopra del pubblico di una conferenza. Questa variante di azione collettiva è qualcosa in cui si può essere inclusi senza prendervi parte realmente, cosa che non avrebbe alcun senso per un membro del pubblico. La natura  di tale appartenenza diventa visibile se ci domandiamo quale risposta potremmo offrire a coloro che, messi in minoranza, fossero tentati dal ragionamento abbozzato sopra.

Naturalmente, i filosofi sostenitori di un individualismo estremo ritengono semplicemente che non esista alcuna risposta valida: secondo loro, fare appello a una dimensione collettiva superiore non è altro che un imbroglio per convincere chi ha votato contro ad accettare una servitù volontaria. Ma anche senza dirimere questa fondamentale questione filosofica, potremmo chiederci quale sia la caratteristica delle nostre ‘comunità immaginate’ sulla base della quale molto spesso le persone ammettono prontamente di sentirsi libere in un regime democratico, anche nei casi in cui la loro volontà venga scavalcata su questioni importanti.

La risposta che accettano suona più o meno così: tu, al pari di noi altri, sei libero solo in virtù del fatto che ci governiamo in comune e non siamo governati da qualcuno o qualcosa che non ha alcun bisogno di tenere in considerazione la nostra volontà. La tua libertà consiste nel fatto che hai diritto di parola sul governo, che puoi essere ascoltato e hai un ruolo nel processo decisionale. Tu godi di questa libertà in virtù di una legge che rende liberi allo stesso tempo tutti noi; per questo ne godiamo insieme. La tua libertà è realizzata e difesa da questa legge, sia che tu vinca o perda sulle singole decisioni particolari. Questa legge definisce una comunità: la comunità di coloro di cui realizza/difende la libertà nel suo insieme. Definisce, cioè, un agente collettivo, un popolo, la cui libertà è salvaguardata dall’azione comune resa possibile dalla legge.

Questo è il tipo di risposta – non importa se sia valida o meno – che le persone hanno finito per accettare nelle società democratiche. Possiamo subito notare che essa comporta l’adesione a un modello di appartenenza molto più forte di quello esemplificato da un gruppo di persone radunate in una sala per una conferenza. Si tratta di un agire collettivo continuativo, partecipando al quale si realizza qualcosa di molto importante: una forma di libertà. Nella misura in cui questo bene è cruciale per l’identità delle persone, ne deriva una forte identificazione con tale agire, e quindi anche il sentimento di un legame con coloro che vi co-partecipano. Solo facendo appello a questo genere di appartenenza è possibile rispondere alla sfida del nostro ipotetico individuo, che si domandava se appoggiare o no il colpo di stato del monarca (o del generale) in nome della propria libertà.

Il punto cruciale, qui (a prescindere da chi abbia alla fine ragione dal punto di vista filosofico), è che il principio di legittimità della sovranità popolare può assicurarsi il consenso delle persone solo fintanto che esse accettano risposte del genere. L’efficacia di questo principio dipende essenzialmente dalla sua capacità di fare appello a un’azione collettiva in senso forte. Se l’identificazione con questo agire viene respinta, il potere del governo appare illegittimo agli occhi di coloro che non l’accettano, come si può constatare negli innumerevoli casi di malcontento delle minoranze nazionali. Sarà anche governo del popolo – è la loro replica – ma, per quanto ci riguarda, non possiamo accettare di essere governati da questo gruppo di cui non facciamo parte: non è il nostro popolo. È questo il legame profondo tra la democrazia e l’agire comune inteso in senso forte: la logica è la stessa del principio di legittimazione su cui si fondano i regimi democratici. I governi che non riescono a generare questo tipo di identità, lo fanno a proprio rischio e pericolo.

[Immagine: Adam Magyar, Human Flow (gm)].

 

23 thoughts on “I dilemmi della democrazia

  1. Per comprendere i “dilemmi” o, meglio, le aporie della democrazia, occorre operare, in parallelo con la riflessione filosofica qui proposta, la ricostruzione del processo storico che ha fatto della democrazia il centro semantico di un universo problematico di grande complessità teorica (in cui confluiscono e si intrecciano la storiografia, la sociologia, l’antropologia, la teoria e la storia giuridico-costituzionale, la filosofia politica e giuridica, la filosofia dell’educazione e la riflessione etica), prendendo le mosse dalla definizione del concetto di cittadinanza, vero asse di gravitazione di quell’universo problematico, elaborata dal sociologo inglese T.H. Marshall, il quale ne coglie il nucleo costitutivo in questi termini: “una forma di uguaglianza umana fondamentale connessa con il concetto di piena appartenenza ad una comunità”. Sempre a Marshall si deve la classica tripartizione dei diritti in diritti civili, politici e sociali, laddove tale tripartizione si configura come la sintesi logica di un vasto processo storico, che coincide in sostanza con l’intera vicenda europea e con le tre fondamentali tappe che hanno segnato la lotta combattuta dai grandi movimenti di classe che si sono formati e sviluppati nell’età moderna e contemporanea sul terreno della rivendicazione dei diritti, della loro conquista e del loro riconoscimento. Il percorso individuato dallo studioso inglese ha pertanto una direzione precisa e progressiva, che è costituita dall’estensione del concetto e dai livelli di sviluppo dell’uguaglianza: esso parte dalle disuguaglianze di ceto delle società di antico regime e, passando attraverso l’ottenimento dell’uguaglianza giuridica, giunge alle politiche redistributive delle democrazie dei “trenta gloriosi”.
    Ciò che caratterizza dunque il concetto di cittadinanza è, di là dalla sua definizione in parte convenzionale – che, come si è visto, ne coglie il nucleo nel nesso tra appartenenza e diritti, circoscrivendo in tal modo la sfera dell’uguaglianza -, l’efficacia operativa che tale concetto possiede nel focalizzare il processo storico-sociale e nel ricondurlo ad un principio unitario (efficacia operativa che si manifesta anche nel campo delle pratiche educative e della riflessione didattico-pedagogica). Tuttavia, anziché procedere dalla definizione del concetto di cittadinanza (che ha natura semi-convenzionale, ancorché sia distillata dal processo storico) verso la sua applicazione e verifica nei diversi campi del sapere e dell’agire, è possibile, e assai fruttuoso, sul piano dell’analisi critica, invertire la direzione di marcia e muovere dalla domanda: “che cosa è la cittadinanza?”. Emerge, in questa diversa prospettiva d’indagine (il cui vettore è prettamente storiografico), la molteplicità dei significati e degli usi secondo cui tale concetto è stato declinato (e può essere declinato) nella storia delle azioni e interazioni sociali. La ricerca concernente le origini storiche del concetto di cittadinanza, pur facendo tesoro della intuizione di Marshall sul nesso tra appartenenza e diritti, deve innanzitutto determinare – aspetto, questo, che non viene preso in considerazione da Charles Taylor – la soglia della discontinuità a partire dalla quale è possibile tematizzare tale concetto in modo (non anacronistico ma) storicamente corretto, evitando sia la Scilla di una visione dell’idea di cittadinanza incentrata sul mondo antico e sulle celebri definizioni aristoteliche depositate nel terzo libro della “Politica”, sia il Cariddi della identificazione, proposta da Jurgen Habermas, fra il concetto di C e uno ‘status di cittadino’ definito da un insieme di diritti civili. Anche se la tentazione semplificatoria è forte, occorre decostruire, almeno in parte, il (troppo) facile schema della successione storica e ideale che allo ’status’ di suddito (corrispondente all’età dell’assolutismo) fa seguire lo ‘status’ di cittadino (corrispondente all’avvento dello Stato liberale, prima, e dello Stato democratico, poi). Una cosa è certa: il luogo di origine dell’idea di citatdinanza, in quanto idea bifronte che, per un verso, guarda all’appartenenza e, per un altro verso, ai diritti, va situato nel periodo della formazione dello Stato moderno e dell’assolutismo (quindi nel Seicento).
    Come ha messo in evidenza Pietro Costa nella sua monumentale ricostruzione intitolata “Civitas. Storia della cittadinanza in Europa”, la nozione di cittadino, còlta nelle sue origini connesse alla società di ordini, alla nascita dello Stato moderno e al regime assolutistico, risulta tutt’altro che univoca, in quanto, ad esempio, non riferibile ad un solo rapporto di appartenenza: cittadino è infatti colui che, appartenendo per nascita ad un luogo, si differenzia sia dal ceto nobiliare che dal ceto contadino; ma cittadino è anche colui che, appartenendo ad una città, è detentore dei diritti e dei privilegi che ne conseguono; infine, il cittadino è colui che è soggetto al comando del sovrano. Come si può notare, sono le (molteplici) appartenenze che definiscono la posizione del soggetto (il quale è, sempre e ad un tempo, agente e paziente, titolare di diritti e destinatario di comandi, cittadino e suddito). In buona sostanza, il campo semantico dell’idea di cittadinanza e, ‘a fortiori’, dell’idea di democrazia è costituito dall’interazione di nozioni diverse, una delle quali è quella di suddito. Nella Francia del Seicento e della prima metà del Settecento la nozione di cittadino implica (non esclude) quella di suddito e lo stesso soggetto è, insieme, suddito e cittadino, a seconda che della sua posizione si voglia sottolineare il momento della soggezione al sovrano o piuttosto il momento dell’azione liberamente svolta e finalizzata al pubblico bene. L’opposto del cittadino-suddito è, semmai, il servo o lo schiavo, cioè una figura che è esclusa da ogni rapporto di appartenenza-soggezione. Sennonché, nella relazione di appartenenza alla città, che comporta sia il riconoscimento di un àmbito giuridicamente protetto nei confronti dell’azione del sovrano sia una qualche forma di partecipazione al governo della ‘respublica’, lo ‘status’ del cittadino-suddito dell’’ancien régime’ viene ad essere contraddistinto da un carattere duplice, destinato a connotare l’idea di cittadinanza sino ai nostri giorni: da una parte, la libertà e, dall’altra, la partecipazione al potere. Si innesta in tal modo una complessa dinamica di ordine sia
    giuridico-istituzionale sia storico-sociale che, nel corso del Settecento, condurrà i due profili costitutivi della nozione di cittadinanza propria dell’età dell’assolutismo – quello del suddito e quello del cittadino – ad una progressiva divaricazione e sfocerà, da ultimo, con la svolta epocale della rivoluzione francese, nella separazione fra l’àmbito della soggezione e dell’obbedienza e l’àmbito della libertà e della partecipazione. Il “grande disagio” lamentato da Taylor ha queste radici e sottintende il franco riconoscimento dei limiti insuperabili della democrazia liberale: quei limiti che, restando al suo interno, sono destinati a restringersi progressivamente, mentre, se si ha il coraggio di guardare oltre, postulano una democrazia di tipo nuovo fondata, come afferma Taylor, su “un agire collettivo continuativo, partecipando al quale si realizza qualcosa di molto importante: una forma di libertà”.

  2. I DILEMMI (TRUCCATI) DELLA DEMOCRAZIA (LIBERALE)

    «La tua libertà consiste nel fatto che hai diritto di parola sul governo, che puoi essere ascoltato e hai un ruolo nel processo decisionale. Tu godi di questa libertà in virtù di una legge che rende liberi allo stesso tempo tutti noi; per questo ne godiamo insieme. La tua libertà è realizzata e difesa da questa legge, sia che tu vinca o perda sulle singole decisioni particolari. Questa legge definisce una comunità: la comunità di coloro di cui realizza/difende la libertà nel suo insieme. Definisce, cioè, un agente collettivo, un popolo, la cui libertà è salvaguardata dall’azione comune resa possibile dalla legge. Questo è il tipo di risposta – non importa se sia valida o meno – che le persone hanno finito per accettare nelle società democratiche.» (Charles Taylor)

    Di tutte le possibili libertà ci lasciano (sempre in teoria) solo quella di parola. E questa sola viene considerata dagli studiosi liberali. Come se gli altri – quelli al governo – fossero arrivati a comandare solo in base ad essa. O avessero vinto una piacevole e correttissima gara soltanto grazie alla loro lingua più sciolta e convincente della nostra. ( Vedi le “gare” per il Mose, per l’Expo a Milano, ecc.)
    Ridicola poi l’affermazione oscurantista:« Questo è il tipo di risposta – non importa se sia valida o meno – che le persone hanno finito per accettare».
    Pensiamo a Galileo. Ai suoi tempi tutti avevano finito per accettare la teoria geocentrica. Che importanza aveva se era valida o meno? E pensiamo al fascismo o oggi anche a Renzi, a Obama, a Putin, a Qui Comando Io. Il consenso c’è sempre. Dormiamo tranquilli.

  3. Mi piacerebbe sapere da qualcuno più esperto di me di filosofia politica contemporanea come Mauro Piras (ma apprezzerei anche sentire il parere ad esempio Roberto Buffagni che dai suoi commenti sembra spesso presentarsi come un conservatore comunitarista, mi corregga pure se lui vuole descriversi in altro modo) quale sarebbe il vero nucleo della critica del comunitarismo al liberalismo, perché non mi sembra un punto così necessario per ogni liberalismo che esso debba possedere una teoria sociale e una visione dell’uomo individualista invece che relazionale o collettivista (ovvero che l’individuo non è un atomo indipendente dalle relazioni con altri individui o con una società come entità unitaria e organica).

    Le libertà dell’individuo, infatti, non necessariamente si devono fondare come conseguenza di una visione dell’uomo che compie scelte valoriali in modo individualistico e soggettivo in modo tale che vengano appiattiti nell’indifferenza identità culturali e valoriali anche condivise da buona parte degli individui. Un criterio più condiviso per fondare le libertà individuali dovrebbe essere quello che ogni persona, in quanto ognuna ha una sua dignità, deve abbracciare una scelta morale, culturale o identitaria mediante un suo processo libero, senza che qualcun altro, (che sia un altro individuo o gruppo, o anche lo stato) la costringa. Questo riconoscimento di rispetto della libertà individuale naturalmente non vuol dire che una particolare società unita da identità valoriali comuni come la lingua, la religione o il valorizzare l’ambiente in cui vivano non possano ritenere tali identità più al centro della loro vita di altre presenti in altri cittadini dello stesso stato e invitare altre persone ad unirsi e a condividerli, ma appunto lo stato e le persone non devono usare mezzi coercitivi per far aderire chi non mette al centro della propria vita tali valori. La libertà dalla costrizione quindi non dovrebbe impedire che lo stato non debba riconoscere pubblicamente tali comunità di valori, specie quando sono molto numerose, penso ad esempio alle minoranze linguistiche o anche al patrimonio storico, artistico e culturale di una religione (fermo restando che un conto è promuovere la restaurazione di chiese antiche e la conoscenza a scuola della Bibbia per capire le opere d’arte, un conto è l’esposizione in luoghi per legge di un simbolo religioso esclusivo, per motivazioni di cui abbiamo parlato già nei commenti di un altro articolo).

  4. Aggiungo alla mia riflessione fatta prima l’appunto che il riconoscimento pubblico dello stato di certe identità rilevanti nella società (linguistiche, religiose o di altro tipo…) mi sembra qualcosa di pacifico in una visione liberale e un sistema politico che mette al più possibili ai margini nel privato queste identità porta semmai a una visione illiberale da stato etico del tipo “Io stato decido dall’alto ciò che è bene o male per ognuno di voi” come se gli individui e le società fossero dei “bambini” incapaci di arrivare da soli con le proprie forze a compiere un percorso per cercare di realizzare la propria vita. Ad esempio in Italia mi pare che sia diffusa spesso l’opinione (che io non ho mai condiviso) che valorizzare da parte del pubblico le scuole gestite da privati sia una minaccia per le scuole pubbliche, a me pare invece che sia tutto a vantaggio della libertà di educazione e di scelta. (scelta naturalmente che presuppone che lo stato o entità esterne diano informazioni a tutti i cittadini su come funziona e che risultati dà quella scuola). In fondo allo stesso modo lo stato rende liberi i cittadini su quali e quanti cibi comprare da mangiare, fermo restando che debba dare a tutti i cittadini informazioni sulle conseguenze di un certo tipo di alimentazione piuttosto che di un altro.

  5. Un compito urgente, che si pone con forza nel momento attuale, è quello di elaborare una critica della democrazia, poiché, pur essendo la democrazia una tradizione di pensiero forte, nella pratica della democrazia, quale da tempo è invalsa, stiamo assistendo ad un intreccio perverso tra derive plebiscitarie e populistiche e derive oligarchiche e neocorporative, che ne rivela una crescente debolezza ideale. Infatti, nella storia della democrazia, come ho cercato di mostrare attraverso l'”excursus” storico sull’idea di cittadinanza, vi è un nodo assai stretto fra i due elementi che ne sono costitutivi: una pratica di dominio e un progetto di liberazione. Due elementi che nei periodi di crisi confliggono l’uno con l’altro e nei periodi di normalità sono entrambi compresenti e si ìntegrano fra di loro. Sennonché oggi, essendo il rapporto di forze profondamente squilibrato da una parte, non si vede che una faccia sola della democrazia: quella del dominio. Se questo è il vero nodo, la novità allora consiste nel fatto che, mentre nel passato si doveva cercare di sciogliere questo nodo, oggi occorre tagliarlo. Ma ciò implica che la critica della democrazia abbia un carattere molto radicale. Sia il ‘demos’ (ossia il popolo) che il ‘kratos’ (ossia il potere) sono, in effetti, entità compatte, uniche ed univoche, non duali e non scindibili. Così, la democrazia presuppone l’identità di sovrano e popolo (la sovranità popolare), laddove, da un lato, la società divisa in classi ha scisso e reso illusoria questa identità, mettendone a nudo la falsità ideologica, e, dall’altro, la divisione dei poteri, nel corso del grande passaggio storico dal liberalismo alla democrazia, si è rivelata una maschera dell’unità del potere in mano ad una sola classe. È possibile affermare perciò che, se la libertà è differenza, la democrazia è identità (si badi bene, identità dei dominanti e dei dominati, dei governanti e dei governati, di coloro che comandano e di coloro che ubbidiscono, ossia la completa identità del popolo omogeneo: il problema su cui si interroga Taylor): ciò spiega, fra l’altro, la dialettica, a volte aspramente conflittuale, che si instaura fra liberalismo e democrazia.

    Orbene, nella fase storica che stiamo vivendo oggi, questo nodo teorico-pratico si sta avvicinando alla sua recisione. In effetti, la ‘democrazia reale’ è diventata un’idea debole, dal momento che è un sostantivo (democrazia) che ha sempre bisogno di aggettivi qualificativi per definirsi (liberale, totalitaria, sociale ecc. ecc.): ciò denota una mancanza di autonomia concettuale e, in definitiva, un indebolimento della nozione stessa. Naturalmente, la critica della democrazia, che àuspico, non è né la critica della democrazia condotta da un punto di vista liberale né quella condotta da un punto di vista tecnocratico (che è quanto dire: Locke contro Rousseau o Comte contro Rousseau) né, tanto meno, quella che opera, come ha fatto Gianfranco Miglio, un ‘mix’ tra l’una e l’altra; essa è una critica di tutt’altra natura, che muove da una realtà storica in cui, paradossalmente, la democrazia entra in crisi perché ha vinto su tutta la linea (quindi, Hegel e Marx). Ma, quando si è vinto su tutta la linea, è evidente che l’unico nemico che rimane è se stesso. In realtà, anche se si fa un gran parlare di liberaldemocrazia, la democrazia ha dei problemi con la libertà e, quindi, è proprio in questo punto nodale del binomio ‘libertà/democrazia’ che essa va aggredita sul piano critico.

    Qui si apre il discorso sulla costruzione del soggetto, laddove è da sottolineare che la ‘differenza’, nucleo concettuale della libertà e del soggetto, è sia l’elemento portante della libertà che l’elemento scardinante della democrazia. In termini di antropologia politica, si potrebbe dire che oggi la democrazia, dopo l’accoppiata novecentesca tra rivoluzione operaia e ‘grande crisi’, è l’incontro di carattere epocale tra l’‘homo oeconomicus’ e l’‘homo democraticus’, fra il ‘bourgeois’ e il ‘citoyen’, fermo restando che in ciascuna di queste coppie il secondo termine è oggi totalmente assorbito dal primo. Gli spiriti capitalistici hanno trovato perciò la loro incarnazione tipica nell’‘homo democraticus’, ovvero nel borghese-massa, che è il vero soggetto interno al rapporto sociale contemporaneo. In conclusione, non vi sarà un’efficace critica della democrazia senza un grande affondo antropologico sia a livello sociale sia a livello individuale. Le condizioni più favorevoli a questo affondo sono create da una crisi generale che, proprio perché separa sempre più drasticamente e contrappone sempre più violentemente economia e ideologia, permette di concentrare il punto focale della critica sul mito della ‘società dei proprietari’, che è giunto a noi dall’America di Bush e dei ‘teocons’ ed è stato declinato dal blocco berlusconiano-leghista nei termini del ‘lombardismo impolitico’. L’effetto congiunto del trionfo storico della democrazia e della crisi economica mondiale, che sottrae alla democrazia il suo terreno fondativo ed elettivo (la ‘società dei proprietari’, per l’appunto), fa sì che essa sia matura per essere sottoposta ad una critica radicale che punti, da un lato, a contestare la pratica di dominio e a recuperare l’originario progetto di liberazione e, dall’altro, a rifondare una teoria del soggetto e della libertà.

  6. Se può essere utile alla discussione una rapida contestualizzazione della riflessione di Charles Taylor, vale la pena ricordare che la contrapposizione tra liberali e comunitari in filosofia politica riflette meglio l’autocomprensione dei pensatori schierati sul fronte “liberale” che non quella dei critici dell’ontologia sociale “atomista” o della concezione “proprietaria” dell’io, tra i quali rientra a pieno diritto il filosofo canadese. Da questo punto di vista, hanno ragione coloro che, come Ennio Abate, relegano polemicamente Taylor al mainstream liberale. A patto, però, che si intenda la tradizione politica liberale in un senso molto ampio (facendo spazio, cioè, non solo a Locke e Mill, ma anche a Montesquieu e Tocqueville). Il punto dell’estensione del concetto è non lasciare il monopolio della difesa del bene della libertà ai soli sostenitori della libertà “negativa”. In questo senso, il confine tra liberali e comunitari finisce per separare, piuttosto, coloro che danno importanza al bene dell’autogoverno in vista dell’autorealizzazione personale da quanti invece non la danno. Insomma, ai liberali libertari o liberisti si contrappongono i liberali repubblicani, eredi della tradizione dell’umanesimo civico.
    Da questo punto di vista, non è difficile capire perché per Taylor il principale problema oggi sia venire a capo delle teorie e delle pratiche della sovranità popolare, che è effettivamente un dilemma non da poco per le democrazie moderne (tanto più in un contesto dove dominano le diversità culturali profonde). Che gli appelli alla volontà del popolo siano qualcosa di ambiguo non è certo una grande novità. L’originalità della riflessione di Taylor risiede probabilmente nel suo approccio hegeliano/wittgensteiniano; nel disinteresse, cioè, per una teoria idealtipica della democrazia a favore, invece, di una riflessione sulle pratiche dell’autogoverno democratico moderno e sugli immaginari sociali che ne stanno alla base. L’intento generale, in ogni caso, è tutto fuorché giustificazionista, e si avvicina di più a una critica immanente di matrice hegeliana. Nella sua ottica, l’immaginario democratico che si è affermato progressivamente in Europa a partire dal Settecento (e che ha radici molto più antiche) non è fatto di fantasie arbitrarie, ma incarna l’aspirazione a rendere intellegibili quelle intuizioni morali, sociali, politiche che si celano dietro il bene dell’autogoverno democratico e hanno un fondamento reale (nella natura umana, ma non solo).
    Che quest’ultimo resti un bene, pur non essendo l’unico bene o un bene assoluto, è una tesi su cui vale la pena discutere. Il fatto che in molte democrazie contemporanee, compresa la nostra, questa affermazione non sia più un luogo comune, è il sintomo più evidente della profondità dei cambiamenti in atto.

  7. Confesso che non sono molto sicuro di avere capito l’analisi proposta qui da Taylor, ma ovviamente dipende anche dal fatto che bisognerebbe leggere tutto il libro.
    Però mi sembra Taylor la veda così:
    1) la democrazia non si regge solo sulla condivisione contingente della regola della maggioranza, ma su una condivisione più profonda, cioè quella della libertà eguale come un bene comune, in virtù del quale si sceglie l’autogoverno, perché questo è l’unico che la garantisce; questo significa che c’è un legame etico condiviso tra i membri della comunità democratica;
    2) questo presupposto fonda una comunità come agente collettivo, al quale si è legati da un sentimento di appartenenza, proprio in virtù di quel bene fondamentale; questo però provoca la dinamica conflittuale inclusione-esclusione, perché l’inclusione derivante naturalmente dall’ideale democratico entra in conflitto con l’esclusione derivante dal “sentirsi-non sentirsi parte” di quella comunità.
    Ho separato così queste due parti dell’argomento, perché penso che la prima parte sia giusta, ma che da essa non derivi la seconda parte, che invece mi sembra sbagliata. L’errore deriva da una impostazione generale che parla della democrazia come dell’azione di un “macrosoggetto”, a partire dall’idea di popolo. Io penso invece che si debba parlare della democrazia partendo dal fatto che individui moralmente eguali accettano come legittimo solo un potere che non viola questo loro status. Se si parte da un presupposto simile, il punto 1) è corretto, e infatti esistono dei fondamenti etici della democrazia liberale. Tuttavia questo non vuol dire che allora si costituisca un soggetto come “il popolo” che esiste solo se si riconosce come unito da una identità forte condivisa. Tutti coloro che si sentono rispettate come persone eguali, sulla base di quel presupposto etico condiviso, si sentono parte di una comunità democratica. Quando non si sentono tali, è perché nei processi decisionali, nelle ragioni per giustificare le norme, nei contenuti delle norme essi non vengono rispettati come persone eguali. Ecco perché ritengo sbagliato dire che nella democrazia in quanto tale le minoranze si sentono escluse perché non sentono di appartenere a un certo popolo; questo avviene solo se l’unico fondamento di legittimità di una democrazia è l’ethos storico di una collettività, che vuole imporsi alle minoranze e agli individui. Se invece il fondamento di legittimità è quella condivisione di un ideale normativo di libertà eguale, allora non può essere così. E lo dimostra bene il fatto che le minoranza non si sentono escluse se procedure, ragioni e norme rispettano la loro identità, in un rapporto di eguaglianza con gli altri gruppi e individui. Mi sembra che Taylor faccia in modo troppo semplice il passaggio da 1) a 2), con una certa mancanza di chiarezza concettuale.

    Altre due cose.

    Caro Paolo,
    grazie per la contestualizzazione. Però tra i “liberali libertari-liberisti” e i “liberali repubblicani” hai dimenticato i “liberali egualitari”, tra qui si trovano alcuni di noi rawlsiani :)

    Caro Michele,
    in effetti anche io sono profondamente convinto del fatto che difendere il liberalismo e le libertà individuali non implichi l’accettazione di una ontologia individualista.
    Ultimamente l’ho pensata così: il liberalismo non è tanto la difesa della possibilità per ognuno di scegliere la propria vita senza influenze esterne (idea che estremizzata porta all’ipertrofia del soggetto e/o all’atomismo individualistico), quanto, molto più semplicemente, la difesa della possibilità per ognuno di essere come è. Il liberalismo come rispetto della libertà concreta di persone eguali significa che ognuno è come è, e non si vede perché dovrebbe essere costretto a diventare altro. Se non fa male agli altri, ovviamente.

  8. Caro Paolo, scusami, nel risponderti ho scritto “qui” al posto di “cui” (effetti della stanchezza…). Mi scuso anche con tutti i lettori.
    mp

  9. Vedo che alcune tematiche che avevo tentato di suscitare rispetto ad un altro articolo (intitolato “Perchè Renzi è di sinistra”), si sono trasferite qui e così dico la mia anche qui.
    Prendo spunto dallo stimolante intervento di Michele Dr, quando egli si chiede se non sia invece possible avere un liberaismo collettivistico (mi scuso per la sintesi probabilmente eccessiva, non sto tentando di distorcere il pensiero di Michele, penso che basterà ai lettori interessati rferirsi direttamente al suo intervento per escludere ualsiasi equivoco in proposito).
    La mia risposta alla sua domanda è un no netto ed inequivocabile, a causa dei fondamenti filosofici del liberalismo. Quando parliamo di liberalismo, ci stiamo riferendo ad una complessa teoria politica che conta ormai parecchi secoli di vita, e non è quindi possibile a mio parere partire dall’attualità trascurando ciò che precede, secoli di pensiero liberale che fanno da fondamento a ciò che è apparso più di recente.
    Mi vorrei soffermare ancora su questo aspetto storico, perchè ho l’impressione che i liberali diano ormai per scontati i loro fondamenti, costringendo di fatto l’intero dibattito di filosofia politica negli angusti limiti fissati proprio dai fondamenti filosofici del liberalismo. Come è ovvio, se non si ridiscutono più quei fondamenti, di fatto diventa impossibile qulasiasi critica radicale del liberalismo.
    Riprendeno il punto sollevato da Michele, vorrei ricordare cosa scrive Locke nel suo “Trattato sul governo”. Egli mette al centro della sua attenzione l’uomo naturale, che egli sostiene essere un individuo libero, e una volta che egli entra a far parte di una determianta società le leggi e le regole sociali tendono a ridurne la libertà, creano dei vincoli alle sue scelte. Il punto che mi pare fondamentale è che egli immagina la costituzione della società come un passaggio successivo all’esistenza dell’individuo. Se parliamo dell’individuo fisicamente inteso, la sua sembra una constatazione abbastanza ovvia, ognuno di noi è stato partorito e l’inserimento in un contesto sociale avviene comunque successivamente a questo evento.
    Se tuttavia parliamo dell’essere culturale, questa più che una constatazione, costituisce un errore palese, perchè la cultura a cui ci educano ci precede di certo, e cioè è la società a prcedere l’esistenza della persona intesa in senso culturale (èimpossibile che esista una cultura fuori da un contesto sociale).
    L’errore diventa fondamentale perchè la possibilità di scelta non appartiene all’essere naturale ma a quello culturale. L’uomo allo stato selvatico non ha in realtà l’opzione della scelta, non più di quanta ne abbia un gatto a cui noi attribuiamo decisioni dettate da un meccanismo instituale, nessuno credo si spinga fino a sostenere che un gatto è più libero di un uomo, mi sembrerebbe un modo improprio di usare il termine “libertà”. La libertà presuppone la possibilità di scegliere, e la scelta a sua volta presuppone una risposta aperta, e quindi priva di meccanismi automatici, come quelli che attribuiamo all’istinto. Non è un caso che consideriamo un gatto come un essere innocente e attribuiamo le responsabilità soltanto agli uomini adulti, perfino i bambini ne restano fuori.
    Se quindi scelta e responsabilità sono esclusive dell’uomo culturale, allora l’ordine cronologico va invertito, in quanto la nostra cultura ci precede, almeno quella che ci impartiscono col processo educativo. E’ per questo che, al contrario dei liberali, io credo che la società preceda i singoli individui.
    Questo punto viene anche ripreso nell’intervento di Piras che sostiene che noi dobbiamo avere la possibilità, se non danneggiamo gli altri, di comportarci così come siamo. Rispetto a questa frase, ho due motivi di dissenso. L’uno, quello più importante, è che questa nostra essenza individuale semplicemente non esiste, è una creazione dovuta all’errore di prospettiva di cui dicevo, credere che l’individuo preceda la società in cui vive. In principio ci sono singoli individui, ognuno con i propri gusti, i propri convincimenti. In un secondo momento questi singoli individui decidono di dare luogo ad un’aggregazione di tipo sociale. Questa cadenza di eventi è semplicemente inesistente, è appunto un’invenzione del liberalismo e ne costituisce il nucleo ideologico.
    L’altro motivo di dissenso sta nel sostenere che io possa fare ciò che voglio se non interagisco con altri. Ma appunto, in una società, interagiamo con gli altri per la stragrande parte dei singoli atti che vanno a costituire la nostra esistenza individuale, e quindi io la considero soltanto una esteticamente pregevole petizione di principio senza effetti pratici sostanziali.

    Detto ciò, vorrei aggiungere che ho motivi di dissenso rispetto anche al pensiero comunitarista di cui Taylor costituisce uno degli esempi più importanti.
    Ciò che mi sembra sbagliato del pensiero comunitarista è che si tratta di una teoria volontaristica. Essi cioè dicono che una società debba sforzarsi di essere comunitaria, cioè il comunitarismo è in tale tipo di pensiero una scelta deliberata che va compiuta perchè positiva ed augurabile.
    Al contrario, io penso che noi siamo comunitari a prescindere, cioè senza bisogno che esprimiamo un’opzione esplicita in tal senso. Penso che la dimensione sociale dell’uomo sia la premessa stessa dell’esistenza delle società, le quali possono esistere soltanto perchè le differenze individuali sono di tipo marginale. A noi possono sembrare gigantesche perchè come membri di questa società la nostra attenzione viene attirata dai conflitti che sorgono proprio a causa di questa differenze di dettaglio, ignorando così quella gran parte di cose che ci accomuna.

    Quella che è ormai diventata la mia personale crociata contro il liberalismo non è dovuta al fatto che io ritenga l’individualismo distruttivo rispetto a un comunitarismo costruttivo, ma perchè ritengo estremamente pericoloso lo stesso ignorare la capacità reciproca di condizionamento. Costruiamo delle società liberali a misura di persone libere, e ci ritroviamo a dovere gestire società sostanzialmente omologate. Il pericolo sta appunto nel potere elevatissimo che un determinato individuo può esercitare anche fuori dagli organi istituzionali, soltanto perchè ha i mezzi finanziari e mediatici per determinare i comportamenti collettivi.

    Mi fermo qui, scusandomi per la lunghezza del commento, pronto a chiarire i punti che la sintesi a cui mi sono costretto abbiano reso alquanto oscuri.

  10. Com’era prevedibile la discussione si è già fatta molto complessa, a riprova – se ce ne fosse stato bisogno – che il concetto di democrazia è un concetto non solo problematico, ma insidioso, tanto più quando il sostantivo si accompagna all’aggettivo “liberale”. Nel libro, in effetti, Taylor difende una concezione non puramente procedurale di democrazia e, mettendosi sulla scia della diatriba infinita tra Kant e Hegel, trasferisce il ragionamento sulle norme esplicite al piano delle pratiche e dello sfondo culturale (nel suo caso gli “immaginari sociali”) che rende tali pratiche sensate e quindi praticabili per degli agenti in carne e ossa (un eventuale riferimento al problema wittgesteiniano del “seguire una regola” sarebbe del tutto pertinente). Devo dire che, una volta concepita come un insieme di pratiche (di discussione, negoziazione, elezione, protesta, ecc.), è difficile capire come si possa prescindere da una nozione pur esile, ma comunque sostantiva, di “popolo”, con una sua storia, una sua idea di futuro, insomma con una sua “identità” più o meno rigida, più o meno ospitale. In caso contrario, sarebbe difficile distinguere la forma di governo democratica, per esempio, da forme di dispotismo mite (come quello che le élite tecnocratiche europee vivono già come il loro orizzonte politico naturale). Per questo il concetto di “sovranità popolare” è la bestia nera di tutte le teorie della democrazia liberale. (E per questo nelle democrazie, a differenza che negli imperi multiculturali, le minoranze possono sentirsi escluse dall’azione comune, ad esempio se la loro lingua o cultura viene ignorata come un bene superfluo e dispensabile.) Personalmente, comunque, non mi farei intimorire troppo dal fantasma dei “macrosoggetti”. I macrosoggetti, così come gli atomi sociali (o le “robinsonate” di cui parlava Marx), rappresentano i poli estremi di un’antropologia politica che contempla un gran numero di posizioni intermedie. Tra queste, c’è sicuramente spazio anche per forme di identità comune, ma non fusionale, sicuramente finite e contingenti, ma non per questo meno preziose per le persone che devono fare qualcosa delle proprie vite in condizioni di incertezza e relativa impotenza.

  11. Lo svolgimento di questa discussione rende necessario l’approfondimento di un tema che si potrebbe definire nel modo seguente: le metamorfosi del soggetto e i molteplici volti della cittadinanza. Il periodo di formazione della democrazia moderna è quello in cui si diffondono la teoria giusnaturalistica e la cultura illuministica, il cui precipitato storico si condenserà nella ideologia della rivoluzione francese. Determinante è stato l’apporto della filosofia del diritto naturale nel modificare radicalmente la rappresentazione del soggetto, il quale, pur mantenendo i legami con il sovrano, con i ceti e con la città, propri del suo ‘status’ di suddito-cittadino, ha acquistato un nuovo ‘status’ – quello di uomo -, in forza del quale ha ottenuto il riconoscimento di tutta una serie di nuovi attributi: stato di natura, bisogni, diritti, contratto ecc. La rappresentazione del soggetto, in precedenza incardinata sull’asse verticale suddito-cittadino, ha assunto perciò una nuova configurazione attraverso l’incontro con l’asse orizzontale uomo-cittadino. Diviene ora centrale l’uomo in quanto soggetto caratterizzato da bisogni fondamentali, che devono essere soddisfatti, e titolare di diritti originari e irrinunciabili, di cui deve essere assicurato il godimento.

    Il rapporto fra la precedente nozione di cittadinanza e la nozione di cittadinanza che si afferma in questo periodo storico è quindi un rapporto complesso, in cui il passato è oggetto di una rilettura e di una riappropriazione filtrate da una prospettiva del tutto nuova. È quindi possibile affermare che, se in senso strettamente genealogico il concetto di cittadinanza, in quanto asse di gravitazione della democrazia, è riconducibile, come si è visto, all’età dell’assolutismo, in senso propriamente storico è solo con la elaborazione di questa nuova prospettiva di carattere universalistico che si ha il vero e proprio atto di nascita dell’idea moderna di democrazia. La centralità dell’uomo nella rappresentazione del soggetto moderno implica: 1) l’istituzione della coppia concettuale Stato-società civile (cfr. Hegel); 2) il riconosci-mento di due attributi essenziali del soggetto: la libertà e la proprietà (cfr. Locke); 3) l’anteriorità e la precedenza di tale soggetto rispetto alla sovranità e all’ordine sociale (cfr. ancora Locke).

    Una svolta decisiva rispetto alla visione lockiana del soggetto si verifica con il “Contratto sociale” di Rousseau, il quale concepisce il soggetto ad un tempo come suddito e come cittadino. Sembra di essere tornati al periodo iniziale dell’assolutismo; in realtà, il concetto di cittadinanza è mutato nel profondo, poiché include ormai (non come elemento opposto e contrario ma) come elemento intrinseco e inscindibile la sovranità. Al ‘cittadino-uomo’ di Locke si affianca, prima, e si contrappone, poi, come dimostreranno gli sviluppi più radicali della rivoluzione francese tra l”89 e il ’93, il ‘cittadino-sovrano’ di Rousseau.

    Ma in che cosa consiste la sovranità, posta con forza al centro delle Costituzioni francesi ? Si tratta di un elemento nuovo, ossia del popolo-nazione che, definendo i titolari della sovranità e dei diritti, specifica, all’interno del concetto di cittadinanza/democrazia, la fondamentale dimensione dell’appartenenza.
    A questo punto, il cittadino sembra occupare un posto intermedio fra l’individuo che appartiene al popolo-nazione e l’uomo naturale detentore di diritti sacri e inalienabili. Emerge così la differenza che distingue il concetto di cittadinanza affermàtosi con Rousseau e la rivoluzione francese, fondato sul nesso stretto fra diritti e appartenenza nell’àmbito della sovranità del popolo-nazione, e il concetto di cittadinanza proprio del costituzionalismo nordamericano, fondato sulla separazione tra diritti e sovranità. È perfino possibile dire, in questo senso, che, mentre al di qua dell’Oceano i diritti sono espressione di appartenenza, al di là dell’Oceano essi sono strumenti di resistenza.

    Le ‘due libertà’ (la ‘libertà da’ e la ‘libertà di’, per usare una formula), corrispondenti ai diritti civili e ai diritti politici, non hanno mai convissuto pacificamente, ma hanno sempre costituito l’oggetto di una lotta politica radicale, diretta a determinare la loro rispettiva estensione e i loro reciproci rapporti. Altrettanto avverrà, in forma ancora più acuta, con la ‘terza libertà’ (la ‘libertà per’), corrispondente ai diritti sociali. A partire dalla fase più radicale della rivoluzione francese – quindi a partire dal ’93 – si delinea infatti quella coppia opposizionale ‘eguaglianza formale-eguaglianza reale’ che occuperà un posto centrale nella letteratura socialista fra Ottocento e Novecento, contribuendo, anche attraverso l’importante esperienza cooperativa ed egualitaria delle società operaie di mutuo soccorso, a ridefinire il campo semantico e concettuale della democrazia in rapporto al fondamento, ai limiti e all’esercizio del diritto di proprietà.
    A tale proposito, è opportuno osservare che, mentre l’opposizione ‘diritti sociali-diritto di proprietà’ ha un carattere (non categoriale ma) politico, in quanto ha la sua radice nel concetto di uomo, l’opposizione ‘diritti civili-diritti politici’ ha invece carattere (oltre che politico) categoriale, poiché mette in gioco dei diritti – i diritti politici – che affondano le loro radici nel rapporto cittadino-sovranità e costituiscono il contenuto primario dell’appartenenza del cittadino al popolo-nazione.

    La grande svolta anti-illuministica del primo Ottocento spiega perché, una volta assunto il criterio dell’appartenenza al popolo-nazione in senso romantico, si ribalti, nella formulazione dei diritti di libertà, il rapporto tra soggetto, diritti e appartenenza e il campo della cittadinanza venga ad essere istituito non più partendo dall’uomo naturale, ma dallo Stato-nazione. Sarà poi la cultura positivistica, affermàtasi in pieno Ottocento, a contestare l”individualismo’, l”atomismo’ e la ‘metafisica’ del giusnaturalismo illuministico, caratterizzando il soggetto in base al vincolo di solidarietà organica che lega il soggetto alla comunità familiare, al gruppo sociale e all’intera società. La scoperta di nuovi diritti e di nuovi doveri sarà allora il frutto della nuova collocazione che il soggetto viene ad assumere in forza del rapporto di appartenenza alla società e, conseguentemente, allo Stato, che della società è l’interprete funzionale. Con l’avvento della legislazione sociale e con il formarsi dei grandi apparati amministrativi e istituzionali dello Stato contemporaneo, il campo, originariamente unitario, della cittadinanza/democrazia viene sottoposto alle crescenti tensioni che nascono dal rapporto fra appartenenza e diritti, nonché dal rapporto fra diverse categorie di diritti (in particolare, fra diritti civili e diritti sociali). Alla base di tali tensioni vi è, come si è visto, il venir meno di quell’immagine unitaria del soggetto (l’uomo naturale) che aveva sorretto e ispirato l’azione dei costituenti francesi.

    Rispetto a quell’immagine unitaria del soggetto, per venire ai giorni nostri, l’ideologia postmoderna è apertamente regressiva. Recuperando tutti i luoghi comuni prodotti dal disorientamento caratteristico di momenti come quello attuale, esprime e tende a diffondere sfiducia nei confronti, oltre che dell’idea di soggetto, delle idee di progresso e di universalismo. Ma invece di approfondire una seria critica dei limiti di queste espressioni della cultura illuministica, invece di analizzare le loro contraddizioni effettive, di cui l’involuzione della globalizzazione imperialistica aggrava le conseguenze, questa corrente culturale si limita a sostituire tali concezioni con le affermazioni dell’ideologia liberale americana, che, ridotte all’osso, suonano nel modo seguente: ‘vivere con il proprio tempo’, ‘adattarsi’, ‘gestire la quotidianità’, ossia astenersi dal riflettere sulla natura del sistema e dal rimettere in discussione le sue scelte attuali. Pertanto, invece di spingere verso il superamento dei limiti dell’universalismo borghese, l’elogio delle diversità ereditate funziona in perfetto accordo con le esigenze del progetto di globalizzazione. Questo progetto può generare, intrecciandosi con le retrive ideologie ‘comunitaristiche’ della tradizione nordamericana (e di altre tradizioni), solo un sistema organizzato di ‘apartheid’ su scala mondiale. Accade però, siccome la diffusione di queste ideologie produce, per così dire, ‘effetti antitetico-speculari’, che quella che si può definire la regressione ’culturalista’ non sia applicata e manipolata soltanto dalle forze che dirigono i processi di globalizzazione (FMI, OMC e NATO), ma anche assunta e riutilizzata dai popoli oppressi disorientati (è il caso del fondamentalismo islamico o di quello induista). Accade allora che questo insieme di manifestazioni di regressione e disorientamento (rispetto a quello che è stato il pensiero borghese nella sua forma classica) si coniughi, infine, con un’involuzione della vita politica. Infatti, se il principio stesso della democrazia si fonda sulla possibilità di fare delle scelte alternative, quando l’ideologia dominante impone l’idea che non ci sono alternative perché l’adesione a un principio di razionalità superiore permetterebbe di eliminare la necessità e la possibilità di scegliere, è evidente che non vi è più democrazia. In concreto, il cosiddetto principio di ‘razionalità dei mercati’ svolge proprio questa funzione totalizzante nell’ideologia della globalizzazione imperialsitica.

    Mi rendo conto che il quadro interpretativo che ho tracciato non dà spazio a conclusioni tranquillizzanti e consolatorie, ma è anche vero che non dà spazio né al comunitarismo e al fondamentalismo, che imprimono il loro marchio esclusivistico e intollerante alla riscoperta delle identità (e al correlativo “clash of civilizations”), né al relativismo e al nichilismo che conferiscono un’impronta decisamente evasiva all’ideologia postmoderna oggi di moda e che tendono a negare, attraverso l’astratta parificazione delle diversità, il valore etico-sociale della possibilità di un mondo migliore, più giusto, più umano e più solidale di quello oggi esistente. La globalizzazione, intesa nella sua più vasta accezione come l’insieme delle interrelazioni contraddittorie tra fattori economici, sociali, politici, culturali, tecnologici, demografici e
    ambientali su scala planetaria, è, comunque, il terreno concreto su cui siamo chiamati a misurare la rispondenza delle nostre analisi e la validità delle nostre proposte. Per esprimerci con le parole di Bertolt Brecht, occorrono “intelligenza del particolare e intelligenza del tutto”, perché “solo ammaestrati dalla realtà potremo cambiare la realtà”.

  12. Scusandomi del ritardo, rispondo volentieri all’invito cortese di Michele Dr.
    Premessa: non sono un filosofo, la teoria non è il mio forte in nessun campo.
    Dirò quel che penso senza pretese.

    1) Non so se sono un “conservatore comunitarista” come sembro a Michele Dr.; magari sì, sinora non ci avevo mai pensato. Se proprio devo definirmi politicamente, direi che sono un nazionalista moderato (a moderarmi è il mio cattolicesimo, che mi suggerisce di non idolatrare niente, nazione compresa). Comunque, vada per il conservatore comunitarista.
    In effetti, sono un conservatore, e in effetti sulla comunità la penso come Cucinotta (e parecchi miliardi di altri esseri umani vivi e morti): senza comunità l’individuo semplicemente non esiste. La comunità preesiste *logicamente*, più ancora che *cronologicamente* all’individuo, il quale si forma (quando si forma, non è una cosa tanto scontata) solo all’interno di essa: non solo per adesione, ma anche per opposizione. In breve: solo se sei italiano puoi veramente amare e/o odiare l’Italia.

    2) Questa idea (*comunità* viene prima di *individuo*), che è poi la registrazione di un fatto elementare e noto a tutti, nell’antichità classica non fa problema quasi a nessuno, tranne, dopo la morte della polis, qualche filosofo cinico in vena di paradossi. Poi salta fuori l’imprevisto cristiano, e suggerisce che c’è un rapporto necessario, diretto e personale tra Dio e ciascun uomo. La priorità logica della comunità sull’individuo comincia a costituire un problema, anche politico.

    3) Il problema politico e culturale vero e proprio, quello del quale parliamo ora, comincia però a profilarsi molto più tardi, con l’invenzione dell’individuo borghese: tanto per fare qualche nome, Hume, Locke, Kant. A me pare che le critiche di Hegel e Marx a quell’individuo siano ancora ben fondate (niente male anche le critiche dei reazionari, de Maistre e Donoso Cortès, per esempio).

    4) Liberalismo. A me sembra che del liberalismo si possano dire due cose. Una, che è un’acquisizione perenne di civiltà la battaglia del liberalismo classico per le garanzie giuridiche dell’individuo contro l’arbitrio del principe. Due, che la logica dell’idea intrinseca al liberalismo (la “logica ideologica” del liberalismo) è quanto di più nichilista siamo riusciti a escogitare nella nostra storia, perchè a forza di libertà negativa (“libertà da”, invece che “libertà per”) il liberalismo riduce a pulviscolo atomico le persone e le comunità, et desinit in piscem con i paradossi horror della libertà di suicidarsi, di ammazzare i bambini (mi riferisco all’aborto), di sposarsi tra persone di egual sesso, di noleggiare donne per farsi fabbricare i figli, e altre assurdità teratologiche che trovo non so se più ridicole o raccapriccianti.
    In breve: il liberalismo è un’ottima medicina se applicato q.b. a una società illiberale, olistica; se pretende di costruirne un’altra sulla base dei suoi criteri, fa fiasco, perchè non si costruisce sulla sola critica: vero che ci sono “i no che fanno crescere”, ma prima, per esistere e poi crescere, ci vogliono anzitutto tanti, tantissimi “sì”, il primo dei quali sarà quello di tua madre che non ti fa preventivamente fuori.
    (Mio personale parere di vecchio parruccone : nessuna società umana può reggere a lungo una simile, quotidiana, diluviale irrorazione di acido solforico liberale. Come diceva quello, “the center does not hold”, la colla si scioglie e tutto va in pezzi).

    5) Come diceva quell’altro, “per fare lo stufato di lepre ci vuole la lepre” (è Dostoevskij ne “I demoni”, e la lepre di cui parla è Dio: per credere in Dio ci vuole Dio, e se non c’è?). Per fare il comunitarismo, ci vuole la comunità.
    In Occidente – dico Occidente tanto per intenderci, non è una parola che mi piaccia, ma insomma – di comunità ce n’è pochina, se intendiamo per “comunità” il tipo A, cioè il modello olistico che ci propongono le civiltà prerivoluzionarie. Restano, molto indeboliti ma ancora vitali, i gruppi sociali che si fondano sull’interazione faccia a faccia, anzitutto la famiglia, per quanto ansimante e scassata; e poco altro. (N.B.: questi residuati comunitari sono in grave affanno, umiliati, offesi e presi per il culo: ma tengono in piedi tutta la restante, rutilante e potente e modernistica baracca sociale).
    Se invece per “comunità” intendiamo il tipo B, cioè i gruppi sociali definiti da cose come l’origine etnica, le preferenze sessuali, l’abitare in un quartiere piuttosto che in un altro, il lavoro in una azienda piuttosto che in un’altra, il tifo calcistico, etc., allora di comunità ce ne sono decisamente troppe, ed è possibile ricondurle a precaria unità solo con: a) una ideologia emozionante sbilanciata verso il futuro e la conquista (per esempio, l’eccezionalismo USA, ma andava bene anche il comunismo, finchè dava l’impressione di poter vincere il campionato mondiale) b) il lobbying politico democratico, che lavora scientificamente proprio sugli interessi di queste pseudocomunità).

    6) Quindi, e concludo. Secondo me, i comunitaristi (soprattutto americani) che ragionano a partire dalle comunità di tipo B da un canto sono realistici, perchè ragionano a partire da un dato effettualmente esistente; dall’altro vanno completamente fuori tema, perchè a mio modesto avviso, le loro comunità somigliano alla comunità come SecondLife somiglia alla vita, cioè insieme molto e molto poco.
    Sempre secondo me, è più fruttuosa la ricerca dei comunitaristi come Alasdair McIntyre, o Alain de Benoist, o Costanzo Preve in Italia, che in modi molto diversi provano a fare due cose: a) ripensare sul serio il lascito filosofico e culturale dell’antichità classica, soprattutto Aristotele, e a riformulare per l’oggi il concetto di “natura umana”, dunque il rapporto individuo/comunità b) nella definizione di “comunità” fanno cadere l’accento sulla “comunità di destino”, pur senza sputare sulla “comunità di origine”.

  13. @ roberto buffagni,

    grazie della risposta e della presentazione delle sue posizioni sul problema del liberalismo e del comunitarismo nelle democrazie moderne. Provo a commentarla non tanto per criticarla nei punti in cui non siamo d’accordo quanto nell’approfondire certi punti che lei tocca quando sono problematici negli attuali stati occidentali.

    Per la cronaca, come avrà compreso dai miei altri commenti, io in filosofia politica sostengo una posizione abbastanza vicina a quella di Piras, ovvero un liberalismo egualitario ispirato da Rawls, in cui lo stato ha il dovere primario di intervenire in modo più o meno diretto per correggere le disuguaglianze, al contrario di una certa destra libertaria che ritiene che le libertà individuali abbiano un valore più primario e che debbano essere molto meno limitate da ridistribuzioni egualitariste. Avevo usato per lei il termine “conservatore” in un senso molto generico come mantenitore di un certo status quo sociale ed economico visto come portatore di un ordine rassicurante (che può essere declinato in modi molto diversi, basti pensare all’ampia apertura ai diritti civili come immigrazioni, unioni omosessuali e antiproibizionismo di droghe e prostituzione di molti conservatori europei, all’opposto di altri conservatori tradizionalisti).

    Questa importanza del valore di uguaglianza si riflette anche nelle mie linee guida delle tematiche etiche con rilevanza politica: infatti sebbene io non mi ritengo legato a una particolare confessione religiosa, ritengo che una concezione di laicità di tipo libertario, che non evidenzia il fatto che l’individuo in casi limite come portare o no a termine una gravidanza o continuare o no una condizione di fine vita con sofferenze non percepite come sopportabili, per compiere tali scelte in modo libero deve aver acquisito i mezzi culturali, economici, sociali, caratteriali per far sì che ad esempio una donna non possa portare a termine una gravidanza che prima la si voleva continuare a causa della perdita improvvisa del posto di lavoro. In queste tematiche inoltre ritengo che si debba evitare nell’applicazione pratica la “tirannia dei valori” ricordata da Schmitt, e dunque è desiderabile un intervento indiretto dello stato atto a prevenire interruzioni di gravidanza ed eutanasia piuttosto che proibire in modo assoluto queste pratiche contro la volontà delle persone, proibizioni che non diminuirebbero queste scelte eticamente difficili (su altri campi come l’eterologa o le unioni omosessuali ritengo invece che l’individualismo atomico non centri proprio nulla ma non è qui la sede per approfondire). Dunque ritengo che la sua critica della “logica ideologica” del liberalismo non mi sembra colpisca forme in cui viene evidenziato il valore dell’uguaglianza.

    L’antropologia dell’individuo pensabile in quanto preesistente alla comunità io la ritoccherei affermando che l’individuo preesiste ad una rete di relazioni e che le comunità stesse esistono in quanto parte mutevole di una rete di comunità inevitabilmente mutevoli, in modo che si possa riconoscere che il valore delle identità unitarie presuppone il valore delle alterità sia dentro che fuori tali identità, al fine di evitare visioni intolleranti che vanno contro le società democratiche con cittadini liberi e uguali.

    Da quello che ho compreso comunque vedo che lei accetta un liberalismo che non impone una sola religione degna di culto e propaganda e non censura la stampa e manifestazioni di piazza critiche verso il governo, dunque mi pare che questo sia del tutto contraddittorio con “il modello olistico che ci propongono le civiltà prerivoluzionarie” che negava diritti di stampa, religione, che vedeva gli altri stati come nemici da combattere e dominare e così via e sinceramente la divisione che lei fa tra le comunità A appartenenti a questo modello e le comunità B mi pare di fatto una divisione tra la comunità a cui appartiene lei e tutte le altre comunità diverse dalla sua (del tipo, per lei le famiglie tradizionali e lo stato nazionale sono comunità A ma le minoranze etniche e linguistiche, le coppie omosessuali e le comunità sovranazionali miranti a cooperare per il bene di ognuno dei loro membri sono comunità B), comprese quelle che accettano i valori democratici di libertà ed eguaglianza. Mi domando quindi perché lei accetta tali valori del liberalismo e delle democrazie moderne da me citati prima dato che sembrano contraddire altre parti del suo sistema di valori. La inviterei di nuovo peraltro ad evidenziare il valore dell’eguaglianza come parte di una certa idea di liberalismo diversa da quello che lei critica e da cui anch’io penso di distanziarmi, anche se come ha compreso non condivido altre visioni valoriali da lei esposte.

  14. @Buffagni
    Ma davvero lei crede che sia stato necessario attendere lo sviluppo delle teorie liberali per liberare le persone dall’arbitrio del principe? A me sembrava che la stessa istituzione del diritto sia già un atto che si oppone all’arbitrio.
    E mi parrebbe anche che la culla del diritto non si trovi a versailles e dintorni, e neanche a Washigton D.C., ma molto prima, nell’antica Roma. Già nell’antica Roma, l’arbitrio era bandito.
    Epperò esistevano gli schiavi che certo erano esclusi dall’accesso alle garanzie del diritto. E poi agli schiavi succedettero i servi della gleba, e poi i proletari, e proprio quando sembrava che questo proletariato fosse stato promosso nella piccola borghesia, scopriamo improvvisamente che è la piccola borghesia ad essere svuotata per andare a società proletarizzate più che nell’ottocento (ma questa è una storia in progress, ne vedremo delle belle…)
    Quindi, la mia conclusione è differente dalla sua, non concedo al liberalismo questo merito storico, e, data la forte stratificazione sociale, non concedo neanche il merito di avere reso la società più eguale.
    Il liberalismo è una religione che permette di discutere di tutto, purchè non si mettano in crisi i suoi fondamenti, allora i buoni e tolleranti liberali avvertono il bisogno di censurare, soprattutto smettendo di discutere con simili profanatori.
    Come ogni religione, ha i suoi dogmi, e il primo dei dogmi del liberalismo è quello che vuole che in principio era l’individuo. Un altro principio indiscutibile è quello per cui l’economia deve occupare il centro dell’azione politica. Per ritornare al tanto citato Rawls, egli è così ideoligizzato su questo aspetto che quando parla di giustizia parla senza darne spiegazione alcuna, di distribuzione di risorse economiche, una società più giusta è quella che meglio distribuisce la ricchezza, e questo a Rawls ed ai suoi proseliti basta ed avanza.
    Che poi non si capisce quando la società dovrebbe occuparsi della distribuzione della ricchezza, impegnata come deve essere a garantire preliminarmente le libertà.
    Ma quante sono queste libertà, è possible stilarne una lista? Non so, io credo di no, che sia sempre possibile aggiungerne una ancora (come nella famosa storiella della disfida tra angeli su chi fosse stato in grado di pronunciare numero più alto), ma sicuramente Rawls si guarda bene da darne un esempio.
    Se usciamo dai fumi ideologici del liberalismo, capiamo che il punto non sta nel sostenere una posizione di principio a difesa dei diritti, ma di decidere quali siano i diritti che vadano effettivamente difesi ad ogni costo, e come questo risultato vada ottenuto.
    Tanto per fare un esempio, una cosa è il diritto di potere diffondere il proprio pensiero, un’altra è il diritto d una donna ultrasessantenne ad avere una gravidanza. Non occorre una grande argomentazione per capire la differenza, ma ciò che è terribile del liberalismo è che non si occupa di queste doverose distinzioni, di entrare nel merito delle grandi questioni che riguardano le società, ma, tramite l’utilizzo di categorie inadeguate (quella ad esempio di non meglio specificati diritti) di lasciare tutto in mano al manipolatore di turno che, in possesso di risorse adeguate, e basandosi sul condizionamento di massa, potrà rendere più importante ed urgente la difesa della gravidanza a qualsiasi età piuttosto che la libertà di stampa.

  15. Quell’affondo sul piano antropologico, che la crisi attuale della democrazia e la dottrina dei diritti rendono sempre più necessario, va sviluppato in un contesto segnato dall’intreccio fra pratiche di dominio, teoria del soggetto e progetto di liberazione. La concezione marxiana dell’individuo (fermo restando che la nozione di individuo è il centro di gravitazione di ogni materialismo) ha da dire qualcosa di importante a questo proposito, poiché è ricavata dall’analisi critica delle concezioni liberale, liberista e comunitarista, di cui costituisce, ad un tempo, la negazione determinata e il superamento dialettico. Tale analisi pone in luce anche la debolezza e l’ambiguità ìnsite in tentativi che, come quello di John Rawls, mirano ad attuare una qualche forma di ‘contaminatio’ fra la tradizione liberale e quella socialista. E’ noto, d’altra parte, che l’accusa di negare la libera iniziativa dell’individuo (o persona umana) in nome del collettivismo è uno dei motivi ricorrenti della polemica antimarxista e anticomunista condotta dai liberali e dai cattolici.
    In realtà, una simile accusa nasce dal fraintendimento o dalla mistificazione del pensiero di Marx e, nella fattispecie, dalla errata identificazione fra i concetti di individuale e di privato, di universale e di collettivo. In primo luogo, occorre osservare che nel materialista Marx il termine ‘individuo’ è assai frequente e corrisponde a quanto nel loro linguaggio gli spiritualisti sono soliti indicare con il termine di ‘persona’ o ‘persona umana’. Sennonché generalmente sfugge che, sul piano teorico, per Marx ‘individuale’ non si oppone affatto a ‘collettivo’, bensì a ‘privato’.
    Il concetto di ‘collettivo’ designa infatti una totalità di individui senza alcuna esclusione, mentre il concetto di ‘privato’ designa ciò che appartiene a pochi individui con esclusione dei più. Parallelamente, sul piano storico Marx distingue la proprietà privata individuale di tipo artigianale, fenomeno del medioevo, dalla proprietà privata capitalistica, fenomeno dell’età moderna, che nasce, per l’appunto, dall’appropriazione privata di quanto prima apparteneva a molti individui. Egli, inoltre, attraverso il processo dialettico della negazione della negazione (la proprietà privata capitalistica, che ha negato la proprietà privata individuale, viene, a sua volta, negata dalla proprietà collettiva che conserva ciò che di positivo vi è sia in essa che nella precedente forma di relazione sociale) delinea la possibilità di una ripresa (o riappropriazione) della proprietà individuale, fondata sulla cooperazione e sul possesso collettivo di tutti gli individui. La coincidenza di individuale e collettivo che in tal modo si compie appare a Marx realistica e realizzabile perché “le relazioni generali moderne”, cioè i grandi mezzi di produzione, rappresentano “una totalità di forze produttive” di tale grandezza che il singolo individuo non potrebbe “impadronirsene altrimenti che nella comunità coi suoi simili”: sono, insomma, tali che “non possono essere sussunte sotto gli individui che con l’essere sussunte sotto tutti”.
    Pertanto, la rivendicazione di una gestione “collettiva” dei mezzi di produzione da parte di “tutti gli individui” è, come indica con chiarezza il “Manifesto del partito comunista”, lo scopo per cui sono chiamati a battersi i moderni proletari, cioè i lavoratori salariati, una volta superata la fase della immediata reazione luddistica in cui essi volevano distruggere le macchine e tornare al vecchio sistema di produzione. Nel proletariato individualità e collettività coincidono, mentre è il capitalismo che con l’appropriazione “privata” dei mezzi “collettivi” di produzione distrugge ogni proprietà “individuale” da parte di tutti e colpisce al cuore la stessa individualità della persona umana.
    La comprensione simultanea sia del nesso di complementarità che Marx pone fra individuale e collettivo sia del nesso di opposizione che stabilisce fra individuale e privato permette di intendere perché egli contrapponga comunismo e liberismo, ma non comunismo e liberalismo. Il liberismo è in effetti l’ideologia dell’appropriazione privata dei mezzi di produzione collettivi, mentre il liberalismo è l’ideologia della borghesia in ascesa che ha spazzato via la società teocratica feudale, liberando se stessa e le classi subalterne. Il limite storico di tale liberazione consiste però, come Marx sottolinea, nel fatto che queste classi sono state ‘liberate’ non solo, sul piano giuridico, dai loro diritti corporativi, ma anche, sul piano pratico, dai loro mezzi di sussistenza. Sicché, l’artigiano, impoverito ed emarginato dalla concorrenza della produzione industriale, è stato posto davanti all’alternativa di lasciare la sua bottega per entrare nella fabbrica come lavoratore salariato o di morire di fame; parimenti, il contadino è stato liberato sul piano giuridico dai molti gravami signorili, ma insieme privato dei diritti consuetudinari sugli usi civici nelle terre feudali ed ecclesiastiche, nonché di ogni possibilità di riscattarle, andando ad infoltire, così impoverito, le file dell’esercito industriale di riserva.
    Marx, che pure nel “Manifesto del partito comunista” aveva esaltato la positiva funzione storica del capitalismo, sapeva infatti vederne anche le contraddizioni, a differenza sia dei liberali di antica e recente affiliazione, che ne vedono soltanto “le sorti magnifiche e progressive”, sia dei comunitaristi, che vorrebbero esorcizzarlo mediante una sorta di rinnovato giusnaturalismo.

  16. Ringrazio tutti delle repliche, e mi scuso di non poter rispondere subito. Lo farò appena possibile. Grazie ancora.

  17. @ Vincenzo Cucinotta:

    tralascio di rispondere alla sua critica che Rawls “quando parla di giustizia parla senza darne spiegazione alcuna”, mi domando solo di cosa lui parlava in “”A theory of justice” (o anche in altri suoi saggi come “Justice as fairness”). Poi lei potrà criticare quanto vuole quelle spiegazioni di giustizia contenute in quelle opere, ma perlomeno qualche spiegazione è portata dal filosofo statunitense.

    Lei afferma inoltre che ” il punto non sta nel sostenere una posizione di principio a difesa dei diritti, ma di decidere quali siano i diritti che vadano effettivamente difesi ad ogni costo”, si tratta di un’osservazione interessante, ma domando se conosce filosofi politici o del diritto che abbiano dato risposte secondo lei abbastanza soddisfacenti. La mia impressione è che effettivamente un elenco chiuso e definitivo di diritti è alquanto arduo da compilare, in quanto molti di essi sono sorti quando nel corso della storia umana sono comparse situazioni del tutto inedite. Penso alla tecnicizzazione della medicina alle varie questioni bioetiche sul diritto a una morte dignitosa, agli analoghi progressi nel campo della procreazione e le discussioni sui diritti riproduttivi, all’uso di mezzi sempre più potenti per sfruttare risorse naturali che ha portato a formulare diritti verso l’ambiente e gli animali, ai sempre più grandi potere e diffusione dei mezzi di informazione e di conseguenza che hanno portato ai diritti di protezione dei dati personali e così via. Tutt’altro discorso è invece quello dei limiti in cui si esercitano tali diritti, ma mi risulta che non solo Rawls ma anche altri filosofi politici e del diritto ammettono che la libertà d’espressione debba avere limiti nei casi di ingiuria, diffamazione o violazione della privacy così come i diritti riproduttivi tengono conto anche delle conseguenze delle scelte dei genitori sui figli.

    Piccola correzione: nel mio commento di prima volevo scrivere “ritengo che una concezione di laicità di tipo libertario non evidenzia il fatto”, senza il “che”, dove volevo quindi ancora evidenziare che tale concezione di liberalismo non mette affatto le esigenze egualitarie in secondo piano.

  18. @MIchele Dr
    Grazie della replica.
    Riguardo a Rawls, io non ho detto (basta rileggere il mio intervento) che Rawls non parla della giustizia, certo, anzi come lei giustamente sottolinea, è la parte più consistente del suo libro più noto. Dicevo invece che non giustifica perchè mai l’aspetto economico debba occupare il centro del proscenio.
    Dopo la sua osservazione, ieri sera ho ripreso il libro che ho letto alcuni anni fa, e ho trovato conferma a ciò che ho scritto. Egli elenca due aspetti che definiscono uno stato giusto. Il primo è di tipo egualitario, e cioè che tutti i cittadini devono godere delle stesse libertà ed in ugual grado, la seconda che le risorse vadano distribuite in maniera quanto più possibile eguale.
    Ora, il primo s’intreccia direi inestricabilmente con il principio considerato prioritario della difesa dei diritti, riguardando l’eguale distribuzione delle libertà.
    Se adesso per un momento prescindiamo da tutto ciò che nel libro di Rawls riguarda le libertà, rimane il principio di una distribuzione tendenzialmente paritaria delle risorse economiche. Questo principio viene assunto all’inizio del secondo capitolo, quasi all’inizio del libro, e successivamente non viene messo più in discussione, ma vengono solo discusse tutte le conseguenze di questo principio, queste descritte nei minimi dettagli. Può darsi che mi sia sfuggita la giustificazione filosofica di questo principio da parte di Rawls, in questo caso le sarei grato se mi indicasse a quale pagina, in quale capitolo e paragrafo egli affronta non le conseguenze, ma le premesse filosofiche di questo principio.

    Per quanto riguarda l’elenco dei diritti, in verità io non parlavo nè di elenco chiuso e neanche di qualcosa di definitivo che non vada mai rivisto. Da questo punto di vista, concordo totalmente con la sua osservazione in proposito. Intendevo dire, evidentemente in maniera non sufficientemente chiara, che se un pensatore sostiene che prima di tutto vengono i diritti, è suo dovere quantomeno elencarli almeno nel momento storico in cui sta enunciando questo principio, e naturalmente con tutte le cautele sulla precarietà di questo elenco, come giustamente lei richiama.
    Il punto più importante tuttavia che tentavo di sollevare era quello della necessità di definire anche una priorità nella importanza dei differenti diritti. Lo sostengo perchè, come dicevo nel precedente intervento, in caso contrario, rimane una pura petizione di principio perchè più lungo è l’elenco di questi diritti, più alta è la probabilità che essi confliggano tra loro, e sarà la politica a dovere dirimere tali conflitti. Niente di male in trutto questo, ma a cosa serve allora proclamare così solennemente la difesa prioritaria dei diritti? Il concetto di priorità comporta un’esclusività, tutti prioritari non si può essere, credo si tratti di un concetto condivisibile.

  19. @ Vincenzo Cucinotta:

    mi saprebbe indicare dove di preciso in “Una teoria della giustizia” Rawls afferma che “l’aspetto economico debba occupare il centro del proscenio”? A me non risulta che il filosofo statunitense dia uno statuto particolare e assolutamente superiore al valore della condizione economica rispetto alle altre condizioni sociali. Cito ad esempio questo brano nel Cap. 2 a pag. 67:

    “Tutti i valori sociali — libertà e opportunità, ricchezza e reddito, e le basi del rispetto di sé — devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale, di uno o di tutti questi valori, non vada a vantaggio di ciascuno. L’ingiustizia, quindi, coincide semplicemente con le ineguaglianze che non vanno a beneficio di tutti.”

    dove appunto gli aspetti economici di “ricchezza e reddito” vengono posti accanto agli altri valori sociali non strettamente legati all’economia (pari opportunità per istruzione e salute, libertà di parola, di associazione e partecipazione politica, non discriminazione…). Magari lei mi potrebbe citare testualmente dove Rawls sembra enfatizzare l’aspetto economico più degli altri aspetti sociali.

    In quanto al discorso sulla priorità dei diritti mi risulta che Rawls elenchi nel Cap. II a pag. 76 quelli che lui ritiene come libertà fondamentali e prioritarie:

    «la libertà politica (il diritto di voto e quello di ricoprire cariche pubbliche) e la libertà di parola e di riunione; la libertà di coscienza e quella di pensiero la libertà della persona, che include la libertà dall’oppressione psicologica e quella dall’aggressione fisica e in generale la tutela dell’integrità della persona; il diritto alla proprietà personale e la libertà dall’arresto arbitrario e dalla confisca nei termini previsti da uno statuto di diritto”

    Provi pure a rileggere i passi da me citati nel loro contesto e mi dica cosa non le convince delle argomentazioni del filosofo americano.

  20. @Michele Dr
    Intervengo nuovamente a proposito del libro citato, ma per l’ultima volta perchè odio la filologia applicata alla saggistica, magari in letteratura è diverso. In definitiva. un’opinione non acquista nè perde dal suo rapporto con una teoria esistente (consideri cosa è diventato il dibattito tra i marxisti, marxiani e così via che si ostinano a dividersi su chi sia l’interprete più fedele di Marx).
    Inoltre, penso che convenga con me che la discussione diventa molto complicata se si dilunga su riferimenti testuali puntuali. Naturalmente, mi assumo per intero la responsabilità di questo scivolamento, ma proprio per questo tocca proprio a me prendere l’iniziativa per non continuare su questa scia.

    Nel merito, ricordo perfettamente la prima frase che lei cita, e su cui tuttavia abbiamo una differente opinione. Lei la considera come la dimostrazione che Rawls non mette al centro l’aspetto economico, a me pare esattamente l’opposto. Se lei toglie le libertà e le opportunità che consistono in diritti e quindi sono entrambe (queste voci) già coinvolte nel primo principio che addirittura precede le questioni di giustizia, e le basi del rispetto di sè che sembrano dipendere principalmente da fattori extra-politici, rimangono mi pare solo ricchezza e reddito.
    Questa separazione non la faccio io, ma la fa lo stesso Rawls che, dopo aver brevemente trattato di libertà e diritti (per cui egli chiede una tutela prioritaria ed assoluta, dicendo esplicitamente che una libertà può essere limitata solo da un’altra libertà), si dilunga sugli aspetti di giustizia e mediante grafici e trattamenti anche matematici, si occupa di questioni economiche proprio in questo testo. Del resto, la parte finale del periodo che lei cita (che un’ingiustizia può essere accettata solo se è vantaggiosa per tutti) è in definitiva applicabile solo all’economia, e Rawls ne tratta a lungo proprio riferendosi al caso di un PIL che cresce a seguito dell’arricchirsi di uno specifico soggetto.

    Per quanto invece riguarda il secondo periodo, esso riporta sì un elenco dei diritti fondamentali, nella gran parte condivisibile, ma tuttavia esso risulta nello stesso tempo troppo breve, escludendone troppi, ma soprattutto troppo lungo perchè quei pochi diritti possano essere tutti egualmente e totalmente salvaguardati. Non sono le singole voci che lo compongono ad essere criticabili, ma il fatto che per sua natura, la politica è la sede dei conflitti, non eliminabili proclamando la deificazione di un singolo diritto.
    La conseguenza di tutto ciò è che nei fatti il liberalismo non riesce a porre limiti alla predominanza del mercato, una volta assunto questo suo ruolo dominante, la pretesa di definire dei santuari che ne escludano la dominanza, è vana, irrealizzabile, rimane la legge del più forte, quei soggetti che per il loro potere sono in grado di controllare il mercato come criterio pervasivo dei sistemi politici liberali.

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