cropped-bg_palazzo.jpgdi Paolo Costa

[È uscito da alcune settimane presso Feltrinelli il nuovo libro di Paolo Costa, La ragione e i suoi eccessi. Quella che segue è una presentazione del libro scritta appositamente per Le parole e le cose].

Dopo aver letto in anteprima l’introduzione di La ragione e i suoi eccessi un amico mi ha fatto notare che avevo scritto un libro temerario. Strano a dirsi, ma non ci avevo mai pensato prima di allora. Ovviamente, con una sequenza di capitoli del genere (tanto per cominciare: animale, ragione, responsabilità, politica…), c’era ben poco da obiettare. Lo stupore, tuttavia, persisteva: com’è potuto accadere che uno studioso che di socratico ha forse la passione per il dialogo, ma non di certo l’eroismo mite del padre della filosofia occidentale, decidesse di imbarcarsi in un’impresa del genere?

La risposta era in piena vista nell’introduzione stessa: l’urgenza. Solo la passione per uno pseudomestiere che assomiglia maledettamente alla vita poteva spingere una persona che soffre di vertigini a spiccare un volo del genere. Ma urgenza di cosa, esattamente? Col senno di poi, verrebbe da rispondere evocando l’esigenza di difendere uno stile di lavoro intellettuale serio, ma non professionalizzabile, e per molti aspetti irrimediabilmente marginale nel mondo contemporaneo. Il libro, in effetti, è soprattutto una dichiarazione d’amore malgré tout per la filosofia: un elogio della lucida follia di chi intraprenda oggi questa (non-)carriera. E non un elogio in astratto, ma un tentativo di mostrare al lettore che cosa possa significare oggi provare a rispondere domande talmente complesse che è persino difficile immaginare quali vesti potrebbe assumere una risposta soddisfacente a simili quesiti.

Soggettivamente, un modo per assorbire l’impatto di una pretesa conoscitiva così smodata consiste nell’invertire le polarità del campo d’indagine, convincendo se stessi e il lettore che ciò di cui si è alla ricerca non è tanto l’ultima, quanto piuttosto le prime parole, quelle cioè necessarie per orientarsi preliminarmente in un territorio che, all’interno di una discussione filosofica, si presenta sempre con un altissimo tasso di enigmaticità (che cos’è un animale? E la ragione? E la critica? E la felicità?). A questo scopo, la tecnica investigativa delineata, difesa e adottata nel libro prevede la moltiplicazione degli accessi allo spazio delle ragioni allo scopo di fare esperienza nella misura più ampia possibile delle ragioni degli altri (che, tra l’altro, sembra anche un’eccellente definizione di ciò che significa “pensare”). Se, volenti o nolenti, le ragioni che ci convincono devono essere in qualche modo appropriate soggettivamente, non sembra poter esistere allora un modo di esplorare lo spazio delle ragioni semplicemente sorvolandolo: occorre percorrerlo quanto più possibile in lungo e in largo accedendovi da angolature e con abiti diversi (già in Platone, in fondo, fa la sua comparsa la metafora del camminare tra le ragioni – poreuesthai dia ton logon).

Nell’introduzione il terminus ad quem di questa esplorazione dello spazio delle ragioni è rappresentato come uno stato di “equilibrio riflessivo” – espressione che non ha certo la pretesa di spazzare via ogni legittimo dubbio su questo ennesimo surrogato dell’idea tradizionale di verità, che resta comunque insostituibile. (E, nel tentativo di anticipare le obiezioni dei lettori più agguerriti, in una nota al testo l’equilibrio riflessivo viene descritto impietosamente come “un pentolone in cui viene continuamente rimescolata una sbobba che non si assaggia mai e di cui si può gustare solo il profumo”.) Lo scopo di questa scelta, nel contesto di un libro che si propone di tessere le lodi degli eccessi della ragione, era piuttosto evocare l’immagine di una verità che deve rispondere alla realtà pur essendo strutturalmente rivedibile, compatibile cioè con un’estensione illimitata delle richieste di rendere ragione di ciò che si afferma.

Alla fine, il risultato è una specie di diario di viaggio o baedeker, il cui profilo resta in buona parte indeterminato. Quale sarà il primo pensiero del lettore o lettrice quando chiuderà il libro? Borbotterà, forse, un “è tutto qua?”; oppure: “povero illuso!”; o ancora: “ci sono modi migliori di spendere il proprio tempo…”; o magari: “e dove sarebbero gli eccessi?” Difficile a dirsi. E questa indecisione chiarisce meglio di mille elucubrazioni le difficoltà e gli imbarazzi di cui fa immancabilmente esperienza chi si accinga oggi a scrivere oggi un libro di filosofia, oscillando senza pace tra le opposte sensazioni di stare scrivendo un testo per tutti e per nessuno.

La sorpresa maggiore per l’autore, comunque, sarebbe constatare che i non importa se sparuti o numerosi fruitori del libro non si sono mai né divertiti né meravigliati durante la lettura. È possibile fare una abbuffata senza provare neanche un briciolo di piacere? Possibile dev’essere possibile. In fondo – lo sappiamo tutti – esistono anche i bulimici. Tuttavia, l’assenza totale di giocosità e incanto rappresenterebbe un bel dilemma da sciogliere. Una volta esclusi la fama, il denaro e il potere, che cosa resta a un cultore della filosofia oggi se non il divertimento intellettuale e lo thaumazein? Ma che cosa rimane del piacere e della sorpresa se non possono essere condivisi, se non sono l’occasione per iniziare o cementare un’amicizia, fosse pure solo di penna?

All’immagine tradizionale del filosofo solitario, abbacchiato e un po’ misantropo, è preferibile, in effetti, quella tratteggiata, un po’ a sorpresa, da Kant nell’Antropologia pragmatica: “Il mangiar da solo (solipsismus convictorii) non è salutare per un filosofo; non vi è ristoro, ma (specialmente quando la tavola diventa una gozzoviglia solitaria) esaurimento; è un lavoro che logora, non un gioco di pensieri che ravviva. Il gaudente, che durante la mensa solitaria si strugge di pensieri in se stesso, perde a poco a poco ogni brio, che invece acquista quando un compagno di tavola gli offre con le sue varie trovate nuova materia di vita, che egli stesso non avrebbe saputo trovare” (§ 88).

Che cosa ci sta dicendo Kant in questo che è uno dei passaggi più mozartiani della sua opera? In sostanza, che non si smette mai di filosofare. Che filosofare è come ruminare. Che, come non si può smettere di mangiare, non si può smettere di ruminare. Che l’appetito del filosofo è infinito – non a caso il suo alter ego è il gaudente – e va regolato con cura. Che uno dei regolatori essenziali degli eccessi del filosofo è la compagnia degli altri esseri umani. E nondimeno, alla fine, il filosofo resta solo con i suoi pensieri e con il compito infinito di farli in qualche modo quadrare entro una sintesi coerente. Non c’è che dire, è davvero un bel guaio che non possa esistere al plurale – che non vi sia spazio, cioè, per una comunità di filosofi – e, ciò nonostante, debba sempre condividere la sua mensa con qualcuno. In assenza di meglio, il motto giusto è: mangiare in compagnia, ma ruminare da soli. Senza mai perdere il senso delle proporzioni, perché, come ricorda l’Arcangelo Raffaele ad Adamo nel Paradiso perduto di Milton, “la conoscenza è come il cibo, e si deve opporre / la temperanza all’appetito, sapendo in che misura / può contenere la mente, che un peso eccessivo diversamente l’opprime, e subito trasforma la saggezza / nella follia, come ogni cibo si trasforma in vento”.

A ben guardare, La ragione e i suoi eccessi ha un altro tema principale al di là del Leitmotiv della salvaguardia problematica di un modello sregolato di ricerca intellettuale. In ogni capitolo, infatti, molte energie vengono prodigate per persuadere il lettore o la lettrice della realtà di entità fragili, che nelle nostre vite sono spesso relegate nella penombra: l’animalità, la forza mite delle ragioni, l’identità personale, il bene pubblico, lo spirito critico, le regole costitutive, l’esemplarità, il tempo profondo, la felicità, lo stupore. Queste realtà vulnerabili, eppure a loro modo resilienti, sollecitano nella ragione un certo tipo di eccesso. Da questo punto di vista, sarebbe facilmente immaginabile un libro completamente diverso, intitolato anch’esso La ragione e i suoi eccessi, ma che anziché occuparsi della realtà fragili che fanno compagnia alle nostre vite, si concentrasse su quelle ingombranti: macigni delle nostre esistenze come la morte, il potere, il sesso, la violenza, il denaro, la malattia, il sacro, la materia, ecc.

Non è, però, questo il libro che volevo scrivere. Gli eccessi della ragione sui quali mi premeva gettare un po’ di luce diventano riconoscibili gradualmente e senza drammaticità soprattutto nel lento rimuginio della pensosità. È questo il fenomeno sorprendente che ha stuzzicato la mia immaginazione mentre progettavo il libro.

A conti fatti, un movente del genere non sembra lontano dallo stato d’animo che ha spinto Guido Mazzoni in un recente post su Le parole e le cose (“Berlino alla fine della storia”) a interrogarsi sul nostro presente con un tono a cavallo fra la perplessità, lo sgomento e il divertimento. Le domande che si è posto in quel contesto sono probabilmente eccessive, alcuni dettagli della diagnosi contestabili, eppure il suo ragionamento riesce a collegare pensosità ed eccesso senza gesti eclatanti.

In Chi è il mio prossimo Adriano Sofri ha osservato en passant che “dev’essere possibile perfino un entusiasmo nella misura”. È una frase che mi sono ripetuto spesso mentre scrivevo con crescente trasporto un libro che, non fosse stato per la passione, non mi sarebbe mai passato per la testa di scrivere.

Chi fosse interessato a leggere l’introduzione al libro la può trovare qui.

[Immagine: Laura Canali, La radice dell’essenza (particolare) (gm)].

 

4 thoughts on “La ragione e i suoi eccessi

  1. Con un po’ di senso di colpa, perché non sono ancora riuscito a leggere il libro, metto questo commento. Per dire che l’impostazione del discorso mi piace molto, e che mi convince la doppia caratterizzazione della filosofia: da una parte eccesso, spinta a riappropriarsi concettualmente di ogni aspetto della realtà, dall’altra il bisogno di trovare un limite nel rapporto con gli altri esseri umani, cioè nella pratica. Ho capito che forse il modo migliore di mantenere quell’espansione, tendenzialmente incontrollata, rendendola sensata, è l’insegnamento: lì si trovano il punto d’arresto provvisorio e la limitazione senza i quali la riflessione filosofica rischia di trasformarsi nelle sabbie mobili in cui tutto l’intellegibile diventa rappresentazione incerta e rivedibile, e la realtà perde i suoi contorni. Ma questo spiega anche perché la filosofia accademica spesso finisce in questo vicolo cieco.
    Leggerò sicuramente il libro.

  2. Devo dire che fa una certa impressione veder citare Adriano Sofri assieme a Platone, Milton e Kant (mentre la citazione di Mazzoni è chiaramente un doveroso omaggio a questo sito). Sennonché, come scrive il segretario di Cromwell, è pur vero che “ogni cibo si trasforma in vento”.

  3. Vorrei dire a Piras che non mi pare di vedere questo pericolo, che l’influenza della filosofia sulla vita quotidiana non rischia di debordare. Da Aristotele in poi, è chiaro che l’uomo è dotato di qualcosa che comunemente viene definito “senso comune”, per cui il riconoscere come reale ciò che vediamo, tanto per fare un esempio, non richiede u n processo razionale, è un fatto spontaneo, e in verità quei filosofi che si sono accaniti a convincerci del contrario hanno avuto ben poco successo, almeno tra la gente comune.
    Filosofare serve piuttosto a “non farsi fregare”, a non credere a tutte le baggiante che ci racconatno, a duifenderci dal pensiero dominante, il che mi pare una funzione estremamente preziosa.
    Sul libro, preferisco tacere, ma condivido questa concezione del filosofare come un’attività primaria dell’uomo, il che implica una sua funzione indipendente dai risultati. Si filosofa perchè si vive, non per giungere alla verità.

  4. Grazie, Mauro. Che cosa posso dire se non quello che penso sempre quando ti leggo: che i tuoi studenti sono davvero molto fortunati? Spero che se ne rendano anche solo vagamente conto. Per quanto riguarda gli accoppiamenti acrobatici, la citazione di Milton è pertinente, ma il principio che ha guidato la stesura del libro è espresso alla perfezione da una poesia di Wislawa Szymborska, “Un parere in merito alla pornografia”: “Non c’è dissolutezza peggiore del pensare … / È spaventoso in quali posizioni, / con quale sfrenata semplicità / l’intelletto riesca a fecondare l’intelletto! / Posizioni sconosciute perfino al Kamasutra”.

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