cropped-4723931.jpgdi Mauro Piras

Il quadro è cupo. L’Europa delle nazioni tende all’autodistruzione, come già due volte nel corso del Novecento. E nel centesimo anniversario della prima volta, che l’ha ridimensionata definitivamente nel potere mondiale. Le elezioni di domenica scorsa ci consegnano una Unione Europea indebolita e frammentata, lacerata da tendenze contraddittorie, in cui predomina la diffidenza non solo verso le istituzioni europee, ma anche verso il proprio vicino di casa.

La partecipazione a queste elezioni, 43,1 %, è bassa, ma non diversa da quella del 2009, anzi in leggerissimo aumento, con una inversione della tendenza costante alla diminuzione dell’affluenza alle elezioni europee dal 1979 a oggi. In alcuni paesi le percentuali sono state più basse: in Gran Bretagna, nei Paesi Bassi, in Francia. Ma è stata intorno al 60 % sia in Italia che in Grecia. In generale comunque c’è stato un astensionismo diffuso, che solitamente ha colpito i partiti al governo e i partiti tradizionalmente europeisti, quindi popolari e socialisti. In Gran Bretagna il basso tasso di partecipazione ha favorito l’Ukip, e ha svuotato le urne per Laburisti e Conservatori (per tacere dei Liberaldemocratici). In Francia, stessa situazione nei rapporti tra Front National, Ump e Ps. L’Italia fa eccezione, perché come vedremo più sotto l’astensione ha colpito invece i partiti di opposizione, anche “euroscettici”, e non il Pd.

Il dato politico fondamentale è la svolta antieuropea. Il disagio sociale generato dalla crisi è stato incanalato in prevalenza verso forze politiche ostili all’Unione Europea, nazionaliste, con tendenze populiste. In numerosi paesi, infatti, queste forze sono arrivate prime o seconde, con risultati elettorali intorno al 20%, se non ben oltre. L’Italia in un certo senso non fa eccezione a questo quadro, il M5S è arrivato secondo con il 21%. Dove non hanno vinto queste forze, hanno vinto invece partiti di sinistra radicalmente critici nei confronti delle politiche economiche dell’Unione, che anche se non si sono presentati come anti-europei, hanno però più volte attaccato la moneta unica e presentato la propria nazione come vittima dell’internazionalismo del capitale. In Spagna, Izquierda Unida con i suoi alleati ha ottenuto un buon risultato (9,99 %), che unito alla nuova sigla nata dagli indignados, Podemos (7,97 %), porta quest’area di sinistra al 18 %. In Grecia, la vittoria di Syriza è nota.

Il tratto comune di queste elezioni, in tutti i paesi, è il fallimento dei partiti istituzionali europei, quelli dell’area PPE e PSE. I partiti socialisti sono crollati miseramente in Francia, Spagna e Grecia, e nel complesso hanno fatto una performance mediocre; l’Spd cresce rispetto alle politiche dell’anno scorso, ma resta su un poco significativo 27%. Per questa ragione i socialisti europei non sono riusciti a rovesciare la maggioranza a favore dei popolari, alla quale in fondo poteva essere addebitata la politica economica di questi anni. I partiti popolari quindi, come è evidente, hanno vinto solo parzialmente la partita, perché molto ridimensionati. E se hanno vinto è perché anch’essi, in fondo, sono generati dal nazionalismo. La politica economica miope che ci ha portato all’esasperazione della crisi del debito è stata imposta prevalentemente dagli interessi dei governi nazionali. In questo, il successo relativo della Cdu a guida Merkel è una conferma della tendenza generale: come già alle elezioni nazionali del settembre scorso, questo partito contiene in sé non soltanto le spinte moderate, ma anche il populismo nazionalista che tutela gli interessi locali a scapito dell’equilibrio europeo. La differenza rispetto ai paesi del sud o alla Francia è che questo è il populismo dei vincitori, non dei perdenti, e quindi tende a preservare le posizioni di rendita della Germania nell’economia europea.

Quindi, chi fallisce del tutto sono i partiti europeisti istituzionali, che restano attaccati a una visione tradizionale dell’equilibrio europeo, fatta di compromessi tra governi e soluzioni tecnocratiche. Questa visione porta in sé di fatto il germe delle forze nazionaliste che prevalgono dietro le quinte di questi equilibri, e che esplodono in altre direzioni una volta che la politica della UE si è dimostrata fallimentare. Esplodono cioè verso una tendenza a smantellare le istituzioni europee, a diminuire i vincoli nell’illusione che così ogni nazione sarà padrona di se stessa, come dice Marine Le Pen. Come è noto, l’Italia, con la vittoria del Pd, fa eccezione. Ma solo in parte: il Pd ha vinto, conquistandosi di fatto la guida politica del gruppo Pse al Parlamento europeo, perché si è smarcato brutalmente dal linguaggio, dallo stile e dalle proposte di partiti socialisti tradizionali. Qualcuno ha osservato giustamente che anche Renzi, come i suoi avversari politici, Berlusconi e Grillo, ha condotto una campagna in cui non ha mai difeso l’UE. È vero che si è sempre dichiarato a favore delle istituzioni europee, dell’euro, degli impegni presi ecc., però ha sempre tuonato contro la politica europea, contro i vincoli, contro i tecnocrati ecc. Insomma, ha cavalcato il disagio antieuropeo, per quanto lo abbia incanalato diversamente. Inoltre, una cosa che forse non è stata notata abbastanza, dopo il voto, è quanto lui abbia insistito sull’idea di nazione: in ogni intervento pubblico ha sempre detto che queste elezioni erano un’occasione per l’Italia, ha sempre fatto appello ai sentimenti degli Italiani ecc. In questo, ha assunto su di sé vigorosamente la spinta nazionalista. Quindi, in un certo senso, anche il Pd di Renzi ha seguito l’onda dominante. E infine, è ben noto che Renzi incarna anche una componente populista, dal momento che è riuscito a stabilire un rapporto diretto tra elettorato e leader, che manca nei partiti tradizionali, così come mancava al Pd; ed è invece ben forte tra la Merkel e il suo elettorato.

I risultati di questo quadro iniziano a vedersi. Nel Consiglio Europeo che si tiene in questi giorni la miopia dei governi nazionali prevale di nuovo. Diversi capi di governo, e in particolare Cameron e la Merkel, si sono opposti alla candidatura di Juncker alla guida della Commissione, nonostante la vittoria dei popolari e nonostante i partiti del Parlamento europeo avessero già dato il loro accordo a questa candidatura. Questa nasce, come è noto, dalla novità più importante di queste elezioni: la svolta imposta dai partiti europei, che hanno interpretato il Trattato di Lisbona nel senso di far eleggere direttamente dai cittadini il presidente della Commissione. Poiché però sulla carta l’ultima parola spetta al Consiglio Europeo, i capi di governo si sono messi di traverso. Perché ai governi fa più comodo avere presidenti politicamente deboli, e anche perché Cameron cerca così di apparire più nazionalista di Farage. Come dovevasi dimostrare, gli interessi nazionali e le spinte nazionaliste determinano i giochi e minano la democrazia europea. Gli elettori europei, se prevalgono questi orientamenti, vengono beffati: dopo averli portati al voto dicendogli che stavano scegliendo il presidente della Commissione, li si priva improvvisamente di questa libertà, imponendo una decisione dall’alto. Questo mina ulteriormente la legittimità delle istituzioni europee. Le cause e gli effetti della crisi politico-economica dell’Europa si avvitano in una spirale suicida: la difesa degli interessi nazionali che ha esasperato la crisi del debito porta a un rafforzamento elettorale nei nazionalismi che distrugge ancora di più quel poco di democratico e di veramente europeo che c’è nella UE. La disaffezione crescerà ancora, e le chiusure nazionalistiche porteranno a un ulteriore aggravarsi della crisi economica.

Due parole sulla provincia italiana. Queste elezioni hanno avuto, come è ben noto, un forte significato di politica interna, data la campagna elettorale che abbiamo visto. Però, allo stesso tempo, e come negli altri paesi, anche un significato europeo, dal momento che un tema dominante è stato l’attacco alle politiche dell’UE. Questo strano intreccio spiega che l’affluenza alle urne, nonostante il calo rispetto alle ultime europee, non sia però crollata come si temeva. L’astensione ha avuto un forte significato politico interno. Ha colpito infatti soprattutto Forza Italia e il M5S. I flussi elettorali mostrano che il Pd è riuscito a mobilitare tutto il suo elettorato, a recuperare un po’ di delusi persi alle ultime politiche, a prendersi quasi interamente il voto di Scelta Civica e a prendersi un po’ di voti grillini, alcuni dei quali erano migrati dal centrodestra l’anno scorso. Sono quindi le altre forze che hanno pagato l’astensione. Questo è in controtendenza rispetto agli altri paesi europei, in cui l’astensione ha castigato soprattutto partiti di governo e sinistre istituzionali, e le grandi vittorie di forze euroscettiche, nuove o prima marginali, sono state causate proprio da questo dato e da una grande capacità di mobilitazione. Da noi invece gli euroscettici le hanno prese. Insomma, se l’astensione di protesta si è unita al voto di protesta in quasi tutta Europa, in Italia l’astensione di protesta è stata accompagnata da un voto di cambiamento, ma istituzionale. Ho già detto sopra che il Pd di Renzi ha realizzato questa performance anche grazie a una certa dose di nazionalismo e populismo, in questo seguendo la tendenza dominante, ma “addomesticandola”, per così dire.

Però il Pd ha vinto anche per la peculiarità della situazione italiana. Ovviamente, con un tasso di partecipazione poco meno che al 60% la vittoria del Pd al 40% va collocata nei suoi giusti limiti; probabilmente, in elezioni politiche nazionali, con un tasso di partecipazione intorno all’80%, potrebbe essere più bassa. Va detto però che nelle elezioni amministrative, in cui la partecipazione è stata oltre il 70%, il Pd ha mantenuto percentuali intorno al 40%. Qualcosa di radicale quindi è avvenuto. La novità è che la sinistra istituzionale è stata capace di uscire dal suo recinto elettorale, è stata capace cioè di mobilitare il voto di elettori che hanno sempre diffidato di lei. Il segnale più importante in questo senso viene dal voto nel Nord-Est: i piccoli imprenditori di quest’area, tradizionalmente elettori di centrodestra, Forza Italia o Lega, l’anno scorso hanno spostato una parte considerevole di voti su Grillo; questi stessi voti si sono spostati domenica sul Pd. In generale, in tutta l’Italia produttiva, quindi anche in Piemonte e Lombardia, il Pd si è affermato con forza. È evidente che questo tipo di elettorato non si fida più del centrodestra, diviso e senza una prospettiva politica chiara (e colpevole di non avere mantenuto molte promesse); né si fida dei grillini, non solo perché non hanno portato risultati dopo la vittoria dell’anno scorso, ma anche perché in una situazione di debolissima ripresa economica vengono sentiti come fattore di instabilità. Non era però scontato che questo voto andasse al Pd. Poteva finire nell’astensione, disperdersi in molti rivoli di protesta. Invece è finito a Renzi perché lui ha rotto brutalmente con la tradizione politica del Pd, su tutti i lati, e ha saputo cogliere gli umori dell’elettorato, anche quelli più “neri”, per certi versi: colpire la classe politica, gli alti dirigenti, fare le riforme istituzionali per alleggerire la politica, attaccare i sindacati ecc. E soprattutto mostrare che si è disposti a spendere i soldi dello stato per intervenire sulla tassazione e sulla politica economica, dichiarando chiusa la politica dell’austerità, senza però mostrare rischi di destabilizzazione. Con questo equilibrismo improbabile tra tendenze anche contraddittorie, Renzi è riuscito a mettere insieme questa base elettorale: è riuscito nell’impresa apparentemente impossibile di prendere i voti delle partite Iva abbassando le imposte sul lavoro dipendente. Ma li ha presi con un radicale cambiamento di cultura politica, quella cultura che ha relegato per decenni la sinistra in un recinto sostanzialmente autoreferenziale.

Con questa trasformazione, tuttavia, non si è trasformato in un partito di centro come la vecchia Dc. La pigrizia intellettuale di non voler capire i cambiamenti e di leggere sempre le cose con gli occhiali del passato ha spinto molti, soprattutto a sinistra, a dire che il Pd al 40% è la nuova Dc. Tesi del tutto infondata. La base elettorale lo mostra: anche se ha preso una parte dei voti delle partite Iva deluse dal centrodestra e poi da Grillo, i flussi elettorali mostrano che il Pd non ha preso quasi nulla del voto di Forza Italia, che è sprofondato nell’astensione. Quindi attualmente c’è un elettorato di centrosinistra, che sostiene il Pd, e un elettorato di centrodestra, disperso e in parte inabissato, che conferma la sostanziale polarizzazione del paese. Inoltre, è evidente che il Pd non è la Dc per classe politica, perché il rinnovamento generazionale ha posto alla guida persone cresciute dopo la contrapposizione Dc-Pci. E soprattutto non lo è dal punto di vista della cultura politica, perché la profonda trasformazione che ha reso possibile la vittoria e, finalmente, il recupero del voto dei settori produttivi, è il rifiuto netto, a volte persino semplicistico, della cultura della conciliazione degli interessi, del pluralismo degli interessi, che era il fondamento culturale e sociale della Dc, e che trovava il suo simmetrico speculare nel pragmatismo ammantato di ideologia del Pci. Il persistere ostinato di queste tradizioni dentro il Pd lo paralizzava, moltiplicando i tiri incrociati delle correnti. La nascita di un partito in cui il leader si legittima con un rapporto diretto con l’elettorato ha spazzato via tutto questo.

Ancora una osservazione sulla pessima prova italiana della lista Tsipras. La “sinistra sinistra” ha perso un’occasione. I partiti che hanno appoggiato Tsipras non sono stati capaci di unirsi veramente e di proporre un progetto politico forte, sostenuto dai gruppi dirigenti di questi partiti con un coinvolgimento attivo, e proponendo candidati di profilo politico forte. Si è visto bene che la sinistra perde, e diventa sempre più marginale, perché frammentata e senza prospettiva politica. La scelta, un po’ grillina, di candidare solo “non politici”, che non avessero già nessuna carica, mascherava anche il fatto che queste forze non hanno saputo unirsi davvero. Inoltre, questa lista di intellettuali, artisti, giornalisti ecc. ha dimostrato di essere inadatta a una campagna elettorale, e si è fatta percepire come una “gauche caviar” un po’ fuori dal mondo. Avere superato per un pelo la soglia di sbarramento è il prodotto finale di tutto questo. Ma si tratta di una importante occasione mancata, data invece la forza di Tsipras nel suo paese. Il sistema politico italiano potrà trovare un equilibrio, e uscire dalla sua crisi ventennale, non solo se il centrodestra esce dalla tutela berlusconiana, ma anche se la sinistra a sinistra del Pd trova la sua consistenza, dando rappresentanza a un’area che in tutti i paesi democratici ha una sua presenza significativa.

(Torino, 29 maggio 2014)

[Immagine: Marine Le Pen].

 

32 thoughts on “Le nazioni europee e la fine dell’Europa

  1. Condivido quasi per intero quest’analisi di Piras. Soltanto non mi convince il passaggio sulla “nuova Dc”, che secondo me il Pd renziano effettivamente incarna. Sarebbe implicito nel giudizio molto giusto che Piras dà della Cdu di Merkel – un partito democristiano che raccoglie al suo interno anche spinte di tipo populista –, beh, se Renzi ha fatto qualcosa di simile, perfino con un richiamo all’Italia e al sentimento nazionale, perché non si potrebbe dire che la sua è una prospettiva neodemocristiana? Tra l’altro, non ci sarebbe niente di male: meglio una Dc che il qualunquismo grillino. Ma questa di Renzi non è più sinistra, il tempo lo dimostrerà, consegnando a quella “gauche caviar” autoreferenziale un compito storico che attualmente appare molto al di là delle sue forze.

  2. Ottima l’analisi di Piras, come sempre, e particolarmente per quanto riguarda Tsipras e la marginalità “caviar” della sinistra radicale.

  3. Grazie a Piras per questa analisi equilibrata.
    Nota a margine. Le ragioni politiche, economiche, giuridiche della crisi della UE sono al centro del dibattito odierno.
    A mio avviso ce n’è anche un’altra, non meno importante (e forse di più). La Ue non si può amare.
    Si può votarla e apprezzarla, si può trovarla conveniente, progressiva, vantaggiosa, persino indispensabile e intelligentissima.
    Amarla, non si può; o almeno non lo può il modello di essere umano tuttora in produzione anche qui (forse è per questo che la produzione è calata così brutalmente).
    C’è, in effetti, un’Europa amata da molti europei: ma è l’Europa-Museo, l’Europa ereditata collettivamente dalle nazioni europee; la si può vedere, udire, pensare e sentire e amare nell’arte, nell’architettura, nella musica, nella letteratura, nelle città e nelle lingue e nei paesaggi e nel ricordo dei grandi uomini europei.
    Però, questo amore non riesce a coinvolgere l’Europa politica che si presenta sotto il cielo vuoto e stellato della bandiera UE.
    Gli USA, la Cina, il Giappone, la Russia sono amate dagli americani, dai cinesi, dai giapponesi e dai russi. La UE non è amata dagli europei.
    E molto deprimente, vivere senza amore.

  4. Dall’analisi di Piras discendono due conclusioni (entrambe vere)

    Il PD non è la DC.

    Il PD non è il PD.

  5. Ancora un ottimo articolo di Piras sulla situazione economica e politica attuale, bisogna ammettere che l’esplicito orientamento politico dell’autore non fa sì che le sue analisi su tale situazione attuale siano così implausibili è “deformate” da questo suo orizzonte di valori.

    Volevo chiedere a Mauro due curiosità, la prima è questa: secondo te oltre al fallimento di una visione di integrazione europea “fatta di compromessi tra governi e soluzioni tecnocratiche” e a una pressione nazionalistica ed euroscettica che “tutela gli interessi locali a scapito dell’equilibrio europeo” è possibile e secondo te auspicabile attualmente una diversa modalità di integrazione europea? E ci sono stati europei che se non integrati avrebbero comunque vantaggi duratori a mantenere gli interessi locali, anche a discapito degli altri stati?

    La seconda mia curiosità è se il tuo accenno al populismo quando dici che “Renzi incarna anche una componente populista, dal momento che è riuscito a stabilire un rapporto diretto tra elettorato e leader” è inteso come qualcosa di positivo e determinante anche per la sinistra per risultati elettorali, mentre era già al centro delle altre componenti con a capo Berlusconi e Grillo e con successi elettorali concreti.

  6. In un certo senso sono d’accordo con Buffagni: la Ue è un’idea politica ed economica esclusiva, tecnocratica, burocratica, per tantissimi versi intellettuale e “metapolitica” che ha al suo interno paesi con diverso peso specifico e potere decisionale: insomma, non può che essere elitaria e appassionare (amare) poco o nulla, almeno a livello popolare…
    Per questo motivo, è vero che sugli elettori di tutta Europa ha forse fatto più presa il sentimento di rottura totale rispetto alle istituzioni europee piuttosto che quello di riforma di questi modelli che si prefiggevano i socialisti ma vedrei comunque le ultime elezioni europee con un filo di ottimismo in più, d’altronde sì c’è stato un indebolimento dei partiti tradizionali e istituzionali ma gli antieuropeisti non hanno sfondato ovunque (e in linea più generale: non hanno sfondato, non hanno alcuna maggioranza). In più sono eterogenei al loro interno e in certe “naturali” alleanze tutt’altro che armonici (LePen-Farage), e non solo: non erano forse proprio queste elezioni con queste condizioni economiche, dopo anni ormai di logoramento sociale addebitato dalle campagne antieuro all’Ue e alla moneta unica, dopo tanta disperazione sociale vera, il momento migliore per gli euroscettici di “sbancare” per così dire e diventare forza parlamentare davvero decisiva in Europa?
    Invece, se vogliamo, sono ancora i gruppi storici, seppure a fatica e in parte indeboliti, che meneranno le danze e saranno centrali: gli euroscettici vivranno ancora una esistenza politica laterale, per quanto sicuramente la loro pressione, soprattutto nazionale (Francia e Inghilterra) avrà una spinta più forte.
    E’ quello che è successo in Italia, per tanti versi dove dalla vittoria risicata e al fulmicotone del centro-sinistra di Bersani il Pd ha costruito un cammino parlamentare che ha portato per ora a eleggere diverse cariche, Presidenti del consiglio, del Senato, della Camera (vedremo cosa succederà sulle elezioni del nuovo PDR), ministri, commissioni, presidenti di regione, sindaci ecc… ha formato due governi rafforzandosi come partito invece che indebolendosi come sarebbe stato normale, ha spaccato il PDL, ha praticamente massacrato il M5S, ha finalmente battuto in maniera convincente Berlusconi (politicamente ed elettoralmente) e punta ormai alla legislatura piena e alle riforme. Non entro nel merito del renzismo (che ho sempre criticato), della carica populista nella sua comunicazione e non ho nessuna intenzione di fare un elogio al Pd ma voglio dire che quello che al Pd e alle forze riformiste gli elettori hanno dato a metà, o non pienamente col mandato elettorale dello scorso anno, il Pd se l’è ripreso con una lenta ma efficace azione politica democratica che poi s’è anche riflessa in queste elezioni europee.
    E’ quello che probabilmente succederà, e in maniera anche più agevole, al parlamento europeo dove per altro i Popolari non sono capeggiati da gente inaffidabile come Berlusconi, e comunque sia, tra tanti problemi, il Pse conterà di più dell’ultima volta.

  7. Caro Piras,
    non capisco la sua argomentazione riguardo la distinzione che lei vuole proporci tra PSE e PPE.
    Solo negando l’evidenza, possiamo credere che questi due partiti abbiano svolto un ruolo differente nella politica europea. E’ proprio il saldarsi di questa alleanza di fatto, più ufficializzata, che ha consentito alle strutture dell’unione europea di massacrare le economie di vari paesi, a partire dal caso eclatante della Grecia.
    Ma per lei, misteriosamente, il PPE, a differenza del PSE (differenza appunto da lei affermata ma non adeguatamente motivata), avrebbe la capacità di incarnare contemporaneamente il duplice ruolo di sostenitore della UE, e contemporaneamente degli interessi nazionali.
    Ora, questo è un punto fondamentale, forse quello più importante. Lei contrappone quindi il partito europeista e quello nazionalista, l’uno contro l’altro armati. Così però lei mi pare confondere il piano dei principii, di ciò che si declama davanti all’opinione pubblica, e ciò che effettivamente si pratica nascondendosi dietro certe dichiarazioni.
    Il punto che dovremmo avere chiaro è che questa unione europea non ha nulla di europeista, non come se si trattasse di un problema specifico della Merkel e della CDU tedesca, ma perchè invece le concrete politiche e la sua stessa struttura istituzionale la qualificano non come una struttura di solidarietà, ma al contrario come il massimo di struttura di competizione, come un’arena della competizione più sfrenata tra le nazioni. Insomma, la caratteristica di visione di parte è connaturata all’unione europea, non potrebbe anche se avesse una guida politica differente adottare un pounto di vista solidale. Se questa guida politica per ipotesi dovesse mai affermarsi, come suo primo atto dovrebbe procedere alla distruzione di ciò che rimane di questa unione e rifare daccapo una struttura collettiva europea, dovrebbe inventarsene una nuova di sana pianta. E’ questo il motivo per cui considero i sostenitori della lista Tsipras degli utili idioti, perchè professano un ruolo differente della UE senza rendersi conto di quanto essa sia intrinsecamente antidemocratica e paradossalmente antieuropea (la famosa europa dei popoli così tanto invocata in questo periodo).
    Per questo, sono convinto che l’unico modo per essere autenticamente europeista è lottare per distruggere la UE e le sue strutture antidemocratiche. Continuare a baloccarsi con essa, non può che avere esiti terribili, da una parte la crescita del fascistume più ignobile nel cuore dell’europa, dall’altra di suscitare rancori tra le differenti nazioni che non promettono niente di buono per un futuro di pace nel nostro continente (come se non bastasse già l’Ucraina).
    Cito sempre in questo contesto la metafora del matrimonio, dove la volontà pervicace che a volte i coniugi manifestano nel continuare una convivenza impossibile, può anche dare luogo ad eventi tragici, quando scegliere di separarsi consensualmente può alla fine risultare la soluzione più indolore.

  8. Caro Rino,
    grazie. Però non mi convince il tuo ragionamento sull’equazione Pd=Dc. La Cdu è un partito che ha una base elettorale di centrodestra, moderata e conservatrice, e che ha saputo tenere in sé anche un sentimento nazionale poco generoso verso gli altri paesi europei (diciamo così) perché l’economia tedesca è forte. Noi siamo nella situazione opposta, le spinte nazionaliste e populiste vengono dai gruppi sociali colpiti dalla crisi. Inoltre, l’elettorato del Pd non è quello della Dc, anche se il Pd è stato capace di intercettare circa il 30 % del voto delle partite Iva del Nord-Est. L’elettorato della Dc si è diviso, dopo il 1992, e non sembra destinato a ricomporsi. Ecco perché una sinistra istituzionale adeguata a questa situazione non può che essere diversa da quella di tradizione comunista e socialista, e mi sembra illusoria l’idea che la sinistra rinascerà a sinistra del Pd, e che questo diventerà il centro. La sinistra detta “radicale” deve ricomporsi in quanto tale, perché è necessario che sia rappresentata correttamente nel sistema politico, ma non potrà mai diventare un soggetto politico centrale.

    Caro Buffagni,
    che dire, in linea di principio lei ha ragione, si tratta del noto tema dell’assenza di un “demos” europeo, che ci dia un’identità forte in cui riconoscersi. Però per una simile identità si può iniziare a lottare anche come progetto, se si pensa che è l’unica che può salvare un’Europa della democrazia e della solidarietà, invece di sprofondare di nuovo nell’Europa degli odi nazionali incrociati.

    Caro tertium datur,
    non ho capito molto la sua seconda conclusione.

    Caro Michele,
    grazie per l’apprezzamento.
    1) L’unico stato europeo che in apparenza sembra trarre vantaggi dal fatto di non essere integrato nell’euro è la Gran Bretagna, ma è perché è integrato in un altro sistema economico di portata globale, quello atlantico, e Londra è una capitale finanziaria globale. E in ogni caso fa parte della UE. Non vedo come, in un contesto di competizione globale con giganti come Usa, Cina, Urss ecc. i piccoli stati europei possano trarre vantaggi dal loro isolamento.
    2) Una diversa modalità di integrazione europea è un salto coraggioso verso un rafforzamento democratico delle istituzioni europee, con un Parlamento che abbia un vero potere legislativo e una Commissione che ne sia veramente espressione.
    3) In questo momento ritengo che sia positivo che il Pd abbia incanalato una parte della spinta populista, perché la “addomestica”, la lega a un programma concreto di riforme, la tiene nel contesto della UE e della democrazia rappresentativa. Quest’ultima invece è sempre stata sotto tiro tanto da parte di Berlusconi quanto da parte di Grillo.

    Caro Dinamo Seligneri,
    in realtà sono d’accordo con lei. Nel complesso il quadro è quello che lei traccia, e ovviamente io considero molto positivamente la vittoria del Pd, perché come dicevo sopra di fatto argina le peggiori pulsioni di chiusura antieuropea e apre importanti prospettive di riforma. Ma sottolineo che questo è stato possibile anche grazie a quegli elementi del “renzismo” che tanta sinistra critica, in particolare la sua capacità di rispondere all’esigenza di cambiamento urgente che viene dai cittadini (l’ho scritto nella “Democrazia della stanchezza”). Ho però voluto fare un’analisi più distaccata, per mostrare che l’Europa, se non fa un salto ora, rischia molto. E che tutti i partiti di sinistra dovrebbero mettere in cima alla propria agenda un progetto ambizioso di democrazia europea.

    Caro Cucinotta,
    i socialisti hanno pagato la loro debolezza nei confronti delle politiche di austerità, e su questo siamo d’accordo. Infatti il quadro attuale mostra che possono riprendersi solo cambiando radicalmente rotta. Ma le politiche di austerità sono state imposte non solo dal neoliberismo e dalla struttura della Ue, come sembra ritenere lei, ma dagli egoismi nazionali. Questi bloccano un’integrazione politica più alta e quindi forme di solidarietà tra stati.
    Ora, lei dice che il male è alla radice: la Ue in quanto tale genera queste contrapposizioni. Non capisco questa tesi, perché se gli stati non fossero nella Ue scatenerebbero maggiormente i loro egoismi fuori da questo quadro, ma in un contesto di debolezza di ognuno di essi. Distruggere le istituzioni Ue ora è possibile solo a partire dalle identità nazionali, che distruggerebbero l’Europa per una terza volta, magari non militarmente, ma economicamente sì. L’unica via d’uscita è un’Europa democratica, come ho già detto sopra, con un Parlamento vero, con un governo vero, con politiche economiche e fiscali unificate, con l’unione bancaria ecc.

  9. Caro Piras,
    grazie della replica. Non sono d’accordo. Ragioni:

    1) Nessuno Stato è vitale senza un idem sentire dei suoi cittadini. “Sentire”, non amministrare, calcolare, sognare. La Ue somiglia a un’URSS anoressica e depressa, perchè come quella è un esperimento di ingegneria sociale tenuto insieme da burocrazia oppressiva + Sogno irrealizzabile. Durerà molto meno, perchè a tenere insieme l’URSS c’era, oltre a un Sogno molto più potente – il comunismo – il sottotesto dell’Impero russo, del suo popolo e della sua religione. Grazie a tutti questi carburanti l’URSS ha fatto miracoli, per esempio vincere la IIGM al prezzo di 27 MLN di morti. Domanda: chi andrebbe non dirò a rischiare la morte, ma anche solo una frattura composta, per la UE?

    2) Democrazia e solidarietà io non ne vedo tanta, nella Ue.

    3) Democrazia non ne vedremo tanta mai, nella UE, perchè il giorno in cui la UE fosse sul serio governata da un parlamento eletto a suffragio universale che sul serio fa leggi valide erga omnes e sfiducia l’esecutivo, la UE si impantanerebbe all’istante e non sarebbe in grado di decidere neanche la celebre misura delle zucchine. Chi abbia esperienza di una riunione di condominio valuti con freddezza quanto sarebbe facile comporre gli interessi di 28 popoli seriamente diversi.

    4) Solidarietà, ne vedremo anche meno, perchè non si vede con quali mezzi gli Stati più deboli costringerebbero gli Stati più forti a essere buoni e generosi, e a trasferire loro ingenti risorse. Non è successo per vent’anni, non si vede perchè dovrebbe succedere adesso. L’unico mezzo sarebbe l’uso della carta “me ne vado”, che essendo un ultimatum si può usare una volta sola, e in realtà, se giocata da uno Stato importante, suonerebbe la campana a morto per la UE.

    5) Sovranità non ne vedremo mai finchè non se ne saranno andati dal territorio europeo i militari USA. Chi li mette fuori?
    «Secondo noi francesi occorre che l’Europa si faccia per essere europea. Un’Europa europea significa che essa esiste da sé e per sé, ovvero che al centro del mondo abbia la propria politica. Orbene, è proprio questo ciò che taluni respingono, consapevolmente o inconsapevolmente, pur sostenendo di volerne la realizzazione. In fondo, il fatto che l’Europa, non avendo una politica, resterebbe assoggettata a quella dettatale dall’altra sponda dell’Atlantico, pare loro, ancora oggi, normale e soddisfacente”. (de Gaulle, 1964)

    6) “Il rimprovero maggiore che si possa fare all’Unione europea è di aver screditato l’Europa, mentre le condizioni oggettive della necessità di un’Europa unita politicamente sono più attuali che mai.” (de Benoist, oggi)

  10. Caro Piras,
    capire perchè l’esistenza della UE peggiori le condizioni della convivenza delle nazioni europee non è così difficile, e tra l’altro è proprio sotto i nostri occhi. Avevo fatto uso di una metafora, ma evidentemente non è stata sufficientemente chiara, e quindi ne darò una spiegazione più dettagliata.
    Che ogni nazione curi i propri interessi, è nelle cose, è il fondamento stesso dei moderni stati sovrani. In questo processo, ci sono momenti di avvicinamento e di allontanamento tra le differenti nazioni, momenti in cui si stipulano accordi ed altri in cui sorgono tensioni. Tuttavia, il fatto stesso che ogni nazione possa liberamente scegliere se stipulare acccordi o non stipularli crea una situazione più tranquilla. Se la grecia vede che la germania vuole imporle certi trattamenti economici, se ne sottrae, magari stipula accordi con la Korea, tanto per esemplificare, le due nazioni hanno sempre la possibilità fino a un certo punto di ignorarsi.
    Stare invece in un’unione, significa condividere non interessi, perchè gli interessi rimangono nazionali, il tedesco non vuole pagare per il greco, e non è possibile, nè soprattutto saggio ignorare questo fatto. In realtà, sifgnifica condividere regole, ma cosa c’entrano le regole con la solidarietà? Assolutamente nulla. Pertanto, l’adesione a questo tipo di unione viene vissuta dai comuni cittadini, credo giustamente, come una camicia di forza. La Germania non è semplicemente un’altra nazione che cura come è ovvio i propri interessi, ma diventa così la fonte di questi vincoli, o almeno la fonte dell’obbligo di adeguarsi a questi vincoli.
    Insomma, in un matrimonio o ci si ama e ci si sopporta,oppure non ci si ama più, ed allora non ci si sopporta più. Ignorare l’importanza del sentimento di adesione ad un’impresa comune, pensando che la costruzione di un’organizzazione complessa ed in definitiva incomprensibile nei suoi meccanismi di funzionamento come è l’unione europea possa costituire il cemento della solidarietà tra nazioni differenti è una tesi senza fondamento, direi perfino insensata. Al contrario, è un modo perfetto di incrementare al massimo grado i motivi di rancore che a lungo andare possono dare luogo a sbocchi anche tragici.

  11. Avrei una domanda per @ Piras e un commento – mi scuso per la lunghezza fin da ora.

    Vorrei sapere che ne pensa @ Piras di questo. Ho l’impressione che con queste elezioni europee abbiamo fatto un altro passo nel ventunesimo secolo. Uno dei motivi è che la geografia politica è cambiata. Mi sembra che oggi la distinzione fra sinistra e destra cada fra chi ha una posizione davvero europeista (una posizione che non sia una forma di nazionalismo mascherato da europeismo) e chi ha una posizione nazionalista.

    Come tutti i conservatori, @ Buffagni e Cucinotta riconoscono solo ciò che occupa più visibilità in quella che Rancière chiama la “spartizione del sensibile”: le identità e le comunità nazionali sono ciò che è più visibile nel discorso comune, nella vita domestica, nella sfera pubblica, nei media, nelle istituzioni (incluse purtroppo le istituzioni educative, cioè le università e le scuole), nelle forme d’arte e di intrattenimento.

    Se però ci si guarda intorno, si vede che ci sono minoranze silenziose e invisibili in tutta Europa: sono le cittadine e cittadini europei che vivono, studiano e lavorano in un paese europeo in cui sono nate e nati. Sono persone rumene, francesi, polacche, inglesi, greche, italiane, tedesche, spagnole e così via. Queste persone appartengono a diverse classi sociali e lavorano in diversi settori: servizi, edilizia, educazione, assistenza, sanità, ecc. Queste persone hanno sentimenti, vite e aspirazioni come tutte e tutti.

    Chi sostiene che l’Europa è un insieme di istituzioni astratte sta semplicemente negando visibilità alle vite delle persone europee che vivono in paesi in cui non sono nate. Fa ciò che fanno i partiti europei di destra e di estrema destra: questi partiti hanno preso di mira l’immigrazione interna europea, senza dimenticarsi di stigmatizzare l’immigrazione da paesi non europei. Il passato è ciò che oggi sembra naturale ed è come sempre ciò che i conservatori hanno di più caro. Le comunità, le tradizioni e le lingue nazionali sono state inventate e per inventarle e ci sono volute diverse generazioni. Il progetto europeo è in crisi non solo per la cattiva gestione di una crisi finanziaria ed economica, ma anche perché non esiste ancora una sfera pubblica europea e perché essere europee ed europei è una condizione che non ha ancora visibilità.

    Nel 2014 una qualunque politica di sinistra che voglia davvero costruire una comunità europea dovrebbe cambiare la “spartizione del sensibile” e costruire una sfera pubblica europea. So che è un problema complesso, ma bisogna pure cominciare. La rivista “Eutopia” è un esempio di quello che si dovrebbe fare: http://www.eutopiamagazine.eu/en

  12. (E.C.) Vorrei segnalare un refuso nel paragrafo 4. Intendevo scrivere: “Se però ci si guarda intorno, si vede che ci sono (…) cittadine e cittadini europei che vivono (…) in un paese europeo in cui non sono nate e nati”.

  13. Caro Piras, propongo solo due semplici elementi di valutazione, che sono di evidenza empirica:
    1) l’unione europea è fondamentalmente un fenomeno monetario;
    2) questa moneta unica ha impoverito le nazioni economicamente più deboli a tutto vantaggio di quelle più forti. Chiunque viva in Italia sa come l’introduzione dell’euro abbia causato una consistente perdita del potere di acquisto di salari, stipendi e pensioni. E se non fosse per i danni che ci sono stati inflitti in questo modo, nessuno di noi si accorgerebbe di “vivere in Europa”.
    Le cose poi sono drasticamente peggiorate con la crisi del 2007- 2008 che è stata affrontata costringendo i cittadini a ripianare i debiti contratti dalle banche con una politica finanziaria scellerata. A fronte di ciò, mi creda, non ha molta importanza che le elezioni le abbia vinte Renzi o che le abbia perse Hollande: e anche la minaccia degli “euroscettici” più o meno fascistoidi mi sembra più un problema interno alla burocrazia politica che un effettivo segno di rivolta. Non c’è un solo movimento di lotta in piedi in tutta l’Europa, e il lavoro dipendente è spinto progressivamente nell’angolo più buio e più lontano dalle tutele e dalla dignità che le Costituzioni democratiche, spesso conquistate col sangue, gli avevano riconosciuto. Il Job act di Renzi va esattamente in questa direzione, che è la stessa della legge Fornero e del fiscal compact. Più che a una libera unione, bisogna riconoscerlo, quest’Europa somiglia a un campo di concentramento per i suoi stessi cittadini.

  14. @Baldini
    Lei mi apostrofa come conservatore, ma secondo me dovrebbe essere più cauto in queste aggettivazioni. E direi anche più attento al merito delle mie argomentazioni. Infine, potrebbe sentire il dovere di documentarsi, il che non dovrebbe essere così difficile, visto che tengo un blog in cui da diversi anni ho avuto modo di postare quasi un migliaio di articoli, avendo così modo di affrontare una molteplicità di questioni.
    Ma soprattutto, non capisco questa corsa ad etichettare le persone che alla fine sembra un mezzuccio per evitare di affrontare il merito delle argomentazioni. Alla fine, il succo del suo intervento è che bisogna essere europei per rispetto di chi non lavora nella nazione in cui è nato: spero che lei stia scherzando, non posso credere che questa sia un’argomentazione. Basterà assicurare a queste persone la possibiltià di continuare a lavorarci, non vedo proprio quale sia il problema.
    Infine, rimango molto preoccupato nel vedere la miopia generale nel non percepire il rischio mortale che le nazioni europee corrono nell’essere costrette ad una convivenza che non hanno scelto e che viene, a torto o a ragione (a me pare a piena ragione) identificata come fonte della crisi economica in cui siamo precipitati.
    Insomma, continuiamo a baloccarci con questioni marginali senza cogliere la tendenza crescente ai risentimenti tra le differenti nazioni dell’unione ed alla loro pericolosità per un futuro di pace.

  15. I risultati delle elezioni europee dimostrano che le forze dominanti della borghesia europea (i popolari, la socialdemocrazia e i liberali) segnano il passo perdendo consensi e seggi. Ciò accade perché i popoli europei hanno espresso un chiaro rifiuto del dominio dell’oligarchia finanziaria e delle politiche di austerità e competitività imposte dai tecnocrati di Bruxelles, i quali escono pesantemente delegittimati da queste elezioni. Avanzano invece le forze radicali e anti-UE, in alcuni casi progressiste e popolari, in altri casi populiste, nazionaliste e fasciste, come in Francia, Inghilterra, Austria e Ungheria. Fermare queste forze
    reazionarie, utilizzate dal capitale finanziario per colpire gli interessi, i diritti e le libertà della classe operaia, è il primo compito che si pone al movimento di classe. L’astensione, al contrario di ciò che afferma Piras, si conferma quanto mai elevata, poiché la percentuale dei votanti in tutta l’UE arriva solo al 43,1%, ben al di sotto delle ottimistiche aspettative delle istituzioni europee: segno evidente della profonda crisi di consenso dei partiti borghesi e riformisti. Non vi è alcun dubbio che tale crisi renderà sempre più problematica l’attuazione delle politiche antisociali e antioperaie, rendendo più incerto e precario il progetto imperialista di costruzione di un agglomerato europeo.
    In Italia il malcontento, la protesta verso le misure antipopolari e il rifiuto consapevole e di massa dell’UE si sono espressi in diverse forme, la più rilevante delle quali è l’astensionismo, che ha raggiunto il massimo storico, giacché il calo rispetto alle precedenti elezioni europee è stato di ben 8 punti percentuali. All’astensionismo si deve poi aggiungere un milione e mezzo di schede bianche e nulle. In un paese che come l’Italia si è storicamente caratterizzato per un’alta partecipazione al voto e tutti i massimi esponenti
    dello Stato e delle forze politiche tradizionali sono schierati a difesa dell’UE e dell’euro sono cifre enormi. Quello che si è aperto è in realtà un divario abissale tra le classi, essendo di una solare evidenza che questi dati pongono a nudo la divaricazione sempre più ampia fra un pugno di parassiti e di sfruttatori, da un lato, e grandi masse di lavoratori, disoccupati, pensionati, donne degli strati popolari, vittime del capitale, dall’altro.
    Ma la protesta contro le politiche dell’UE si è espressa anche con il voto al M5S, che con una politica demagogica ha polarizzato, senza per altro essere in grado di indicare un progetto alternativo, il malcontento trasversale di ampi strati sociali, in ispecie piccolo-borghesi, impoveriti e schiacciati dalla crisi. E’ vero che la sua presa elettorale rimane consistente, ma è anche vero che perde circa 3 milioni di voti rispetto alle scorse politiche. Dal canto suo, la Lega Nord con la sua linea anti-euro e anti-immigrati, ma sempre filo-capitalistica, ha recuperato una parte dei consensi nel suo tradizionale bacino di insediamento, ma non ha superato il 50% dei voti raccolti nel 2009. Per quanto riguarda la Lista Tsipras, vi è da dire che le ‘anime belle’ di questo coacervo elettorale, con il loro programma illusionistico e il loro keynesismo
    d’accatto, se sono riusciti ad entrare per il rotto della cuffia nell’europarlamento, altro non faranno se non i tirapiedi dei socialdemocratici di Schulz. E veniamo a Renzi. Il successo del ducetto fiorentino, che stravince la sfida con Grillo, è innegabile, anche se a conti fatti il PD raccoglie circa 11 milioni di voti, quindi circa un voto su cinque. Questo, occorre riconoscerlo, è senza dubbio il principale dato negativo del voto italiano. La speranza illusoria di un cambiamento da realizzare all’interno del quadro europeo ha coinvolto una parte rilevante della popolazione italiana, che ha abboccato all’amo dell’ennesimo dottor Dulcamara partorito da quella cagna in calore che è la corrotta politica italiana e ha concesso, per una mancia di 80 euro, il suo sostegno ad un partito che rappresenta gli interessi del grande capitale. Sennonché Renzi sbandiera il 40,8%, ma se si calcola la percentuale sull’intero corpo elettorale si può constatare che egli rappresenta meno del 23%, il che significa che il 77% non sta dalla sua parte. Riguardo all’ascesa dei consensi al PD, è evidente, al contrario di quanto afferma Piras, il travaso di milioni di voti provenienti dal blocco sociale berlusconiano, dai montiani e dal conservatorismo cattolico. Esemplare, da questo punto di vista, è il caso del Nord-Est imprenditoriale. Il renzismo ha vinto perché con un’abile politica mediatica e pubblicitaria capace di usare tutte le risorse dell’affabulazione e dell’istrionismo, nonché grazie alla passività e al nullismo dei gruppi dirigenti del sindacato confederale, ha saputo concentrare su di sé tutte le
    illusioni sul superamento della crisi e del declino, sfruttando a proprio vantaggio tutte le paure borghesi e piccolo-borghesi e il correlativo richiamo all’ordine e alla stabilità. Come ha ben detto Corrado Passera, Renzi ha vinto perché ha potuto segnare a porta vuota. Ma ciò renderà ancora più aggressivo e antipopolare il suo governo, spingendolo sul terreno delle controriforme economiche e politiche, delle privatizzazioni, della politica di guerra, dell’attacco aperto al movimento operaio. D’altronde, è questo il programma per la cui attuazione è stato insediato a Palazzo Chigi dall’oligarchia finanziaria.
    L’‘experimentum crucis’ di tale programma sarà la controriforma istituzionale, finalizzata a mutare in senso
    autoritario forma e assetto dello Stato borghese. Il PD getterà quindi definitivamente la maschera dell’agnello ‘progressista’ e rivelerà il grifo lupesco di una “nuova DC” caratterizzata dal personalismo, dal decisionismo e dal populismo, ma senza le condizioni economiche, sociali e internazionali che
    consentirono alla “balena bianca” di reggere per decenni. Il nuovo ‘dominus’ della politica borghese italiana dovrà navigare nelle acque torbide e tempestose di una crisi capitalistica profonda e irrisolta, del
    ’Fiscal Compact’ e dei crescenti conflitti interimperialistici. L’intera responsabilità delle controriforme e delle misure antipopolari, così come delle tante azzardate promesse, ricadrà su di lui e sul suo governo.
    La classe operaia e i disoccupati, a quel punto, non mancheranno di presentare il conto, nelle fabbriche, nei territori e nelle piazze.

  16. @ Cucinotta, la ringrazio per la risposta. Cerco di spiegarmi meglio, perché non mi sono spiegato bene.

    Il punto del mio discorso è cambiare il modo di immaginare e parlare dell’Europa come comunità politica. Le politiche economiche sbagliate vanno criticate duramente, ma è molto pericoloso mettere in discussione l’Unione come stanno facendo i partiti di destra e di estrema destra.

    L’ho definita “conservatore” perché le immagina una comunità politica solo nella forma vecchia dello stato nazione così come lo abbiamo conosciuto. Non mi interessa etichettarla, ma spingerla a considerare la possibilità di cambiare il suo modo di immaginare una comunità politica: una federazione di stati nazionali è una nuova forma di comunità politica.

    Mi dispiace deluderla, ma sui diritti non scherzo affatto. Se l’Unione Europea finisse, i diritti di residenza, spostamento e lavoro all’interno della UE di tutte le cittadine e cittadini europei verrebbero rivisti in peggio, se non cancellati. Se questi diritti le sembrano poco, lo vada a dire alle immigrate e immigrati che cercano di ottenere permessi di soggiorno nella UE. Quando si parla di diritti, per me non contano i numeri. Mi lasci citare però una sola statistica. A inizio del 2013 Eurostat stimava che quasi 30 milioni di europee ed europei (circa il 6% della popolazione europea) risiedevano in un altro paese europeo rispetto al paese di nascita o cittadinanza.

  17. Caro Baldini,
    concordo su tutto quello che lei dice, sia nella sua domanda che nel suo commento. Anche io credo che oggi le posizioni di sinistra debbano caratterizzarsi per una prospettiva sovranazionale, non solo in ambito europeo; e mi sembra un’ottima indicazione quella proposta da lei, di andare a cercare quelle forme di integrazione sociale che appaiono poco alla vista, ma operano effettivamente. A questo aggiungerei, sempre per rispondere a Buffagni e Cucinotta, e a tutti quelli che sollevano il problema delle “appartenenze”, che un altro livello di integrazione è quello del diritto, strutturale per ogni società moderna, e che nell’ambito della Unione Europea ha un ruolo fondamentale.

    Caro Bellacicco,
    non è vero che la moneta unica ha impoverito i paesi economicamente più deboli. Ricordo che prima dell’ingresso nell’euro l’Italia pagava interessi sul debito molto più alti, e aveva un’inflazione molto più alta. La crisi del debito in Europa, certo, ha fatto esplodere tutte le difficoltà, ma magari si poteva mettere mano alla razionalizzazione della spesa pubblica e al miglioramento della produttività nei primi anni duemila, quando non c’era la crisi.

    Caro Barone,
    le dico solo tre cose.
    1) Chiamare Renzi “ducetto” è solo pigrizia intellettuale.
    2) Nel voto conta chi va a votare; lo sappiamo bene che il 40 % dei votanti è molto di meno rispetto agli aventi diritto, ma quello che conta è che l’astensione non abbia colpito quasi per niente il Pd, e abbia invece colpito massicciamente gli altri; questo significa che il Pd ha avuto un consenso forte.
    3) Si studi bene i flussi elettorali: a parte le partite Iva del Nord-Est, che comunque solo al 30% circa hanno votato Pd, questo non ha quasi preso voti dal centrodestra (e comunque quei voti del Nord-Est l’anno scorso erano andati a Grillo, non vengono direttamente dal centrodestra); molti votanti del centrodestra si sono astenuti, e lo ha capito bene Grillo che ora si sposta a destra per andare a pescare lì.

  18. Cari Piras e Baldini,
    se ho ben capito, loro prospettano che la UE, e non solo la UE ma addirittura il mondo, andrebbero riorganizzati in base a un nuovo “sistema di appartenenze”, fondato sul diritto. Sempre se ho ben capito, il diritto al quale loro si riferiscono sono “i diritti umani”, la versione riveduta e corretta del diritto naturale oggi promossa dalle potenze occidentaliste, che andrebbero assicurati a tutti gli esseri umani.
    Mi limito a far notare un particolare al quale pare che loro non abbiano pensato: solo una parte molto, molto piccola dell’umanità, europea e non, è disposta a farsi revisionare a questo modo.
    La cancellazione delle identità religiose, nazionali, linguistiche, culturali, o la loro riduzione a simpatica eccentricità magari monetizzabile con l’apertura di ristoranti tipici e fabbrichette di abbigliamento etnico, non è un processo semplice e indolore come il cambio dell’olio alla propria autovettura.
    In breve: c’è tanta, tanta gente (una schiacciante maggioranza dell’umanità) che di fronte a questo programmino progressista rabbrividisce, si disgusta, e reagisce con forza.
    Ora, come pensate di persuaderla, questa gente? Con un accurato calcolo costi/benefici? Con le trasmissioni di Raitre? Con un abbonamento gratuito a “la Repubblica”?
    E se non basta? Se questi perseverano nell’errore? Qualcosa – ad esempio, la storia degli ultimi decenni – mi suggerisce che si passerà alle vie di fatto (certo, per il nostro bene).
    Il progetto di trasformazione antropologica che loro propongono con tanto equilibrata moderazione è di un radicalismo metafisico di fronte al quale paiono modesti e realistici l’ “uomo nuovo” comunista o nazista.
    Forse loro pensano che a incaricarsi della creazione di questo “uomo nuovo” sarà un processo impersonale, il diffondersi universale dello Spirito del Tempo che verrà inavvertibilmente assorbito da tutti così, per pacifica osmosi.
    Non sarà così. Non ho idea se questo uomo nuovo nascerà mai (secondo me, no). Ma in ogni caso, il processo di produzione di questo nuovo modello di essere umano è tutt’altro che facile e pulito, e ha *già* fatto versare fiumi di sangue.

  19. Caro Buffagni,
    lei mi costringe a essere pedante (e lungo, me ne scuso in anticipo).
    L’integrazione delle società moderne, altamente differenziate, non avviene solo sul piano dei valori (religiosi, nazionali ecc.). Essa avviene su più piani.
    L’integrazione funzionale e sistemica. Qui l’agire viene coordinato tramite “media” che sgravano gli agenti dalla responsabilità di cercare una base normativa e valoriale condivisa, ma che permettono di ottenere risultati in termini di efficienza altrimenti non raggiungibili. Qui si trovano il mercato e l’apparato burocratico, che agiscono tramite i media del denaro e del potere. Certo, entrambi questi sistemi producono anche le loro degenerazioni, con costi in termini di inefficienza, ma se fossero abbandonati del tutto i costi sarebbero molto più alti. Questa coordinazione è fondamentalmente anonima e “fredda”, siamo d’accordo. Ma allo stesso tempo produce integrazione sociale anche a un livello più alto, perché se funziona bene genera benessere, tranquillità sociale e consenso. Inoltre promuove una forma di individualismo che è anche inscritta nella modernità “normativa” (il piano di integrazione di cui parlo sotto). E promuove anche delle identità che sono legate a essa, identità professionali e di gruppi sociali per intenderci, che hanno anch’esse un loro peso.
    L’integrazione normativa e “valoriale”. Qui gli agenti coordinano le loro azioni sulla base di principi condivisi, che possono essere norme o valori radicati in una storia e in una appartenenza. Ovviamente, questo tipo di integrazione è molto forte, perché in entrambi i casi viene da un processo sociale radicato nella storia, di cui gli agenti si sentono parte. Gli agenti sentono quindi questi principi come parte della loro identità. Però non bisogna perdere di vista alcune cose. Primo, la differenza tra norme e valori. Le norme condivise culturalmente in un’epoca storica possono trascendere le diverse appartenenze culturali o nazionali. La norma del rispetto dell’autorità gerarchica, per esempio, in antico regime trascendeva senza difficoltà società con identità culturali diverse. Allo stesso modo, la norma del rispetto dell’eguaglianza degli individui trascende adesso culture e nazionalità diverse. Poi, nelle società moderne: a) emerge l’individualismo come principio normativo ampiamente condiviso; b) le sfere dell’integrazione sistemica si rendono autonome e garantiscono una coordinazione efficiente dell’agire; c) le identità, per ragioni culturali e storiche, sono meno omogenee. Per queste ragioni, in queste società sono presenti identità plurali, che rivendicano di essere riconosciute. In questa situazione, insistere solo sul piano valoriale per garantire l’integrazione di una società significa rischiare di aggravare la conflittualità, ottenendo l’effetto opposto. Questo è il problema della società moderna dalla rivoluzione francese in avanti, molti teorici politici l’hanno visto, dall’inizio dell’Ottocento, non solo quelli conservatori o reazionari: “come tenere insieme una società di individui liberi e eguali, che tende ad atomizzarsi?” La storia successiva ha mostrato che l’idea di nazione è una risposta a questa domanda, ma che se viene messa avanti senza tenere conto degli altri fattori è distruttiva. L’integrazione di questo tipo di società riesce in un equilibrio difficile tra i due piani, e questo però ci permette di pensare che può anche andare oltre il livello nazionale.
    L’integrazione giuridica. Qui chiarisco: per “diritto” intendo il sistema giuridico in generale, sia all’interno degli stati, che nella sua forma trans- e sovranazionale, ormai esistente. Quindi: non i “diritti umani” (human rights), ma il “diritto” (law); quelli sono solo un aspetto circoscritto di questo. Bene, il diritto da una parte coordina l’agire tramite la sanzione e l’apparato dello stato, dall’altra ha una validità che può essere riconosciuta e accettata tramite processi di legittimazione, quindi riconosciuta dagli agenti anche come parte della propria identità culturale. Questo “doppio volto” del diritto gli permette di integrare gli altri due piani, e gli attribuisce un ruolo fondamentale nell’integrazione delle nostre società. Ecco che cosa intendo. Ed ecco perché credo che su questo terreno si possa giocare la partita dell’integrazione di una società transnazionale come l’Unione Europea. Questo infatti si vede non sul terreno dei diritti umani, ma della struttura giuridica della UE. L’“effetto diretto” dei diritti comunitari, ormai entrato nella giurisprudenza, mostra chiaramente questo tipo di integrazione in atto. E i cittadini che nel tempo ne diventano consapevoli, nella pratica, riconoscono questo come parte della loro identità.
    Concludo. L’Unione Europea può giocare la carta di una integrazione superiore a quella raggiunta fin qui, e superare la crisi, se è capace di attuare in modo complementare questi tre tipi di integrazione: sul piano economico, garantendo lo sviluppo, e quindi strutture che permettano di superare gli squilibri dell’unione monetaria azzoppata dai nazionalismi; sul piano giuridico, rafforzando la cittadinanza europea; sul piano culturale, difendendo l’identità storica dell’Europa come regione del mondo in cui si è sviluppata una idea di democrazia che è sì individualistica, ma anche solidaristica, perché ha inventato e preservato lo stato sociale.
    Mi fermo qui, nonostante il carattere apodittico e lacunoso di queste affermazioni, e mi scuso di nuovo per l’eccessiva lunghezza.
    mp

  20. Rispondendo ad Aristide Bellacicco, Piras rivendica, quali meriti dell’euro, la riduzione del tasso di inflazione e degli interessi sul debito pubblico. Egli usa, per giustificare i ‘meriti’ della moneta unica, un argomento che mi ha richiamato alla memoria il seguente sillogismo, evocato nei suoi “Essais” da Montaigne ma sempre attuale come strumento di mistificazione e di imbonimento: il salame fa bere, il bere disseta, dunque il salame disseta. Vediamo di ristabilire i corretti rapporti di predicazione. I mutamenti avvenuti nelle politiche economiche a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, contrariamente a quanto recita una ‘vulgata’ diffusa nella sinistra, la quale, avendo contribuito a determinarli, non può riconoscere la paternità delle conseguenze che ne sono derivate, hanno, come tutti i fenomeni storici, cause ed effetti precisi. Ad esempio, la priorità accordata al controllo dell’inflazione (anziché al pieno impiego) è frutto di una scelta compiuta dal laburismo inglese, poi imitato dal resto della sinistra europea, sicché, per fare un esempio concreto, il ruolo di ministro del lavoro nelle compagini governative è poi diventato meramente illusionistico e decorativo (non potendo essere altro, fin quando quella priorità, fatta propria dalla UE ed imposta con strumenti sanzionatori e coercitivi, resterà la stella polare della politica economica dei diversi governi che si sono succeduti). Parimenti, l’origine del debito pubblico è un altro esempio di falsa spiegazione (per altro funzionale agli interessi dominanti), poiché i difensori di quegli interessi, come l’ottimo Piras (tanto al governo quanto all’opposizione), si guardano bene dal dire che l’origine di tale debito non sta dal lato delle uscite, ma dal lato delle entrate. Queste ultime, grazie alle misure di detassazione dei profitti e al vero e proprio piano di sabotaggio dello ‘stato sociale’ posto in essere nel corso degli anni ’90, sono andate progressivamente diminuendo, talché il rapporto entrate-PNL da allora non è più aumentato. Orbene, come dimostrano i fatti precedenti, la spesa sociale, lungi dall’essere un regalo della fiscalità generale, rivela sempre più la sua vera natura di variabile dell’accumulazione del capitale in una fase di declino. Il ferreo vincolo di bilancio dal lato delle spese ha perciò impedito qualsiasi alternativa ad una politica economica che continua ad essere fondata sui due dogmi monetaristi per cui: 1) + spesa pubblica = – investimenti privati, 2) un aumento di offerta di denaro superiore al PIL genera inflazione. D’altro canto, la storia insegna che le epoche di aumento della spesa pubblica e di pieno impiego hanno coinciso con la prima e con la seconda guerra mondiale, mentre sia la storia che la cronaca ci insegnano la funzione (non solo politica ma anche e soprattutto) economica del permanente stato di guerra in cui (e di cui) vive la superpotenza mondiale. In effetti, sia la destra che la sinistra, sul piano teorico, sono incapaci di cogliere il nesso tra autovalorizzazione e capitalismo: quel nesso che spiega come mai la spesa pubblica incontra un limite nel momento in cui la redditività del capitale diminuisce; quel nesso che spiega come mai la domanda complessiva (= beni di consumo + beni di investimento) non aumenta e come mai la riduzione dei salari (sia diretti che indiretti), ottenuta grazie alla passività e, non di rado, alla capitolazione delle direzioni sindacali collaborazioniste, serve a questo preciso scopo; quel nesso che spiega come mai la costante di tutte le manovre finanziarie è sempre questa; quel nesso che esprime la tendenza al declino del saggio di profitto, iniziata per l’appunto negli anni ’70 e tipica dell’intera economia mondiale. La conclusione è che, rispetto alla crisi economica mondiale, non esistono né una fuoriuscita di destra (il liberismo puro è solo un’utopia reazionaria) né una fuoriuscita di sinistra (il keynesismo puro è un impraticabile sogno riformista). Infatti, le politiche economiche seguite dai governi borghesi (con o senza la partecipazione dei riformisti) non sono né carne né pesce, ma si limitano molto empiricamente a mescolare e dosare in misura variabile (ma dipendente, in buona sostanza, dalla natura di classe del blocco sociale di consenso) elementi propri di una politica di sostegno dell’offerta (= liberismo) con elementi propri di una politica di sostegno della domanda (= keynesismo). Gli ultimi decenni hanno posto fine perciò ai miti della sinistra (controllo sociale degli investimenti, salario come variabile indipendente, modello alternativo di sviluppo), dimostrando che il capitalismo non è controllabile. Ecco perché la sinistra non propone nulla, se non una versione edulcorata del programma della destra. Ecco perché, data la relazione esistente fra democrazia, capitalismo e piena occupazione, relazione in virtù della quale i suddetti termini, come la storia e l’economia del nostro secolo dimostrano, possono procedere soltanto a due a due, i margini sempre più ristretti della coppia ‘democrazia-capitalismo’ rendono matematicamente inevitabile il dilemma, che solo la lotta fra le classi potrà sciogliere, fra la coppia ‘capitalismo + piena occupazione’ (= fascismo) e la coppia ‘democrazia + piena occupazione’ (= socialismo).
    Per quanto riguarda un esame analitico dei flussi elettorali, non mi sembra che Piras abbia risposto in modo convincente al caso, da me addotto, del Nord-Est, che è invece esemplare in quanto illustra in maniera paradigmatica il carattere populistico e, nella sostanza, retrivo del renzismo, la sua organica vocazione di “partito dell’ordine capitalistico”, ulteriormente potenziata dai consensi del blocco leghista e berlusconiano che sono migrati verso il Pd.
    Infine, riguardo alla lezioncina di sapore habermasiano sulle tre forme di integrazione delle società moderne, che Piras ha elargito a Buffagni, nonché alla correlativa esaltazione del diritto europeo come strumento di integrazione sociale, che l’accompagna, non sto, anche per evidenti ragioni di spazio, né a richiamare la serrata dialettica di Hegel sul rapporto tra diritto astratto, moralità ed eticità, né le sferzanti chiose dedicate da Engels e da Kautsky ai “Juristen Sozialisten” in uno scritto che apparve nel 1887 sulla “Neue Zeit”, rivista teorica della socialdemocrazia tedesca. Gli autori citati spazzano via in un sol colpo, mostrando con Marx che “il diritto, come qualsiasi altra sovrastruttura, non determina il suo contenuto ma soltanto lo esprime”, gli pseudo-concetti con i quali Piras si ingegna di legittimare la funzione, a suo dire democratica, di un’organizzazione imperialista e reazionaria quale è la UE. Sarebbe forse utile che Piras, distaccandosi per un momento dall’idealismo soggettivo di ascendenza kantiana in cui è incapsulato, riflettesse sulla connessione tra capitalismo e diritto, poiché forse gli sfugge proprio la connessione in virtù della quale la società moderna non è solo “un’immane raccolta di merci”, ma anche “una catena infinita di rapporti giuridici”. Chiudo con un’ultima postilla sul bonapartismo renziano, poiché Piras mi ha rimproverato, in quanto segno di “pigrizia intellettuale”, la definizione di “ducetto fiorentino” da me attribuita a Renzi. Modificherò pertanto, un po’ per gioco un po’ sul serio, la suddetta definizione in questi termini: “un ducetto confezionato con la coca-cola e i fagioli all’uccelletto”. Insomma, un indigeribile cibreo.

  21. Caro Mauro, se si continua a contrapporre una sinistra “radicale”, per lo più confusionaria, a un socialismo europeo che non è socialista (il caso di Hollande in Francia, con il suo regalo agli imprenditori che va sotto il nome di “patto di solidarietà”, ne è un esempio) non si va da nessuna parte: cioè si lasciano le cose come stanno adesso con un’Europa né democratica né sociale, gestita da élite pseudoliberali che favoriscono la protesta populista e fanno il gioco della destra peggiore. Questo per replicare al tuo secondo argomento. Riguardo al primo, il fatto che un po’ di partite Iva, in elezioni che hanno visto un alto tasso di astensionismo, abbiano votato per Renzi non indica che questi sia riuscito a intercettarne il disagio con una linea politica (quale sarebbe, se tra l’altro i famosi 80 euro sono andati ai lavoratori dipendenti?): indica solo che non sanno più a chi santo votarsi e scelgono Renzi come in passato hanno scelto Berlusconi, affidandosi al “carismatico” del momento. Magari il Pd riuscisse a rifare davvero la Dc, sarebbe già qualcosa… “un partito di centro che guarda a sinistra” (così l’aveva definito De Gasperi); ma qua si tratta di un moderatismo senza prospettive che non siano quelle di un blairismo fuori tempo massimo – insomma più che altro un pasticcio… Valori e norme come strumenti di un’integrazione sociale europea? Per il momento si deve tenere in piedi la baracca nei confronti dei nazionalismi e dei populismi, e questo lo puoi fare solo se offri una concreta alternativa di sinistra riformista all’andazzo attuale, per esempio attraverso un programma d’investimenti pubblici… Per te che sei stato seguace di Bersani (e quindi di Fassina), questo dovrebbe ancora significare qualcosa.

  22. Caro Piras, bisogna stare ai fatti. E’ vero che i mutui ora costano meno di quindici anni or sono. Ma perché? Perché il tasso di cambio della moneta è stato fissato, a suo tempo, su quello del marco, che era il più basso in Europa (o uno dei più bassi). Dunque, è vero che il denaro è l’unica merce che costa di meno di quanto non costasse prima dell’euro. Ma:
    1) essendo la Germania il maggior esportatore di manufatti in Europa e
    2) avendo perso, noi come tutti gli altri paesi che hanno adottato l’euro, la possibilità di svalutare – cioè la sovranità monetaria – …
    3) non siamo più stati in grado di sviluppare un efficace competizione con la Germania sul piano delle esportazioni. Questo ha provocato
    4) una crescente deindustrializzazione del paese, che ha dovuto sempre più specializzarsi in attività (come il turismo, i servizi ecc.) incapaci di agire positivamente sulla bilancia dei pagamenti.
    Anche per questo i nostro debito pubblico, che prima dell’euro era su livelli accettabili, ha avuto una brusca impennata (=indebitamento con l’estero).
    A ciò si deve aggiungere che, come conseguenza dell crisi 2007 – 2008 (subprime, per essere sintetici) lo Stato si è fatto carico del salvataggio delle banche, aumentando ancora il debito.
    La “produttività” non c’entra; o meglio, c’entra nel senso che un paese che perde industrie è davvero difficile che possa aumentarla.
    E tieni presente che è stato solo dopo l’esplosione della cosiddetta “bolla immobiliare” che il problema del debito pubblico è stato portato i primo piano: appunto perché bisognava ridurre la spesa sociale a tutto vantaggio del debito privato: in sostanza, il debito privato – vera origine di questa crisi – è stato trasformato in debito pubblico. E questo ha aperto la porta ad ogni genere di manovre speculative. Il Capitale non fa sconti. E mette a carico dei cittadini – soprattutto dei lavoratori salariati – il prezzo della sua irrazionalità.

  23. Grazie a Piras per la sua risposta articolata, e agli altri commentatori per i loro interventi. Per un paio di giorni sarò in viaggio e non potrò replicare. Me ne scuso e di nuovo ringrazio per l’interessante dialogo.

  24. @Baldini
    Lei forse ignora che in Germania si trova la più grossa comunità turca fuori dalla Turchia, tutta costituita da immigrati per motivi di lavoro. Tutto ciò è avvenuto senza che la Turchia facesse parte della CEE di allora o della UE di adesso. Davvero non capisco questo suo associare la possibilità di emigrare con l’esistenza di un’unione monetaria. Sui diritti lei non scherzerà, ma ci gioca, nel senso che difendere certi diritti comporta il comprimerne altri (e qui il discorso ci porta lontano). Quindi, impugnare i diritti come se fossero un must e quindi una priorità è infondato: in verità, in politica si sceglie sempre, e ciò vale anche nel campo dei diritti e qindi è onesto parlarne esplicitamente invece di nascondersi dietro priorità non meglio argomentate.
    La difesa dello stato nazione può significare tante cose, per me significa difendere la democrazia che solo nello stato nazione ha trovato attuazione. Non so ma tanto meno mi interessa se ciò vada definito conservatorismo, ciò è vero almeno nel senso che sono per la conservazione di democrazia invece di essere un innovatore neoliberista antidemocratico, ognuno scelga cosa preferisce. Sa, consevare il buono che abbiamo realizzato può essere definito conservatore solo con una evidente forzatura linguistica, ma a me poco interessa questo nominalismo.
    Nell’insieme, mi pare che l’area PD agiti alcuni slogan, pensando che gli Italiani siano così stupidi da crederci malgrado i fatti a cui assistiamo. Fino a quando tutto ciò potrà funzionare? Nel frattempo, i disastri continuano ad avvenire, mentre i sostenitori della politica al potere sono così ideologizzati da non vedere neanche più i fatti.

  25. @ Buffagni e Cucinotta. Vi ringrazio le risposte. Rispondo brevemente a entrambi.

    Non ho mai parlato di diritti naturali. A stabilire i diritti sono le comunità politiche e questi diritti hanno valore solo al loro interno. Io prendo i diritti sul serio. Questo vuol dire che distinguo la dimensione dei diritti dai problemi di giustizia distributiva, dalle politiche economiche attuate dai governi e dall’economia.

    Non ho mai parlato di economia o di unione monetaria. Qui ho parlato solo dell’Unione Europea come comunità politica e dei diritti che garantisce alle sue cittadine e cittadini – diritti di residenza, spostamento, assistenza sanitaria, ecc. Se si abolisse l’Unione Europea, quei diritti verrebbero ridotti, se non cancellati.

    @ Cucinotta. Il suo paragone crea solo confusione e serve solo a ribadire un punto. A lei non importa che i diritti delle perone vengano ridimensionati o cancellati. Per lei le europee e gli europei che vivono in paesi europei di cui non sono cittadine (o in cui non sono nate) si possono considerare come immigrate e immigrati non-UE. Questo significa cancellare dei diritti ed è proprio ciò che propongono i partiti europei di estrema destra. Mi dispiace, ma non la seguo su questo.

  26. @Baldini
    Vedo la sua ostinazione a ragionare per slogan, la doccia è di sinistra e il bagno è di destra diceva Gaber, così come a confondere uno specifico interesse o diritto con la difesa complessiva dei diritti. Analogamente, lei non smette di trasformare l’argomentare in un dialogo, con l’apostrofare l’interlocutore in modo del tutto arbitrario. Prima mi da’ del conservatore, ora afferma che a me non interessano i diritti delle persone. L’avevo avvisata di essere più cauto, ma vedo che si tratta di fiato sprecato. Lei è riuscito almeno una volta nella sua vita ad entrare nel merito delle argomentazioni altrui, o passa il tempo ad etichettare le persone secondo sue categorie interne che non mette mai in discussione? In questo caso, si rende conto che non avrebbe senso dialogare?

  27. Caro Cucinotta,
    non ho rimosso il suo ultimo commento, perché io sono davvero liberale dentro, è una malattia, è più forte di me, e la censura proprio non mi si addice. Quindi l’ho lasciato, anche perché vorrei invitarla a riflettere pubblicamente su questo: lei alza eccessivamente i toni e reagisce come se fosse stato insultato, quando in realtà le sono state rivolte solo delle critiche. Se qualcuno le dice che è conservatore, e lei non lo è, lei può tranquillamente replicare (lei mi dice sempre che io sono un liberista, io non mi ritengo tale, ma cerco di dimostrarle il contrario, non vedo nessuna ragione di sentirmi offeso; se dovessi rispondere come lei tutte le volte che sostanzialmente mi si tratta da cretino, staremmo freschi). Non ha nessuna ragione di reagire in questo modo. A me sembra invece che nelle obiezioni di Baldini ci siano dei punti controversi, e che lei possa limitarsi a rispondere con delle controargomentazioni, non alzando i toni.
    Ho già detto più volte che si può benissimo discutere rispettandosi reciprocamente, anche quando si usa un po’ di ironia (guardi come me le canta Barone, ma fa bene, neanche io sono stato gentile, la discussione procede, ecco tutto).
    Un caro saluto,
    mp

  28. @ Caro Cucinotta. Cerco di spiegarmi meglio, per evitare che lei pensi che ho usato slogan. Ciò di cui si discute qui è materia complessa. Invece di fare come la volpe e parlare un po’ di tutto, in questa discussione ho deciso di fare come il riccio: ho volutamente insistito su una cosa sola.

    Volevo ricordare questo a chi immagina che la UE sia un’entità burocratica dominata da tecnocrati o sia una emanazione del “Capitale”. Volevo ricordare che la UE è già una comunità politica che garantisce dei diritti. E io ci penserei due volte prima di abbatterla.

    Si può e si deve discutere dell’architettura dell’euro, delle funzioni della BCE, di politiche economiche e di giustizia distributiva – sono tutte questioni fondamentali e la UE, molti governi e altre istituzioni europee vanno duramente criticate su questo. Si sono fatti e si stanno facendo molti errori gravi che minano proprio il progetto della comunità politica europea. Questo però è un altro discorso.

    Ringrazio lei e chi partecipa a questa discussione. E mi scuso per avere scritto davvero troppi commenti.

  29. Caro Piras,
    rimettiamo le cose come stanno effettivamente. Baldini ha sin dall’inizio spostato la discussione dal merito delle affermazioni dei suoi interlocutori alle loro persone. Non ha detto che questa specifica affermazione appare di carattere conservatore, ha detto che io sono un conservatore. Naturalmente, dare del conservatore non costituisce in sè un’offesa, per qualcuno sarà anche un complimento, ma il punto è che non trovo corretto spostare l’attenzione dalle affermazioni di chi le fa alla sua propria persona.
    Alla fine, vedendo che Baldini, invece di smettere, rincarava la dose, ho anch’io spostato l’attenzione sulla persona, in modo non ingiurioso, ma sicuramente non ne davo una connotazione positiva, in questo in fondo imitandolo. Mi chiedo perchè è solo a questo punto che lei ritiene di dovere dire la sua.
    Le replico solo perchè il tutto, come sempre del resto avviene nei rapporti interpersonali, ha risvolti psicologici, in questo caso particolarmente interessanti.

  30. Caro Piras,
    le replico brevemente, scusandomi del ritardo.
    La mia obiezione di fondo alle sue argomentazioni si compendia cosi: il diritto (law) non fonda e non può fondare se stesso. Il rispetto delle regole non basta a fondare l’autorità di una decisione. In uno Stato liberale, una legge è giusta quando è stata varata nel rispetto delle regole procedurali: ma questa definzione autoreferenziale non prende in considerazione il fatto, elementare, che una legge può essere bensì legale, ma anche ingiusta, o ritenuta tale da una porzione significativa dei cittadini che vi sono soggetti. E siccome in ogni legge v’è sia una massima giuridica, sia un comando, cioè una diminuzione della libertà, il problema della legittimità (e cioè di quanto è conforme a giustizia, legale o no che sia) non può essere sottovalutato.
    Come dice Schmitt in “Legalità e legittimità” (1932) “il privilegio di mettere in opera la legge esistente conferisce alla maggioranza il possesso legale della potenza pubblica; per mezzo della quale essa dispone di un potere politico che supera di gran lunga il semplice valore della legge”.
    E’ questa l’aporia del formalismo o positivismo giuridico liberale.
    Uno Stato legislatore che fonda la sua autorità legittima sul dominio delle “regole”, ossia del diritto positivo, presuppone che
    a) le leggi siano complete e perfette, come il contratto perfetto nell’economia neoclassica
    b) i cittadini, rispetto ai valori (o alle “rappresentazioni”, come li chiama la scienza politica) siano omogenei e buoni.
    Siccome a) e b) sono effettualmente impossibili, ne consegue, sul piano dell’effettualità, che lo Stato legislatore è costretto ad imporre – con la forza – la finzione che sia effettualmente vero ciò che vero non è, vale a dire la perfezione dei legislatori e il consenso informato dei cittadini.
    La UE è la campionessa mondiale di questo gioco di prestigio legislativo: veda ad esempio i referendum nazionali nei quali vari popoli europei si dichiararono contrari a una costituzione UE, ed elegantemente ignorati dai saggi legislatori di Bruxelles.
    Di qui, vari problemi, e non piccoli; primo tra i quali, direi, il problema della sovranità: chi comanda? in nome di che cosa, e a qual fine?

  31. Approfitto dell’intervento di carattere generale di Buffagni per dire anche la mia sul liberalismo.
    Lo farò a partire da una frase di Baldini che cito letteralmente, sperando di non rinfocolare altre polemiche (pare che almeno per me sia diventato sempre più difficile, me ne farò una ragione).
    Ecco la frase di Baldini:
    “Io prendo i diritti sul serio. Questo vuol dire che distinguo la dimensione dei diritti dai problemi di giustizia distributiva, dalle politiche economiche attuate dai governi e dall’economia.”
    Baldini insomma sposa in pieno la teoria politica (comunemente considerata liberale di sinistra) di Rawls come egli la enuncia nel famoso libro “Una teoria della giustizia”.
    Rawls sostiene che le libertà e i diritti debbano costituire la priorità della politica. Un sistema politico liberale deve innanzitutto garantire il massimo di libertà. Solo quando questa condizione sia realizzata, ci si potrà occupare della giustizia, cioè della equità nella distribuzione delle risorse disponibili.
    Sembra una bella teoria, è abbastanza ovvio che ad esempio il diritto alla propria sopravvivenza debba avere priorità rispetto a qualsiasi problema distributivo.
    Tuttavia, malgrado l’aspetto esteticamente gradevole di questa teoria, essa è molto debole.
    Il punto di debolezza della teoria è che a prescindere dai problemi di giustizia che hanno priorità più bassa, sorge il problema di contemperare i differenti diritti, le differenti libertà. Se minimamente entriamo nel merito, ci rendiamo subito conto che essi entrano continuamente in conflitto tra loro, nel senso che la difesa di un determinato diritto quasi sempre comporta il sacrificio di un altro diritto, e quindi tutto rimane su un piano politico, cioè della scelta discrezionale su quale diritto privilegiare.
    Era quello che tentavo, evidentemente con scarsa fortuna di dire nei miei interventi precedenti, se noi prendiamo un determinato diritto, e ne diventiamo alfieri irremovibili, finiamo con il negare altri diritti. Questa è la regola, non dobbiamo far finta di dividerci tra chi difende i diritti e chi invece non se ne cura, il conflitto continuo in uno stato liberale è tra differenti diritti che non possono essere garantiti contemporaneamente, o almeno non nello stesso grado.
    L’esempio che mi viene in mente è quello del conflitto tra chi volesse andare in giro nudo e chi non volesse vedere gente nuda per strada. In un caso abbastanza elementare come questo (e ce n’è di ben più complessi), è evidente che la teoria di Rawls non serve a nulla, si rivela per ciò che è, una semplice petizione di principio.
    Non era quindi per scortesia verso Baldini, che dicevo che il punto di vista dei diritti è errato, non ci porta da nessuna parte, è una cortina fumogena che nasconde la realtà dei problemi che la politica ha di fronte.
    Dopodichè, ognuno può rimanere dlela propria opinione, ma che ragione c’è di fare la caricatura delle posizioni altrui? Non è che io non mi curi dei diritti, penso che si tratti di un approccio errato, tipico di una teoria che parte dall’individuo, e così rimane intrappolata in questa visione ideologica che nasconde la realtà delle cose.

  32. un mio ottimo amico, Vladimir Vladimirovic Putìn, ha definito questo sistema econmomico “kapitalìsm da rutto selvaggio” . lui e io parlavamo tra noi della caratteristica principale di questo sistema economico, la volontà che non esistano più dipendenti . quindi non si vogliono clienti per le imprese, che devono per forza chiudere

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