di Raffaele Donnarumma
[È uscito in questi giorni in libreria Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea (Il Mulino) di Raffaele Donnarumma. LPLC aveva preannunciato alcuni temi di questo libro, che ha definito le sue tesi anche grazie a quelle discussioni. Presentiamo ora le pagine conclusive del volume: argomentano la possibilità di scrivere una storia letteraria del presente, mettendola in relazione con i compiti della critica militante e insieme distinguendola da quella].
Sintomi e giudizi
Per tradizione, la contemporaneità sarebbe il dominio dei giudizi e delle loro contese: cioè, della critica militante. Occorre distinguere, scegliere, rifiutare, puntare su cosa resterà. Questa prospettiva è necessaria e ineliminabile; ma non è, propriamente, quella dello storico. Senza dubbio, storiografia letteraria (o artistica e culturale in genere) e giudizio di valore sono in un rapporto circolare di implicazione. Da un lato, non esiste storia del passato che non sia orientata e diretta da una scelta di canone, anzitutto per salvarsi dalla cattiva infinità dei dati (quella cattiva infinità in cui, invece, rischia sempre di precipitare la filologia); dall’altro il canone ha un fondamento storico, giacché propone come durature e presenti le opere che dicono meglio di altre il loro tempo, e condiviso, perché pone i classici a fondamento di un sapere attuale e comune.
Ma anche se lo considerassimo solo in un’accezione positiva, il giudizio di valore non coincide con il canone. La nozione di canone, infatti, include un decorso di tempo che alla contemporaneità è ignoto; inoltre, il canone introietta ed esprime poteri e istituzioni in cui, una volta di più, il presente non può essere costretto. L’autorevolezza che il qui e ora lotta per conquistarsi non è l’autorità che il tempo trascorso ha affermato e vuole continuare a esercitare. Il giudizio di valore del critico militante è insomma solo uno dei primi passi verso la canonizzazione, alla quale concorrono e concorreranno molte altre istanze. In questo senso, e a differenza della storia del passato, la storia del presente non può davvero farsi forte del canone: naturalmente, propone opere che ritiene più grandi di altre e costruisce una mappa di valori e gerarchie. E tuttavia, anche con questa prudenza, essa rischia di limitare troppo il proprio sguardo. Il problema non è affatto che il futuro potrà abrogare le sue decisioni. In modo empirico, per effetto di un’esperienza non razionalizzabile sino in fondo e per alcune evidenze statistiche, ogni critico sa che esiste una zona di consenso su alcuni autori e alcuni libri, e che non è poi così azzardato scommettere su di essi: sa, insomma, che il canone si sta già costruendo ora, anche se alla sua definizione dovranno operare altri, e che quella definizione non può essere stabilita una volta per tutte. Il problema è piuttosto che una storia che pretenda di parlare del presente solo dall’alto dei suoi picchi non vede abbastanza. Molto più violentemente della storiografia del passato, quella del contemporaneo è anche la nostra autorappresentazione: essa dice come ci pensiamo – e, si capisce, senza nessuna unanimità. È solo a questo punto che sulla distanza e sullo straniamento del contemporaneo si può far valere non l’appartenenza e l’identificazione, ma il coinvolgimento. Ogni storiografia del presente è il frammento di un’autobiografia, mentre la storiografia del passato è sempre un romanzo. Se lo storico della contemporaneità deve prendere posizione, è per dichiarare il proprio punto di osservazione (e, quindi, per relativizzarsi e consegnarsi alla discussione), più che per sentenziare su qualità e altezze (che, del resto, troppo spesso fanno appello a criteri tanto generali da essere sfuggenti, o a propensioni così precise da risultare settarie). Lo storico della contemporaneità non parla in nome di principi, di norme, di poetiche: di nulla, insomma, che tenda a escludere e separare in ragione di qualcosa che si mette fuori del tempo. Cerca di far parlare, invece, il suo tempo in quello che lo definisce come presente: per somiglianze e differenze, misura cioè l’attuale sulla memoria del passato.
Lo storico della contemporaneità riconosce dunque che il canone non può affatto essere aggirato, ma non è spinto dalla necessità prioritaria di costituirlo. In un certo senso, il miglior contributo che può dare alla sua formazione è metterlo momentaneamente in mora, sottrarsi al desiderio di trovare maestri e all’ansia di erigere monumenti. Ma cosa, allora, può guidare lo storico del presente? Se il suo scopo è collaborare, nel modo parziale e obliquo che la letteratura permette, a una storia del presente, la sua ricerca è mossa appunto dalla ricerca dei segni in cui il presente parla. Posto infatti che il disegno saggistico è preordinato da una serie di problemi comuni, è l’individuazione di questi ultimi a ispirare la scelta dei testi da analizzare, che non è detto coincidano con quelli migliori. Si tratta, in fondo, di una misura di libertà: il giudizio rischia a volte di trasformarsi in pregiudizio, e il feticismo del capolavoro impedisce di seguire una serie di tracce meno gloriose, ma non meno eloquenti.
A queste tracce, darei il nome di sintomi[1]. Un sintomo è un segno piccolo ma visibile di qualcosa di più grande e nascosto; a individuarlo, occorre un sapere, senza il quale esso non potrebbe essere neppure scorto, e tanto meno parlare di altro. Esso dà fondamento alla diagnosi, poiché non si limita affatto a confermarla, ma può sempre correggerla. Il sintomo non è una sineddoche, cioè pars pro toto, poiché tra il sintomo e ciò di cui parla c’è una relazione di eterogeneità anziché di inclusione; a maggior ragione, il sintomo non può essere un simbolo, perché esso non incarna un concetto astratto né lo rivela, ma è semmai la chiave di accesso precaria a qualcosa che, per come lo si voglia pensare, non è un tutto. Infatti, esso prescrive un criterio di selezione: nel crescere senza numero dei segni, e alla luce della teoria che ispira e che lo definisce, ci orienta in un paesaggio dove, altrimenti, ci perderemmo.
Ma di cosa è segno, appunto, il sintomo? Quale forma dà al presente? Che sguardo presuppone su di esso? In medicina, esso addita un malessere: dunque, una lettura per sintomi trova nelle opere le manifestazioni di un disagio, che è il disagio della contemporaneità. Questo non significa ridurre le opere a didascalie, sebbene, a onore del vero, alcuni testi siano poco più che testimonianze non di un mondo che rispecchierebbero, ma di schemi che si impongono su di esso, e che possono avere origini diverse (un’ideologia, la dittatura del senso comune, un genere letterario, una legge del mercato o della moda). Né l’integrità dell’opera, né le opere nel loro complesso sono sintomi: se si limitassero a consentire l’enunciazione di una diagnosi, sarebbero davvero poca cosa. Leggere nei testi i sintomi non significa propriamente neppure, scartata la volontà del canone a innalzare monumenti, considerarli come documenti. Dove il documento mostra in modo lineare e aperto, il sintomo è obliquo e, talvolta, poco intellegibile sia per chi lo emette, sia al primo sguardo di chi osserva. Mentre il documento sembra presupporre un venire della storia alla trasparenza nelle opere, il sintomo allude al fatto che la storia si manifesta tanto quanto si nasconde – proprio come una disfunzione o un tic nevrotico non rimandano alla loro causa in modo univoco e richiamano al contrario molte cause diverse, non tutte pertinenti. E dove il primo fa pensare a un’interezza da decifrare, ma comunque già data, il secondo è un frammento la cui stessa dichiarazione di esistenza viene dall’interpretazione. Se il documento è un atto della coscienza, il sintomo rimanda inevitabilmente a un’ermeneutica dell’inconscio, cioè dell’opacità. Il sintomo allude infatti a una produzione di senso verificabile, ma non pianificata dalla ragione progettuale, dispersa, a tratti inapparente. Questo non comporta affatto, come naturale, che si sottovalutino le interpretazioni dichiarate che le opere danno del loro tempo; semmai, che anche quando ci si lascia guidare da esse, non ce ne si può accontentare. Il lavoro della critica, in effetti, inizia proprio là dove finiscono le asserzioni aperte dei testi e la loro parafrasi.
Cercare nei testi i sintomi del tempo vuol dire insomma esibire la responsabilità dello storico, che non può essere arbitrio come non può esserlo la perizia di un medico; mostrare la fatica e l’azzardo del suo lavoro, che mette alla prova la sua dottrina e che convoca anche il sapere sfuggente ma ineludibile dell’esperienza; rispettare la molteplicità e la dispersione del presente, che nessuna somma di sintomi potrebbe mai esaurire; ricordare che ogni opera, quanto più vale, tanto meno si lascia risolvere nei segni che parlano del nostro immaginario sulla storia dalla sua pelle, dai suoi organi nascosti, dai suoi movimenti; misurare ogni discorso su altri discorsi, poiché l’oggetto delle rappresentazioni non è un dato positivo, ma il limite che non toccano mai, e che dichiara il loro stesso limite.
Per questo, non riesco a credere, come sostiene il celebre aforisma adorniano, che «le forme dell’arte registrino la storia dell’umanità più esattamente dei documenti»[2]. Le forme dell’arte non sempre tengono gli occhi alla storia, se ne sono l’espressione pagano il prezzo di mediazioni statutarie e talvolta vogliono occultarla o sfuggirne (il postmoderno, in effetti, è stato anche questo). Ciò che inscenano, semmai, è una casistica di sguardi e accecamenti, senza alcuna garanzia di accesso al mondo né in se stesse, né per noi che le leggiamo. Alla verità si può tendere e resistere; l’eloquenza (del resto, sospetta) non esclude mai la reticenza. La nozione di sintomo, meglio che quella di documento, può rendere conto di questo processo; ed è proprio nella sua ricerca sintomatica che la storia della letteratura presente è storia del presente – cioè interpretazione fondata su fatti che non sono evidenze, e che perciò si mantiene problematica, aperta, non garantita.
Ancora meno del medico, lo storiografo dispone di analisi e protocolli che garantiscano la correttezza della sua diagnosi. E del resto nulla di più inutile, nulla di più falsificante che presentarsi al di sopra delle parti o, peggio, simulare l’imparzialità della scienza. In fondo, la legittimità che lo storiografo chiede è quella di chi cerca di tirare fuori qualcosa di vero da quello che su cui riflette – e a questo, non saprei dare nessun altro nome che quello di uno sforzo di onestà.
Note
[1] L’idea di una storia per sintomi, libera dalle coazioni del giudizio di valore, è proposta anche da D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2011, pp. 101-111.
[2] Th. W. Adorno, Filosofia della musica moderna [1949], Einaudi, Torino 2002, p. 47.
[Immagine: Edward Burtynsky, VW Lot #1, Houston, Texas, USA, 2004. (gm)].
D’accordo, il sintomo non è né un simbolo né una sineddoche, ma per essere euristicamente feconda e metodologicamente controllabile la lettura “sintomale” qui proposta ha da confutare il sofista che diceva: “Oh, Socrate! io vedo il cavallo ma non la cavallinità”. In realtà, lo storico del “presente come storia” dovrebbe saper vedere insieme, strettamente connessi, cavalli e cavallinità, e ciò significa che non può pronunciare alcun giudizio senza una teoria differenziale della temporalità. Storiografia letteraria, teoria della letteratura ed epistemologia del discorso storico sono dunque indisgiungibili e formano, pur restando distinte, un plesso unico.
“…ricordare che ogni opera, quanto più vale, tanto meno si lascia risolvere nei segni che parlano del nostro immaginario sulla storia dalla sua pelle, dai suoi organi nascosti, dai suoi movimenti; misurare ogni discorso su altri discorsi, poiché l’oggetto delle rappresentazioni non è un dato positivo, ma il limite che non toccano mai, e che dichiara il loro stesso limite.” Sembrerebbe, per usare un’immagine di “Alice nel paese delle meraviglie”, che al tipo del critico letterario delineato da Donnarumma interessi “il sorriso del gatto”, ma non “il gatto senza sorriso”. Sennonché, se è necessario riconoscere la realtà delle rappresentazioni, ciò non implica il negare che in fin dei conti esse rappresentano qualcosa al di là di esse. Il discorso ha un’importanza vitale, ma altrettanto importanti sono le forze materiali, storicamente determinate, che gli danno forma, e se il linguaggio non potrà mai mai riuscire a cogliere una verità assoluta, questo non significa che esso sia il ‘caput mortuum’ di un'”ermeneutioca dell’opacità”.
“In fondo, la legittimità che lo storiografo chiede è quella di chi cerca di tirare fuori qualcosa di vero da quello su cui riflette – e a questo, non saprei dare nessun altro nome che quello di uno sforzo di onestà.”
Se questa è la conclusione del discorso sviluppato da Donnarumma intorno al problema della storiografia letteraria della contemporaneità, è forte la tentazione di commentarla ricorrendo al verso della oraziana “Ars poetica”: “Parturient montes, nascetur ridiculus mus”. “Uno sforzo di onestà” è infatti, dal punto di vista, dell’analisi critica, per un verso troppo e per un altro verso troppo poco; è, insieme, irrefutabile e inaccettabile. A meno che non si ritenga di elevare a criterio storiografico la filosofia del farmacista Homais o un soggettivismo kantiano ‘ad usum Delphini’.
@ Barone
Guardi, mi deve proprio scusare, ma fra cavalli, gatti, topi e delfini non è che sia riuscito a capirci molto.
Ignoro cosa sia la cavallinità: non sono un platonico.
Se uno negasse che le rappresentazioni rappresentano qualcosa, cioè che sono rappresentazioni, sarebbe un animale da aggiungere al serraglio di sopra.
Quanto alle «forze materiali, storicamente determinate» dubito che diano «forma» alla letteratura: è semmai più interessante vedere come le forme resistano alla storia di cui parlano. L’immaginario è proprio questa partita doppia.
Non sia ingenuo, e non sottovaluti l’onestà: «l’umiltà non era/ vile, il tenue bagliore strofinato/ laggiù non era quello di un fiammifero».
Sa che ho un ritratto di Flaubert qui, davanti alla scrivania? Homais è una delle sue invenzioni più straordinarie. Lei ha qualcosa del suo stile, devo riconoscere.
@ Donnarumma
@ Donnarumma
“Molto più violentemente della storiografia del passato, quella del contemporaneo è anche la nostra autorappresentazione: essa dice come ci pensiamo.” “Ogni storiografia del presente è il frammento di un’autobiografia, mentre la storiografia del passato è sempre un romanzo.” Ha ragione a dire che Lei non è un platonico: in effetti, nel sommo filosofo vi è fin troppo realismo (Dio ce ne scampi e liberi!). Leggendo queste Sue enunciazioni, si è invece portati a pensare (non al platonismo ma) ad una variante estrema, tendenzialmente onanistica e solipsistica, di soggettivismo. Per quanto riguarda cavalli, gatti, topi e delfini, vedo che la zoologia le crea un certo disagio. Eppure il vivente non umano può infondere un po’ di vita anche in filosofemi così esangui e indeterminati da meritare di essere indagati attraverso la Sua “ermeneutica dell’opacità”. Infine, se si tiene conto che l’arsenico che assume Emma Bovary proviene proprio dalla sua farmacia, Lei merita molto più di quanto meriti io, di incarnare, sul piano critico e storiografico, il personaggio di Homais.
La cavallina esterna: “antispecismo rules”
Creda: nessuna bestia mi crea un disagio pari all’imbarazzo che mi dà lei.
Adieu!
@Donnarumma
A me il suo saggio sembra molto interessante; proprio per questo, forse, mi fa venire alcuni dubbi. Cercherò di essere sintetica e chiara, ma mi scuso in anticipo se non riuscirò nel tentativo, dal momento che so di avere ancora confusione al riguardo.
– Il problema principale che mi pongo è questo: se il critico che cerca di tracciare una storia del presente si basa su “una zona di contendo su alcuni autori e alcuni libri”, il risultato non sarà sempre condizionato da ciò che quel critico ha letto e studiato fino a quel momento? Il suo sguardo non sarà sempre falsato, in qualche modo?
“Ogni storiografia del presente è il frammento di un’autobiografia, mentre la storiografia del passato è sempre un romanzo”: sono d’accordo con lei. Io stessa mi servo di almanacchi, storiografie compilative, etc…, ma non le amo; una storiografia mi persuade (in positivo o in negativo) quando c’è una tesi critica di fondo. La storia della letteratura del Novecento è fatta soprattutto di “racconti a tesi”: Sanguineti definisce in questo modo le antologie di poesia, ma non vale solo per la poesia. Le ricostruzioni che hanno inciso sul canone (da De Sanctis a Contini, da Luperini a Debenedetti, da Berardinelli ad Asor Rosa, etc… Ma penso anche al saggio che lei cita di Giglioli, alla recente antologia di Cortellessa per la narrativa italiana e alla ricostruzione di Mazzoni sul romanzo – quest’ultimo caso potrebbe sembrare meno pertinente, ma l’archeologia di un genere è comunque ripercorsa per indicare una precisa scelta di canone, che emerge in modo chiaro nei capitoli finali) sono tutte basate su ipotesi di fondo molto “parziali”. Non a caso i sintomi individuati dai critici appena nominati (e da molti altri) differiscono fra loro; e non accade solo perché scrivono in diversi momenti storici. Alcune di queste ipotesi sul presente sono risultate vincenti, altre lo sono sembrate solo per una breve stagione (e qui molto ci sarebbe da dire sulla poesia); il punto è che il canone letterario è sempre il risultato di un conflitto di interpretazioni. Ne ha parlato Luperini in varie sedi, ne parla lei qui, dunque non ripeterò cose ormai note.
Ricorrerò alle sue categorie, perché le ho trovate convincenti: io vedo il rischio di scorgere solo i sintomi che si conoscono già, e che quindi si cercano. Forse Eros Barone direbbe che temo forme di hegelismo. Il canone non solo non è mai neutrale, ma non è neanche originale: si eredita sempre quello di qualcuno, o se ne è influenzati.
Questo mi sembra un primo problema.
– Seconda questione: se il canone è legato alla ricezione, e dunque ai valori di un’epoca, il metodo che lei indica funziona e ha senso per la storiografia del passato. La letteratura italiana comprende almeno otto secoli, è normale che ci sia una selezione; posto che cambia nel tempo, sempre, forse è giusto che avvenga in base alle domande che si pone un presente circoscritto. La memoria è sempre selettiva. Oggi di Vincenzo Monti ci importa meno di quanto non accadesse appena un secolo fa, sia per cambiamenti nei rapporti fra generi letterari, sia perché oggi cerchiamo altro nella poesia. In questo “altro” rientra ancora Leopardi, però, nonostante sia nato appena quarant’anni dopo Monti. Sto semplificando, certo.
Veniamo al presente: come uscire dall’impasse per la quale ogni epoca percepisce una frattura rispetto a ciò che la precede, e vede macerie là dove una diversa (e dilatata) prospettiva permetterebbe di individuare continuità? E, se il canone è “a parte subiecti”, come realizzarne uno in un’epoca così plurale (e qui cfr. le scelte dell’omonima antologia, i problemi e il dibattito creato da ogni antologia di poesia) senza risultare miopi? Perché la parzialità dell’interpretazione, cioè il fatto che si riconosca che questa non è mai parte di un tutto (il sintomo non è una sineddoche, come lei giustamente nota), dovrebbe renderla automaticamente legittima? Dunque ogni ricostruzione del presente lo è?
Il suo saggio mi interessa, perché i problemi metodologici innescati dal fare una storia del presente mi riguardano. Trovo le sue pagine convincenti, ben argomentate, molto sensate; ma temo di non vedere una soluzione. Da qui le mie domande.
L’intervento di Claudia Crocco pone due questioni: quella del canone e quella del rapporto tra continuità e discontinuità nella storia (e quindi nella storiografia) della letteratura. Riservandomi di fare qualche osservazione sulla prima questione, mi sembra utile approfondire uno degli spunti contenuti nel predetto intervento e cioè il carattere paradossale ìnsito nell’idea di discontinuità. Carattere che emerge non appena si riflette sulla circostanza per cui, se gli effetti della discontinuità dispiegassero tutta la loro carica dirompente, gli stessi criteri che che ne avrebbero consentito l’identificazione subirebbero, a loro volta, una trasformazione tale da rendere il processo complessivo (in questo caso, il processo complessivo della storia della letteratura e quel suo riflesso che è il campo della storiografia letteraria) non più intelligibile. Quando una discontinuità risulta invece intelligibile, ciò significa che può essere anche non sufficientemente radicale. Insomma, se si è in grado di parlare di cambiamento è perché il cambiamento non è stato poi così incisivo; ma quando un cambiamento è veramente incisivo, allora c’è il rischio che superi le nostre capacità di comprensione. In altri termini, il cambiamento deve presupporre una continuità, un soggetto che sia suscettibile di mutamento; diversamente, ci si trova di fronte a due stati di cose incommensurabili.
In definitiva, quella che sempre risorge è la dialettica, complessa, multiforme e non di rado aporetica, tra il passato e il presente, laddove, se la cultura alta indulge ad una concezione feticistica del passato, il populismo culturale tende invece a cancellarlo. Ma la verità è che nostalgia e amnesia sono due facce della stessa medaglia. Occorre pertanto affermare, per un verso, che una società che si alimenta esclusivamente della propria contemporaneità è senza dubbio una società povera, in quanto è sostanzialmente unidimensionale, e insistere, per un altro verso, sul fatto che ogni tradizione è una costante selezione dei propri antenati che si compie sempre a partire dall’ottica non neutrale, ma politicamente e culturalmente impegnata, del presente (ottica che trae la sua giustificazione teoretica dall’assioma spinoziano secondo cui “omnis determinatio est negatio”). Forse la soluzione di questi problemi metodologici della storiografia letteraria e, segnatamente, di quella inerente alla contemporaneità, può consistere, seguendo l’esempio dell’antologia della poesia del ‘900 costruita da Edoardo Sanguineti e allargando tale esempio ad altre epoche, nella ricerca e nella valorizzazione di altrettanti equivalenti della “funzione-Lucini”, in modo da creare un’alternativa sia alla venerazione museale del passato sia ad una sua barbarica obliterazione. Un’avvertenza metodologica fondamentale resta, comunque, come mi è capitato di osservare a suo tempo nel dibattito sull’insegnamento della filosofia che si è svolto in questo stesso sito, il duplice riconoscimento, da un lato, della possibilità di giungere ad una verifica controllabile degli asserti storiografici in cui si concreta l’operazione conoscitiva condotta “per speculum et in aenygmate” dallo studioso, il quale, pur cosciente della relatività di tali asserti, non li abbandona alla “notte in cui tutte le vacche sono nere”, ma ne dimostra, attraverso il ‘combinato disposto’ dei metodi (induttivo, deduttivo, abduttivo ecc.), il variabile grado di oggettività (documentale, filologica e ‘sintomale’), e, dall’altro, del carattere organicamente (e non solo metodologicamente) plurale e conflittuale delle interpretazioni, perfettamente omologo, nel campo sovrastrutturale, al carattere organicamente plurale del capitale, che è sempre conflitto e relazione tra più capitali (parimenti, in un altro campo sovrastrutturale, non vi è filosofia che non sia una pluralità conflittuale di ‘filosofie’).
@ Crocco
Con l’aria che tirava in questo thread, il semplice fatto che lei esponga le sue perplessità senza giocare a fare la Diotima del pianerottolo mi allarga il cuore. Per gratitudine, e anche perché non saprei fare diversamente, io non mi metterò a fare lo Hegel dell’isolato. Cerco di risponderle per punti, magari con qualche ovvietà.
Non esiste nessuno sguardo che non sia parziale e situato – ma questo non vuol dire necessariamente falsato. Per questo invoco la musura deontologica dell’onestà.
Il presente non può ereditare il canone da nessuno, ma semmai provare a costituire un’eredità (anche se io non credo che questo sia il compito proprio della storiografia). C’è un rapporto di reciprocità tra le cose che uno legge e le categorie che si fa per interpretarle, quindi per i sintomi che individua. Se uno si limita a cercare le conferme del già noto, o del pregiudizio, fa un lavoro, prima che manchevole, avvilente. Bisogna semmai essere capaci di adattarsi ai propri oggetti, e ricavare da quelli (non dalla Teoria, o dal Metodo, o dall’Idea) il proprio sapere. Non ho una filosofia della storia, se non perplessa e precaria. La letteratura, del resto, non ci dice affatto dove siamo, ma dove ci pensiamo (e il plurale è un plurale vero: dove molti si pensano, in modi diversi).
L’oggetto specifico di «Ipermodernità» non è la costituzione di un canone, ma cercare di capire che cos’è la narrativa oggi, che cosa ci dice del nostro presente, come possiamo definirla in relazione al nostro passato prossimo (il postmoderno). Naturalmente, mica nascondo di considerare grandi scrittori Roth o Littell, Bolaño o Wallace, Siti o Moresco; e neppure che non faccio piovere su tutti questi lo stesso amore poligamo e indiscriminato. Credo però che per uno storiografo il canone finisca per essere un vestito troppo stretto. In fondo è una misura di libertà mettersi ad ascoltare testi che si pensa non resteranno, ma che fanno capire qualcosa di essenziale sul presente.
Le cose stanno diversamente per il passato, invece. Qui la questione del canone è più urgente, e vale a salvarsi dalla cattiva infinità dei filologi. Ma anche qui uno può scoprire qualcosa di vero là dove non se lo aspettava – altrimenti, come potrebbe cambiare il canone? È giusto che la memoria sia ingiusta: tengo «Sull’utilità e il danno della storia per la vita» sul comodino.
Gli esempi di ricostruzioni che lei cita sono diversi anche perché si esercitano su ambiti diversi. Limitiamoci ai più vicini. Cortellessa costruisce una mappa molto attenta e schierata della narrativa recente (per altro, scegliendo 30 scrittori per 15 anni mostra di non essere certo un rigorista invasato dai propri amori, o di agire per esclusioni); Mazzoni ripercorre l’intera storia di due generi capitali (e lì sono soprattutto le escusioni a parlare). Io non ho inteso fare né l’una, né l’altra cosa: non volevo proporre gli scrittori che val la pena di leggere, ma i narratori che ci fanno capire l’oggi; non potevo tracciare una storia di lunga durata, ma volevo segnare l’estensione e i limiti del presente.
Non è che la parzialità della ricostruzione la renda legittima: ma dichiarare la natura della propria parzialità (cosa mi interessa? cosa cerco? dove vado a parare?) la rende verificabile nel solo modo in cui lo sono le discipline umanistiche: esponendole alla discussione. Non è legittimo, invece, darsi le arie della nottola di Minerva (impagliata, per lo più), millantare l’imparzialità della scienza, spacciare poetiche preferenze ripulse per rispecchiamenti del mondo com’è (mentre è legittimo dire come si vorrebbe che il mondo fosse). Bisogna andare fino in fondo nella parzialità, nei due sensi della parola: perché guardo questa parte? qual è il mio partito (cioè, la mia rete di concetti, molto più che la parte che riconosco come mia)?
Non vedo l’impasse che lei cita. Fare storia vuol dire, anzitutto, raccontare sia le fratture sia le continuità (ma senza le prime, per come la vedo io, non avrebbe senso occuparsi delle seconde).
Scusi se sono stato epigrammatico, senza riuscire a essere abbastanza breve.
@Barone
In realtà non intendevo evidenziare il rapporto tra continuità e discontinuità, o almeno non nel modo che intende lei. Mi riferivo più ad una questione di prospettiva. Tutto il dibattito sul postmoderno in Italia, ad esempio, oggi può essere senz’altro valutato meglio rispetto a trenta (ma anche a quindici) anni fa. Questo è normale, è una conseguenza della distanza storica acquisita e dell’evoluzione di un dibattito critico. Fra altri quindici anni anche la categoria di “ipermoderno” sarà stata oggetto di discussione, e non possiamo sapere che tipo di storia del presente verrà raccontata, né se e quanto questa categoria verrà impiegata.
Anche per la poesia (dove lo stesso dibattito sul postmoderno è stato molto meno acceso, e più confuso) vale un discorso simile: se antologie e saggi degli anni Ottanta e Novanta annunciavano continue fratture e identificavano ovunque opere che avrebbero rivoluzionato i destini della poesia italiana, oggi molte di quelle raccolte sono state dimenticate, e i saggi che ne parlavano con tanta enfasi ci appaiono irrimediabilmente invecchiati, inutili se non in quanto a loro volta documenti. Per tracciare la storia della poesia degli ultimi sessant’anni ormai si discute su uno, al massimo due momenti di frattura.
Quanto alla “funzione-Lucini” di Sanguineti, non mi pare un ottimo esempio. Personalmente, penso che sia stata una delle scelte più infelici della storiografia critica (e dell’antologia) di Sanguineti: lo scopo principale era far risaltare la Neoavanguardia come traguardo finale della poesia contemporanea italiana. Questo avveniva a discapito di altre esperienze poetiche. Ma ormai sono cose note, fanno parte di un canone acquisito (al quale si è giunti anche grazie alle riflessioni critiche di Sanguineti stesso).
Comunque mi dispiace, ma in realtà non sono sicura di avere compreso tutto il suo discorso. Perdoni un mio eventuale fraintendimento, dunque.
@Donnarumma
La ringrazio per aver risposto. Non mi pare proprio che abbia detto ovvietà; al contrario, scrive cose sulle quali mi è utile riflettere.
Provo a risponderle ancora, ma solo su un punto.
“In fondo è una misura di libertà mettersi ad ascoltare testi che si pensa non resteranno, ma che fanno capire qualcosa di essenziale sul presente”: sì, sono d’accordo. Molti autori inclusi nel “Pubblico della poesia”, ad esempio, sono importanti per quest’ultimo motivo, e per null’altro ( l’introduzione di Berardinelli a quell’antologia lo chiarisce). Il problema, però, è che sono stati spesso sopravvalutati e considerati capofila o precursori di genealogie successive (come ho scritto poche righe più sopra rispondendo ad Eros Barone). Mi chiedo dove sia stato l’errore critico-storiografico, e come si possa fare a non replicarlo.
Anche dichiarare la propria parzialità, in fondo (nel senso che lei chiarisce molto bene, ovvero ponendosi queste domande:”cosa mi interessa? cosa cerco? dove vado a parare? […] perché guardo questa parte? qual è il mio partito, cioè, la mia rete di concetti, molto più che la parte che riconosco come mia?”), non è facile né scontato. Neanche scegliere un tipo di ricerca e vederne il senso rispetto alle altre lo è.
Ma insomma, non la tedierò oltre. Lei ha evidenziato sia ciò che l’ha spinta a parlare di ipermoderno (e la lettura integrale del suo libro servirà a comprendere meglio), sia le risposte che si è dato davanti ad alcuni problemi metodologici. Condivido i problemi, apprezzo le risposte, mi rimangono molti dubbi. Ci penserò. Grazie ancora per il suo tempo.
@ Claudia Crocco e Raffaele Donnarumma ( posto che leggerò il saggio e magari se ci sarà occasione chiederò lumi )
@ Crocco
sullo sguardo falsato, se ho ben capito. A me il problema sembra proprio il misurarsi con uno sguardo che veda il presente. Se la letteratura ha la pretesa di parlare del presente, e se la cosa è accettabile per un artista, non lo è per un critico.
Per questo @ Donnarumma
non capisco cosa intende per narratori che ci fanno capire l’oggi. Come se ci fosse un “oggi” speciale che solo alcuni narratori riescono a cogliere svelandolo. Oppure come se ci fosse un qualcosa da capire che ci sfugge. Se non può esserci uno sguardo oggettivo sul mondo, è soprattutto perché riferirsi al mondo, alla storia, al presente, non ha molto senso. Io leggo e rileggo Wallace, ma non penso affatto che mi faccia capire il presente attraverso la sua letteratura. Mi pare invece che si sia concentrato su alcuni elementi fondamentali dell’umano, elementi non peculiari del presente, e con lucidità.
@ Crocco
Son qui proprio per rispondere, le pare?
Il pubblico della poesia fa quello che a me non importa fare in questo libro. Però, non parlerei di errore: Berardinelli scommetteva su certi autori, e sta nel gioco perdere la scommessa che, in quegli anni, aveva un significato. Stabilire genealogie, del resto, è un’operazione distinta dall’attribuire primati. Io posso sapere che il modello di sonata di Beethoven deriva da Muzio Clementi, piuttosto che da Haydn o Mozart; ma questo non vuol dire spedire Clementi nel Parnaso, a braccetto con Beethoven, Haydn o Mozart (povero, poi: ha anche scritto musica che non è malaccio).
Quando dico che la storia del presente è autobiografia anziché romanzo, voglio dire che è il racconto di quello che conta ora per noi (inteso come plurale, non come entità collettiva e unanimistica). I suoi e i miei nipoti decideranno poi loro, ma sarebbe folle voler decidere per loro. Posso firmarle qui una dichiarazione da verificare tra 100 anni, in cui proclamo che secondo me Bolaño e Roth resteranno; ma è un gioco un po’ fatuo: il canone sta in un mutare della storia del quale non sappiamo nulla. Come possiamo prevedere di cosa avranno bisogno i lettori del futuro? Faranno loro, decidendo, in verità, non se avevamo ragione o torto, ma se i nostri e i loro orizzonti sono ancora comparabili. Del resto, chi crede che amiamo Dante per i motivi per cui lo celebra De Sanctis, o che Petrarca ci interessa come interessava a Bembo? Restare nel canone non significa affatto restare immutati – anzi.
La scelta di un oggetto di studio è decisiva, specie di fronte a una doxa accademica per cui tutto, dalla percetuale di endecasillabi di settima in Meo Abbracciavacca all’uso dei pronomi di persona nell’ultimo romanzo di Wu Ming, può essere interessante. È il problema che rende un oggetto di indagine degno o meno. Per questo tengo a dichiarare quali sono i problemi che mi sono posto nello scrivere un saggio.
@ DFW vs RB
Temo proprio che per lei il pezzo di sopra sarà una delusione – o forse addirittura un motivo di scandalo, come una salumeria per un vegano. In effetti io penso proprio che certi scrittori ci fanno capire il presente in quanto distinto dal recente passato e in quanto non conguagliabile sotto l’«umano» senza tempo né luogo (una categoria che mi fa un po’ paura: ma come vede ciascuno ha le sue fisse). Per essere precisi, non penso che ci sia «un “oggi” speciale che solo alcuni narratori riescono a cogliere svelandolo»: penso sì che ci sia un oggi speciale, in quanto diverso da ieri, ma che tutti gli scrittori che meritano questo nome lo svelano e lo nascondono insieme. Poi, se vuole, penso anche che esistono libri che non dicono un bel nulla: ma quelli li lascio perdere, come immagino faccia pure lei.
Non capisco perché mai riferirsi all’oggi non abbia senso (e neppure quello che dice sullo sguardo falsato): lo facciamo dai tempi di Omero e della Bibbia, e dubito sia una forma di demenza consustanziale all’umano.
Non faccia torti a Foster Wallace, del resto: quello che racconta degli Incandenza non vale per una famiglia cinese dell’epoca Ming e, forse, neppure per una famiglia cinese che vive oggi in una megalopoli industriale di cui ignoriamo anche il nome.
Ormai non mi scandalizza più nulla. Il pezzo l’ho già letto, ma aspettavo di leggere il saggio intero, però gli ultimi due commenti mi hanno permesso di chiarire quel primo dubbio che mi era venuto in mente.
L’umano non è senza tempo né luogo, è homo sapiens. Certi aspetti sono simili. Foster Wallace torna spesso sulla consapevolezza eppure in Infinite Jest a un certo punto arriva la riflessione per cui le scelte vere ( quelle anche che cambiano la vita ) le facciamo sul momento. Questo, se è vero, e oggi molti studi stanno a dimostrarlo, è vero per me te i cinesi oggi e i cinesi ieri. Ma questo è solo un aspetto di come siamo fatti, non dipende dalle circostanze e non necessita della letteratura per saperlo. E bello leggerlo in un romanzo ed è interessante studiarlo.
Riguardo all’oggi. Cos’è quest’oggi speciale? e come fa a sapere che uno scrittore gli sta svelando qualcosa se non lo conosce? e perché mai uno scrittore ( e una scrittrice ecc. ) sarebbe più esemplare o più esplicativo ( e perché mai ciò che riguarda gli Incandenza è qualcosa di rivelatore? )? Almeno il canone mirava al mondo letterario, il suo modo ( che comunque in generale apprezzo di più, tolti questi dubbi ) aspira alla totalità. Il presente è forse un oggetto? Come si fa a distinguerlo dal passato? da quale passato e dal passato di chi?
@Donnarumma
Raramente mi succede di dare centralità in uno studio alle percentuali di endecasillabi di settima (ma può capitare), mentre non penso di essere interessata all’uso della prima persona nei romanzi di Wu Ming. Ma, al di là di questo, credo di aver capito cosa intende. La ringrazio di nuovo, e rifletterò meglio su tutto.
@ DFW vs RB
– “Almeno il canone mirava al mondo letterario, il suo modo ( che comunque in generale apprezzo di più, tolti questi dubbi ) aspira alla totalità”.
Sì, lo so che qui si rivolge a Donnarumma; ma mi incuriosisce una cosa. Sia in quest’ultima frase, sia quando – nel suo commento precedente – mi fa notare che “se la letteratura ha la pretesa di parlare del presente, e se la cosa è accettabile per un artista, non lo è per un critico”, sembra alludere ad una separazione fra ciò di cui dovrebbe parlare la letteratura (il mondo, il presente, l’umano, o non ho ben capito cos’altro) e ciò di cui dovrebbe parlare la critica (il ‘mondo letterario’). Forse sono io che interpreto male, ma questo mi pare poco condivisibile. Di cosa dovrebbe occuparsi la critica, secondo lei? Solo della ricostruzione di elementi formali? Non è un po’ poco?
Un’altra cosa (impopolare). Secondo me sono decisamente “elementi dell’oggi”, come li definisce lei, proprio quegli aspetti della poetica di DFW che rendono La scopa del sistema e Verso Occidente testi illeggibili, mentre Infinite Jest per me è un grande romanzo – anche se probabilmente non lo considero così importante come è per lei. Non vorrei aprire una digressione su DFW in questa sede, dunque scusi la frase lapidaria.
Non lo dico con spirito polemico, mi creda. Condivido alcuni dei problemi che si pone; talvolta le sue domande sono anche le mie.
@ Claudia Crocco
Lapidaria, nel senso di lapide ( sensibile – offlaga disco pax )
La digressione è una delle cose per cui vale la pena vivere ( parrebbe Sorrentino, urgono commenti con note ai margini )
sei troppo gentile però, io sono un gran rompiscatole, leggo e rifletto
:)
@ Claudia Crocco
Allora, partendo dalla tua domanda ho pensato che l’idea di sguardo falsato rimanda a un possibile sguardo veritiero. Mentre è chiaro che ogni sguardo sarà condizionato e limitato, non credo ci siano sguardi veritieri o falsati, perché al di là degli aspetti formali non credo esista un presente da osservare. Il presente è un concetto di comodo del quale ognuno descriverà la porzione che riesce a cogliere, ma che non ha un centro o un significato da cogliere o da storicizzare. Ma su questo non ci giurerei e domani potrei pentirmi, anche perché non so neanche se sto riuscendo a esprimere quello che mi era venuto in mente. Invece circa la separazione: premesso che penso che né la letteratura né la critica hanno compiti da svolgere, e possono benissimo sovrapporsi, dal critico mi aspetto che non si prenda sul serio quando esula dal dirmi cosa grossomodo si può capire da un testo e come collocarlo accanto agli altri prodotti ( il fatto che uno si preoccupi dei testi che rimarranno un giorno lo trovo divertente e malinconico, ma come in genere gli edifici culturali, come il fatto che alla scuola dell’obbligo si studia tizio o caio ).
Sul resto: premesso che sono piuttosto ignorante, che ho letto pochi saggi letterari e grossomodo sei settecento libri ( sto finendo il corso serale ), in che senso sono illeggibili ( in generale non capisco perché si dice che DFW sia difficile da leggere ) i due che citi in rapporto alla loro poetica? La scopa del sistema l’ho letto tre volte e mi ha sempre fatto ridere un mondo e mi piace moderatamente. Verso occidente una volta sola e mi ricordo che era palloso. Ho letto l’Ulisse con gusto e ridendo come uno scemo ( senza capire nulla ovviamente, ventenne o giù di lì ), mentre faticavo persino a voltare le pagine di Gita al faro. Non so che elementi ci sono in La scopa del sistema, come ha detto lo stesso autore è una sega mentale ( esistenziale ) brillante. Verso occidente invece è una sega mentale ( meta-narrativa ) fatta male. Infinite Jest per ora mi mette in modalità bimbominkia, ma per me è semplicemente intrattenimento puro. Immagino che mi sfugga qualcosa, ma non capisco cosa c’entra il modo in cui scrive qualcuno con le cose di cui parla. Sto leggendo Il demone di mezzogiorno di Andrew Solomon e sulla depressione fa capire molto di più del Pianeta Trillafon o delle metafore della tipa che ora non mi ricordo per cui era come se ogni cellula stesse sprofondando. Forse leggendo un romanzo si compie un esperienza diversa, non saprei, ma voglio delle prove, neuroimaging.
@ DFW vs RB
L’homo sapiens esiste da 200.000 anni. Ammetterà che è un po’ troppo per uno che si occupa di un periodo di storia letteraria che va dal 1965 circa a oggi. Ci sono anche fenomeni che accomunano me a un paguro bernardo o a una sedia ikea (siamo tutti sottoposti alla forza di gravità, tanto per dire): ma che vuole? Non sono le cose che interessano me in Ipermodernità – per esaltanti che siano. Nel libro, del resto, ci dovrebbero essere le risposte alle sue domande. Lei è simpatico, sia anche gentile, e non mi costringa a riassumergliele qui: è domenica.
Onestamente, non credo molto nella totalità. Credo nei nostri sforzi di cogliere quanta più realtà possibile, e nella consapevolezza che c’è sempre molto che ci sfugge.
@ Crocco
Non escludo del tutto che da un’indagine sugli endecasillabi di settima si possa giungere a scoprire qualcosa di inatteso e, quel che conta, di rilevante. Mi sembra però una via un po’ traversa – e non dubito che, grazie al cielo, non sia la sua.
@ Donnarumma
voglio tutto. Ci mancherebbe, ma infatti ho premesso che mi sarei letto il libro e punto. Però: io ho detto che non so cosa mi faccia capire del presente DFW, ma che c’è un aspetto dell’umano che ha indagato ( e che ho trovato interessante e che mi ha colpito più nel profondo ). Lei mi risponde di non fargli torto perché quel che vale per x non vale per y. Io rispondo che no, dati alla mano, quello che vale per x vale pure per y attuale e passati z, parlando di un peculiare aspetto umano. Non è un aspetto che fa parte del presente ( semmai è interessante capire che conseguenze ha nel presente per ognuno di noi ) e che ci viene svelato da uno scrittore, e infatti non gliel’ho citato per questo motivo.
@DFW vs RB
– A proposito di canone etc…
“partendo dalla tua domanda ho pensato che l’idea di sguardo falsato rimanda a un possibile sguardo veritiero. Mentre è chiaro che ogni sguardo sarà condizionato e limitato, non credo ci siano sguardi veritieri o falsati, perché al di là degli aspetti formali non credo esista un presente da osservare. Il presente è un concetto di comodo del quale ognuno descriverà la porzione che riesce a cogliere, ma che non ha un centro o un significato da cogliere o da storicizzare”.
Quando parlavo di sguardo falsato, esprimevo il mio timore per le influenze che subiamo senza accorgercene. Replicare sguardi altrui è orrendo, e accade di continuo.
Ecco, io invece nello storicizzare ancora un po’ credo. Ora parlo per approssimazioni, scusa se sono così generica.
“Ma su questo non ci giurerei e domani potrei pentirmi, anche perché non so neanche se sto riuscendo a esprimere quello che mi era venuto in mente.”
Neanche io so se sto riuscendo a esprimermi bene.
“premesso che penso che né la letteratura né la critica hanno compiti da svolgere, e possono benissimo sovrapporsi, dal critico mi aspetto che non si prenda sul serio quando esula dal dirmi cosa grossomodo si può capire da un testo e come collocarlo accanto agli altri prodotti ( il fatto che uno si preoccupi dei testi che rimarranno un giorno lo trovo divertente e malinconico, ma come in genere gli edifici culturali, come il fatto che alla scuola dell’obbligo si studia tizio o caio ).”
No, io non penso affatto ci siano “compiti da svolgere”. Penso solo che, per collocare un testo accanto agli altri, considerarli tutti in una prospettiva storica sia utile. Io capisco ciò che intendi, però pensaci: se non ci si preoccupa dei testi che rimarranno, come si sceglie ciò di cui occuparsi? A caso? Dal momento che la selezione in qualche modo avverrà e, per esempio, fra dieci anni verrnno ricordati due su venti romanzi italiani pubblicati quest’anno, tanto vale occuparsene.
” come il fatto che alla scuola dell’obbligo si studia tizio o caio”
Se nessuno si fosse preoccupato di ciò che si studia alla scuola dell’obbligo, tu ed io avremmo continuato a leggere quel che si insegnava cinquant’anni fa, e non saremmo in grado di apprezzare neanche una pagina di DFW. Non dico che la scuola sia indispensabile per la letteratura, ma può incidere sulla sensibilità estetica di una persona; e, quindi, sulla ricezione dei testi.
– SU DFW. So che anche la lettura discontinuista della sua opera è impopolare. Da circa cinque anni ho una polemica in corso esattamente su questo. Però forse non è il caso di parlarne qui. Sono d’accordo sul fatto che le digressioni sono il sale etc…, ma non sono un’amante delle polemiche sui blog letterari. Questo era un post di Raffaele Donnarumma su ipermodernità e storiografia del presente; discutere di quali siano i libri migliori di DFW ora creerebbe troppo disordine. Ne riparliamo, se vuoi.
Scusami e grazie,
Claudia
@ Claudia
Se ti va puoi scrivermi [ infinitejest@email.it ( imbarazzo )], la faccenda è dannatamente curiosa. Oppure puoi fare un post: “Discontinuità e limiti della funzione DFW”.
Sul resto ( ancora OT, la redazione può cancellare, propongo però l’angolo del cazzeggio e pure l’angolo del cazzeggio militante, in omaggio ai fedeli e appassionati lettori ): infatti apprezzo Donnarumma quando spinge l’onestà sull’analisi del perché uno si occupa di ciò che si occupa ( se non ho travisato ). Sulle scelte è una buona cosa avere vari criteri, canone, militanza, ipermodernità ( da lettore seguo la via dell’affinità che si può instaurare con un critico, voto Donnarumma ), parlando di malinconia mi riferisco a un’idea ( che non posso dimostrare ) che l’attenzione e la scelta di insegnare certi autori si basa su un concetto che verrà spazzato via. Io ho smesso di andare a scuola a 16 anni e allora leggere non mi piaceva granché. Le uniche esperienze sono state De Carlo al liceo, che già conoscevo; e Manzoni in secondo, che allora non potevo apprezzare. Credo dunque che l’influenza al momento sia imponderabile ( io ho scoperto DFW apprendendo del suo suicidio ) e che non sappiamo perché ci piace tizio o caio, ammesso che ci sia un perché. Penso che nel tempo ci saranno studi interessanti. Naturalmente capisco l’importanza di insegnare letteratura a scuola, ma lo trovo nell’insieme antiquato. Romanticismo decadentismo eccetera sono meccanismi mentali che possono essere insegnati in vari modi. Trovo che sarebbe molto più utile insegnare il pensiero e le forme artistiche. A un ragazzo ( e a una ragazza ) oggi a scuola proporrei Steven Pinker, Jared Diamond e Daniel Kahneman. Telmo Pievani, Marco Aime, Gilberto Corbellini, Giovanni Jervis, Edoardo Boncinelli eccetera.
Grazie a te, ciao
Stefano