di Giorgio Falco
[Questo articolo è uscito su «alfabeta2», numero 35, aprile/maggio 2014].
L’edicolante aveva visto i cimiteri del nord Europa. Qui le tombe – avrebbe detto un responsabile all’arredo funerario, con il linguaggio da creativo italiano – dialogano con i prati verdi ben tagliati, le piante centenarie sono censite e curate. Sarebbe troppo facile paragonare quel cimitero – dietro la pensione dove l’edicolante aveva alloggiato – al cimitero italiano che aveva accolto le salme dei nonni dell’edicolante, e dove, di lì a poco, i genitori dell’edicolante sarebbero stati sepolti: i colombari patiscono infiltrazioni che invadono gruppi di loculi sottostanti, accade non solo nei mesi autunnali o invernali, perfino in quelli primaverili, sotto lo sguardo sorridente dei defunti.
Era proprio la cosa che più aveva colpito l’edicolante: l’assenza di fotografie nei cimiteri scandinavi. Solo nomi e cognomi, date di nascita e di morte scolpite sulla pietra, l’esistenza di ciascuno si fondeva in qualcosa di più grande, staccata dall’ossessione provvisoria del corpo.
Quando era ritornato dal viaggio, l’edicolante doveva ancora diventare edicolante, era un ragazzo, non sapeva cosa fare nella vita, ma per naturale propensione all’inerzia, gli era capitata la soluzione più semplice: aveva iniziato a lavorare con suo padre, proprietario di una piccola edicola. Suo padre non era ancora anziano e mai lo sarebbe diventato, così era sembrato normale che il figlio diventasse edicolante per aiutare il padre di salute cagionevole.
L’edicola è ancora oggi nella medesima posizione e, a differenza della maggior parte delle edicole, prefabbricate in lamiera, è in muratura. Si trova lungo uno dei tanti lungomare d’Italia, dove il cemento è il principio naturale del paesaggio. L’edicola è un poligono regolare pitturato di arancione e bianco. La grande finestra centrale – grazie alla quale l’edicolante passa i giornali ai clienti e incassa i soldi – è l’unica fonte d’aria, a parte la piccola porta arancione del retro, da cui l’edicolante entra ed esce ogni giorno, dopo aver aperto e chiuso la serratura, rinforzandola con un lucchetto. Nelle mattine estive, l’edicolante è costretto ad abbassare la tenda per proteggersi dal sole, vede avanzare drappelli di esseri umani che sfilano sul lungomare in pareo, in bermuda o già in costume ma senza testa, decapitati dalla sua prospettiva difensiva: gli unici interi sono i bambini sotto il metro di altezza e i cani. L’alternativa sarebbe lasciare la tenda sollevata e attendere i clienti con gli occhiali da sole, almeno fino al pomeriggio, quando il sole gira alle spalle dell’edicolante, e lui può sollevare la tenda. I lati del cubo sono due finestre vetrine, tappezzate da una batteria di riviste, la luce filtra come se fosse setacciata in un sottobosco dopo l’impatto con la selva dei volti, che l’edicolante espone in direzione del marciapiede, sperando di invogliare qualche passante all’acquisto. Sono le pubblicazioni meno vendute: quindicinali, mensili, bimestrali. Riviste di caccia e pesca, di tecnologia, di bricolage, di body building, di letteratura. Quando riceve le riviste dal distributore, l’edicolante sistema le copertine dell’animale di turno: un lupo, un camoscio, un capriolo, un beccaccino, un luccio; oppure nuovi computer, e uomini che, in una posa di profilo, con le vene che quasi esplodono in rilievo, promettono bicipiti e deltoidi leggendari senza steroidi, e infine, i ritratti delle ultime novità editoriali.
L’edicolante incrocia queste immagini soltanto di sera, mentre abbassa le due piccole saracinesche laterali. Dalla sua sedia, vede le controcopertine pubblicitarie, il repertorio di modelle replicanti, che sono sempre uguali da decenni, come del resto le copertine delle pubblicazioni più vendute, appoggiate davanti, in modo che i clienti le possano prendere facilmente, vicino ai quotidiani. E così l’edicolante fissa ogni giorno donne sorridenti, attrici, cantanti, personaggi televisivi che spiegano il segreto per avere capelli sani, per un’estate vittoriosa nella prova costume, o come hanno ritrovato la linea un mese dopo il parto, e sconfitto la depressione grazie ai rimedi della nonna, mentre l’attore dallo sguardo corrucciato ringrazia il jogging, antidoto all’amarezza di un amore finito. Ci sono giorni in cui l’edicolante prova un senso di nausea per tutte queste immagini, i pezzi di epidermide esposta comunicano un caos talmente modesto da diventare un grande vuoto. Non lo aiutano i dvd, vecchi western e polizieschi dell’altra vetrina, e tantomeno riviste o film pornografici, che ormai sono richiesti giusto da qualche nostalgico rimasto agli anni ’70-’80: da molti anni vende più riviste di caccia e pesca che porno. Eppure continua a sistemare film e riviste alle sue spalle, negli espositori agganciati al muro e protetti dalla scritta V.M.18 appiccicata su una striscia di plastica, immagini non visibili dai clienti, a eccezione di una ciocca di capelli, o al massimo, di una fronte, tanto che c’è da dubitare del contenuto nascosto dietro l’artigianale paravento.
Quando si sente schiacciato, l’edicolante si salva astraendosi, il cubo di cemento diventa la sua astronave spaziale, e il piccolo cartellone pubblicitario conficcato nel tetto dell’edicola è l’antenna rivolta a captare segnali dall’universo: sul tetto spicca il nome del quotidiano provinciale. L’edicolante si annoia se sfoglia quel giornale, che ricalca in piccolo i grandi scandali nazionali, i furti minori degli assessori sui rimborsi, gli appalti irregolari. Ma c’è una cosa che lui aspetta ansioso, ogni mattina: la civetta del quotidiano provinciale.
L’edicola si trova su un lungomare a pochi chilometri da una strada statale. Questa strada – secondo una statistica che calcola il rapporto tra lunghezza in chilometri, numero di incidenti e di morti al chilometro – è considerata una delle più pericolose d’Italia. Una volta alla settimana, l’edicolante espone nella civetta la fotografia ingigantita di una persona deceduta in un incidente stradale. Pubblicare le fotografie dei morti causati da incidenti stradali era usanza di molti giornali, ma a un certo punto i quotidiani nazionali – più per darsi un’aria internazionale che per questioni legate alla privacy – hanno smesso di pubblicare le fotografie dei morti perfino nelle pagine delle edizioni locali, a meno che le vittime non fossero decedute in un’unico incidente, cosa che le avrebbe spedite dalle pagine locali alle pagine nazionali dei medesimi quotidiani, perché la vecchia regola del giornalismo – dieci morti in un unico incidente sono una notizia; dieci morti in dieci incidenti diversi sono nulla – continua a essere applicata. Invece le fotografie dei morti per incidenti stradali sono rimaste soltanto in alcuni quotidiani di provincia, e di conseguenza anche nella civetta dell’edicolante. Nel corso degli anni, l’edicolante ha esposto decine, centinaia di fotografie, che sommate a quelle di suo padre costituiscono un piccolo, personale camposanto. Di sera, prima di addormentarsi, l’edicolante ascolta il suono delle sirene e vorrebbe smentire la sua aspettativa negativa, basterebbe che l’esito del trambusto fosse un collare ortopedico da portare per un mese. E invece il suono contiene molto spesso il volto che comparirà nella civetta, non la mattina seguente, ma due giorni dopo, quando la notizia verrà data alla stampa. Un giorno l’edicolante ha esposto la fotografia di un amico morto in un incidente frontale. Non ha avuto il coraggio di andarlo a vedere nella bara, ha preferito ricordarlo com’era nella civetta, più giovane; era la fotografia fatta dopo lo smarrimento della patente al termine di una serata in birreria. L’amico aveva rifatto la fototessera l’indomani, e il pomeriggio sancito da quella iconografia burocratica – nella quale l’amico aveva uno sguardo a metà tra noia disperata e claustrofobia da baracchino – era finito dentro la civetta anni dopo, e da lì all’archivio che l’edicolante conserva in cantina. Quasi mai le immagini della civetta diventano quelle dei cimiteri, i parenti preferiscono fotografie dove le vittime sorridono. L’edicolante si è assunto il compito pubblico del trapasso formale, nelle ore seguenti il decesso e poco prima della sepoltura. Esporre i volti dei defunti, sul lungomare, in ogni stagione dell’anno, per le quattordici ore di apertura del piccolo cubo di cemento: è il culto laico dell’edicolante, il farsi immagine di morte, tra le onde, le creme solari, i ritornelli, il silenzio dell’inverno balneare. A volte gli rincresce se la civetta non pubblica la fotografia del morto, ma soltanto l’immagine dell’auto accartocciata; altre invece pensa che sia meglio così, anzi, è meglio niente, nemmeno l’auto distrutta, è bene accontentarsi di ciò che siamo stati così poco: un nome e un cognome possono bastare.
[Immagine: Christian Boltanski, Menschlich (1994) (gf)].
Ennesima conferma della grandezza di Falco.