cropped-graffitimural.jpgdi Arturo Mazzarella

Milan Kundera, La festa dell’insignificanza, Adelphi 2013
Aleksandar Hemon, Il libro delle mie vite, Einaudi 2013
Julian Barnes, Livelli di vita, Einaudi 2013
Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie 2013

Pare che sia venuta, finalmente, l’ora della riscossa per il romanzo. Almeno così sembrerebbe guardando le pile di novità accatastate sui banchi delle librerie e tendendo l’orecchio alle fervide discussioni che precedono l’apertura dell’imminente stagione dei premi letterari. Ci troviamo, da un lato, di fronte a una proliferazione di eventi (a che altro potrebbe corrispondere l’affannoso ciclo di produzione e distribuzione dell’oggetto-romanzo?), dall’altro, invece, a una fitta rete di concetti (epicentro, scadente o nobile che sia, di ogni discussione).

Ai due termini, però, non è stato conferito il rilievo che entrambi meritano. Per interpretare alcuni tra i motivi conduttori più originali e convincenti che risuonano nell’universo romanzesco attuale un ausilio prezioso potrebbe giungere proprio dall’ambito semantico dell’evento e del concetto. Due termini tradizionalmente lontani tra loro – uno, dinamico; l’altro, statico -, ma, nonostante ciò, regolati da un rapporto di stretta complementarità. Deleuze è riuscito a sottolinearla con incisività cristallina, grazie alla continue accelerazioni di una riflessione in grado di percorrere traiettorie del tutto inconsuete. Come accade in Che cos’è la filosofia?, pubblicato nel 1991 in collaborazione con Guattari, dove troviamo un’imprevedibile – per gli schemi classici del pensiero – ricongiunzione tra il flusso degli eventi e il campo dei concetti:

Ogni pensiero è un fiat, produce un colpo di dadi: costruttivismo. Ma è un gioco molto complesso, perché il lancio è fatto di movimenti infiniti reversibili e piegati gli uni negli altri, cosicché la ricaduta non può prodursi che a velocità infinita.

Mediante una premessa del genere il concetto acquista di colpo un movimento che ne incrina l’apparente univocità, scandito dal ritmo di un divenire costante che non conosce né la permanenza della regola né la quiete assicurata dalle consolidate geometrie del pensiero. Questa prepotente vocazione dinamica definisce il connotato tipico del concetto. Deleuze e Guattari lo precisano più avanti:

C’è un’infinità di concetti possibili su un piano: risuonano, si collegano con dei ponti mobili, ma è impossibile prevedere l’andatura che assumono in funzione delle variazioni della curvatura. Si creano a raffica e non cessano di biforcarsi.

Nella costituzione materiale dell’evento, composta di variazioni, modulazioni, intermezzi si annida esclusivamente l’inquieta formazione del concetto, animato da un moto perenne. Ne deriva una conclusione incontestabile: «Solo un concetto è in grado di afferrare l’evento, il suo divenire, le sue variazioni inseparabili».

Non c’è evento, dunque, al quale non si accompagni la trama di un concetto. Soprattutto nel caso in cui si tratti di un evento filtrato attraverso la storia letteraria: «Le storie – scrive, infatti, Guido Mazzoni nei primi paragrafi della sua Teoria del romanzo – sono terre emerse circondate dalle idee con le quali diamo un senso a ciò che accade». Vale anche per quella catena di eventi che sembrano regolati da un’assoluta insignificanza o da una esplicita insensatezza.

Ne sono perfettamente consapevoli vari protagonisti della narrativa italiana e straniera degli ultimi anni. Tutti autori molto remoti tra loro, in alcuni casi disposti lungo percorsi narrativi divergenti e antitetici, ma rivolti a esplorare con la stessa intensità l’abissale territorio spalancato da eventi casuali, contingenti; in apparenza privi di qualsiasi solidità, di qualunque valore esemplare.

Attenzione, però. Attraverso queste esperienze narrative non ci troviamo di fronte al ribaltamento dei tratti caratteristici della forma-romanzo, ma, piuttosto, a una sorta di loro prosciugamento estremo: tale da restituirci la funzione archetipica del romanzo, che consiste proprio nella raffigurazione della particolarità; anzi, di qualsiasi particolarità. «Il romanzo – ci ricorda ancora Guido Mazzoni, questa volta nelle pagine finali del suo libro – è il genere della particolarità. […] Raccontare qualsiasi cosa in qualsiasi modo significa affermare la centralità degli individui singolari, riproducendone i modi d’essere oggettivi, immaginandone i modi d’essere soggettivi e seguendo la dispersione minuta, anomica di ciò che esiste».

Ogni elemento acquista nell’universo romanzesco una sua particolarità irripetibile, un significato assolutamente singolare. Anche l’insignificanza, come dimostra Kundera nel suo romanzo dal titolo, appunto, La festa dell’insignificanza, pubblicato da Adelphi in prima edizione mondiale. Più che un racconto vero e proprio, va considerato una ricapitolazione, in forma ‘teatralizzata’, dei problemi – non semplici temi – riproposti da Kundera soprattutto nell’ultimo trentennio, dall’Insostenibile leggerezza dell’essere in poi: quando la fedeltà apparente alla tradizione romanzesca, da lui rivendicata, si intreccia con uno svuotamento progressivo dei suoi assetti strutturali.

Per Kundera l’«insignificanza» equivale all’accidentalità, anzi, più precisamente alla contingenza, all’apparire dell’evento – di ciascun evento – nel suo hic et nunc.

Contingenti sono le inesauribili impronte tracciate dal pensiero che si abbandona al flusso del divenire, alla «casualità dell’incontro» con quanto è imprevedibile, inaspettato – ci ricorda Deleuze lungo l’intero corso della sua riflessione. Una volta libero di snodarsi fuori dai lacci asfissianti di qualsiasi schema progressivo, ogni segmento temporale si rivela finalmente disponibile a esaurirsi nel suo puro accadere. Sempre labile, caduco, perché affidato all’evanescenza naturale dell’immagine: pronta a dissolversi in altre immagini, spesso di segno opposto.

Le immagini si succedono, scorrono, si accavallano, si confondono. Nessuna rimane ferma. Nessuna merita di essere ricordata. Altrimenti, come potrebbe essere davvero contingente? Come potrebbe manifestarsi favorendo la nascita del pensiero? Un movimento pulsante, vitale, dalla potenza trascinante.

A un moto di questo tipo si rivolge Kundera in ogni pagina del suo ultimo romanzo. Che non inganni, però, il suo passo da affabulatore. La festa dell’insignificanza non è altro, infatti, che una divertita celebrazione del potere incontrastato di cui si alimenta la contingenza. Nessuno dei numerosi personaggi presenti nel romanzo si muove lungo una direzione lineare. Ciascuno si lascia sorprendere – come per effetto del più tipico «straniamento» teorizzato da Victor Šklovskij – da quanto accade loro, da avvenimenti il cui unico significato consiste nell’improvviso venire alla luce: nel «valore dell’insignificanza». Così lo definisce, nelle pagine conclusive, uno dei personaggi:

L’insignificanza, amico mio, è l’essenza della vita. È con noi ovunque e sempre. È presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per riconoscerla in condizioni tanto drammatiche e per chiamarla col suo nome. Ma non basta riconoscerla, bisogna amarla, l’insignificanza, bisogna imparare ad amarla.

Da queste parole sembra discendere il montaggio autobiografico operato dallo scrittore bosniaco, ma di lingua inglese, Aleksandar Hemon lungo Il libro delle mie vite, apparso nel nostro paese a poca distanza dalla sua pubblicazione originaria.

Non credo sia azzardato indicare nell’ultima opera di Hemon (già noto in Italia soprattutto per Il progetto Lazarus, tradotto da Einaudi nel 2010) uno tra i più significativi romanzi di formazione generati all’interno di una civiltà globalizzata che ha forse raggiunto l’apice della sua estensione. Dovendo adattare la propria avventura esistenziale a un modello di scambio e permutazione generalizzati, Hemon è costretto ad accantonare gli schemi su cui si era fondata la tradizione del Bildungsroman. Non c’è, infatti, nulla di esemplare nel processo di formazione raccontato da Hemon in questa sorta di micro-biografia. Non c’è più alcuno scopo che regoli il succedersi degli eventi.

I quindici episodi, o stazioni – come le definisce nel risvolto di copertina l’eccellente traduttrice Maurizia Balmelli – che scandiscono il decorso temporale preso in considerazione dall’autore vengono svuotati di un significato che vada al di là del loro puro fluire. Mai nessuno di essi si presenta necessario, indispensabile per la crescita del personaggio, la cui autocoscienza, priva dei conflitti elementari, rivela un’impermeabilità davvero sorprendente sia di fronte al dramma collettivo – quale il tramonto delle utopie socialiste e il sanguinoso scenario bellico che successivamente devasta l’ex-Jugoslavia – sia dinanzi al trauma personale insostenibile per ogni uomo: la morte, a nove mesi, della figlia minore.

Su questo tragico episodio si chiude l’autobiografia di Hemon, ma non perché segni uno spartiacque oltre il quale non esiste che l’impotenza della capacità descrittiva da parte della parola. Hemon decide di concludere la narrazione per un motivo diverso, se non addirittura opposto. Anche il dolore più straziante rientra, per lui, tra le innumerevoli possibilità dell’esistenza, risulta un evento che può solo accentuare, moltiplicare gli effetti di quel «vuoto» al cui assedio il protagonista non riesce a sottrarsi dagli esordi della narrazione. Estremamente tangibile, per esempio, quando, soffermandosi sullo sradicamento – che attraverso una serie di scelte casuali lo ha portato a trasferirsi a Chicago, dove rimarrà definitivamente -, riflette sul tema «Questo sono io»:

La condizione d’immigrato conduce inoltre a una specie di auto-alterizzazione. Lo sradicamento si risolve in un rapporto rarefatto con il passato, con il sé che un tempo esisteva e agiva in un luogo diverso, dove le qualità che ci costituivano non necessitavano di contrattazione. L’immigrazione è una crisi ontologica perché sei costretto a negoziare le condizioni della tua individualità all’interno di una situazione esistenziale in costante mutamento. La persona sradicata si batte per una stabilità narrativa – ecco la mia storia! – ricorrendo a una sistematica nostalgia.

L’identità si forma e si stabilizza, dunque, attraverso un continuo scambio di ruoli, il cui punto di approdo coincide con «un groviglio di domande insolubili, un coagulo di vari altri»: tutte partizioni altrettanto insignificanti nell’assenza di una voce preminente.

Non a caso il protagonista comincia inspiegabilmente a sdoppiarsi in vari personaggi che gli vivono accanto. Il tempo esplode in una successione incontrollabile, caotica, di frammenti, di «attimi evanescenti», intercambiabili proprio perché privi di un rilievo che ne attesti la priorità. Tutto si confonde, si sovrappone:

A un certo punto iniziai a mettere in dubbio la verità del mio essere. E se la mia realtà fosse stata la finzione di un altro? E se, riflettevo, fossi stato l’unico a non vedere com’era realmente il mondo? E se fossi stato il vicolo cieco della mia stessa percezione? E se fossi stato solo un banale idiota?

 Non c’è da meravigliarsi, allora, della mancata ribellione che segue la morte della figlia. Non solo Dostoevskij, con la titanica rivolta di Ivàn Karamàzov contro la « sofferenza inutile», si dimostra abissalmente distante da Hemon, ma si rivela altrettanto lontano anche il suo quasi coetaneo Philippe Forest che, tra il 1997 e il 2007, ha avuto bisogno di due romanzi (Tutti i bambini tranne uno e Per tutta la notte) e di una divagazione saggistica (Anche se avessi torto. Storia di un sacrificio) per sfidare la morte della figlia di quattro anni, per riuscire a sopravviverle attraverso una lotta sfibrante. Ma la vita, agli occhi di Forest, appare ancora un patrimonio da salvaguardare, per quanto contraddittorio ed enigmatico. Hemon, viceversa, non riesce a rintracciare significati, ad articolare – come vorrebbe Ricœur – una semantica dell’azione, un «discorso dell’azione sensata». Può solo accettare, con amor fati impassibile, ogni evento, anche il più doloroso:

L’unico esito importante della sua sofferenza è la sua morte. Non abbiamo imparato alcuna lezione che valesse la pena imparare; non abbiamo acquisito alcuna esperienza che possa giovare a chicchessia. […] L’indelebile assenza di Isabel oggi è un organo nei nostri corpi la cui unica funzione è secernere un dolore continuo.

Sono parole che, per Hemon, non attestano una sconfitta, non confermano una resa incondizionata alla forza soverchiante degli eventi. Sottolineano, al contrario, data l’insignificanza assoluta – intesa proprio nell’accezione indicata da Kundera -, la possibilità, virtualmente illimitata, di procedere a una ricodificazione radicale del senso, di trasporre i frammenti di un’esperienza affidata all’arbitrarietà della contingenza in uno «spazio nuovo, dove [… ] elaborare il vissuto e produrre nuove storie». Storie imprevedibili, il cui intreccio segue, di volta in volta, le molteplici combinazioni che un evento, nell’atto di presentarsi, può assumere.

Julian Barnes, uno tra i più noti narratori europei, su questo schema ha costruito il suo ultimo romanzo, Livelli di vita, risultato, secondo i giurati di «Repubblica», il migliore libro del 2013:

Metti insieme due cose che insieme non sono mai state; a volte funziona e a volte no. […] Metti insieme due persone che insieme non sono mai state; a volte il mondo cambia e a volte no. Può darsi che si schiantino e prendano fuoco, o che prendano fuoco e si schiantino. Ma a volte, invece, ne nasce qualcosa di nuovo, e allora il mondo cambia. Insieme, in quel primo momento esaltante, con quella sensazione esplosiva di ascesa, esse sono più grandi dei loro sé individuali. Insieme, vedono più lontano, più chiaro.

La disposizione degli eventi – afferma Barnes – non dipende dalla volontà soggettiva, ma si delinea secondo una configurazione completamente autonoma dalle intenzioni individuali, tanto da mostrarsi spesso nei termini di una novità sconcertante per tutti. Tale si rivela, appunto, il volo, con il corredo di metafore ascendenti e discendenti che si snodano lungo la costellazione semantica dell’ascesa e della caduta analizzate da Gaston Bachelard nella Psicoanalisi dell’aria. Ma le due traiettorie solo in apparenza sono opposte. Intorno alla loro paradossale intersecazione ruota, infatti, Livelli di vita:

Siamo creature destinate al piano orizzontale– scrive Barnes in un passaggio cruciale del romanzo -, a vivere coi piedi per terra, eppure – e perciò – aspiriamo a elevarci. Da spettatori terragni quali siamo, qualche volta ci è dato di raggiungere gli dèi. [ …] Ma se è vero che possiamo elevarci, allo stesso modo rischiamo di precipitare. Non sono molti gli atterraggi morbidi. Ci può succedere di rimbalzare sulla terra, trascinati da una violenza spaccaossa che ci abbatte lungo una linea ferroviaria straniera. Ogni storia d’amore è potenzialmente anche storia di sofferenza.

Che ne deriva? Quello che ribadisce, nel romanzo, Fred Burnaby, uno dei pionieri ottocenteschi – realmente esistito – del volo in mongolfiera: «Credo che un uomo debba accettare di correre dei rischi». Poco oltre gli ribatte la divina Sarah Bernhardt, nell’incontro con Burnaby immaginato da Barnes: «Ci si affida al capriccio della natura. È una pratica rischiosa». La precisazione di Sarah Bernhardt, sia pure pronunciata con la seducente svagatezza che appartiene a una diva quale lei, consente di chiarire l’affermazione di Burnaby. Non bisogna – vuole dire l’attrice – accettare genericamente il rischio proveniente da azioni avventate, come il librarsi in volo, ma essere consapevoli che i pericoli maggiori si nascondono nella natura, nella sequenza interminabile di contingenze presenti in essa.

Uno di questi eventi spezza in modo irreversibile l’esistenza stessa di Barnes. Un male inguaribile, quanto fulmineo, gli porta via, nell’arco di un mese e pochi giorni, la moglie: per trent’anni parte integrante della sua vita. La reazione di Barnes è opposta al silenzio nel quale si chiude il protagonista del Libro delle mie vite. Isolandosi nell’universo idealizzato di un lutto che finisce per inglobare rapidamente ogni altra pulsione vitale, Barnes sembra appropriarsi alla lettera del corteo di ossessioni e fantasmi individuati da Barthes, nei Frammenti di un discorso amoroso, quale resurrezione immaginaria – per questo indispensabile – dell’oggetto perduto. Barnes, però, non si arresta a una tale reazione. Mentre sembra esserne risucchiato, si rivolge, per un naturale istinto di sopravvivenza, anche lungo un’altra direzione, dai contorni quasi antitetici.

Barnes comincia a proiettare il lutto che sta divorando la propria esistenza all’interno di uno scenario privo di connotazioni personali. Si tratta, ai suoi occhi, di un evento del tutto simile ad altri innumerevoli eventi del genere. Un evento crudele, certo, ma esclusivamente per lui. Insignificante per qualunque estraneo. Ecco perché Barnes,«per evitare la deriva di vane speranze e deragliamenti insensati» si ripete ostinatamente: «È solo l’universo che fa il suo mestiere». Ne deriva una convinzione inaggirabile, anticipata da Barnes poche pagine prima: «Quella che sembra sparita del tutto, comunque, è la sensazione che ci sia un disegno nelle cose». E ancora, «perché mai dovrebbe esistere un disegno, e proprio qui, soprattutto?».

Se la morte – Evento per eccellenza – dipende dalla casualità dell’accadere, abbiamo la conferma che perfino nel dolore più intenso, nel pathos più esasperato, la storia non riesce a trovare un senso che ne orienti, e ne riscatti, il corso. Anche il dolore martellante di Barnes, la sua dedizione al fantasma di amore, non riesce a sottrarsi alla perfida festa dell’insignificanza. Celebrata con lucidità allarmante nelle battute finali del romanzo:

È sempre, soltanto l’universo che fa il suo mestiere, nient’altro, ed è su di noi che lo esercita. Forse vale lo stesso anche per il dolore. Immaginiamo di aver lottato, con risolutezza, di aver superato la sofferenza, di esserci ripuliti l’anima dalla ruggine, quando è solo successo che il dolore si sia spostato altrove, che abbia cambiato interesse. Non siamo stati noi a far entrare in scena le nuvole, come non abbiamo il potere di diradarle. Il caso ha semplicemente voluto che da un qualche punto – o da nessuno – si sia levata una brezza inattesa che ci ha messi in moto di nuovo. Ma dove ci sta portando? Nell’Essex? Verso il Mare del Nord? Certo, se il vento spira da settentrione, allora forse, con un po’ di fortuna, ci porterà in Francia.

Non è una consapevolezza da poco, dato che «tutte le storie parlano di una conquista, altrimenti non c’è storia», ci ricorda John Berger – tenace, e incantato, cacciatore delle immagini dissimulate negli angoli più riposti della realtà – in uno dei suoi ultimi racconti saggistici, Il taccuino di Bento (Neri Pozza, 2014). Tra le tante conquiste a cui accenna Berger può rientrare la convinzione della forza dirompente posseduta – secondo Alain Badiou – da ciascun evento rispetto ai freni che vorrebbe opporgli, per arginarlo in qualche modo, la volontà individuale. Anche se, come ha osservato Barnes, non si sa mai dove l’evento, ogni volta, «ci sta portando».

Non lo sa neppure l’ingegner Ivo Brandani, protagonista della Vita in tempo di pace: di sicuro il romanzo-rivelazione della nostra ultima stagione narrativa, pubblicato da Francesco Pecoraro.

Ivo Brandani si affida, già nelle prime pagine, all’incontenibile potenza generativa dell’evento:

Ripercorrere all’inverso anche il più esile rivolo causale, destrutturare la catena degli eventi, riducendoli ciascuno alle proprie unità costitutive: questo avrebbe voluto fare, Ivo Brandani, se ne fosse stato capace, per individuare il punto esatto del non ritorno, se pure esisteva […] Insomma, sarebbe stato possibile rintracciare scientificamente la soglia dell’ineluttabilità dell’evento? Avendoci un computer potentissimo, occorrerebbe caricare anche il più insignificante dei dati… Ma no… […] Di quello che accade si sa quasi nulla, nemmeno nel momento in cui accade… È nell’istante stesso dell’evento che le cose cominciano a confondersi e inizia la non-conoscenza, il travisamento.

Ogni evento – vuole dire Ivo – si fonda su un’alta percentuale di spreco costitutivo, di naturale dépense: lasciando intravedere solo i tratti più marcati che connotano il suo venire alla luce. Ogni evento, cioè, si profila per esibire immediatamente la propria evanescenza, la mancanza di un significato circoscrivibile in un perimetro definito. Questa squillante festa dell’insignificanza – per richiamare ancora il titolo del romanzo di Kundera da cui siamo partiti – ha un effetto traumatico su Ivo Brandani. Scatena in lui una sorta di ebbrezza conoscitiva, favorita dall’andamento a ritroso della narrazione, che innesca nelle geometriche scansioni logiche di Ivo l’esigenza di ripristinare un ordine.

Di questa sfida ardua e logorante lanciata all’insignificanza dall’ingegner Ivo Brandani il romanzo di Pecoraro costituisce la trascrizione fedele, precisa fino all’ossessività: come richiede l’ampio spaccato storico – dal dopoguerra a oggi – attraversato da Ivo. Un arco cronologico che, nella sua estensione, non conosce, però, dissonanze o echi contrastanti. La particolarità del romanzo risiede proprio nel conflitto, a tratti furioso, che oppone il tempo – l’incessante contaminazione temporale operata da Pecoraro – alla scavo analitico effettuato da Ivo. Il tempo scorre, ma, nell’esperienza di Ivo, appare fermo, bloccato in una successione ininterrotta di presenti. Anzi, di un solo presente, di un presente che non passa mai: il tempo della puntuale resa di Ivo alla brutale insignificanza che avvolge ogni evento.

Non ci vuole molto perché Ivo si renda conto che «nell’istante stesso dell’evento […] le cose cominciano a confondersi e inizia la non-conoscenza, il travisamento». Ivo, di conseguenza (Ivo-bambino, Ivo-adolescente, Ivo-giovane, Ivo-maturo, Ivo-anziano professionista), sembrerebbe votato in partenza alla sconfitta. Gli riesce del tutto impossibile decifrare ciò che di volta in volta gli accade. Dovunque rivolga lo sguardo scorge

sempre gli stessi bacilli: alcune cose cambiano più lentamente, diventano quasi ovvie, si fa in tempo ad abituarsi, a dimenticare cosa c’era prima al loro posto. […] Unica difesa possibile è dimenticare com’era prima: funziona ovunque e per chiunque sia vissuto in questo secolo accelerato, che ti trascina via con sé verso mondi diversi e peggiori, mondi che faresti volentieri a meno di sperimentare.

Ivo ha già avuto modo di prendere atto, intanto, che il ragionamento – qualsiasi ragionamento – è impotente di fronte a cambiamenti di questo tipo. Nel divenire non c’è altro significato (Deleuze e Guattari direbbero «concetto») che il suo stesso manifestarsi:

La cosa strana è che gli organismi non sono matematizzabili, cioè, non ancora: non esiste l’equazione che ci dice come fare un gatto, non c’è una teoria del gatto, come non c’è una teoria dell’uomo. […] Noi viventi siamo troppo caotici, Brandani, siamo conformazione, non forma, abbiamo contorni a-geometrici, mutevoli, indeterminati come quelli delle nuvole, come i confini delle nazioni sulle carte geografiche, come le chiome degli alberi…È il caos, questo…

 Entro questo inarrestabile processo di degradazione del senso (che si annida in ogni esperienza individuale del protagonista, quanto nei rituali della vita collettiva che affollano il romanzo) Ivo, senza concedere niente alla sua genealogia di stampo gnostico, si accorge che esiste anche la chance di un esercizio di resistenza – lo chiamerebbe Foucault.

Si tratta della possibilità di creare dall’interno stesso del disordine imperante un disordine ancora maggiore, in grado di prevalere e di rifondare un nuovo ordine: questa volta fluido, imprevedibile, emancipato dagli schemi normativi dai quali Ivo era partito nella sua avventura conoscitiva: «Dove non c’è nulla – osserva Ivo – puoi inventarti di tutto, senza preesistenze, senza interferenze che non siano l’inesplicabile volontà del Dio Unico delle Sabbie e del Vuoto». Più avanti il nulla si trasforma, agli occhi di Ivo, ingegnere impegnato in una missione nel territorio egiziano, addirittura nel nucleo genetico di una capacità inventiva dalla indeterminata libertà, priva di ostacoli:

La barriera muore? I fondali di Sharm vanno in malora? Va bene, che sia… Rifacciamolo finto, il pianeta… Ne abbiamo la capacità e ne abbiamo facoltà, visto che dallo spazio non giungerà nessuno a impedircelo, visto che Dio non c’è, e se c’è se ne sta molto sulle sue… Quindi il Pianeta è tutto nostro, possiamo farne quel che cazzo ci pare…

Da una plasticità naturale di questa portata deriva il conflitto più agguerrito, il ribaltamento del lungo tempo di pace storica in un incessante tempo di guerra concettuale. Non potrebbe essere altrimenti, quando la posta in gioco è data dal tentativo di scavare senza sosta nell’insignificanza, di inventare, dunque, una nuova costellazione di concetti. Che si lasciano manipolare con tale disinvoltura da consentire di insinuarsi nelle pieghe più impalpabili degli eventi, nelle loro «variazioni inseparabili», come le definiscono Deleuze e Guattari sempre in Che cos’è la filosofia? Un progetto del genere implica una tensione perenne tra la stabilità convenzionale dei concetti e l’inafferrabilità degli eventi. Ivo Brandani lo sa bene. Sa bene che dietro il tempo di pace che sembra costituire lo sfondo della sua esistenza si nascondono i conflitti più aspri, più irriducibili. Lo dimostra quella guerra permanente che Ivo ha combattuto tutta la vita con il linguaggio: con le logore formule di un linguaggio costretto a naufragare proprio di fronte all’inafferrabilità dell’evento, di fronte alla sua apparente insignificanza.

Wittgenstein, in una folgorante annotazione del 1931, osserva, non a caso, che «noi combattiamo contro il linguaggio. Siamo in lotta contro il linguaggio». Senza questo corpo a corpo sarebbe impossibile attribuire, ogni volta, un senso all’enigmatico manifestarsi dell’evento, corrispondere alla sua imprevedibilità. Ivo Brandani lo ha intuito lungo l’intero arco della propria vita. Senza arrendersi mai.

[Immagine: Navid Baraty, Graffiti Mural (gm)].

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *