cropped-Luigi-Ghirri-Roncocesi-casa-di-Luigi-Ghirri-1991.jpgdi Walter Siti

[Esce oggi, pubblicato da Donzelli, Nell’occhio di chi guarda. Scrittori e registi di fronte all’immagine, a cura di Clotilde Bertoni, Massimo Fusillo e Gianluigi Simonetti, con postfazione di Stefano Chiodi. A ventitré fra narratori, poeti, registi teatrali e cinematografici è stato chiesto di scegliere un’immagine e di descriverla, o commentarla; variazione sul tema classico dell’ekphrasis, ma anche esperimento sul senso della relazione tra visivo e scritto in epoca contemporanea. Hanno partecipato Roberto Andò, Franco Buffoni, Maria Grazia Calandrone, Mauro Covacich, Filippo D’Angelo, Elio De Capitani, Giorgio Fontana, Gabriele Frasca, Nadia Fusini, Andrea Inglese, Helena Janeckzek, Valerio Magrelli, Guido Mazzoni, Enzo Moscato, Tommaso Pincio, Vincenzo Pirrotta, Laura Pugno, ricci/forte, Alessandra Sarchi, Domenico Starnone, Federico Tiezzi ed Emanuele Trevi. Pubblichiamo su LPLC il contributo di Walter Siti].

Luigi Ghirri, Roncocesi, casa di Luigi Ghirri 1991

Ho scelto questa foto di Luigi Ghirri perché a una prima occhiata delude, non sembra una foto sua: non ha le geometrie scrupolose che di Ghirri sono diventate la sigla, né le sezioni auree, né quell’ordine pensato dei soggetti che sembra promuovere ogni suo paesaggio a un mondo platonico delle idee. In apparenza è una foto disordinata e quasi casuale – sembra scattata dalla soglia di casa per provare la macchina, così, a riprendere niente. In una sera qualsiasi di un posto banale; in una pausa arresa al tempo e dunque profondamente anticlassica. Fotografare per fotografare.

Ma, appena formulato, il pensiero si rimangia da solo: quanto è caratteristico di Ghirri, anzi, questo guardare da una soglia. E non è affatto una soglia qualunque: la didascalia recita “Roncocesi, La casa di Luigi Ghirri, 1991”. Una delle sue ultime foto dunque, quando aveva perso il gusto di andare in giro; quella luce tra giallastra e rosata che esce dalla porta è la luce della sua stanca maturità. So che ci sto mettendo del mio, ma dallo spazio antistante la foto si sprigiona un rumore leggero, un acciottolìo di piatti, un chiacchiericcio da ora di cena; e noi, noi osservatori, ci troviamo accanto alla fonte di luce – di fianco alla porta o sotto il fanale della facciata: partecipiamo, almeno come imbucati, di quell’intimità. C’è un tepore da questa parte, che fa sentire più forte il freddo dell’esterno.

Il cortile non è in posa, non offre niente che sia degno di nota: vasi di coccio quasi tutti vuoti, diversi di forma e disposti irregolarmente. (Solo una fantasia stregonesca, sùbito zittita, vi leggerebbe presenze familiari giudicanti in circolo). Dietro i vasi, pali e paletti; quelli più bassi e lontani forse reggono (o reggevano) un’invisibile rete metallica; a sinistra un abbozzo di siepe oltre la quale si stende un prato, o uno spiazzo. Pali più fradici, o fascine, sono appoggiati all’ala di fabbricato che si intravede all’estrema destra. A sinistra alberi di incerta natura – di sicuro un sempreverde, poi tronchi nodosi e spogli su cui si arrampica una vite, rametti irti che sembrano di salice e lo sporgersi in quinta di un giovane pioppo, o olmo. In alto fili che si incrociano in conversazione fortuita, segnano la profondità diagonalmente tranne uno dritto e parallelo al margine superiore dell’inquadratura, inconsapevole guida. Perpendicolare al centro, pretendendo senza riuscirci il ruolo di protagonista, il palo dell’illuminazione pubblica con uno o più fari sulla cima.

La geometria scacciata dalla porta rientra dalla finestra. Oltre lo spiazzo c’è una linea scura di case che demarca l’orizzonte, e se misurassimo l’altezza di questo orizzonte rispetto all’altezza complessiva della foto, beh forse riaffiorerebbe perfino la sezione aurea. Case senza pretese, manufatti geometrili degli anni Cinquanta; tra il gruppo agglomerato sulla sinistra e le casette a schiera (o capannoni) sulla destra passa probabilmente una strada, come indicano i fanali comunali. Altra vita, democratica e concreta; lastre che riflettono con modestia un habitat normalizzato da sempre, semplicemente “il paese” per chi vive nella casa da cui si fotografa.

Ma torniamo al cortile, alla zona dell’intimità. Un tavolino di ferro, di quelli che si usano d’estate, somma la propria esile ombra a quella massiccia del sempreverde grumoso; sono quelle due ombre, del tozzo vegetale e della scheletrica sentinella, a dividere il vicino dal lontano, il caldo dal freddo, il giallo-rosato dal bianco- azzurrino. Se c’è nella foto una cosa che più Ghirri non si può, così inequivocabile e sovrana, è la luce. La luce separa l’intimo dall’indifferente, il sentimentale dall’intellettuale, ma insieme li collega in una pacificata armonia – quella luce che tra il basso della terra e l’alto del cielo trova il suo diapason di intensità proprio in una riga orizzontale mediana, come una lama d’argento.

Il nostro e l’altrui, senza padronanza né carestia; da un luogo funzionale e privato, a cui la forma è stata data dal vivere, fino a un mondo collettivo, mettiamo un bar o uno spaccio, dove altre teste filano irraggiungibili (e legittimi) pensieri. Dal primissimo piano, nell’angolo in basso a destra, parte una traccia irregolare che va verso il paese; e il segno più stondato, in basso a sinistra, ha tutta l’aria di un solco di pneumatico. (L’auto di qualcuno di casa, arrivato o ripartito da poco). Facilità di transizioni che ancora e sempre la luce certifica: i cangiantismi che dalla grana più carnosa e sensuale del primo piano digradano a ondicelle verso la zona compatta e quasi asfaltata di gelo delle alogene celestine; mentre un lume minuscolo dalla casa nera di fronte, seminascosto dal palo ma miracolosamente arancione, testimonia a riscontro altro tepore – in una chiarità complessiva che non permette a nessun dettaglio di sprofondare completamente nel buio, grazie all’inquinamento luminoso dei centri abitati e al soffice rimbalzo della neve.

La neve! La neve è la vera ragione della foto, la sua causa prima e generatrice. La neve che non è stata sporcata, sul tavolo e sui vasi è ancora un cuscino intatto; la neve commestibile, croccante dove le scarpe hanno lasciato impronte; un ciottolo o un mattone, accanto al vaso grande di sinistra, si è trasformato in un tortello invitante coperto di glassa. Neve appena sfarinata sulle foglie e sui tronchi da dove generosamente restituisce la luce; la neve che ha messo un cappuccio su ogni palo, brillante come una capocchia di spillo. La neve che ottunde, che felpa le distanze ribadendole, la neve infanzia perenne.

E’ la neve che trasforma per me questa foto in una trappola del tempo. La foto è del 1991, come ho già detto, ma per me è velenosamente dolce scivolare al 1951, ai miei quattro anni. Queste case, dopotutto, non sono molto diverse da quelle dei Mulini Nuovi, il semplice borgo che distava un tiro di schioppo dalla mia tana rustica e semi-contadina. Le vedevo attraverso i campi, anch’io (“le case della Cooperativa”), anche a me con la neve sembravano più magiche e irreali. L’aria, gli arredi, le usanze agricole, i colori della sera, il peso della terra – tutto molto simile, Roncocesi disterà al massimo una trentina di chilometri dai miei luoghi natali.

Emilia realistica e visionaria, densa e miscredente; Emilia che a ogni crepuscolo ha uno scatto di scetticismo e ostenta come una divisa quella leggera intercapedine, lo stacco tra la vita e il suo significato! Una terra che mi lasciava sognare e incancrenire come volevo, bastava fingere di non fare obiezioni. L’orto, il cortile, erano già lontani come la luna se dalla finestra non arrivava il grido; le conversioni potevano essere folli, visto che tutto era già stabilito. Il misticismo bisognava nasconderlo come le lucciole sotto il bicchiere, quando tornando in famiglia la repressione totalitaria si mascherava da affetto e da burla. Nessun eroismo: i mediatori lo sanno quel che devi diventare, mica sono mediatori per nulla.

Le orme sulla neve sono quelle di chi vanta un diritto e non cambierà mai; la sera si va a portar fuori il rusco (così si chiamava, e si chiama, in Emilia la spazzatura) poi si ritorna: tutto lì. Nel 1951 l’illuminazione pubblica non arrivava fin dietro casa, si arrestava al crocicchio e tra la stalla e il letamaio c’era buio pesto. Jason – sono sicuro, sicuro che qualcuno gridò “Gièson”; non può essere un ricordo di seconda mano, di quell’episodio nessuno si ricordò più e non possono avermelo raccontato in seguito. D’altronde quando avevo cinque o sei anni (prima della scuola) quei contadini se ne andarono e ne arrivarono altri: il vecchio Varini era emigrato in America da giovane, un amico di là era venuto a trovarlo ed era un negro!

Jason sarà stato il nipote di quel canuto negro stropicciato, a me allora sembrava soltanto un animale pericoloso; ma quella sera, mentre mia nonna portava fuori il rusco, io scivolai nella porta della stalla da cui sentivo un rumore d’acqua scrosciante. Non mi fu concesso respiro, mia nonna entrò gridando e mi trascinò via per un braccio: ma io avevo fatto in tempo a scorgere il corpo marrone lucido bagnato e fumante che umiliava sconfessandola tutta la neve di fuori – da quel momento non sarei più stato di nessuno. L’analista (molto più tardi) lo definì trauma aggiungendoci un aggettivo che non ricordo, per me fu soltanto una frusta di luce che dalla porta saettò su un tronco e sulla trina innevata dei cannicci. Solo dopo mi sono fatto l’idea che Jason fosse un muscoloso giocatore di football.

Quel che mi colpisce ora della foto è l’assenza totale della figura umana; e un silenzio assorto, solenne. Una notte più chiara del giorno perché è una notte di rivelazioni. C’è stato un prima e c’è un dopo, l’avvenimento è caduto nel mezzo. Non è un’istantanea, quei caldi vasi rossicci appartengono a un giardino zen. Prima di abbandonarla, questa foto, dobbiamo prendere un respiro profondo, riguardarla con la gratitudine di chi ha capito – e allora ci sorprenderà un dono inaspettato, un colore: quel verdolino, quel verde-speranza che prima si era nascosto nell’abbozzo di siepe e che ora si libera festeggiando. Come il famoso muretto giallo di Vermeer, era lì che ci aspettava. E’ un verde appena nato, adesso che ce lo siamo meritati si riproduce in spruzzi infinitesimi, nei ciuffi d’erba alla base dei piccoli pali, dove la neve non ha vinto. La gioia è un merletto delicato.

I dipinti a soggetto sacro di Vermeer sono più profani di quelli che ha dedicato a soggetti comuni, umili stradine e serve di casa. Non so se Ghirri amasse Vermeer ma certamente ha amato molto Morandi, altro esperto di meraviglia del quotidiano. Del quotidiano che non passa, conscio di una Presenza: il quotidiano in ascolto. Il fotografo proprietario della casa è morto, è morta mia madre, forse è morto Jason che ora avrebbe ottantacinque anni; ma il comprendere è eterno, nella sera fredda della delusione si può passeggiare senza paura. Tornare dove si è nati, per testimoniare l’Altrove col minimo dei mezzi.

[Immagine: Roncocesi, casa di Luigi Ghirri, 1991. Da Luigi Ghirri, Paesaggio italiano (1980-1982)].

 

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