cropped-sugimoto-seascape-north-atlantic-cape-breton-19961.jpgdi Rino Genovese

Di poche cose si può essere certi come della non esistenza di Dio. Teorie scientifiche, come quella dell’evoluzione, e posizioni teoriche filosofiche di matrice illuministica che riconducono i costrutti fantastici dei miti a un’attività antropologica sottostante, hanno fatto piazza pulita del Dio creatore, fondatore del suo stesso culto, così come presentato dalle religioni del Libro. Di conseguenza la vita umana non ha uno scopo, un destino ultraterreno o qualcosa di simile, e l’ordine dell’universo non è che un battito di ciglia nell’infinità dei tempi e nel suo caos. Queste proposizioni sono vere, nel senso che hanno alle spalle teorie, perfino dimostrazioni di tipo matematico, che fanno del Dio personale nulla di più che un’invenzione derivante da una particolare attitudine che si esprime come monoteismo. Però proprio qui si apre una chance per le religioni in generale – non soltanto per Dio ma per gli dèi. Muovendosi sul piano della credenza e non su quello della teoria, le religioni vanno viste come attribuzioni di realtà: l’elemento loro proprio è la realtà non la verità (i due registri, soprattutto nel mondo contemporaneo, si presentano disgiunti, e il concreto-fattuale non è l’astratto-concettuale). Ciò significa che i prodotti delle religioni hanno una loro efficacia simbolica, costruiscono in maniera autoreferenziale la propria esistenza culturale, in modo tale da infischiarsene completamente delle teorie scientifiche o filosofiche. 

Credere e immaginare – cioè attribuire realtà a questa o quella cosa, talvolta agli stessi sogni – è inevitabile in qualsiasi vita umana e – aggiungerei – animale. Tuttavia, laddove una credenza ordinaria è piuttosto facilmente rivedibile (credevo all’esistenza di Babbo Natale, ma avere intravisto una volta i genitori deporre fugacemente i regali sotto l’albero mi ha gettato nel dubbio), la fede religiosa va considerata come un rafforzamento della credenza su basi istituzionali che la rendono pressoché incrollabile. È l’intera realtà costruita intorno alla fede che sorregge la volontà di credere, come la chiama William James. Dentro questa realtà impensato e verità, i portati del radicale spostamento del punto di vista introdotto dalla teoria, non hanno accesso facile. Chi vuole credere crederà sempre. Anche perché è l’animismo – la credenza che colloca in un luogo imprecisato l’anima dei morti – la radice di qualsiasi esperienza del numinoso. Nel controllo sopra l’altrui e propria morte (che è un controllo una volta per tutte sull’impensato, un trattamento del “mistero”) si scorge la peculiare volontà di potenza scatenata dalle religioni. La loro forza si situa nel punto di congiunzione tra una cultura o civiltà – qualsiasi essa sia – e la natura. In virtù di questa sua funzione una religione, più ancora di una lingua, è adatta a saldare in olismo culturale identitario ogni realtà che si confronti con l’ “altro” o da questo si senta minacciata. Mentre una credenza pura e semplice porta in sé l’altra credenza come altra possibilità (la porta appare chiusa ma potrebbe essere anche soltanto socchiusa), la credenza di tipo religioso, la fede, porta in sé l’altra fede come qualcosa da superare nel tempo o da abbattere nello spazio. Di qui un’autoconsistenza che la rende particolarmente adatta a qualsiasi pretesa identitaria, anche in senso aggressivo.

Una tarda teologia morale di sapore kantiano, del genere di quella sottintesa da Ronald Dworkin nel suo Religione senza Dio (il Mulino, Bologna 2014), mi sembra oggi incapace di cogliere il nocciolo duro delle religioni. È certo che in esse si esprime una scelta del “bene” contro il “male” (qualunque sia questo “bene” e qualunque sia questo “male”); ma la questione è che l’ethos che si proponeva a Kant come collimante con un’impostazione morale filosofica era quello derivante dal pietismo protestante cui egli era stato educato, mentre oggi le religioni nel loro insieme riscoprono l’ethnos – non foss’altro, come nel lampante caso di Joseph Ratzinger, che per fornire un supplemento di senso in chiave difensiva a un Occidente che si ritiene disorientato e declinante. Il riconoscimento della pluralità delle religioni, e della loro crescente importanza culturale, ha così messo in stato d’impasse la tendenza liberale a far convivere ragione e religione, che meglio poteva esprimersi quando la società mondiale pareva avviata al trionfo dell’Aufklärung e all’affermazione del solo cristianesimo.

È sul piano di una relativizzazione dell’attribuzione di realtà propria della credenza che può oggi riproporsi una critica della forza opaca del monoteismo, non su quello di una introvabile verità morale (nozione del resto già priva di significato in Kant) comune all’uomo di fede e al non credente. Le cose cui è attribuita realtà sacra – Dio stesso, la prospettiva di una chiusura e di un coronamento del tempo storico, finanche le istitituzioni religiose quando ritrovano un po’ della vocazione originaria – hanno in sé una tensione antica e nota alla trasformazione del mondo. Soltanto il pensiero dell’utopia è in grado di confrontarsi da pari a pari con il contenuto politico-sociale delle religioni che, molto più della questione dei “fini ultimi” (Parsons), è il loro autentico tema. Ma com’è noto questo pensiero è in ribasso, attende di essere riformulato al di là dei suoi fallimenti novecenteschi – e però, nel frattempo, anche con la sua assenza si può spiegare il ritorno su larga scala delle religioni, a cui un pensiero puramente liberaldemocratico non ha nulla da opporre se non un richiamo, peraltro opportuno, alla tolleranza reciproca e al dialogo.

L’individualismo sociale, nuovo nome di un socialismo non più servito in salsa autoritaria, è il pensiero di un’utopia finalmente pragmatica che punti all’oggi, tutt’al più al domani, non al dopodomani e a un futuro lontanissimo quanto incerto. Questo pensiero è in grado di competere da pari a pari con le religioni – lo si è visto, in forma rovesciata, perfino nelle antiutopie maldestramente presentate come derivanti dall’applicazione di una scienza. Il suo statuto, infatti, è quello di una credenza o di un insieme di credenze che di continuo attribuiscono realtà al possibile traendolo fuori dall’impossibile. Ma poiché, a differenza delle religioni cementate da una fede, la credenza utopica è una credenza in un mondo trasformabile di cui si anticipa la realtà, la sua critica dell’esistente si serve della teoria anziché dichiararsene immune. Il gioco che così si apre tra attribuzione di realtà, irruzione dell’impensato e ricerca della verità è ciò che può ridare sostanza alla politica, al tempo stesso ricacciando indietro i demoni della fede pronti a imperversare come fanatismo.

[In uscita sul n. 50 della rivista “La società degli individui”]

[Immagine: Hiroshi Sugimoto, Seascape, North Atlantic, Cape Breton (gm)].

28 thoughts on “L’inesistenza di Dio

  1. Belle parole, eleganti ma… tanta fuffa. Già la frase iniziale la dice lunga. Il problema è che ad oggi la scienza non può dimostrare nè che Dio non esiste nè che Dio esiste.
    Purtroppo dopo che fu accettato finalmente che è scientifico tutto ciò che è dimostrabile, si sta tornando a un clima pre-medioevale, dove le semplici “teorie” vengono passate come scienza aggiungendo l’aggettivo “scientifiche”. O siamo nel campo della scienza o in quello della teoria

  2. @ alberto:

    mi sembri che manchi il punto dell’articolo. Mi pare che genovese intendesse dire che il progresso scientifico ha fatto sì che le descrizioni di un dio contenute nelle tradizioni e nei testi sacri delle varie religioni siano di fatto inaccettabili da prendere alla lettera, del tipo, l’universo non è stato creato come una casa da una specie di “Superman cosmico” in sette giorni ma è un processo di trasformazione che dura da 15 miliardi di anni dove non è evidente alcun oggettivo progetto in cui l’uomo è l’ultima costruzione che completa tale ipotetica casa. Analogamente la scienza storica ha messo in crisi le pretese di veridicità di ogni tradizione religiosa che affermava che un dio si sia rivelato solo in un certo luogo ed epoca mediante vari miracoli a discapito di tutte le altre tradizioni religiose. Poi è vero che si può sempre affermare che questi testi sacri non devono essere presi “alla lettera” (e dunque si può ammettere che un dio agisca anche dietro un’evoluzione agli occhi della scienza caotica e contingente e dietro credenze nei miracoli che agli occhi della scienza sono effetto dell’ignoranza) ma se le religioni si ridefiniscono in tal modo allora già sminuiscono le proprie pretese di oggettiva verità esclusiva e di unicità rispetto a tutte le altre credenze religiose e di senso.

    Per il resto comunque mi sembra che, anche se si è privi di credenze in divinità o in vita e scopi ultraterreni (presentati con descrizioni conoscitive più o meno concilianti con le scienze moderne), l’uomo non può pensare se stesso come privo di ideali. In effetti anche una scelta di vita materialistica (in senso non solo scientifico ma morale, ovvero il rifiutare valori trascendenti, magari umanistici come la dignità e la libertà umana) che dica di accettare la vita e il mondo così com’è adesso, senza sperare alcunché, rifiutando l’oggettività di ogni valore dopo aver svelato col metodo genealogico nicciano la loro origine in istinti e interessi tutt’altro che disinteressati e liberi, la trovo già in un certo senso un paradosso in quanto afferma che quella scelta di vita è stata compiuta in modo libero e disinteressato, senza influenze da istinti o interessi legati alla società in cui si vive, e inoltre lo stesso proporre come novità da condividere questa scelta di vita materialistica presuppone già un fuggire dal presente per andare verso un ideale, un mondo e una vita migliore. Mi pare insomma che una certa trascendenza, nel senso di valori oggettivi, che non vengono creati ma di cui si fa esperienza (ad esempio non si inventa la bellezza di un certo paesaggio o il valore di stare con una persona amata, semmai ci si imbatte in essi, dunque si tratta di valori non solo morali ma estetici e di senso) se la si caccia dalla porta, finisce sempre per rientrare dalla finestra. Mi domando se Dworkin evidenzia questo aspetto in quella sua ultima opera, è un mio pensiero personale di cui peraltro non saprei dare un filosofo particolare che ha molto approfondito questo aspetto della trascendenza degli ideali.

  3. Sono d’accordo con l”incipit’ che apre l’articolo di Genovese. Ritengo che la riflessione concernente il tema dell’inesistenza di Dio, per dare tutti i suoi frutti, debba essere collocata sul cruciale terreno della filosofia morale. Sotto questo profilo è facile constatare che nessun problema si è dimostrato maggiormente irresolubile di quello che si riassume nella cruciale domanda: “Si est Deus, unde malum?” (‘Se Dio esiste, da dove nasce il male?’). Domanda a cui un Padre della Chiesa come sant’Agostino, nel vano tentativo di conciliare l’attributo dell’infinita bontà di Dio con l’irrefutabile potenza del Male, finì col dare risposta ricorrendo ad una dottrina, la doppia predestinazione, non dissìmile dal manicheismo, corrente religiosa dualistica e razionalistica a cui il grande teologo cristiano aveva aderito nella sua giovinezza. Vi è da dire, peraltro, che anche la dottrina cristiana ortodossa, che concepisce il male come ‘defectus boni’, ossia assenza di bene, sembra rivelare, da parte della Chiesa e del cristianesimo, una sorta di riluttanza e quasi di paura a comprendere il significato e la portata del male.
    In realtà, ciò che colpisce è che tante persone dimostrino verso il male un tale grado di assuefazione, per non dire d’insensibilità, da non riuscire più a percepirlo nel suo sorgere e nel suo manifestarsi (come segnalava con preoccupazione Primo Levi nel finale del saggio “I sommersi e i salvati”). Del resto, è difficile negare che la circostanza più sconcertante, quella da cui dipende la banalizzazione del male, è che le persone sembrano non avere più il senso del Bene e del Male, sino al punto di non percepire neanche la propria colpevolezza. In tal modo, grazie a questo niccianesimo d’accatto e al suo ‘maquillage’ in chiave ludico-narcisistica approntato dall’accidiosa cultura del postmodernismo, il Male si espande a tal punto che investe anche le persone che sembravano buone. Quel Male la cui esistenza e la cui estensione sembrano procedere di pari passo con uno sviluppo tecnologico e scientifico, di cui sfuggono i fini, e con la congiunta regressione all’età adolescenziale, che tanti adulti coltìvano e che il sistema simbolico-pubblicitario in cui viviamo contribuisce potentemente ad alimentare.
    A questa altezza dei problemi che si pongono agli uomini dell’inizio del terzo millennio, in un’epoca che, per limitarci alla religione un tempo predominante nel nostro mondo, è ormai oggettivamente post-cristiana, come dimostrano la mancata ‘parusìa’ e l’esistenza stessa della Chiesa, sarebbe auspicabile che la risposta alle domande di senso sulla vita e sulla morte, sull’integrità della persona e sui confini della scienza, nonché sul senso del Male e del Bene, fosse costantemente misurata sulla realtà dell’‘ateismo pratico di massa’. Si tratta di un presupposto che ha un’evidenza impressionante, ma che, come tutto ciò che è noto, non sempre è conosciuto. Si può descrivere tale presupposto in questi termini: milioni di uomini in Europa, tacitamente, senza dirlo, sono usciti dal cristianesimo e dalla Chiesa, si sono allontanati dalle prescrizioni religiose in materia di condotta individuale e sociale, hanno adottato modelli di vita completamente schiacciati sulla considerazione della dimensione mondana e immediata come criterio delle opzioni razionalmente valide, hanno smesso il cristianesimo come un vestito non adatto, hanno abbandonato la Chiesa come se fosse un cimitero che si visita ancora occasionalmente, per motivi specialissimi, ma in cui non si abita e non si vive. Tuttavia, il pensiero dialettico, che sa cogliere il punto magico dell’unità dei contrari e, proprio per questo, ha una sua profonda forza etica, ci ripropone, sbloccando così il processo del reale e ponendo in tensione i suoi poli, la domanda con la quale gli uomini si sono sempre dovuti confrontare e dovranno anche in futuro continuare a confrontarsi: vi è un bene anche nel male e vi è un male anche nel bene?
    Bisogna, allora, riconoscere che vi è un aspetto del Male, che non è stato mai abbastanza approfondito e sul quale converrebbe iniziare una riflessione matura: esso è quello espresso da Mefistofele nel “Faust” di Goethe, quando questo dèmone si definisce «una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene». E, dal canto suo, Hegel, il più grande dialettico dell’età moderna, il maestro di Marx e di Lenin, non ha forse affermato che «la storia avanza dal lato cattivo» e che «la schiavitù è la culla della libertà»?
    Se non si vuole, pertanto, accettare, a causa della sua radicalità e durezza, l’indicazione di Bertolt Brecht, secondo la quale «bontà oggi significa distruggere coloro che impediscono la bontà», sarà almeno lecito considerare con la dovuta serietà l’analisi e la proposta, in apparenza meno dure ma altrettanto radicali, di Lars von Trier, il regista di “Dogville”, che alla poetica dell’estraneazione, al teatro didattico e al pensiero marxista di Brecht si richiama esplicitamente: «Bene e male sono dentro di noi e sono le circostanze a fare uscire allo scoperto o l’uno o l’altro. Credo allora che dobbiamo lavorare sulle circostanze.» E’ questa, a mio avviso, la sola “utopia concreta”: quella che merita di essere sostituita alle rancide religioni, quella di cui l’umanità ha realmente bisogno.

  4. @ Eros Barone

    Le circostanze certamente. Però se le religioni sono rancide, non è che Hegel se la passi meglio. Che domanda è “vi è un bene anche nel male e un male anche nel bene”? Non sto qui a provocare, ma è una supercazzola. Poi, la storia non avanza e la schiavitù è la culla di un bel niente. La smettiamo di parlare di bene e male come di due sostanze? La vita è un bene o un male? Sono domande del cavolo. Il fatto che gli uomini se le pongano da secoli non depone certo a loro favore.

  5. “…il nocciolo duro delle religioni. È certo che in esse si esprime una scelta del ‘bene’ contro il ‘male’ (qualunque sia questo ‘bene’ e qualunque sia questo ‘male’)…” Così asserisce Genovese, ma l’esperienza storica dimostra che le chiese hanno sempre trovato più facile indicare ciò che non si deve fare piuttosto che ciò che si deve fare. Non a caso quel condensato della religione che è oggi, nell’Occidente, l’etica di derivazione kantiana è concepito come capacità ‘a priori’ di distinguere il male, laddove i presupposti di questo nucleo di convinzioni (sostanzialmente giusnaturalistiche) è, in primo luogo, la subordinazione della politica all’etica e, in secondo luogo, la priorità del male rispetto al bene. La conseguenza è che, in questa versione vittimistica del giusnaturalismo, i ‘diritti dell’uomo’ sono dei diritti al non-male, quali non essere offesi e maltrattati né nella propria vita né nel proprio corpo né nella propria identità. Sennonché pretendere di impedire all’umanità di rappresentarsi il Bene, di finalizzare a questa possibilità i propri poteri collettivi, di operare per promuovere l’avvento di possibilità inedite, di pensare quella che è la categoria suprema dell’intelligenza, vale a dire la possibilità di ciò che può essere, significa impedire all’umanità di essere sé stessa: significa, per riprendere un tema polemico già svolto in questa sede, inchiodarla alla condizione di un “essere-per-la-morte”, inibendole la capacità, che le appartiene in virtù della sua “Gattungswesen”, di riconoscere in sé e di estrinsecare fuori di sé la dimensione immortale che la costituisce. Lottare contro questo tipo di nichilismo, che nega nel contempo sia l’umanità che il pensiero, significa lottare contro la subordinazione avvilente all'”american way of life”, mettendo in discussione l’incapacità, caratteristica del mondo contemporaneo, a nominare e a volere un Bene. Parte integrante di questa lotta è la critica radicale dell’ideologia etica in tutte le sue varianti: dottrina dei diritti umani, visione vittimista dell’uomo, diritto di ingerenza umanitaria, bio-etica, democratismo generico, etica delle differenze, multiculturalismo, relativismo culturale ecc. ecc.

  6. @ DFW vs RB

    Il Male non è una categoria dell’animale umano, ma una categoria del soggetto, laddove quest’ultimo non coincide né col soggetto psicologico né col soggetto riflessivo (o ‘cogito’ cartesiano) né col soggetto trascendentale kantiano. In questo senso, il Male non è una sostanza, ma una possibilità che va pensata a partire dal Bene. Se si prescinde dalla nozione del Bene, ciò che resta è infatti soltanto l’innocenza della vita, che, come Nietzsche insegna, è al di qua del Bene e del Male.
    Infine, per quanto concerne Hegel, non conosco una categoria più pertinente e più folgorante di quella che il filosofo di Stoccarda elabora nei suoi scritti giovanili per definire la ‘forma-religione’: “l’oggettività senza oggetto della vita religiosa”. L’esigenza che si pone ad una mente che ragiona è quella di prestare la massima attenzione alle distinzioni concettuali; diversamente, non si sa mai in che direzione ci si sta muovendo e di che colore siano le vacche…

  7. @ Michele Dr
    Condivido che che” le descrizioni di un dio contenute nelle tradizioni e nei testi sacri delle varie religioni siano di fatto inaccettabili da prendere alla lettera, del tipo, l’universo non è stato creato come una casa da una specie di “Superman cosmico” in sette giorni ma è un processo di trasformazione che dura da 15 miliardi di anni”.

    Peraltro esistono delle “leggi dell’evoluzione” dove il caso rappresenta un fattore di “disturbo” e delle quali non solo non comprendiamo appieno il funzionamento ma nemmeno l’origine (dio o cos’altro?). Insomma non è detto che tra religione e scienza uno abbia ragione e l’altro torto: potrebbero avere torto entrambi. Certo a giustificazione delle religioni certe affermazioni vanno contestualizzate (si parlava a gente che adorava il vitello d’oro).
    Per la scienza sembra certa la fine del mondo tra miliardi di anni con il risucchio della terra nel sole, ma l’universo dovrebbe continuare ad esistere. E il genere umano scapperà prima? Noi (Non) staremo a vedere, non lo sapremo mai

  8. E’ molto difficile, mi pare di notare, esprimere concetti ” difficili ” in frasi semplici e non semplicistiche.

    Paroloni roboanti, quasi a voler dare esibizione della propria erudizione, che non è cultura, che non è sentire, che non è, soprattutto, INTUIZIONE.

    Mi domando: non è forse che si stia facendo confusione fra religione e Fede ? Fra dogmi ed Essenza Sublime ?

    Rimango dell’idea che se un Essere Umano si toglie dal gran fracasso ( in tutti i sensi ) per almeno un anno e si lascia cercare da sè stesso per ritrovare ed ascoltare le proprie intime melodie, troverà di certo risposta che certe teorie scientifiche non sapranno mai dare.

    E visto che mille citazioni o spezzoni di citazioni son state vendute al mercato dell’erudizione, metterò a disposizione di tutti quanti, me compreso, quanto affermò un Illuminato del ‘ 900, ovvero Gustavo Adolfo Rol…:

    ” E se diranno che siamo sognatori, non importa;
    solo i sognatori possiedono l’intuizione totale. “

  9. Ringrazio Rino Genovese per avere postato il suo articolo, che tocca problemi oggi centrali.

    Solo un breve commento per @ Michele Dr, perché mi interessa il problema che pone e mi interessa Ronald Dworkin, di cui viene ricordato un breve saggio – che è rimasto incompiuto a causa della morte. Ronald Dworkin è il filosofo che recentemente ha lavorato di più sull’idea di oggettività della morale: un’idea di trascendenza immanente della morale (e del valore) che non si appoggia a forme di naturalismo o di teodicea storica. Ha scritto articoli interessanti su questo, ma il libro da cui partirei è “Giustizia per i ricci” (Justice for hedgehogs).

  10. @ Barone

    spero di non essere offensivo, ma hai un modo di esprimerti che considero deleterio, tipo citare una frase di Hegel che io non conosco ( non conosco Hegel, né penso che sia un bene conoscerlo, e non capisco perché non puoi rispondere semplicemente alla mia domanda ) e che poi dovresti spiegarmi cosa significa, dato che presa alla lettera è insignificante. Non so perché tu senta il bisogno di definire la forma religione. Di Hegel so solo che credeva in una cosa assurda, tipo il corso della storia, lo spirito della storia o robe simili. La mia domanda è concreta: ha senso chiedersi se esiste un bene nel male e viceversa? secondo me è una domanda priva di senso. Dal momento che il mio bene può significare il male di un altro e che non si può prendere il punto di vista di nessuno che domanda è? In certi casi accadrà che il bene di uno sarà il male di un altro e in altri casi no. Ma in generale le forme di vita muoiono e si basano sulla sopraffazione. Sappiamo che la vita è fatta così e pazienza. Bene e male presi di per sé sono inservibili, quindi che ne parliamo a fare? se sbatto mi faccio male, se do un pugno faccio del male. questo è l’unico male di cui si può parlare.

    Il soggetto è un animale umano, si spera, per cui non capisco il senso della prima frase. Il passaggio di Nietzsche mi sembra falso. Cos’è l’innocenza della vita? Tutti hanno più o meno un’idea di bene, e provano vari piaceri nella vita, ma questo non porta a concepire un’idea di Bene, che non può essere slegato dalla realtà e che sarà diverso secondo vari punti di vista. E comunque prescindendo da questa idea di Bene non resta affatto l’innocenza della vita. Resta quello che resta.

    Vorrei che mi spiegassi come può l’umanità rappresentarsi il Bene e soprattutto essere sé stessa. Qual è questa umanità che dovrebbe emergere? Mi sembra, correggimi se sbaglio, lo stesso afflato metafisico di Marx, che infatti è allievo di Hegel. E poi di quale nichilismo stai parlando? Di quale “essere per la morte”? Davvero, ma quando scrivi queste cose a cosa e a chi ti riferisci? Le varianti dell’ideologia etica che citi sono tutte cose meravigliose che ci permettono di vivere bene, sono le circostanze che ci paiono adeguate a tirare fuori il meglio. Il bene per me è vivere in pace, poter mangiare, studiare eccetera, quello che ho fatto finora in Italia, con tutto che è un paese pieno di problemi. Il diritto allo studio ti sembra un diritto al non male?

  11. Le prime frasi dell’intervento sono decisamente le più deboli. Non credo che nessun argomento empirico che riguardi la conoscenza della natura o della società possa confutare l’esistenza di un essere che non è empirico. Su questo, le confutazioni kantiane delle prove ex causa e ex fine sono valide anche simmetricamente: nessun credente smetterà di credere perché accetta le teorie scientifiche sull’origine dell’universo o sull’origine delle specie. Semplicemente, troverà un altro quadro concettuale generale per far quadrare la sua credenza religiosa con le conoscenze scientifiche.
    Probabilmente le ragioni per cui si continua a credere sono quelle che hanno a che fare con la parte centrale dell’intervento: la forza olistica, creatrice di senso e di realtà, e soprattutto di realtà sociale, della religione. E in questo senso aggiungerei anche il ruolo fondamentale del rito, dal momento che nessuna religione è tale se ridotta al suo solo contenuto intellettuale. Su tutti questi terreni, però, io penso che anche il pensiero razionale ateo rispetta correttamente i propri limiti se riconosce che non può trovare delle teorie definitive, “scientifiche” o simili, ma può solo fare un lavoro di esplicitazione dell’esperienza, lavoro che non può trovare un punto d’arresto perché dentro l’esperienza si sta, e non la si può oggettivare mai del tutto. Invece ciò che si trasforma in conoscenza scientifica accettata è frutto di una oggettivazione riuscita.
    Ecco perché penso che ci siano delle buone ragioni epistemiche (oltre che morali) per rispettare la credenza delle persone religiose, e non ridurla a falsa coscienza criticabile da un presunto punto di vista “già emancipato”. Queste ragioni epistemiche e morali sono dietro un’idea di liberalismo che riesca a rispettare i cittadini religiosi, anche accettando il carattere “forte” della religione. La sfida, adesso, è riuscire a costruire le condizioni per una convivenza di cittadini religiosi e non religiosi in questi termini. L’utopia dell’individualismo sociale mi sembra condannata a oscillare tra due estremi: o non assume su di sé fino in fondo i caratteri della religione (cioè l’assoluta inviolabilità del suo nucleo sacro, che legittima l’uccisione in suo nome) e rimane razionalmente riflessiva, ma allora sarà “debole” come il liberalismo di fronte a ogni fanatismo religioso; oppure assume su di sé fino in fondo la sacralità del suo ideale, e in nome di questo ideale legittima l’imposizione violenta di una concezione del bene, trasformandosi in religione secolare. Ma questa seconda storia l’abbiamo già vissuta.

  12. Se chiamiamo Dio un essere superiore che ci ha creati ed in qualche modo ci dirige, siamo molto lontani, con i mezzi della scienza 2014, per dire se esiste o meno. Se chiamiamo Dio quel che razionalmente non spieghiamo, ragionevolmente spiegheremo sempre maggiori cose avanzando nel progresso. Dal punto di vista della scienza va accettato che molta biblioteca perde di valore (diviene obsoleta) mano mano che il progresso avanza e questa perdita di valore fa da ostacolo insormontabile a molte menti altrimenti brillanti che potenzialmente sarebbero aperte al progresso, ma che proprio non riescono a staccarsi dai feticci divenuti obsoleti.

  13. @ mauro piras

    Mi domandavo se nella tua visione di liberalismo fondato su una società di liberi e uguali questi princìpi di libertà e uguaglianza hanno fondamento su una certa concezione morale (anche se avente un contenuto minimo di valori) oppure se poggiano su semplici ragioni politiche che hanno il solo fine di permettere che ciascun individuo possa scegliere di vivere una sua visione morale privata. Se la tua risposta è che questo liberalismo ha fondamenti morali, mi sembra allora che questa attribuzione di valori morali oggettivi al liberalismo sia qualcosa di comune alle visioni creatrici di senso delle religioni, sebbene il liberalismo non precisi la natura e l’origine trascendente della sacralità di questi valori “trascendenti nell’immanente”, in modo da lasciare alle religioni la libertà di esprimersi su questi aspetti. Mi domando anche se conosci qualche filosofo morale e politico in particolare che ritieni sia significativo su questo argomento.

  14. Sorprendente che non ci si sia accorti come l’intero intervento vada nella direzione di una forte valorizzazione della credenza nei confronti della teoria sia di tipo filosofico sia di tipo scientifico. È chiaro che se uno volesse farsi una teoria, oggi un po’ fuori moda, deistica o magari panteistica potrà farsela – e quella sarebbe “vera” (nel senso che si misurerebbe con la questione della verità) o “falsa” per il sostenitore di una teoria diversa riguardo al presunto orologio dell’universo. In questione nell’articolo è il dio delle religioni, in particolare quello delle tre religioni monoteistiche: ed è questo che non esiste per il pensiero scientifico e filosofico moderno in quanto dio creatore. Tuttavia ciò non è affatto importante perché le religioni, come del resto le credenze in generale, si muovono su un piano che è definito come “attribuzione di realtà”: un piano del tutto diverso da quello delle teorie scientifiche o filosofiche. La filosofia può ritornare in campo soltanto come pensiero dell’utopia, quando cioè, evidentemente in maniera critica, si pone il problema della necessità delle credenze e di come orientarle in un modo che non sia quello della fede religiosa. Attenzione Mauro! Anche la religione secolarizzata – quella che abbiamo dinanzi nel mondo occidentale moderno – è arrivata alla conclusione, una sorta d’indebolimento della fede rispetto ai tempi delle crociate, che non si può uccidere in nome del cosiddetto “vero dio” (implicitamente riconoscendo una pluralità di religioni). Dunque perché non potrebbe arrivarci il pensiero socialista, riconoscendo che dopotutto non è affatto una scienza (che sarebbe vera o falsa) ma soltanto un’utopia, cioè un insieme di credenze che, attribuendo realtà a un orizzonte ideale, non per questo si presenta in modo imperativo e totalizzante?

  15. @ DFW vs RB

    “non conosco Hegel, né penso che sia un bene conoscerlo”: ma si rende conto di ciò che ha scritto? e ritiene possibile condurre una discussione a partire da una simile premessa? non avrei mai pensato che la “Hegellosigkeit”, identificata con un atto di deliberata ignoranza, potesse essere assunta come premessa maggiore di un ragionamento il cui scopo è quello di glorificare “tutte quelle cose meravigliose che ci permettono di vivere bene”…

  16. @ Barone

    Io non ho posto la mia ignoranza su Hegel come premessa a un ragionamento, l’ho posta per dirti che è inutile che me lo citi dato che non lo conosco. Poi non sto glorificando nulla. Osservo semplicemente che le condizioni favorevoli a far emergere il buono dalle persone sono tutto sommato presenti oggi, io le sto vivendo. Allora non capisco come fai a parlare di “essere per la morte”. Puoi spiegarmi cosa intendi senza ricorrere a concetti altri e riferendoti a qualcosa di concreto? Puoi giustificare in qualche modo che la democrazia liberale impedisce all’umanità di essere sé stessa? O anche in che modo il progresso scientifico ti sembra procedere di pari passo con il Male? Puoi farmi degli esempi concreti di questo male? Come fai a parlare di ateismo e poi dire che oggi le persone sembrano non avere più un’idea di Bene e di Male, e che non si renderebbero conto della propria colpevolezza?

  17. Analizzare il modo in cui si pone oggi il problema del rapporto fra religione e politica è un’esigenza inderogabile se si intende dare corpo e sostanza a questa discussione sulla natura e sulla funzione delle religioni. Quel problema è infatti tornato alla ribalta, investendo significativamente sia i vertici che la base del mondo contemporaneo. Per quanto riguarda i vertici, sembra essere tornata di attualità la vecchia alleanza fra il trono e l’altare, che contraddistinse l’epoca della Restaurazione. Il modello, ancora una volta, è quello incarnato dagli Stati Uniti, nazione che ha generato le esperienze dei cosiddetti ‘neocons’ o ‘teo-cons’, ispirando qualche pacchiana imitazione anche nel nostro paese (così come non solo pacchiano ma anche grottesco è stato, sempre nel nostro paese, il culto tributato dai ‘mass media’ a Barak Obama, il quale con i suoi richiami al ‘Manifest Destiny’ conferma l’ispirazione religiosa, e religiosa in senso fondamentalistico, della politica statunitense). La religione, in altri termini, è tornata ad essere, come ai vecchi tempi, un modo per mantenere la coesione della società. Infatti, quest’ultima, essendo un aggregato di individui, richiede l’istituzione del legame religioso come uno dei mezzi per tenere insieme individui che restano essenzialmente separati. Se la religione, intesa come ‘instrumentum regni’, si identifica con la politica, non meraviglia allora che, quando, come oggi accade, la politica è in crisi, la religione svolga una funzione vicaria nella organizzazione del consenso al potere.
    Tuttavia, accanto a questa funzione politico-ideologica di stampella del potere, svolta dalla religione in quanto istituzione, esiste anche il bisogno di religione che esprime il mondo degli “esclusi”, il mondo di coloro che sono ai margini della civiltà contemporanea. Si tratta di una ricerca di ‘co-appartenenza’ a un sentire comune, che ha, implicitamente e potenzialmente, una valenza contestativa contro coloro che sono considerati gli “inclusi”. Da questo punto di vista, il pericolo è che la religione, oltre che ‘instrumentum regni’ (strumento del potere), diventi ‘instrumentum belli’ (strumento di guerra): l’equivalente per i popoli oppressi e per gli emarginati non più dell’oppio ma della cocaina, si potrebbe dire parafrasando la celebre definizione che Marx dètte della religione. D’altra parte, se è vero che, quando ci si riferisce al fondamentalismo, lo si qualifica spesso con l’aggettivo ‘islamico’, è altrettanto vero che il fondamentalismo esiste dovunque si verifichi una commistione tra religione e politica, dovunque una ‘verità assoluta’ si ponga anche come ‘potere assoluto’.
    In realtà, oggi ci troviamo coinvolti, e siamo quasi travolti, da un processo apparentemente inarrestabile di crescente degradazione della vita, che nasce dalle distorsioni profonde che la mentalità borghese-capitalistica ha introdotto all’interno della personalità umana. Le vecchie dittature potevano essere facilmente riconosciute grazie alla centralità che assumeva in esse la figura del dittatore: una figura personale che le rendeva riconoscibili, talché tutti sapevano di vivere sotto una dittatura. La dittatura del denaro non è invece personificabile e, quindi, è molto difficile riconoscerla come tale. Accade perciò che si viva sotto la dittatura del denaro convinti di essere in una democrazia politica: questa è la condizione in cui ci troviamo oggi. Vi è, in uno scritto del 1856, una frase di Karl Marx, spesso accusato di essere soltanto un materialista, che suona in questi termini: «Con la stessa velocità con cui l’umanità diviene padrona della natura, l’uomo pare assoggettarsi ad altri uomini. Tutte le nostre invenzioni e i nostri progressi sembrano risolversi nel fornire una vita spirituale alle forze materiali e nel mettere in ridicolo la vita umana riducendola a una forza materiale».
    Nella storia delle classi che si sono ribellate allo sfruttamento e al dominio, per contro, è possibile scoprire una grande tensione spirituale, che merita di essere posta in risalto: nella figura del vecchio contadino, nella figura dell’operaio di mestiere, nella figura della madre di famiglia che porta da mangiare agli scioperanti, nella figura del militante di base che fa politica in piena gratuità (Gramsci affermava, in tal senso, la superiorità morale e spirituale, rispetto al prete cattolico, dell’operaio comunista, il quale, animato dalla consapevolezza di essere protagonista di un processo individuale e collettivo di emancipazione, dopo una giornata di duro lavoro in fabbrica si recava in sezione per dedicarsi al lavoro politico), così come nel desiderio e nel bisogno di cooperare, di solidarizzare e di lottare, che tali figure hanno storicamente incarnato, vi è un contenuto profondo, in cui si esprime, per l’appunto, la tensione materiale e spirituale che è intimamente connessa all’idea dell’emancipazione: quella emancipazione di cui si può e si deve affermare che o è un processo ininterrotto di liberazione o è soltanto un’altra forma di oppressione.

  18. Sia la questione del Male, che impedisce qualsiasi teodicea, sia quella della vita “degradata” cui le religioni rispondono oggi come se fossero una specie di cocaina – cioè i punti toccati da Barone – sono strettamente legati al piccolo discorso che ho tentato di fare. Il passaggio successivo a una politica di emancipazione, per aderire alla quale si può essere credenti o non credenti, dovrebbe però chiarire preliminarmente un punto: l’utopia non è una religione ed è il contrario della scienza. Proprio il suo “processo ininterrotto” fa sì che sia continuamente rivedibile, che nessuna meta possa essere fissata come fine della storia. Non è dunque una verità scientifica e non è una fede intesa come una credenza che tende a chiudersi su se stessa. Il suo statuto è quello di una credenza che attribuisce realtà a un determinato orizzonte ideale, che si muove nel processo stesso.

  19. “Di poche cose si può essere certi come della non esistenza di Dio”.
    Direi piuttosto: l’affermazione “Dio esiste” e l’affermazione “Dio non esiste” sono entrambe – allo stato attuale delle conoscenze – inverificabili e infalsificabili. Quindi:
    – in un discorso che si voglia scientifico o tendente allo scientifico, sono affermazioni inutili (vanno citate, volendo, solo per dire che sono inutili e che “il problema dell’esistenza di Dio” è un falso problema);
    – nella vita pratica, ciascuno faccia come gli pare.

    Ho l’impressione che dove Genovese scrive “religione”, sia più utile intendere sempre “monoteismo”. Ad esempio, una frase come

    Mentre una credenza pura e semplice porta in sé l’altra credenza come altra possibilità (la porta appare chiusa ma potrebbe essere anche soltanto socchiusa), la credenza di tipo religioso, la fede, come qualcosa da superare nel tempo o da abbattere nello spazio. Di qui un’autoconsistenza che la rende particolarmente adatta a qualsiasi pretesa identitaria, anche in senso aggressivo

    mi pare si applichi decentemente ai monoteismi, assai meno a tutto il resto.

    Infine:

    Teorie scientifiche, come quella dell’evoluzione, e posizioni teoriche filosofiche di matrice illuministica che riconducono i costrutti fantastici dei miti a un’attività antropologica sottostante, hanno fatto piazza pulita del Dio creatore, fondatore del suo stesso culto, così come presentato dalle religioni del Libro.

    Questo, semplicemente, non mi pare sia vero. Le teorie scientifiche e le posizioni teoriche citate mi pare lascino ancora largo spazio al “mistero”. Che cosa c’era prima del grande botto? Com’è che l’uomo è quel che è?
    (Ovviamente il fatto che esista del “mistero” non comporta che ciò che i libri dei monoteismi dicono sia vero – letteralmente o allegoricamente -, né che l’unico modo di affrontare il “mistero” sia la credenza nell’unico creatore).

    Cenno autobiografico. “Mozzi, perché credi?”. R.: “Perché mi viene naturale”. E qui, purtroppo, si va a sbattere contro un muro.

  20. Quanto starei meglio se la situazione fosse alla rovescia, se cioè le religioni fossero vere, essia, però irreali. Invece sono reali e false, e mi chiedo a chi importi il loro declino teorico se la loro prassi continua indisturbata, anzi accresce, laddove per prassi non intendo la frequentazione di una liturgia o l’osservanza di un culto ma la schizofrenia congenita di qualsiasi sistema concettuale che ti chiede di parlare in un modo aspettandosi che tu ti comporta in tutt’altro, che predica la perfezione sicuro della tua imperfezione, che ti vuole beato utilizzando come premessa la tua dannazione, che ti vuole guarire sancendo per questo la tua malattia alla nascita.

    Le religioni istituzionalizzate promettono la felicità postuma postulando così l’infelicità corrente, questa è la nociva “attribuzione di realtà” che andrebbe riscattata. Al di là dei contenuti di fede, è il metodo della fede, il suo effettuale potere sulla “anima”, ovvero sulla volontà degli uomini e delle donne spiritualizzata per poter essere meglio soffiata via, l’ostacolo all’emancipazione personale da rimuovere, e sostituire il metodo della religione con il metodo dell’utopia è come non voler più procedere a tentoni in equilibrio sulle mani, avendo deciso di voler oscillare coi propri piedi sempre però su una fune tesa sopra l’abisso, invece di sostituire una buona volta e per tutte la fune con un ponte d’assi, oggi, e domani chissà, magari anche qualcosa di più solido. Ci si torna a legare le mani con la corda che sarebbe invece ora di tagliare.

    Fino a quando la “realtà” sarà vista come un sottoprodotto della “finta verità” utilizzata come trucco psicologico che spinge all’azione, addirittura all’azione morale, si sarà alle prese con una commedia tanto più ridicola quante più saranno le sue ricadute nel tragico.

    Oh, questo è capitato nella mia mente dopo aver letto l’articolo di Genovese, assieme a un frivolo interrogativo: se l’incipit fosse stato: “Di poche cose si può essere certi come della non esistenza del trobacco sintomonico col becco blu.” in quanti si sarebbero sentiti in dovere di specificare “Ehi, dire che non hanno dimostrato l’esistenza del trobacco sintomonico col becco blu non equivale a dire che hanno dimostrato la non esistenza del trobacco sintomonico col becco blu.”?

    I miei saluti!,
    Antonio Coda

  21. (Intanto io contribuisco al declino del congiuntivo sbagliandone uno: “(…)che ti chiede di parlare in un modo aspettandosi che tu ti comportI in tutt’altro” sarebbe dovuto essere, ma poche cose sono come avrebbero dovuto; la cose il più delle volte sono e stop.)

    Saluti!, Coda

  22. L’insistenza di Dio, ovvero lo stalking ultraterreno.

    Cmq, se può interessare:

  23. Non sono uno scienziato, i miei strumenti sono probabilmente troppo rudimentali e improvvisati per poter dire la mia, eppure… Insomma, io non sono mai riuscito a capire come e perché la conoscenza scientifica smentirebbe la dimensione spirituale (non parlo di religioni, che mi interessano poco, se non per quanto possono contenere di “universale”). A me continua a sembrare, al contrario, che più si approfondiscono certi campi (si pensi alla fisica quantistica) più diviene facile credere in altre realtà, ad esempio spirituali e anche l’idea di Dio (magari non unico, ma relativo ad un universo…) appare una possibilità plausibile. Trovo certe dichiarazioni di materialismo ( come se non fosse cambiato il concetto stesso di materia!) ottuse e riduttive in modo sorprendente. Non mi riferisco a chi è intervenuto in questo blog. Forse si tratta proprio del muro della specificità individuale contro cui si va a sbattere. Per qualcuno è “naturale” sentire in un modo e non in un altro. Anche questo, in fondo, fa parte del mistero.

  24. Molto divertenti le osservazioni finali di Coda: ma, caro Coda, lei sa benissimo che intorno a Dio la disputa dura da millenni e la Sua eventuale non esistenza fa rabbia a molti. Del resto tutto l’andamento del mio articolo mira proprio a questo: anche se sul piano scientifico e filosofico moderno, diciamo pure novecentesco e post-novecentesco, Dio appare “inesistente”, questo non vuol dire che lo sia perché la sua esistenza culturale è assicurata dalle religioni (sì, caro Mozzi, sto parlando delle tre religioni monoteistiche) in quanto istituzioni e dalla fede che è un tipo di credenza particolare capace di conferire realtà in modo pressoché incrollabile.
    Vorrei poi fare una precisazione. Una cosa è il “dio dei filosofi”, un’altra è il Dio della fede. Se Mozzi e io ci incontrassimo in un dibattito, lui potrebbe tirar fuori, che so, l’argomento ontologico riguardo all’esistenza di Dio, io potrei ribattergli con l’assunto di Kant “l’esistenza non è predicabile” (però Kant non era ateo, considerava Dio un postulato necessario per evitare il “regressus ad infinitum”, quello cui a un certo punto si riferisce anche Mozzi, e soprattutto per dare solidità al suo sistema morale: questa è la “teologia morale” cui si accenna nell’articolo). Se nell’eventuale disputa filosofica intorno a Dio, Mozzi volesse usare l’argomento che né l’esistenza né la non esistenza di Dio sono verificabili o falsificabili, io risponderei che l’onere della prova spetta a chi afferma una cosa tanto decisiva come l’esistenza di Dio, non a chi la nega. Ma saremmo sempre sul piano delle idee, o del confronto tra posizioni teoriche diverse.
    Se ci riferiamo al Dio delle tre religioni monoteistiche, invece, il discorso è differente: non siamo più sul piano della teoria ma su quello della credenza (qui rispondo a Durando: in questo senso la spiritualità non è affatto messa fuori causa, ma lei sa che ci sono anche religioni, come quelle orientali, senza Dio…). E se volessimo, per ipotesi, fare interagire la scienza e la filosofia novecentesca e post-novecentesca, con tutte le loro teorie (a cominciare da quella del big-bang), Dio non lo troveremmo come esistenza empirica che ha creato il mondo secondo un “disegno intelligente”. Anche l’idea deistica di Dio come regolatore dell’orologio dell’universo – un altro “dio dei filosofi” – è piuttosto fuori moda al giorno d’oggi. Sembrerebbe avere avuto più ragione Democrito “che il mondo a caso pone”. Ma con ciò siamo di nuovo sul piano della filosofia, eventualmente della scienza, non su quello della fede che è un altro piano, decisamente autonomo.

  25. Vorrei dare un piccolo contributo a questa discussione ricordando un piccolo episodio (peraltro probabilmente a molti noto) che si svolse alla fine del settecento, un scambio di battute tra Napoleone Bonaparte (allora primo console) e il matematico e fisico Pierre Simon Laplace, che gli aveva presentato il suo lavoro “Exposition du système du monde” (si può trovare la storia, tra l’altro, su Wikipedia, da dove ho preso le citazioni).
    Napoleone commentò:

    “Citoyen, j’ai lu votre livre et je ne comprends pas que vous ne fassiez pas de place à l’action du Créateur”

    e lui rispose senza mezzi termini:

    “Citoyen Premier Consul, je n’ai pas eu besoin de cette hypothèse”.

    Il succo di come si pone la scienza di fronte a tutte le questioni di fede, così come a quelle etiche, sta tutto qui, in questa semplice risposta del cittadino Laplace, icastica e distaccata. Forse è proprio questo che sconcerta e irrita molti. Che poi, in sé, quella risposta non implica necessariamente una professione di ateismo: molti validissimi scienziati furono e sono credenti. Se vogliamo è una affermazione di metodo, un invito a mettere tra parentesi le proprie convinzioni filosofiche e religiose nel lavoro scientifico, che sia di tipo marcatamente teorico oppure sperimentale, anche se poi è noto come tendenze o idiosincrasie filosofiche (nonché il periodo storico e il milieu intellettuale) operino più o meno palesemente nella produzione delle idee scientifiche – gli scienziati non sono alieni che arrivano da Marte. Ma alla fine tutto quello che viene proposto, elegante o meno che sia, deve passare al vaglio della verifica sperimentale: se ciò non risulta possibile, non si sta parlando di ipotesi e teorie scientifiche. E i risultati, almeno per quel che riguarda le scienze naturali (qualcuno le definisce anche “dure”) mi pare siano incontestabili.

  26. Aggiungo anch’io, rifacendomi al ‘caso Galilei’, qualche altra considerazione in margine alla tematica introdotta da Ferrero. L’asse dello scontro fra lo scienziato pisano e la Chiesa è da individuare infatti, a mio giudizio, oltre che nel conflitto epistemologico fra realismo e strumentalismo (alla genesi, alla dinamica e all’esito del quale, quindi al ‘compromesso bellarminiano’, sarebbe opportuno dedicare altrove un’analisi specifica), nel processo di disantropomorfizzazione della natura avviato dalla scienza moderna. La carica potentemente materialistica ìnsita in tale scienza era infatti destinata a produrre un antagonismo irriducibile con la cosmologia e con l’ontologia religiose e, alla fine, malgrado il ricorso alla dottrina della ‘doppia verità’ ed i tentativi di operare distinzioni tra ‘come vadia il cielo’ e ‘come si vadia in cielo’, con la stessa teologia. E, quando evoco questa carica esplosiva, intendo riferirmi in primo luogo non alle concezioni filosofiche della scienza moderna elaborate da Cartesio o da Newton (che non erano materialistiche), ma a quel carattere distintivo (còlto invece con grande consapevolezza da Galileo) che fa di essa una forma di conoscenza metodologicamente atea.

    Orbene, se è vero che il finalismo, in senso proprio, è stato introdotto nel mondo dall’uomo
    (= antropomorfizzazione della natura), è altrettanto vero che l’estensione di esso, operata dal pensiero filosofico, alla biologia e in genere alla realtà fisica non è altro che un ‘idolum tribus’ (Bacone) o, per dirla in altri termini, un ‘asylum ignorantiae’ (Spinoza). L’evoluzione biologica dimostra infatti ‘tendenze’, non ‘fini’, e scambiare le une con gli altri… è peggio d’un delitto, è un errore (per riprendere la frase che usò Fouché, quando apprese la notizia della fucilazione del duca d’Enghien): ossia è un errore di grammatica epistemologica. Anche per questo motivo Marx poteva salutare con entusiasmo “L’origine delle specie” di Darwin e scrivere ad Engels nel 1859 quanto segue: « È proprio stupendo. Per un certo aspetto la teologia non era ancora stata sgominata e lo si è fatto ora ». Non a caso anche l’analisi marxista della società mette in evidenza ‘leggi di tendenza’, non ‘fini’. I ‘fini’ sono propri semmai degli individui umani, intesi come singoli o come gruppi operanti nella società e condizionati da essa, ma non sono propri della società stessa quale prodotto e risultato del loro operare.

  27. Rino Genovese scrive:

    Se nell’eventuale disputa filosofica intorno a Dio, Mozzi volesse usare l’argomento che né l’esistenza né la non esistenza di Dio sono verificabili o falsificabili, io risponderei che l’onere della prova spetta a chi afferma una cosa tanto decisiva come l’esistenza di Dio, non a chi la nega.

    Ma io ho scritto che le affermazioni attorno all’esistenza o inesistenza di Dio

    in un discorso che si voglia scientifico o tendente allo scientifico, sono affermazioni inutili,

    e quindi l’unico esito possibile del mio “argomento” è che conviene non perdere tempo e parlare d’altro.

    (Mi scuso per il ritardo, ma incredibilmente l’avviso della prosecuzione della discussione mi è arrivato mezz’ora fa).

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