di Marina Polacco
Parlare male delle tracce di maturità mi è sempre parsa un’abitudine malsana. In parte perché ci sento riecheggiare un pericoloso qualunquismo: dire male, quasi a priori, di tutte le tracce suona come lamentarsi del fatto che tutti i politici sono corrotti, che in Italia non funziona nulla, che nessuno paga le tasse, che i treni non arrivano mai in orario. Ci sento riecheggiare insomma quella scarsa considerazione della cosa pubblica e dello Stato tipicamente italiana, per cui le istituzioni agli occhi del cittadino medio sono sempre allo sfascio, corrotte, mal funzionanti, gestite in maniera clientelare, e così via – senza che per questo ci sia il minimo accenno alla responsabilità individuale di ogni singolo cittadino. In parte perché le critiche nascono molto spesso da disinformazione o pura e semplice ignoranza, cosicché le tracce sono sempre genericamente ‘difficili’, avulse dai programmi, non pertinenti, mentre basterebbe avere le idee più chiare sulle caratteristiche e sullo spirito delle diverse tipologie d’esame per intenderle in maniera diversa. In questo secondo caso le critiche sembrano improntate a un altro malcostume tipicamente italiano, che è quello di piangersi addosso e di scaricare su altri la responsabilità dei propri fallimenti, cercando sempre altrove dei rassicuranti capri espiatori. La questione relativa al testo di Quasimodo è esemplare: il problema non è tanto la presenza di un autore che molto spesso non viene trattato (perché il fine della tipologia A è proprio quello di mettere alla prova le capacità di analisi e di critica di uno studente su un testo che non ha mai letto prima, per quanto sia ovvio e naturale che tutti gli studenti sperino in un autore conosciuto e analizzato in classe, sul quale hanno modo di orientarsi meglio, di sentirsi più rassicurati), bensì la qualità intrinseca del testo stesso. Ma su questo torneremo.
Tuttavia tra i commenti a caldo della prima ora, abbiamo notato con un’amica (di cui consiglio la lettura del pezzo apparso sul suo blog) che molti dei nostri amici si erano riversati su facebook e su ogni altro social network subito dopo la divulgazione delle tracce proposte dal ministero, alla ricerca di sfogo, condivisione e solidarietà. Se è vero che ognuno riconosce i suoi, noi eravamo come gruppo alla ricerca dei nostri, cioè alla ricerca di qualcuno che condividesse le nostre perplessità, senza per questo essere intruppati ipso facto nel gregge dei qualunquisti o degli eterni piagnoni, così da sfuggire a una fastidiosa sensazione di isolamento e marginalità. E da questo bisogno nasce lo stimolo alla disamina – collettiva e individuale – della logica culturale sottesa alla scelta delle tracce, sulla quale vale forse la pena di spendere due parole.
Se è vero, come si è già detto prima, che la tipologia A non presuppone la conoscenza dell’autore e del testo proposto, è altrettanto vero che questo non giustifica la scelta di un testo considerato dalla critica oggettivamente ‘brutto’, cioè non riuscito esteticamente, che non ha più nulla da dirci e sul quale non è possibile dire nulla di sensato e di interessante. La capacità critica e di analisi non si applica indiscriminatamente su tutto: l’elenco del telefono, la poesia cripto-ermetico di un signor X ignoto a tutti, il diario che il sedicenne Pinco Pallino custodisce nel suo cassetto, la telecronaca della più recente partita di calcio della nazionale non sono oggettivamente testi interpretabili e valutabili, anche nel malaugurato caso che mettano in campo temi di per sé interessantissimi. È vero che il canone degli autori ammessi nel gotha della nostra tradizione varia nel corso del tempo, ma questo non significa che è possibile ignorarlo tranquillamente. Se fior fiore di studi critici mostrano senza ombra di dubbio che alcuni autori sono ormai improponibili, non si vede perché, con gusto sadico-cinico, il ministero li debba imporre ai giovani maturandi. Anche perché questa scelta legittima la pigrizia intellettuale di buona parte del corpo docente della scuola italiana, che da almeno trent’anni continua a fare lo stesso programma (magari preoccupandosi solo di aggiornare la veste grafica della presentazione, maneggiando con molta scaltrezza unità didattiche, scale di competenze e roba del genere), senza compiere il minimo sforzo di aggiornamento reale.
Alla lettura delle tracce hanno sicuramente gioito tutti coloro che ancora infliggono ai loro studenti interminabili tiritere su decadentismo, verismo, ermetismo e via a seguire, senza spostare di un millimetro l’assicella del loro orizzonte culturale. Se proprio si vuol lasciare campo libero ad autori diversi dai soliti tre, quattro nomi, perché non inserire finalmente qualche autore non italiano, invece di continuare a segregare tutti gli stranieri (in barba alle tante dichiarazioni di europeismo) nella gabbia delle buone intenzioni? Che le tracce ministeriali si muovano quasi a spregio del canone promosso dal corpo accademico è indice della pericolosa schizofrenia che sussiste tra scuola e università – caso mai ci fosse ancora bisogno di ulteriori conferme. Ma il sottinteso più insidioso della scelta ministeriale è forse anche altro: la considerazione della letteratura e dello studio letterario come un’attività gratuita e fine a se stessa, l’idea che la letteratura non abbia nulla da dirci su noi e sul nostro mondo. Di conseguenza, come è ovvio, anche il tema di analisi testuale diviene un mero esercizio retorico, quanto di più lontano ci possa essere dalla messa in campo di un interesse e di una passione reale, che potrebbero nascere appunto solo da un oggetto degno di analisi e di considerazione critica: da questo punto di vista un testo esilmente ermetico vale né più ne meno della Primavera hitleriana di Montale, non c’è alcuna differenza di valore.
La situazione non migliora di molto passando alla tipologia successiva, che chiede di svolgere l’argomento dato in forma di articolo di giornale o saggio breve. Confesso che questa tipologia è quella che in generale mi suscita maggiori perplessità – soprattutto il saggio breve è per molti versi un monstrum da esame, in quanto presuppone la trattazione approfondita di un argomento, in veste pseudo-scientifica da saggio appunto, sulla base di quattro striminzite pezze di appoggio che non potranno mai fare le veci di una reale ricerca (almeno la tipologia ‘articolo di giornale’ mima l’inevitabile cialtroneria di una pubblicazione giornalistica reale, costruita sempre su due piedi in maniera estemporanea). Se la traccia di ambito scientifico-tecnologico è passabile e quelle di ambito socio-economico e storico-politico sono solo ripetitive e raffazzonate alla meno peggio, la traccia di ambito artistico-letterario è un puro e semplice delirio. Già, di per sé, è la tipologia più fragile e opinabile: quale giornalista sano di mente penserebbe di scrivere un articolo sul dono, o sul labirinto o su ‘amore odio passione’? Giusto sul giornalino di classe, appunto. Le cose vanno leggermente meglio nella versione ‘saggio breve’, dove la tipologia invita a un esercizio di critica tematica, per quanto svolto sulla base di accostamenti spesso opinabili – ma chi propone i testi al Ministero ha una vaga idea di cosa sia la critica tematica? ha mai letto veramente un saggio di critica tematica o sa come dovrebbe essere impostato? Nel caso di quest’anno tali accostamenti sono semplicemente inqualificabili. Di per sé il tema non era niente male: il dono, un classico ben presente negli studi di critica tematica (basti vedere la voce «Dono» stilata da Federico Pellizzi nel Dizionario dei temi letterari).
I guai cominciano quando si passano in rassegna i pezzi proposti. Per partire abbiamo tre dipinti: il dono più ambiguo e discusso di tutta la storia, La donazione di Costantino, una tela neoclassica di David (Antioco e Stratonice, personaggi che tutti conoscono, ovviamente) e infine di nuovo un soggetto religioso, L’Adorazione dei Magi di Parmigianino. A seguire un passo veramente insopportabile della Deledda (dono della vita insito in ogni nascita, dono di Natale come nascita di Cristo per la salvezza dell’umanità); subito dopo, un passo di Adorno, collocato fianco a fianco all’inno religioso precedente, non si capisce se per gusto sadico della contraddizione o per disarmante ingenuità (magari nessuno l’ha letto, o se l’hanno letto non l’hanno capito); a seguire tre passi di un moralismo tanto sconfortante quanto vacuo. Ecco: sulla base di questi documenti i malcapitati studenti avrebbero dovuto costruire un percorso artistico letterario sul tema del dono. Ma dov’era l’arte? E dov’era la letteratura? E come sarebbe stato possibile collegare insieme i pezzi proposti? L’unica prospettiva enucleabile dai testi era quella spiritualista religiosa, silente omaggio all’anima clericale ben radicata nella scuola italiana. Se fosse toccato a me affrontare una prova del genere, in tutta franchezza avrei gettato la spugna, a meno di non ricorrere alle proprie letture personali e fregarsene dei testi proposti, unica alternativa legittima.
In questo contesto le tracce più tradizionali, quella di argomento storico e quella libera erano forse le migliori – un mega riassuntone della storia novecentesca in cui si poteva far entrare di tutto e una citazione spendibilissima di Renzo Piano sulle periferie come «grande scommessa urbana dei prossimi decenni». Quest’ultima constatazione non fa che ribadire il punto veramente critico della questione: l’arretratezza della visione umanistica ministeriale, che condanna di fatto le discipline letterarie a una funzione ornamentale e gratuita, estranea a qualsiasi valore conoscitivo, priva di autonomia ermeneutica. Se è evidente che il canone letterario avallato dal Ministero della Pubblica Istruzione è indietro almeno di una ventina d’anni rispetto al quadro promosso dalla critica contemporanea, è altrettanto chiaro che questa arretratezza cela un sostanziale disinteresse e un’altrettanto sostanziale delegittimazione: se la letteratura non serve a niente e non ha nulla da dirci, se la funzione estetica è puramente esornativa, allora non ha senso preoccuparsi dei giudizi di valori, né vale la pena interrogarsi sul canone e sulle sue trasformazioni – molto più semplice continuare indefessamente a proporre Carducci e Quasimodo. Chiusa nel proprio orticello, ignota ai più e persino a coloro che dovrebbero fare da cinghia di trasmissione tra l’élite intellettuale e il vulgo, la critica letteraria può tranquillamente fare e disfare il suo castello di carte, senza che questo abbia la minima incidenza sul reale – sul Ministero, sulla Scuola, sul corpo docente, sui ragazzi che saranno i futuri cittadini. Forse è questa la causa della sensazione più tetra e disperante che mercoledì 18 giugno ha preso alla gola tutti coloro che in questa logica non si riconoscono, che da anni continuano a barcamenarsi tra scuola e università, scontando sulla propria pelle la difficoltà di continuare a agire come se un altro modello di connessione tra i due mondi fosse possibile e praticabile, e soprattutto come se il dialogo con i testi – con alcuni testi – avesse ancora qualcosa da dire alle nostre passioni e alle nostre menti: «Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio / non era fuga, l’umiltà non era / vile, il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero».
[Immagine: Salvatore Quasimodo]
Tutto condivisibile…. ma ho sempre la sensazione che si elucubri molto dimenticando la scuola che c’è. E soprattutto dimenticando che le tracce sono uniche, ovvero destinate non solo ai licei, ma anche ai tecnici e ai professionali. E qui mi fermo.
L’analisi del testo – scelta ministeriale, sia per i licei classici che per gli istituti alberghieri o i tecnici industriali – deve dimostrare che il candidato sappia intendere, comprendere, analizzare e formulare un’argomentazione valida di un brano, in italiano, indifferentemente dalla forma con cui questo si presenta.
Elucubrare sulle scelte è inutile, stupido, velleitario.
La maggior parte dei maturandi non sa scrivere in un italiano decente. Il tasso di analfabetismo funzionale è altissimo. Le persone non riescono a comprendere testi di complessità media.
Detto questo, ha senso sdegnarsi per la presenza di Quasimodo nelle tracce della prima prova di maturità? Secondo me no.
Totalmente d’accordo sul fatto che le scelte del ministero sulla traccia di tipologia A sottintendano “l’idea che la letteratura non abbia nulla da dirci su noi e sul nostro mondo” e che essa viene intesa come avente ” una funzione ornamentale e gratuita, estranea a qualsiasi valore conoscitivo, priva di autonomia ermeneutica.” Peraltro a me pare che una critica analoga la si può portare ai programmi di letteratura, che sembrano pensati più che a formare un buon lettore e a dare un valore attuale ai testi letterari affrontati, semmai a far diventare gli studenti conoscitori iperspecializzati in italianistica, insomma un semplice tentativo di mantenere e aumentare il prestigio di questa disciplina universitaria (con tanti saluti ai testi letterari stranieri, in un epoca di culture diverse sempre più a contatto fra loro) dimenticando che solo una parte minoritaria degli studenti sceglieranno percorsi di laurea in letteratura italiana.
Poi secondo me occorrerebbe fare tutto un lungo discorso su quanto l’attuale modalità dell’esame riesca ancora a dare senso al valore legale del titolo di studio. Se si vuole ancora mantenere quest’ultimo secondo me si dovrebbe già all’inizio dell’anno scolastico rivelare una rosa ristretta di alcuni temi o autori (ad esempio sulla tipologia A si anticipa che l’autore sara uno fra tre particolari, oppure che verterà su uno fra tre temi ritenuti attuali) la che potrebbero essere presenti nelle tracce dell’esame, sarà anche vero che in alcune tipologie la conoscenza specifica di quel particolare testo di quel particolare autore non è presupposta, ma è buona cosa che non si possa far sì che in una certa classe di un certo istituto scolastico in quell’anno gli studenti abbiano compiuto attività simili a quelle della traccia per un mese, mentre in un’altra classe di un’altro istituto invece lo si è fatto solo per una settimana. Comunque mi pare che sia da tempo immemorabile che sull’esame di maturità vengono compiute modifiche marginali invece di porre cambiamenti ben più urgenti ed importanti.
Condivido tutto, dalla prima parola all’ultima virgola. E’ un’ottima analisi dei limiti nella scelta delle tracce, e delle pesantezze culturali e burocratiche che ne sono all’origine. Grazie Marina.
Sono però convinto che tutto l’impianto dell’esame vada ripensato, perché ormai (come sa chi lo fa da anni da commissario) fa acqua da tutte le parti. Tra l’altro, questo esame ha in sé due tendenze contraddittorie, che si vedono nella presenza di elementi “estranei” come da una parte la tesina, e dall’altra un nozionismo totalizzante negli orali e nella terza prova, del tutto snaturata rispetto al suo intento originario.
E’ interessante la proposta che avanza Michele dr, bisognerebbe andare verso cambiamenti radicali di questo tipo.
Condivido molte delle perplessità espresse(arretratezza delle proposte dei colleghi a scuola, visione bellettristica da parte del MIUR, spiritualismo idealistico del Ministro e del suo gruppo), eppure non me la sento di condannare tout court le tracce; “Il dono”, che sicuramente avrebbero potuto “confezionare” meglio, mi è parsa una buona traccia, soprattutto perché chiedeva al candidato di avviare una riflessione sulla generosità, che sembra essere scomparsa dall’orizzonte di senso degli esseri umani. Il brano della Deledda fornisce una chiave di lettura marcatamente cristiana del dono. Una come un’altra. Certamente la seconda traccia è un miscuglio poco artistico.
In ogni caso ho apprezzato molto il suo articolo.
Faccio parte di quella categoria di insegnanti liceali che in classe lavorano tutti i giorni e, grazie alla “pigrizia intellettuale” proclamata nell’articolo, si ostinano a far imparare ai propri studenti categorie “superate” dall’accademia quali, non so, verismo, decadentismo, modernismo, magari persino postmoderno e neorealismo. Tengo a precisare che a questo esercizio obsoleto siamo tenuti in quanto abbiamo studenti che considerano un film di fantascienza alternativamente appartenente al genere romantico o realistico, che non sono mai, dico mai, andati a teatro se non (forse) da piccini, che considerano Hunger Game ai vertici della letteratura mondiale; naturalmente fanno questo perché vivono in case dove non entra mai un quotidiano e dove la lettura è condensata in “50 sfumature di grigio”. L’ennesimo commento alle prove dell’Esame di Stato avulso dalla quotidiana realtà della scuola è ancora una volta teorico e imbarazzante: il testo di Quasimodo, per quanto non eccelso, si prestava sufficientemente al lavoro davvero effettuato nelle classi, la decodifica di un testo poetico con caratteristiche riconoscibili e commentabili e comunque scritto in L1 (francamente incomprensibile l’ipotesi di testi in traduzione – oppure sarà la pigrizia intellettuali di docenti ignoranti anche questa?). Inoltre è evidente che la tipologia “saggio breve” non consiste in un “approfondimento” ma ha lo scopo di sviluppare le capacità argomentative (esattamente le stesse del vecchio tema) fornendo agli studenti dei documenti da discutere. La comprensione dei documenti non comporta ovviamente la adesione al loro contenuto; da questo punto di vista, il dossier poteva tranquillamente essere discusso e contestato ma certamente non ignorato. Nella incomprensione del lavoro strutturante della tipologia “saggio breve” non mi sembra quindi un caso che all’autrice siano parse più opportune le tracce del tema tradizionale (ma l’accademia approva?) che, prive di appoggi documentari, spesso non posso che trasformarsi in coacervi di luoghi comuni.
PS. Comunque rendo noto che Carducci non è mai stato presente nella tipologia A e che è nei fatti abolito dal programma di quinto anno.
Il ‘cahier de doléances’ steso da Marina Polacco su qualità, scopo e funzione delle tracce proposte dal Ministero dell’Istruzione per le prove scritte degli esami di Stato mi sembra, nonostante le assicurazioni in contrario, sostanzialmente ridondante e, per taluni aspetti, anche un po’ ingeneroso. La verità è che nessun altro paese europeo prevede, al termine della scuola superiore, una batteria di prove e di accertamenti sull’intero spettro delle discipline di studio così ampia ed articolata come quella esistente nel sistema scolastico italiano. Da questo punto di vista, il nostro sistema è oggetto di marcato apprezzamento a livello europeo, come ho potuto verificare, ad esempio, parlando con una lettrice di madre lingua spagnola, quando sono stato impegnato, in qualità di commissario, qualche anno fa, negli esami di Stato presso un liceo linguistico statale della città in cui abito.
Dopodiché, una volta stabilito che gli esami di Stato sono, per così dire, sintomo e sineddoche di una scuola gravata, a parte alcune isole caratterizzate dal felice connubio tra aggiornamento ed eccellenza, dalla triplice ipoteca culturale di un idealismo stantìo, di un positivismo miope e di un clericalismo retrivo, bisognerebbe non solo porre la domanda cruciale sulla mancanza di osmosi tra la scuola e l’università, ma anche preoccuparsi di cercare una risposta soddisfacente, rischiando magari di scoprire qualche scheletro nell’armadio. A questo proposito, ne indico due: le SISS (Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario) e gli IRRE (Istituti regionali di ricerca educativa), sia le une che gli altri liquidati, in nome di un efficientismo straccione e di una razionalizzazione irrazionale, senza che una sola voce si levasse dal mondo della scuola, dell’università e della ricerca educativa per denunciare questo scempio. Eppure erano, sia le SSIS sia gli IRRE, due fondamentali anelli di congiunzione tra la formazione scolastica e la ricerca universitaria, capaci di alimentare, come non pochi progetti di ricerca-azione e di ricerca-formazione hanno dimostrato a suo tempo, un circolo virtuoso (e virtuoso in quanto bidirezionale) tanto nella riqualificazione didattico-pedagogica e nell’aggiornamento scientifico-culturale del personale docente della scuola quanto nella legittimazione e nella disseminazione della stessa ricerca svolta, in àmbito rigorosamente disciplinare, a livello universitario. Ecco perché, se l’intento è quello di condurre una “disamina – collettiva e individuale – della logica culturale sottesa alla scelta delle tracce”, anche su questi temi, tutt’altro che marginali, varrebbe forse la pena di spendere qualche parola.
Epitelio Pavimentoso Pluristratificato domanda: “…ha senso sdegnarsi per la presenza di Quasimodo nelle tracce della prima prova di maturità? Secondo me no”. Mi associo, osservando che solo un approccio supercilioso, settario e antistorico alla letteratura italiana può sfociare nella proscrizione di autori come Carducci e Quasimodo. Su Carducci come autore integrante ed imprescindibile del canone letterario italiano sono già intervenuto, e non mi stancherò mai di intervenire; altrettanto, anche se non nella stessa misura, ritengo si debba fare nel caso di Quasimodo. Come sosteneva Mario Luzi, si tratta di “valori oggettivi”, che appartengono ormai al patrimonio culturale del nostro paese (e non solo del nostro paese).
Preciso:
A) che il punto in questione non era la disamina specifica di questo o quell’autore proposto, ma della logica culturale sottesa alla scelta (Come si insegna a scuola, bisogna leggere e comprendere il testo nella sua integrità, senza estrapolarne singole affermazioni), per arrivare a comprendere la logica sottesa a quelle scelte
B) che, una volta appurato il succo del discorso (in soldoni: la scollatura tra scuola e università per quel che riguarda il settore umanistico e la scarsa considerazione della cultura letteraria presso gli alti vertici istituzionali), l’invito sottinteso è alle seguenti scelte:
B1) riprendere in considerazione l’ipotesi della lotta armata;
B2) cercare il modo di riformare e far funzionare meglio ALMENO qualcosa, cioè l’esame di stato
C) che, come si può evincere dalla parte finale del pezzo, insegno da vent’anni negli istituti professionali, ho partecipato a dieci maturità e quest’anno ho avuto una quinta in un corso serale a indirizzo alberghiero.
@ mauro piras:
preciso comunque che la mia proposta parte dal presupposto che l’esame di maturità debba possedere parametri realmente oggettivi e uguali per tutti gli istituti scolastici italiani, io aggiungerei a tal riguardo commissioni totalmente esterne e una terza prova avente un contenuto uguale per tutti gli istituti accomunati dallo stesso indirizzo. La prova orale secondo me poi dovrebbe essere un colloquio non su tutte le materie ma solo un colloquio allo scopo di valutare competenze di alcune materie (ad esempio le lingue straniere) difficilmente verificabili con prove scritte. A parer mio l’unica seria alternativa a un esame come quello sopra esposto sarebbe l’abolizione del valore legale del titolo di studio e di conseguenza dovrebbero essere le prove di accesso dell’Università a verificare cosa e quanto le persone che vogliono compiere studi universitari hanno appreso nelle scuole superiori o in altri ambienti.
Comunque, evidenzio anche l’appunto del primo commento di Daniela: stiamo parlando di una prima prova destinata a tutte le scuole superiori di cinque anni, non solo a licei di indirizzo umanistico e letterario. Insomma, dovrebbe verificare competenze linguistiche necessarie sia a studenti di un istituto alberghiero che a quelli di un istituto tecnico informatico o di un liceo musicale poiché di sicuro i futuri aspiranti cuochi, programmatori o musicisti di sicuro hanno interesse a comprendere e produrre testi nel lavoro e nella vita con una importanza pari e non certo minore a quella degli aspiranti professori di lingua e letteratura italiana.
Grazie di cuore a Marina Polacco per l’intelligenza e la passione del suo intervento. Confesso di essere spiacevolmente sorpresa dal tono scandalizzato di alcuni dei commenti – evidentemente l’articolo ha toccato dei nervi dolenti. In particolare, trovo incredibile giudicare “supercilioso, settario e antistorico” l’invito a far leggere e commentare agli studenti dei testi letterari che oltre alla suggestione retorica abbiano anche valore e significato, insomma a praticare una letteratura che abbia qualcosa da dire sul mondo e al mondo. Sarò un’illusa – ma magari far leggere a scuola meno Quasimodo e più Nievo, o Fenoglio, servirebbe a disamorare meno gli studenti dalla pagina scritta… Con gli studenti universitari del triennio, perlomeno, funziona.
Avendo condiviso con Marina Polacco il tono e le osservazioni nei commenti a caldo, come lei stessa ricorda, non posso, a maggior ragione, che ripetere la mia condivisione anche per il ragionamento più distesamente sviluppato in questo pezzo, sia nell’analisi proposta delle tracce, sia nell’esito finale, sul rapporto e il ponte (mancato) tra scuola e università in generale e nel particolare dell’insegnamento letterario.
Sul tema ha scritto già mercoledì scorso Romano Luperini, in un articolo che è in armonia con questo dibattito e che secondo me vale la pena di leggere.
http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/274-sulle-prove-di-italiano-dell%E2%80%99esame-di-stato-la-poesia-di-quasimodo.html
Ringrazio Marina Polacco, mia collega da molti anni, per il suo saggio intervento. Entrambe insegniamo Letteratura Italiana al Corso serale dell’Ipssar “ Giacomo Matteotti” di Pisa e all’inizio di ogni anno scolastico ci confrontiamo sugli argomenti disciplinari da affrontare con gli studenti. Troviamo che non sia semplice proporre selezioni testuali o letture integrali che possano interessare i nostri “adulti”, convinti come sono che studiare letteratura sia mandare giù a memoria nozioni e date; movimenti culturali e nomi; una poesia qua e un brano là. E’ chiaro per tutti che tutto questo non ha senso e che quindi il nostro lavoro debba ogni volta consistere in un coraggioso percorso di riqualificazione (ai loro occhi s’intende) della disciplina, di una ricerca costante del significato che la sottende, del valore che essa ha NON a prescindere dalla propria quotidianità, ma anzi proprio perché è DELLA quotidianità, intrinsecamente legata ad essa.
Ma quando all’ esame di Maturità troviamo tracce e modalità di elaborazione, a mio personale avviso, perlopiù impraticabili (quanti anni, quanta preparazione, quanto esercizio, quante decine di letture domestiche occorrerebbero, ad esempio, perché s’imparasse a redigere dignitosamente un saggio breve?), ecco che la considerazione di Marina trovo sia più che mai calzante:
“Il sottinteso più insidioso della scelta ministeriale è forse anche altro: la considerazione della letteratura e dello studio letterario come un’attività gratuita e fine a se stessa, l’idea che la letteratura non abbia nulla da dirci su noi e sul nostro mondo.”
Per chi come noi, lavora da tanti anni in scuole considerate di serie B con studenti che provengono da esperienze scolastiche interrotte, faticose, fallimentari, la prova di italiano a chiusura del ciclo quinquennale altro non è che uno sconfortante epilogo. Anni di lavoro finalizzati a che la letteratura divenga un prezioso strumento per la crescita ed evoluzione personale, in barba agli stereotipi più in voga tra i nostri “scolari”, secondo i quali la cultura umanistica è puro divertissement riservato a pochi eletti che “loro sì che c’hanno tempo e non devono lavorare”, e alla fine…che succede? Arriva il testo di Quasimodo, intriso di lontani ricordi siciliani di vita vissuta che prendono forma unicamente nella dimensione onirica e perciò irreali.
Da tre anni non inserisco questo poeta nella mia programmazione. Da tre anni ho scelto di non affrontare un poeta la cui parola, cito testualmente Luperini, “si sottrae alla storia e alla società, e si colloca in una dimensione assoluta”. A prescindere dal reale, appunto.
E poi…l’inspiegabile, inaccettabile separazione-scollamento scuola-università,
“Chiusa nel proprio orticello, ignota ai più e persino a coloro che dovrebbero fare da cinghia di trasmissione tra l’élite intellettuale e il vulgo, la critica letteraria può tranquillamente fare e disfare il suo castello di carte, senza che questo abbia la minima incidenza sul reale – sul Ministero, sulla Scuola, sul corpo docente, sui ragazzi che saranno i futuri cittadini”
Ma perché?
Lo chiedo soprattutto per i futuri cittadini.
SEGNALAZIONE
Nella logica di non stare ciascuno nei propri orticelli segnalo la discussione sullo stesso argomento avvenuta sul profilo FB di Stefano Guglielmin: https://www.facebook.com/stefano.guglielmin?fref=nf
@ “Da tre anni non inserisco questo poeta nella mia programmazione. Da tre anni ho scelto di non affrontare un poeta la cui parola, cito testualmente Luperini, “si sottrae alla storia e alla società, e si colloca in una dimensione assoluta”. A prescindere dal reale, appunto.” A chi scrive di Quasimodo in questi termini occorre raccomandare, per opportuna informazione, la lettura della poesia “Milano, agosto 1943”.
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio: E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.
E se non bastasse, per chi ritiene che la poesia di Quasimodo “si sottrae alla storia e alla società” può essere utile anche la lettura del componimento “Alle fronde dei salici”:
E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
@Eros Barone
– L’idea di poesia impegnata che lei sembra proporre è morta almeno cinquant’anni fa, diciamo dopo i dibattiti sulla poesia degli anni Sessanta.
Se fossero sufficienti i riferimenti espliciti a fatti di cronaca, per parlare di poesia politica o civile, o se bastasse dissolvere l’io in un noi e proporre una mimesi così ingenua dei conflitti, allora il secondo dopoguerra sarebbe il periodo in cui la letteratura italiana è stata più prolifica (almeno da questo punto di vista). Oggi si tende a vederla diversamente: il trauma della seconda guerra mondiale, ad esempio, è rielaborato in modo più complesso e interessante da autori che hanno vissuto quel conflitto, direttamente o indirettamente, ma che ne scriveranno dieci anni più tardi, e raramente in modo così esplicito: Fortini, Luzi, Sereni, Bertolucci, Caproni.
Il tipo di rapporto con la realtà – per usare le sue categorie – che troviamo in questi autori si avvicina di più alla sensibilità contemporanea, ed è più utile anche per capire cosa possa essere e se possa esistere una poesia cosiddetta civile oggi.
– Certo, lei ora potrebbe obiettare che Quasimodo è un autore centrale all’interno di storie della letteratura e antologie importanti, da Anceschi a Contini etc. Ma, già dieci anni dopo il Nobel, nel 1969, leggiamo che “Il suo più vero contributo originale alla poesia del nostro secolo non è da riconoscersi nella produzione creativa ma nelle traduzioni […]” (Sanguineti, “Poesia italiana del Novecento”). Lasciamo passare ancora qualche anno, e Quasimodo sarà decisamente alla periferia del canone letterario (ad esempio, con l’antologia di Mengaldo del 1978). Su questo punto non approfondisco qui, e rimando all’articolo di Luperini citato in un commento precedente.
R. Luperini, Il nuovo La scrittura e l’interpretazione – Edizione Arancione. Modernità e contemporaneità (dal 1925 ai giorni nostri), vol. VI, Palumbo, Palermo 2011, p. 112.
@ Anna Maria Agresta
vorrei esporti alcuni dubbi. Io sto finendo il corso serale ( istituto tecnico industriale ) proprio quest’anno, ho 28 anni. Ora, ho provato a seguire il vostro discorso, ma a me sembra che se un problema c’è non sta nella scelta delle tracce e nella sottesa idea ministeriale. Perché se il punto è la crescita personale e il ruolo della letteratura è il concetto stesso di esame standard che non va. In questi tre anni abbiamo fatto si e no due saggi brevi in classe e tre o quattro analisi dei testi, senza mai discuterli e rileggerli in classe e senza mai che agli altri fosse spiegato un minimo cosa significa argomentare ( e che il saggio non è fare i riassunti dei documenti, per dire ). Storia della letteratura, come sempre. Squadra che vince non si cambia. Ma in ogni caso qual è il senso di fare analizzare un testo poetico a persone che non leggono ( non leggono romanzi, figuriamoci poesia )? è un prendersi per il culo o cosa? Infatti al 90% gli altri hanno fatto il tema libero e io e qualche altro abbiamo fatto il saggio breve ( a me piaceva l’ambito storico-politico ). Ma poi a un esame in cui uno si gioca tutto chi è che va a rischiare un’analisi? Una persona che va in ansia al solo pensiero di dover scrivere e che si trova lì per un diploma, quale interesse potrà avere per la letteratura? Onestamente la mia impressione, particolare per carità, è che è in gran parte una messa in scena patetica. Carta e stress emotivo sprecato, un’esperienza inutile per tutti i miei compagni, buona solo per farsi due risate al pericolo scampato.
«qual è il senso di fare analizzare un testo poetico a persone che non leggono ( non leggono romanzi, figuriamoci poesia )? è un prendersi per il culo o cosa?» (DFW vs RB)
Ottime e provocatorie domande. Analizziamole però. Non credo che si voglia sostenere che non serve analizzare un testo poetico. Si vuole, invece, dire – così interpreto io – che la scuola pubblica italiana (d’oggi ma anche di ieri e ierlaltro) non permette o non agevola questa operazione indispensabile ed elementare di lettura; che non rimuove «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». Mentre in altri contesti – diciamo più adatti e “privilegiati”- questa lettura è praticata persino con gioia da discepoli e maestri. Il nervo scoperto (e rimasto scoperto dal ’68) sta qui. E chi continua a parlare di «riforma della didattica» o di «riforma dell’esame di stato» ci mette sopra solo un pannicello caldo o un balsamo.
Meno male che qualcuno ancora fa notare – o brutalmente o ragionevolmente (e le due cose non sono in contrasto tra loro) – che dà quasi nulla di ciò che promette. Ma vuoi scommettere che la reazione sarà: ma allora vuoi/volete la lotta armata!
No, signori e signore, ex colleghi ed ex colleghe, la lotta armata non c’entra. Voi però vi siete condannati da decenni a proporre ritocchi sempre intelligenti (e persino già accolti in paesi “avanzati” e “moderni”) a un edificio caduto in pezzi, a fare le pulci a governi e ministri (di destra e di sinistra) che non ci sentono mai da un certo orecchio, a parlare sempre e soltanto ai “vostri”, ai vicinissimi. Mai ai lontani studenti che in generale «non leggono (non leggono romanzi, figuriamoci poesia».
«La radio al buio e sette operai / sette bicchieri che brindano a Lenin / e Stalingrado arriva nella cascina e nel fienile / vola un berretto un uomo ride e prepara il suo fucile / Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa / D’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città.»
Stalingrado, Stormy Six.
Nel maggio del 1942 Hitler lanciò una nuova offensiva in Unione Sovietica, che faceva séguito a quella che era stata sferrata nel giugno del 1941 e che aveva visto, alla fine di agosto, le armate tedesche raggiungere i sobborghi di Leningrado, senza peraltro che queste riuscissero ad occupare la città a causa dell’accanita resistenza sovietica. L’obiettivo era quello di creare una nuova linea di penetrazione che consentisse, in un momento di stasi del conflitto sul fronte settentrionale, di muovere verso il Caucaso e i suoi giacimenti petroliferi, tagliando fuori i sovietici dal petrolio del Caucaso e tentando una manovra a tenaglia su Mosca. La conquista di Stalingrado (oggi Volgograd), centro industriale e nodo di comunicazioni lungo il fiume Volga, era la chiave di volta dell’operazione. La battaglia di Stalingrado, svoltasi tra il settembre del 1942 e il febbraio del 1943, diventò così, al di là della sua importanza militare, una sorta di simbolo: « Per i sovietici – scrivono gli storici S. Bernstein e P. Milza – significa la lotta decisiva contro il fascismo, mentre il nome stesso della città suona come una sfida alle orecchie del Führer ». Dopo una serie di scontri asperrimi, di lotte casa per casa, di battaglie all’arma bianca, di attacchi e contrattacchi, i tedeschi, che avevano assediato la città, a loro volta accerchiati, dovettero arrendersi per ordine del loro comandante Friedrich Paulus, il quale, per salvare almeno una piccola parte dei suoi uomini, disubbì apertamente a Hitler. « I soldati nemici – ha scritto Andrei Erëmenks, uno degli artefici, insieme con Kostantin Rokossovskij e Georgij Žukov, della vittoria di Stalingrado – erano letteralmente affamati… Al 10 gennaio su tutto il territorio occupato dal raggruppamento nemico… erano stati mangiati i cavalli, i cani e i gatti. » Non minori furono le sofferenze degli abitanti della città stretta d’assedio a partire dal 25 agosto e dentro la quale si erano susseguiti combattimenti all’ultimo sangue casa per casa, strada per strada, fabbrica per fabbrica, fino a novembre inoltrato. Nel novembre del 1942 Hitler, vendendo la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, aveva dichiarato: « Ho voluto raggiungere il Volga nella stessa città che porta il nome di Stalin, e questa città l’abbiamo conquistata ad eccezione di due o tre isolotti insignificanti. Lascio a piccoli elementi d’assalto il compito di completare la conquista ». Due mesi dopo, il Führer, che aveva ordinato a Paulus di non arrendersi, in un accesso d’ira così commentò la resa del feldmaresciallo: «Avrebbe dovuto uccidersi con un colpo di pistola allo stesso modo con cui i capi antichi si gettavano sulle punte delle loro spade, quando vedevano che la loro causa era perduta».
Ma perché Stalingrado, oltre a suscitare, a distanza di settant’anni dagli eventi che quel nome riassume, un’eco tutt’altro che flebile, rappresenta ancor oggi, sul piano simbolico, il discrimine di una scelta, l’asse di una dicotomia persistente tra la destra e la sinistra, che gli eventi siriani e ucraini, per citare solo quelli più recenti, ripropongono in modo emblematico? Una delle chiavi della risposta a questa domanda va cercata nel rapporto tra politica e cultura, oggi sottoposto ad una pericolosa divaricazione, laddove la figura dell’intellettuale politico, che ha incarnato storicamente tale rapporto, sembra quasi scomparsa per effetto di una divisione del lavoro che vede un (mediocre e spoliticizzato) ceto dei colti interagire esclusivamente con sé stesso e un (mediocre e disacculturato) ceto dei politici interagire esclusivamente con sé stesso. Può essere allora opportuno esporre in forma aforistica – e so di ripetermi – alcune considerazioni riguardanti il rapporto tra cultura e politica, alla cui importanza gli eventi che ho citato recano, sia sul terreno della battaglia ideale che su quello dell’impegno sociale, una conferma ‘ex negativo’. Del resto, coloro che, di fronte a quegli eventi, voltano la testa in un’altra direzione sono gli stessi che hanno ‘scelto’ di restare allineati e coperti “sotto l’ombrello della Nato e della Ue”, che appoggiano il fascismo, sia quello ucraino sia quello islamico. L’assioma, innegabile tanto in linea di principio quanto alla luce dell’esperienza storica, che conviene richiamare è il seguente: «Destra e sinistra esistono anche nel deserto» (Mao Zedong). Certo, la linea di demarcazione fra la destra e la sinistra nel campo della cultura non si può ricavare meccanicamente dalla linea di demarcazione fra la destra e la sinistra nel campo della politica (Vittorini), ma esiste: identificarla è un problema di analisi specifica la cui soluzione richiede rigore culturale, consapevolezza storica e senso critico. È poi doveroso richiamare un altro enunciato, che ricorda, circa il rapporto tra capitalismo e fascismo, che “quel grembo è ancora fecondo” (Brecht). L’ultimo enunciato, che è giusto riproporre nell’attuale, drammatica, congiuntura di guerra incipiente, indica due punti di non ritorno, i quali peraltro, dato il carattere precario delle conquiste democratiche nell’odierno quadro internazionale, si traducono per le forze coerentemente antifasciste e per tutta l’umanità progressista in altrettanti compiti da assolvere: su scala mondiale, per l’appunto la battaglia di Stalingrado, che segnò, cinque anni dopo la terribile sconfitta della guerra di Spagna, la riscossa dell’antifascismo sul fascismo e, su scala italiana, l’esecuzione di Giovanni Gentile (1944), che ha costituito la premessa di un rapporto diverso tra intellettuali e popolo. La ‘scelta di Stalingrado’ è dunque, sia in campo politico che in campo culturale, il criterio che semplifica in modo non arbitrario e riduce all’essenziale le alternative possibili, ripristinando l’indispensabile memoria storica e separando nettamente, anche nel campo della critica letteraria e del dibattito culturale, le “erbe velenose” dai “fiori profumati”.
Ringrazio Marina Polacco e tutti coloro che stanno prendendo parte a questo dibattito per l’interessante riflessione, che trovo importante e confortante. Importante perché affronta il problema della didattica della scrittura, troppo spesso negletto dal punto di vista teorico e confortante perché, al di là della difformità delle singole posizioni, fa sentire noi insegnanti meno soli.
In merito alla tipologia delle prove e alle tracce di quest’anno la mia posizione si può così riassumere:
1. le tipologie di scrittura: sono in aperto disaccordo con coloro che ritengono (@ Valeria D’aversa), che esercizi come il saggio breve o l’articolo di giornale possano facilitare l’acquisizione dell’ardua competenza argomentativa: il saggio breve è un’ossimorica invenzione ministeriale, che produce assai spesso dei mostri come, in questo caso, la traccia sul dono, veramente intollerabile; quando mai nella vita e perché dovrebbe essere utile costruire uno scritto a partire da documenti offerti da altri, a tratti incomprensibili, spesso contraddittori, di autori quasi sempre ignoti agli studenti? in merito poi all’articolo di giornale non posso che sottoscrivere la lapidaria affermazione di Marina Polacco, che fa riferimento “all’inevitabile cialtroneria” della scrittura giornalistica: qualsiasi insegnante che abbia provato a trovare un articolo di giornale qualsiasi da offrire come esempio della famosa regola delle cinque w, tanto per dirne una, potrebbe raccontarne delle belle… è opportuno risalire agli anni Settanta per trovarne di decenti. Trovo invece che il vecchio tema (tema di argomento generale) o il tema di storia offrano quasi sempre maggiori opportunità, lasciando liberi di costruire una propria argomentazione, se non altro evitando di depistare e costringendo all’elaborazione di uno stile personale, non reso spurio dalle continue citazioni di testi di sociologi mal noti o filosofi mal interpretabili.
2. l’analisi del testo: merita un discorso a parte, perché è ciò che resta, la traccia madreperlacea di lumaca, l’osso di seppia del tema di letteratura. Qui invano ogni anno si cerca di scorgere una seppur vaga parvenza di senso nell’operato del Ministero: l’anno passato era stato Magris e via tutti a pensare che si era partiti verso una nuova inesplorata frontiera di testi/autori non canonici, ma spoltrenti, intriganti, promettenti…quest’anno Quasimodo, che invece non offre in tal senso neppure un appiglio, ma che non è neppure autore tradizionale, in quanto, a parte il Nobel, non si è mai molto letto o studiato a scuola: con buona pace di Luperini che lo boccia oggi e lo ha stroncato nella sua storia letteraria, il mio prof del liceo, già negli anni Ottanta lo liquidò con tre parole. Anche avessi avuto tempo fino a settembre non lo avrei comunque inserito nel programma. Ciò non vuol dire che gli studenti non potessero svolgere, a partire da quel testo certo non bello, una buona analisi del testo: non è detto che il tema debba per forza sempre esaltare il testo che commenta. Ma è vero quello che sottolinea Marina Polacco: si sarà senz’altro più efficaci nell’interpretare un testo che si sente vicino alla propria sensibilità, un testo che ci parla. Nella simulazione comune della prima prova fatta fare a tutte le classi del liceo a maggio abbiamo proposto un testo di Giudici, “Una sera come tante”, sicuri che nessuno lo conoscesse o lo avesse affrontato: ebbene moltissimi studenti, che pure non avevano mai scelto di svolgere questa tipologia, l’hanno svolta perché hanno apprezzato la poesia e alcuni si sono poi anche letti Giudici. Tanto per fare un esempio.
Forse è il caso di cominciare a pensare che il Ministero non segua alcuna linea programmatica, che le tracce vengano scelte così, un po’ come viene.
Ciò però non vuol dire che gli insegnanti si muovano così come viene: gli insegnanti svolgono un articolato curricolo di scrittura, che peraltro comprende spesso anche altre tipologie bellissime e ingiustamente obliate, come l’intervista immaginaria, il diario, la lettera, la scrittura creativa….e soprattutto gli insegnanti leggono testi letterari animati dalla fiducia che la letteratura provochi la scrittura, la induca, la necessiti. Di tutto questo nelle tracce non c’è traccia: la letteratura è la grande assente e questo infine, questo, è il dato che più dovrebbe allarmarci.
Parlare male di Carducci e Quasimodo. Squisito esercizio di snobismo intellettuale a buon mercato. Ma provate a rileggerli, attentamente, cari i miei sapientoni metodologicamente agguerriti. Leggete Quasimodo traduttore di Arghezi, e Carducci traduttore di Von Platen, sedicenti comparatisti e tematologi. E ditemi cosa si capisce di Pascoli D’Annunzio e Montale, e di tutta la versificazione novecentesca (vedi ciò che ne scriveva Spongano), senza le “Odi barbare”. Almeno insegnanti e ispettori sono poveri diavoli che vanno a lavorare, fanno la spesa, arrivano a fine mese, mettono la benzina nella macchina, fanno quello che devono fare, non si credono dèi in terra e non rompono l’anima al prossimo.
Caro insegnante, a me l’articolo di Marina Polacco è piaciuto moltissimo; ma sugli autori in questione la pensiamo in modo abbastanza simile. Carducci almeno in parte non mi dispiace, Quasimodo l’ho sempre amato, se questa ora non è la linea critica dominante pazienza (alcuni dei commenti in merito mi sono parsi un po’ strani, direi che al di là di tutto ognuno deve pensare con la propria zucca).
Intervengo però per un’altra ragione; per dire lei, e alle varie persone che fanno interventi simili ai suoi, che non vi capisco e non vi capirò mai. Intanto perché non ha senso trasformare una divergenza di opinioni, potenzialmente interessante, in attacco arbitrario a una categoria, inoltre perché non si capisce quali siano le colpe della categoria attaccata.
In nome del cielo: i comparatisti non sono aristocratici parassiti. E nemmeno capitalisti fradici di soldi. Non sono frequentatori del jet set, parenti degli Agnelli, comparucci di Berlusconi. Tantomeno sono calciatori o divi o conduttori televisivi. E neanche sono notai, dentisti, liberi professionisti facoltosi. Sono anche loro poveri diavoli, o poveri cristi, che fa pure rima. In effetti, pensi un po’, sono anche loro insegnanti. A volte purtroppo del tutto precari. A volte docenti a scuola, con stipendi inadeguati al loro lavoro. A volte, orrore, docenti universitari, con stipendi certo molto più adeguati, ma che sempre stipendi sono, non redditi favolosi, tanto più se vanno a sbattere in un’università molto lontana dalla loro città e dalla loro vita. E pure loro lavorano e mi creda, spesso lavorano tanto. E pure loro fanno la spesa, cercano di arrivare a fine mese, mettono la benzina nella macchina o se credono la lasciano a secco (è un esempio che non ho colto, fare il pieno non mi sembra prova di senso etico). A volte allevano figli, a volte nutrono quadrupedi, a volte fanno appassire pure le piante grasse, comunque sono persone normali. E non si sognano di rompere l’anima al prossimo; se poi il prossimo si mette a dare in escandescenze dopo aver letto un loro pezzo, la colpa non è loro.
Comunque questo diffuso livore per la categoria a cui appartengo sta cominciando a esaltarmi. Mi aspetto che si inizi a parlare di un complotto pluto-massonico-comparatista. O che Berlusconi reagisca alle prossime accuse dicendo che sono fandonie dei soliti comparatisti.