cropped-1157-minimalistic-american-psycho-wallpaper-wallchan-2560x1600-11.jpgdi Daniele Giglioli

Da dove viene il male, unde malum? È  stata questa per secoli la questione ultima, l’experimentum crucis della teodicea. Con un gesto analogo a quello che, nel 1784, lo aveva portato a definire l’illuminismo come l’uscita dallo stato di minorità di cui l’uomo è responsabile in quanto non ha il coraggio di servirsi della sua propria intelligenza, Immanuel Kant taglia gordianamente il nodo nel 1793 con La religione entro i limiti della sola ragione: il male non viene da nessuna parte, è già sempre qui, è radicale in quanto connaturato all’uomo. L’uomo stesso è l’«autore» (etimologicamente: iniziatore) del male. Né punizione o prova iniziatica all’interno di un processo di salvazione, come lo intendeva il cristianesimo, né frutto di debolezza o imperfetta conoscenza, come vuole la tradizione socratica, più o meno consapevolmente ripresa da un diciottesimo secolo che aspirava a una integrale riabilitazione della natura umana, il male è una dynamis, una potenza, una virtualità intrinseca all’umano, una forza produttiva, e non solo privativa o distruttiva. Conclusione implicita nelle premesse, e da cui tuttavia Kant si ritrae spaventato. A continuare la sua impresa, sostiene Arturo Mazzarella in Il male necessario. Etica ed estetica sulla scena contemporanea, appena uscito per Bollati Boringhieri, sarà la letteratura moderna, sempre insoddisfatta della consolazione che a quell’altezza cronologica il pensiero europeo si regalò con la dialettica: ex malo bonum, il Mefistotele di Goethe, l’hegeliano attraversamento del negativo come tappa necessaria per arrivare a un bene superiore.

Ponendosi come erede di quel rifiuto di ogni «conciliazione sforzata» (come diceva Adorno di Lukács), e in ciò proseguendo un programma di ricerca ormai ventennale che in libri come La potenza del falso, La grande rete della scrittura e Politiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib, ha preso apertamente partito per un’ontologia del virtuale in cui il mondo non è più scisso nel classico dilemma tra realtà e rappresentazione, Mazzarella individua tre momenti attraverso cui il tema del male è stato traghettato al nostro immaginario contemporaneo, dove – absit iniuria verbis – letteralmente spopola. Prima sono venuti i grandi sperimentatori del male come eccezione, trasgressione, sfida ancora teologica alla grazia in nome di possibilità non sperimentabili, appunto, altrimenti: Baudelaire, Dostoevskij. Opzione estrema in cui è già contenuta tutta la riflessione che a questo versante del problema hanno dedicato gli autori fioriti intorno al Collège de sociologie, Bataille in testa, sulla scorta peraltro di un fraintendimento radicale del pensiero di Durkheim e Mauss cui credevano di rifarsi: il male come nome visibile del sacro, spesa improduttiva che si rivolta alla tirannia dell’utile, accettazione gioiosa dell’entropia, celebrazione della vita nell’istante del suo annullamento; quando per i fondatori della sociologia francese il sacro era esattamente il contrario, ossia ciò che tiene insieme la totalità sociale (e non ciò che estaticamente la disgrega) garantendo la divisione del lavoro attraverso un continuo passaggio dal necessario al desiderabile.

Più conseguente e coraggiosa, in quanto meno smaniosa di risarcimenti (sia pure in termini di sublimi convulsioni), è la scoperta che nel primo Novecento, seconda stazione del percorso di Mazzarella, autori come Proust e Kafka compiono circa il fatto che il male costituisce lo stigma non dell’individuo o del momento eccezionale, ma della normalità di cui sono intessute le relazioni tra gli umani: la colpevolezza, è ciò che dovrebbe ma non riesce a scoprire Joseph K, è sempre fuori discussione; e a Mlle de Vinteuil non sarebbe parso così morbosamente trasgressivo il piccolo oltraggio sadico alla memoria del padre se avesse saputo «cogliere in se stessa», scrive Proust, «quell’indifferenza alle sofferenze da noi stessi provocate che è, comunque la si voglia chiamare, la forma terribile e permanente della crudeltà»; se fosse cioè arrivata a comprendere, come farà a sue spese il narratore della Recherche, quanto perfino l’insistenza su un semplice bacio della buona notte sia qualcosa che contribuisce alle rughe (alla preoccupazione, alla consunzione, alla morte) di una madre amatissima. Su questa via, secondo Mazzarella, continuerà a muoversi la più alta letteratura della prima metà del Novecento, da Gadda a Beckett: l’oltraggio è implicito nell’essere, inscritto nella sua stessa costituzione temporale.

Ultima svolta, orizzonte che è tuttora il nostro, è per Mazzarella quella che si compie dopo il 1945, quando, per motivi perfettamente comprensibili (due guerre mondiali, scatenamento distruttivo della tecnica, omicidi di massa) si stabilisce una sorta di «dittatura dei valori», un’espressione che Mazzarella deriva da Carl Schmitt, in nome della quale è ormai unicamente possibile amministrare il potere – come se potere, come diceva Shakespeare, non fosse in primo luogo possibilità di fare il male. Dittatura che genera a sua volta una nuvola di «punti di resistenza» (qui Mazzarella è tributario di Foucault e della sua analisi sulla natura discorsiva del potere) che si oppongono alla totale integrazione dell’esistenza in una trama di senso autoritariamente decisa da un ordine simbolico che, nei termini di Lacan, parla senza rimorsi il Discorso del padrone. Se a ciò si aggiunge che nella seconda metà del Novecento il peggior male è stato sempre compiuto in nome del bene (penetrando in politica con la piatta e ingenua ipocrisia che ha reso accettabili enunciati come “l’impero del male”, o “l’asse del male”), ce ne sarebbe abbastanza per attendersi, nella drammaturgia intellettuale che Mazzarella sta allestendo, un’esaltazione del male come infrazione, libertà, rivendicazione di una pienezza d’essere conculcata da un bene che altro non è, nominalisticamente, se non il flatus vocis della volontà di potenza.

Ma non è questa la via, pericolosamente vicina alla banale prosopopea del politicamente scorretto, seguita da Mazzarella. Il suo discorso è più sottile e stringente. Se il male è la parte di esperienza che è rimasta esclusa dall’organizzazione del senso, allora non ha alcun senso, appunto, tornare ad attribuirgli un segno di superiore eccezionalità. E’ vero il contrario: in autori come Michel Houellebecq, Bret Easton Ellis, Emmanuel Carrère, James Ballard, in artisti come Gerhard Richter o Maurizio Cattelan, in registi come Lars von Trier, Michael Haneke o Gus Van Sant, il male è piuttosto l’espressione di una deprivazione, di un’atrofia del sentire, di uno spezzettamento senza sintesi a cui è stata violentemente asportata la possibilità di integrarsi, anche problematicamente, nella totalità. Pur profondamente debitore di prospettive come la fenomenologia di Husserl o di Merleau-Ponty, la psichiatria fenomenologica di Ludwig Binswanger, la psicoanalisi di Didier Anzieu o di Wilfred R. Bion, il quadro concettuale da cui Mazzarella ricava le sue categorie è quello del Kierkegaard che indaga, attraverso la sua riflessione su Don Giovanni, la struttura del momento estetico: successione puntiforme di sensazioni senza continuità che non sia quella del mero procedere del tempo, disseminazione del sentimento che può mettere capo tanto a una libidine feticistica dello spezzettamento, dello sminuzzamento, della frammentazione (le “particelle elementari” di Houellebeq, le meticolose effrazioni del corpo umano messe in opera dal Patrick Bateman di Bret Easton Ellis), quanto alla nostalgia altrettanto omicida che aspira all’ideale ricomposizione di un’unità perduta (le perverse strategie di dominio di un marito su una moglie nell’Odore del sangue di Goffredo Parise, cui Mazzarella dedica pagine penetranti).

Rimpianto paranoico per la totalità o insistenza schizofrenica sul frammento giungono allo stesso esito disperato. L’atonia emotiva, la «fuga delle idee» (Binswanger) di cui il Jean-Claude Romand di Carrère o il Tobias Horvath di Agota Kristof sono testimoni, al pari dei giovani omicidi di Columbine in Gus Van Sant o dei pupazzi di Cattelan, sono l’ultima e fallimentare strategia con cui l’Io tenta di difendersi dall’indifferenziazione con un mondo in cui i sensi sono vittime della requisizione del senso. Che tra senso e sensi si sia consumato un divorzio è la radice ultima del male contemporaneo. Quanto più regna sotto il dominio onomastico del bene, tanto più l’universo del senso si fa inaccessibile alla coscienza degli uomini comuni, costretti alla reclusione nei sensi come in una immensa colonia penale senza più reticolati dove la legge è incisa di continuo sul corpo del condannato.

Nessuna apologia del male, dunque. Ma nemmeno una sua denuncia. Non è incombenza dell’estetica, sembra pensare Mazzarella, protestare contro la necessità (da cui il titolo: Il male necessario). Ma nemmeno è sufficiente indicarla gnosticamente come una raggelante condizione comminata ab aeterno a un mondo che si è nel frattempo scoperto disertato dagli dèi. La prospettiva giusta è piuttosto quella di una ontologia del presente: se la fascinazione atavica dell’effrazione violenta o il richiamo dell’odore del sangue sono frutto di una dotazione di specie, il loro trionfo incontrollato nell’immaginario contemporaneo è il risultato di una configurazione storica. Alle stesse domande, risposte molto diverse avevano dato per esempio la tragedia greca o quella shakespeariana. Tra il dolore dei sensi e la potenza del senso altre implicazioni e altri intrecci erano stati possibili: non meno radicali, ma infinitamente più gloriosi. Perché ne sorgano di nuovi – e perché, parallelamente, l’estetica, rifiutato il compito troppo ristretto di filosofia dell’arte, non si ritrovi a essere condannata al ruolo di gnoseologia inferior che si limita ad additare quanto poi solo il concetto sarà in grado di comprendere – è necessario che l’universo pratico si liberi da un’etica fondata illusoriamente sulla permanenza astorica dei valori, recuperandone la natura intrinsecamente problematica, discorsiva, rischiosa, indeterminata – e proprio per questo intrinsecamente umana. Quando ai valori che armano la mano degli assassini (valore, diceva Max Scheler, è ciò che sottintende, ciò che pretende, ciò che ha diritto a un sacrificio) si sarà sostituita l’interrogazione in comune su come sia possibile produrre una “buona vita”, quando l’ethos sarà tornato a essere una negoziazione dell’habitus, all’arte non spetterà più di cercare i suoi punti di resistenza in oggetti così sconfortanti. Senza sintesi precostituite o soluzioni definitive: ma converrà ognuno quanto sia più desiderabile un mondo in cui il conflitto è tra Socrate e la tragedia, rispetto a quello attuale che si spartiscono in perfetta complicità predicatori e serial killer.

[Immagine: Mary Haddon, American Psycho (gm)]

1 thought on “Da dove viene il male

  1. Anche chi si sia limitato ad orecchiare più o meno distrattamente le lezioni di filosofia negli anni del liceo ha imparato a distinguere tra il male fisico, il male morale e il male metafisico. Questa distinzione non è presente nell’articolo che qui viene proposto (forse è data per sottintesa), sicché la tematizzazione del Male che vi viene svolta non prende in considerazione la nozione di male fisico. Da questo punto di vista, occorre pertanto dare atto al papa emerito Benedetto XVI di avere rotto il silenzio della cultura religiosa su un tema scabroso come quello del male che si materializza nelle catastrofi naturali, allorché ebbe ad affermare nel corso di un’intervista televisiva, riferendosi allo ‘tsunami’ che aveva devastato il Giappone, che “Gesù sta dalla parte di chi soffre e, quindi, dalla parte dei giapponesi”. Sennonché, preso atto di questa autorevole rassicurazione, in un’ottica teologica e non solo consolatoria il problema non è tanto quello della fase successiva al cataclisma quanto quello del perché questi sconvolgimenti abbiano colpito, in progressione, l’Indonesia nel 2004, il nostro Abruzzo nel 2009, Cile e Haiti nel 2010 e il Giappone nel 2011, che è quanto dire, limitatamente agli ultimi due, uno dei paesi più ricchi del mondo e uno dei paesi più poveri del mondo.

    Può allora essere illuminante, in una materia così oscura, richiamare un precedente storico-culturale molto significativo, ossia la discussione che si sviluppò in Europa in seguito al terremoto di Lisbona del 1755. Voltaire scrisse, infatti, il “Poema sul disastro di Lisbona” pochi giorni dopo la catastrofe naturale che colpì, il primo novembre del 1755, la capitale del Portogallo. Ci si può quindi interrogare, partendo dalla lettura del poema di Voltaire, sulle ragioni per cui l’Occidente ha difficoltà a ‘pensare’ questi eventi, se si escludono quelle voci del mondo cattolico che hanno avuto il coraggio, se coraggio si può definire, di qualificare lo ‘tsunami’ che ha sconvolto il Giappone come una punizione divina per i peccati dei suoi abitanti (è stato il caso di Roberto de Mattei, all’epoca vicepresidente del Cnr). Resta il fatto che, nel campo filosofico, è mancato finora un dibattito sul senso di queste catastrofi, così come sul rapporto tra l’uomo e la natura e, per chi crede, sul rapporto tra Dio e il male. Nulla di nemmeno lontanamente paragonabile alla reazione profonda che, per l’appunto, suscitò nell’opinione pubblica europea il terremoto di Lisbona del 1755. Eppure, se è vero che l’impressione fu molto forte perché ad essere distrutto dall’azione congiunta del terremoto e del maremoto fu uno dei più grandi centri commerciali dell’Europa, una città che, come subito affermarono anche allora i devoti, meritava di essere punita da Dio perché era corrotta e peccaminosa e nuotava nell’oro brasiliano, è ancor più vero che risulta ben difficile giustificare con l’ottica della nèmesi divina il sisma che nel 2009 ha distrutto la capitale di Haiti, uno dei paesi più poveri del mondo. Dal punto di vista filosofico, il poema di Voltaire è il primo grande atto di accusa contro l’ottimismo metafisico e teologico che lo scrittore francese vedeva incarnato da Leibniz e dalla sua tesi secondo cui il nostro è il migliore dei mondi possibili: non un mondo perfetto, ma il più vicino alla perfezione; non un mondo privo di male, ma un mondo in cui la presenza del male è riscattata e giustificata dall’armonia del tutto. Quindi, era un problema di teodicea, ossia di come si possa giustificare l’operato divino di fronte alla presenza incontestabile del male.
    Sennonché, come aveva già argomentato Epicuro, non si sfugge al trilemma: se Dio non può togliere il male dal mondo, non è onnipotente; se non vuole, non è benevolo; se non può né vuole, non è neppure Dio. Ma se è onnipotente e benevolo, come si deve pensare che sia Dio, perché esiste il male? Alla luce di queste difficoltà logiche, Epicuro concludeva negando l’intervento degli dèi nelle vicende naturali e umane: è una posizione definibile come ateismo pratico. Altri pensatori concludono che forse Dio non è onnipotente; altri inferiscono invece che non è onnisciente o addirittura che non è infinitamente buono; altri ancora negano l’esistenza di Dio. Ciò naturalmente non significa che non si possa tener ferma la credenza nell’esistenza di un Dio onnisciente, infinitamente buono e onnipotente. Soltanto che per una tale posizione la ragione, da sola, non basta: occorre la fede.

    Dal canto suo, “il principe degli illuministi”, non avendo una risposta a queste domande, sentiva il dovere di opporsi a tutti coloro che pretendono di dare un senso a ciò che non ne ha. La ragione gli suggeriva così un pessimismo scettico, che non escludeva però l’unico ottimismo possibile, quello della speranza: “Un giorno tutto sarà bene’, ecco la nostra speranza; / ‘tutto è bene oggi’, ecco l’illusione”. Va però osservato che l’impostazione data al problema da Voltaire rischia di condurre, per eccesso di pessimismo, ad una sorta di inerzia, dal momento che la speranza sembra coincidere con la fede e, come suggerisce lo stesso Voltaire, ne condivide il carattere, ad un tempo, illusorio e consolatorio. La prova di ciò è che la religione cattolica pone la speranza, insieme con la fede e con la carità, nel nòvero delle virtù teologali. Resta perciò senza risposta la domanda cruciale: “Si est Deus, unde malum?” Una risposta razionale a questa domanda è senz’altro rappresentata, nel quadro delle concezioni teistiche (in questo caso, diteistiche), dal manicheismo, eresia (ovviamente dal punto di vista dell’ortodossia religiosa) a cui aderì nella sua giovinezza anche un ‘padre della Chiesa’ come sant’Agostino. Per altro, questa dottrina sarà ripresa nell’età moderna dal poligrafo Pierre Bayle e dal filosofo empirista John Stuart Mill.

    Quale che sia l’impostazione che si ritiene di dover conferire a questa problematica, fondamentale, sul piano metodologico, è, comunque, l’avvertenza, relativa all’opposizione verità-errore ma estensibile all’opposizione Male-Bene, formulata da Friedrich Engels (citato da Lenin in “Materialismo ed empiriocriticismo”), secondo cui “verità ed errore, come tutte le determinazioni del pensiero che si muovono su un piano di opposizioni antitetiche, hanno validità assoluta solo in un campo estremamente limitato… Non appena applichiamo l’antitesi verità-errore al di fuori di quel ristretto campo che abbiamo indicato sopra, essa diventa relativa e conseguentemente inutilizzabile per l’esatta maniera di esprimersi della scienza.”

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