di Giorgio Orelli
[È da poco uscito per Casagrande Quasi un abbecedario di Giorgio Orelli, libro postumo nato dalla collaborazione del poeta ticinese con la rivista «Viceversa Letteratura». Presentiamo tre voci seguite dall’introduzione di Yari Bernasconi, che ha ideato e composto il libro dialogando a più riprese con Orelli].
A come ANITRA
«Anitra» è una parola che ha a che fare con la mia poesia e la mia ultima raccolta, Il collo dell’anitra. Ma se dico «anitra» senza considerare la personnalité di questo nome, non vado lontano. E io sono per l’«anitra», non per l’«anatra». Se dico «anatra», con tutte quelle /a/, vado nella poesia di quello straordinario lettore della realtà naturale che è il Pascoli. Anatra starnazza già da sé. Ma io ho scritto «anitra» influenzato certamente da Dante: la /i/, la /t/, la /r/… È una parola che non sta ferma, è pronta per dare qualcosa di sé, per essere sommossa. Quando Dante, nell’Inferno, dice «non altrimenti l’anitra di botto, / quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa, / ed ei ritorna sù crucciato e rotto», l’inizio, con quelle lettere, è già tutto un trambusto d’acqua e piume. La dentale che gioca con la vibrante maggiore, la /r/, riesce a fare cose incredibili, soprattutto nella lingua italiana.
Va poi detto che «anitra» porta ad «anima», quindi ad altre possibilità semantiche. La spiegazione di come lavorano senso e suono, insomma, di come si cercano, si integrano, o di come cercano d’allontanarsi e creare nuovi significati: tutto questo appartiene proprio al fare poetico.
*
L come LETTORE (IL PRIMO)
Il mio primissimo lettore è stato l’insegnante di italiano al liceo, al Collegio Papio: don Signorelli. Una cara persona, autodidatta, anche se faceva lezione e spiegava Dante con preoccupazioni quasi esclusivamente dottrinali, tanto che durante le lezioni mi occupavo di matematica. Un giorno, invece di svolgere un tema, scrissi una poesia. L’influsso era nettamente pascoliano (ed è già significativo che fosse Pascoli e non Carducci o D’Annunzio). Don Signorelli mi mise 6, il voto massimo, annotando però: «non che valga addirittura 6, come poesia, ma c’è possibilità che tu riesca».
Ricordo anche un episodio strano. Dopo la maturità, io e mio padre andammo a trovarlo in valle Maggia, a piedi, da Prato. Facemmo delle fotografie su un ballatoio e in una fotografia mi si vede solo, in un angolo, con la testa del mio maestro! Non so se per un errore dell’ordigno, ma nella foto uscii con la testa del don Signorelli.
*
S come SABA
Non ricordo più che anno, fui presentato a Saba da Sereni. Ed è l’unica, indimenticabile volta che vidi Saba. Saba stava a Milano, in uno stato d’animo piuttosto depresso: era scappato da Trieste, mezzo ebreo, e sognava di tornare nella sua bottega d’antiquario. Quando Sereni mi propose di andare a trovarlo, io fui ben felice. Andammo in quest’osteria frequentata da Saba, in via Venti Settembre. Lui aveva il berretto, la pipa e il bastone, come nella poesia di Sereni (che, tra l’altro, è una poesia sabiana in senso profondo). Cominciammo a discutere e lui fu contento che gli parlassi di Heine, che è un po’ il Saba tedesco, così cantabile. Saba aveva un grande interesse per la poesia che somigliava alla sua: una forma di nobile narcisismo. Del resto, lui era anche particolarmente consapevole delle questioni legate allo stato dell’io, intinto com’era di psicanalisi (ne ha anche scritto nel bel libro Scorciatoie e raccontini). Sereni, però, gli disse che mi interessava il suo parere su alcune poesie che intendevo pubblicare a Milano. Io, che allora scrivevo su schede, passai le mie poesie a Saba. Lui leggeva e ogni tanto metteva una scheda da parte: «Queste sono quelle che preferisco». Tra queste, c’era L’ora esatta. Saba (l’unico dei big four della poesia contemporanea, come dice Contini, a rimanere del tutto fedele alla metrica tradizionale) mi disse: «Orelli, perché non farne un endecasillabo?». L’ora esatta cominciava con un novenario, un certo tipo di novenario, che a me piace molto: il novenario tendente all’endecasillabo. Mi piace perché dà l’impressione dell’insetto che avanza sul muro e tasta nell’incerto. Il novenario era «In quest’alba che non odora». Saba disse: «Se ci metti “quasi”, diventa endecasillabo». Così corresse: «In quest’alba che quasi non odora». E io ce lo lasciai, questo «quasi». Per far piacere a lui? Sì, ma anche perché veniva un buon verso. Perché non ho esitato nel non rifiutarlo? Non è difficile capirlo: la spiegazione la dà Leopardi, quando dice che certe parole, prima ancora che le adoperi un poeta, nel loro significato sembrano andare in una direzione diversa da un’altra. Perché misuriamo la parola nella sua validità, o bellezza, o funzione possibile. Non dalle sue risorse solo vagamente estetiche, ma anche evocative: da quello che si può evocare. Dal non detto, da tutto il non detto che una parola è capace di suggerire. È chiaro che, per Leopardi, la parola più poetica della lingua italiana è «forse», perché «forse» determina uno stato di dubbio: «Forse s’avess’io l’ale / Da volar su le nubi, / E noverar le stelle ad una ad una, / O come il tuono errar di giogo in giogo, / Più felice sarei, dolce mia greggia, / Più felice sarei, candida luna. / O forse erra dal vero, / Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: / Forse in qual forma, in quale / Stato che sia, dentro covile o cuna, / È funesto a chi nasce il dì natale». Tre «forse»! E il «quasi» è parente prossimo del «forse», quindi la proposta di Saba andava benissimo.
*
Nota introduttiva
di Yari Bernasconi
Senza voler scomodare esempi storici o illustri, possiamo dire che i meccanismi della scrittura in forma d’abbecedario sono semplici e visibili, indipendentemente dalle ragioni di tale pratica (poesia, intervista, autobiografia e altro ancora): si seguono le parole lungo la linea immaginaria dell’alfabeto, in sequenza, dalla A alla Z.
Il «quasi abbecedario» di Giorgio Orelli è nato tra il 2010 e il 2011 da un progetto della rivista «Viceversa Letteratura»: intervistare uno dei maggiori poeti di lingua italiana del secondo Novecento attraverso una lista di 26 parole, una per ogni carattere dell’alfabeto latino. Un procedimento semplice, come detto, che pure si rivelò presto troppo stretto. E in modo naturale si trasformò, moltiplicando innanzitutto gli incontri. La lista originaria si liberò dei vincoli: alcune parole vennero aggiunte durante le discussioni, altre durante la trascrizione, altre ancora scomparvero, smarrendosi fra le carte. Persino l’oralità dell’esercizio fu stravolta e alcuni lemmi vennero pensati sulla pagina bianca e battuti a macchina dallo stesso Orelli.
Il libro che tenete fra le mani è l’aggiornamento di quella prima pubblicazione. Un aggiornamento naturale, ancora una volta, perché negli ultimi anni gli incontri sono continuati e – senza fretta, senza affanno alcuno – hanno ispirato altre parole, altre discussioni, altri testi, che poi sono andati ad aggiungersi al nucleo iniziale, formando così questa nuova raccolta. Qui, come già per la versione apparsa su rivista, abbiamo deciso di distinguere tra i testi di origine orale, dunque trascritti da una registrazione sonora poi rivista e approvata da Orelli, e quelli da lui battuti direttamente a macchina, accompagnando questi ultimi con un asterisco. In appendice, invece, riproponiamo l’autolettura in forma di lettera che Giorgio Orelli dedicò nel 2000 al celebre Frammento della martora, sollecitato dalla rivista «Quarto». Ci sembra che questo testo, di natura quantomeno originale, accompagni con particolare felicità le voci del nostro abbiccì.
Il risultato complessivo rimane beninteso quello di un abbecedario “selvatico”, che prende direzioni inattese, incurante dei sentieri più battuti. Del resto, per questa stessa ragione, esso si rivela decisamente ricco e sorprendente, e permette agevoli passaggi dai toni informali e scherzosi dell’aneddoto alla terminologia tecnico-scientifica della critica verbale, da erudite citazioni a motti spiritosi, da arguti valligiani a Dante, Leopardi, Montale.
Giorgio Orelli ci ha lasciati nel novembre del 2013. Avremmo forse continuato ad arricchire queste pagine? Chi può dirlo. Vero è che la frontiera tra compiuto e incompiuto – così come quella tra definito e indefinito – è labile, spesso artificiosa. Per alcuni frettolosi e superficiali è addirittura motivo di inquietudine. Non certo per chi abbia un po’ di fantasia, di passione, di curiosità: a loro non spiacerà notare che manca, tra le lettere dell’abbecedario, là in basso, la X.
[Immagine: Florentijn Hofman, Rubber Duck (gm)].