cropped-thomas_ruff_untitled_d5537855g.jpg[È uscito il numero 17 di L’Ulisse, intitolato Mappe del nuovo. Percorsi nella poesia contemporanea. Fra i molti saggi e contributi che si possono leggere in questo numero c’è una lunga intervista a Franco Buffoni sui Quaderni di poesia contemporanea, la pubblicazione che,  fra il 1991 e il 2014, ha ospitato le prime opere di molti poeti italiani nati fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. L’elenco degli autori che hanno pubblicato nei Quaderni si può leggere qui].

L’ULISSE. Siamo qui con Franco Buffoni, che ci ha gentilmente concesso questa intervista, la quale si iscrive nel quadro tematico – Mappe del nuovo mondo: linee e ordini del giorno nella poesia italiana contemporanea – di questo numero de L’Ulisse.

Pochi strumenti come i Quaderni di poesia contemporanea hanno offerto, ad ogni uscita successiva, la possibilità di radiografare – sotto diversi rispetti – lo stato dell’arte della scrittura in versi in Italia, restituendo spaccati generazionali sempre ulteriori e presentando regolarmente per la prima volta autori che si sarebbero poi definitivamente confermati ed “affermati”. Franco Buffoni è stato ed è ideatore, curatore e principale coordinatore del comitato di lettura dei Quaderni. La prima domanda che ci siamo posti, è com’è cambiato secondo lui il panorama della poesia italiana da quando ha deciso di avviare quest’impresa ad oggi.

FRANCO BUFFONI. L’avventura dei Quaderni inizia nel 1990. Ventiquattro anni fa, riflettendo sullo status della poesia italiana avevo elaborato uno specchietto che prevedeva sei grandi filoni, o aree attive, che trovate rappresentate equamente nei Quaderni.

Un gruppo “Neo-orfico” e/o “Neo-ermetico” che faceva capo a riviste come “Niebo” (milanese), “Scarto minimo” (padovana) “Braci” e “Prato pagano” (romane); ambito da una cui costola scaturì in seguito il mito-modernismo di Giuseppe Conte. È evidente che mentre parlo di “Niebo” penso a Milo De Angelis e a una serie di autori a lui legati, per “Scarto minimo” a Stefano Dal Bianco, presente nel Primo Quaderno, e per “Braci” e “Prato pagano” a tutto il gruppo romano, di cui non sto a fare i nomi perché li conoscete meglio di me.

Un secondo ambito, con tutta l’ingenuità di allora, lo definivo “Post-neoavanguardia”. Già si affacciava infatti sulla scena il Gruppo 93, sostenuto da Renato Barilli. Sotto questa categoria mi appuntavo allora i nomi di Lello Voce, Biagio Cepollaro, Gabriele Frasca e di un maestro come Giancarlo Majorino (ovviamente il nome di Andrea Zanzotto non lo faccio, né per questo ambito né altrove, perché mi pare esterno a queste classificazioni, comprendendole in qualche modo tutte).

Una terza area l’avevo battezzata “Eredi di linea lombarda e Meridionalismo”, una categorizzazione più tardi accolta e approfondita da Flavio Santi, un poeta che scelsi per uno dei primi Quaderni. La linea lombarda (tra i cui eredi ponevo Raboni, Cucchi, Buffoni, Pusterla e Riccardi, quest’ultimo presente nel Primo Quaderno) è infatti decodificata come tale perché c’è stato un filosofo dell’estetica del peso di Luciano Anceschi che l’ha inquadrata e conformata; una simile figura è invece mancata alla linea appenninico-meridionalistica (De Libero, Cattafi, Matacotta, Bodini, Calogero), che come la linea lombarda affonda le proprie radici nell’ermetismo e nel simbolismo francese. Surrealismo appenninico barocco, cromatismo: erano questi i tratti che rinvenivo in questo secondo gruppo di autori.

Una quarta categoria era quella dei poeti dialettali, essendo allora ancora vivi Baldini e Pierro. Santi l’avevo presentato proprio come poeta dialettale, così come Zuccato, presente nel Quarto Quaderno, poeti allora sconosciuti, suo quali poi il mondo poetico mi ha in qualche modo dato ragione.

Una quinta categoria la definivo già allora come “Poesia civile”, con antesignani Carducci e Pasolini, area dentro cui mettevo Gianni D’Elia, e in anni più recenti annovererei Davide Nota (poeta che non è nell’ultimo Quaderno, anche se idealmente ci stava, semplicemente perché è uscito da poco con l’opera omnia per la propria casa editrice; stessa ragione, meramente tecnica, per cui non ho sentito più urgente includere un’autrice meritevole come Franca Mancinelli, appena uscita con una prefazione di Milo De Angelis in una delle collane di poesia oggi più prestigiose). Nella poesia civile metterei sicuramente anche molte zone della mia scrittura in versi.

Il sesto ambito che nei primi anni Novanta identificavo era quello dei “Manierismi”: un contenitore in cui prevedevo allora tre sottogruppi. Il primo era quello della “Metrica chiusa”, in cui mettevo Aldo Nove, che conobbi quando ancora faceva il ginnasio, traduceva Virgilio in modo impeccabile e – anche prima di Patrizia Valduga, altro esponente di questa “corrente” – si affidava a una metrica ferrea. Un altro era Federico Condello, che come Aldo Nove ha poi figurato nei Quaderni. Il secondo sottogruppo dell’area manierista era nei miei appunti quello facente capo in primis a Vivian Lamarque, da cui vedevo discendere tra gli altri, ciascuno con le proprie differenze, Giselda Pontesilli, Claudio Damiani e Luigi Socci, poeti che ho poi incluso nei Quaderni. Una terza diramazione dei manieristi l’avevo definita del “Nitore post-montaliano”. Il capofila era Valerio Magrelli, autore che ha molto segnato i percorsi delle generazioni successive.

Questo era insomma il quadro che avevo presente quando iniziai l’avventura dei Quaderni.

L’ULISSE. All’interno di questa tua ricognizione di partenza, di questo campo di forze e di equilibri – se non all’esterno, con l’emersione di altre tendenze o filoni che ne abbiano comportato aggiustamenti o ibridazioni – hai poi osservato degli spostamenti, qualitativi o quantitativi? Finora, per così dire, ci hai dato il quadro statico di partenza: qual è stato invece il quadro dinamico seguente?

FRANCO BUFFONI. Rileggendo per questa intervista il quadro di venti-venticinque anni fa che vi ho ora esposto, devo dire che l’ho trovato molto più vicino alla realtà di quanto non pensassi. Tutto sommato si adatta ancora anche all’oggi. Il fenomeno dell’ibridazione e della mescidazione di cui parlate è chiaramente molto più presente di allora: vedo meno compartimenti stagni. Oggi, aggiornando il lessico, menzionerei quindi di nuovo queste famiglie, tenendo però conto di una maggiore disinvoltura da parte dei poeti giovani nel trarre linfa da aree diverse. Come non si sente più un’appartenenza morale e politica, non la si sente nemmeno rispetto alle scuole poetiche, e si passa da un maestro all’altro senza farsi tanti scrupoli. Quanto al qualitativo, un’osservazione di ordine generale mi sembra di poterla fare. Per ogni Quaderno arrivano mediamente circa duecento dattiloscritti, il che significa in tutto un paio di migliaia di aspiranti. In effetti, la mia sensazione, è che vi sia un miglioramento medio qualitativo indubitabile. Rispetto al dibattito concentrato sulle riviste cartacee di venticinque anni fa, il confronto costante oggi è molto facilitato dalla rete. A ciò non corrisponde però un’originalità del dettato. A volte mi sorprendo a pensare: “Ma guarda come sono tutti bravini e inquadratini come pianisti giapponesi: non vedi errori, svarioni o ingenuità, ma il tasso di originalità è minore”. Questa è la ragione per cui nell’ultimo Quaderno abbiamo deciso di inserire un giovanissimo, Samir Galal Mohamed, nato in provincia di Pesaro-Urbino da madre italiana e da padre egiziano, un giovane poeta che ci ha fatto ritrovare l’ebbrezza dell’ingenuità mista all’originalità. Una sua poesia sul padre è strepitosa. Forse è proprio da questo genere di persone, che a casa sentono altri sapori, altri odori, altre lingue, ma poi a scuola studiano come noi Lucrezio, Tasso e Leopardi, che ci si potrà aspettare quelle sprezzature di originalità che ora sento un po’ venire meno negli autori italiani.

L’ULISSE. Oltre a questo fenomeno di livellamento, hai notato, per quanto riguarda gli effetti quantitativi, una distribuzione diversa delle voci all’interno delle categorie che hai identificato nel tempo? Rispetto al numero di manoscritti che ricevi, ci sono stati degli spostamenti osservabili (se pure al netto delle ibridazioni di cui parlavi)?

FRANCO BUFFONI. Lo spostamento più palese è la caduta libera della poesia dialettale. Qualcosa è rimasto in ambito veneto, ma direi poco o nulla, specie tra i giovani. Ed è un peccato, una perdita di grande ricchezza. Questa è la categoria che oggi vedo qualitativamente più sguarnita.

L’ULISSE. Com’è cambiato il tipo di lavoro che sta dietro a ciascuno dei dodici Quaderni finora pubblicati? Quali dinamiche successive hai/avete attraversato, proprio nel merito della selezione (anche in termini di criteri di inclusione ecc.)?

FRANCO BUFFONI. Bene o male sono rimasto sempre la stessa persona. Forse, solamente, nell’arco di questi venticinque anni sono diventato un po’ più “politico”. Il fatto che un Quaderno debba rispettare certi equilibri – di genere, di provenienza geografica, ecc. – per essere il più rappresentativo possibile è un tipo di considerazione che oggi faccio più di quanto non facessi vent’anni fa. È chiaro, allora ero un quarantenne e oggi sono un sessantenne, con tutto il bene e il male che ciò può comportare.

Inoltre sono cambiate le persone. All’inizio i Quaderni erano legati alla rivista Testo a fronte che, grazie alla menzione da parte di Umberto Eco in una sua “Bustina di Minerva” dedicata alla traduzione, fece quattrocento abbonamenti, permettendo così l’apertura, come sua costola, di una collana di poesia e appunto della serie dei Quaderni. Allora ero da solo, affiancato soltanto da Giuliano Donati, che lavorava da Guerini Associati e mi era vicino anche sul piano personale. Poi, nel 1996-1997, con il Quinto Quaderno passai a Crocetti e, dal 1998, a partire dal Sesto Quaderno (siamo ora giunti al Dodicesimo volume) definitivamente a Marcos y Marcos. Da allora si è creato e poi cristallizzato un comitato di lettura, che oltre a me comprende i due poeti pubblicati dall’editore, Fabio Pusterla e Umberto Fiori, che essendo anche già amici sono stato ben contento di accogliere nel Comitato, nonché il direttore editoriale Claudia Tarolo e l’editore Marco Zapparoli. L’impronta è rimasta la stessa, ma certamente le responsabilità si sono così meglio distribuite. Un’impronta, se posso fare una considerazione a margine, che ho cercato di tenere il più lontano possibile dalle esperienze negative di alcuni poeti miei coetanei, che hanno preferito limitarsi a promuovere editorialmente o su rivista i propri epigoni, i quali a loro volta li imitano, li gratificano e li recensiscono. Al contrario, quando un poeta mi piace e mi è stilisticamente e contenutisticamente affine, sono sempre in allarme, perché preferisco cercare chi è diverso da me. Devo dire che in questo il mio maestro è stato Luciano Erba, il quale mi diceva: “A me piace Sanguineti, perché è completamente diverso da me”; ecco, io cerco sempre di mettere nei Quaderni non chi mi piace, ma chi è oggettivamente bravo. È evidente che un criterio oggettivo come tale non esiste, però il mio obiettivo è di avvicinarmi il più possibile ad esso. In ogni caso, e per chiudere l’argomento, ho comunque sempre tratto preziosi consigli dagli autori già pubblicati nei Quaderni precedenti a quello a cui di volta in volta sto lavorando, pareri da cui capisco anche come si sta trasformando lo stile e la poetica di chi mi ha fatto la segnalazione.

L’ULISSE. Evidentemente questo carattere non “di scuola” dei Quaderni è ciò che ha dato autorevolezza a questa pubblicazione. Ecco, questo elemento di autorevolezza, sempre più consolidatosi nel tempo, per cui i Quaderni sono l’unico stabile punto di riferimento per quanto riguarda una ricognizione sistematica della poesia italiana, che tipo di dinamiche ha innescato nella ricezione, e nel vostro lavoro?

FRANCO BUFFONI. Devo dire che questo è l’unico modo di lavorare che io conosca, l’ho messo in atto come ricercatore – e tale mi sono sentito e mi sento anche dopo essere diventato professore associato e poi ordinario – perché è il mio modo di lavorare: un metodo molto empirico, pragmatico, scientifico, che ho usato come anglista, come comparatista, come giornalista culturale della carta stampata e della radio, e anche come saggista e come narratore. I dodici Quaderni li ho sempre concepiti e realizzati in questo modo, puntando alla ricerca, con un metodo rigoroso, “scientifico”.

Che cosa mi ha sorpreso? Che in questi venticinque anni altri hanno fatto dei tentativi simili, però il più delle volte del tutto velleitari; anche con sigle di tutto rispetto, come i quaderni collettivi della Bianca Einaudi, una serie nella quale fatico a trovare un criterio di ricerca, o un senso. E ci sono state esperienze anche più velleitarie e saltuarie…

L’unica esperienza che mi sento invece di mettere in parallelo alla mia è quella che condusse Raboni, con Cucchi redattore, nella vecchia Fenice di Guanda, una serie nella quale esordirono tra gli altri Lamarque, Pontiggia, Magrelli, Mussapi e il sottoscritto. Fu quella un’impresa più ristretta nel tempo – con introduzioni critiche più ridotte e un arco temporale limitato agli anni Settanta – che però rappresentò per me l’esempio da seguire.

L’ULISSE. Essendo molte volte la scrittura poetica anche una questione di esemplarità, ci chiedevamo se c’è qualcuno dei Quaderni su cui vorresti per qualche ragione soffermarti in particolare, a titolo di esempio? Che ti sta più a cuore o parlando del quale pensi di poter dire qualcosa di particolarmente significativo (per esempio quello che meglio esemplifica degli aspetti a te cari, o altro)?

FRANCO BUFFONI. Non c’è in realtà un Quaderno che possa preferire ad altri per una ragione specifica, anche perché spesso un nome “si travasa” da un Quaderno all’altro. A volte cioè si fa anche un ragionamento di questo genere: questo poeta o entra in questo Quaderno oppure per ragioni di età non potrà più essere incluso, per quest’altro possiamo invece aspettare ancora il prossimo Quaderno ecc. Ecco, ci sono come delle faglie che si intersecano tra un Quaderno e l’altro, per cui mi risulta a volte difficile ricordare la fisionomia di un Quaderno singolo per i sette autori che ci sono dentro. Vado piuttosto a zone: quel dato autore l’ho per esempio iniziato a leggere nel 2000 e poi è finito nei Quaderni nel 2005, e così via. Questo discorso, legato all’età anagrafica dei poeti scelti, si coniuga con il discorso sugli equilibri interni ad ogni Quaderno che facevo prima.

Non c’è insomma un Quaderno a cui sono più affezionato: sono tutti figli miei. Mi vengono piuttosto in mente tanti episodi, tante piccole felicità e tanti piccoli sbagli, di inclusione e di esclusione, alcuni anche clamorosi; questo ci tengo a dirlo, degli errori mi sento sempre responsabile. Forse il Primo, o i primi Quattro, sono quelli a cui sono più affezionato, perché avevo vent’anni meno di oggi [sorride]…

In ogni caso, ogni Quaderno ha le sue punte e le sue cadute, e tutto sommato mi sento di difenderli tutti in modo equanime.

Molto spesso la mia scommessa è sul talento… dopo di che ti accorgi che quell’autore diventa Emanuele Trevi, che opta per la critica o fa il narratore. Ma anche in quel caso non mi sento di aver sbagliato: semplicemente l’autore ha indirizzato il proprio talento in un’altra direzione.

Il Secondo Quaderno, a parte la presenza di Alessandro Fo, era per lo più di scuola romana, con Damiani, Del Colle, Deidier: col criterio di oggi non l’avrei fatto, non perché non siano bravi quegli autori ma, come dicevo prima, perché mi sembra ora essenziale garantire una migliore rappresentatività nazionale (ed anche favorire la circolazione della pubblicazione in tutta la penisola). Il Dodicesimo Quaderno, per esempio, è venuto molto diversificato, con solo due autori su sette nati negli anni ’70 e gli altri tutti più giovani; nonché una grande varietà rispetto alla provenienza geografica: Lorenzo Carlucci e Alessandro De Santis sono entrambi romani; Diego Conticello, un tipico prodotto della linea “meridionalista” di cui parlavo prima (il suo autore di riferimento è Lucio Piccolo), pur abitando nel comasco è invece nato a Catania e si è formato in Sicilia; poi abbiamo Maddalena Bergamin, padovana che vive a Parigi (un altro dato significativo è proprio la crescita del numero di poeti che vivono all’estero); Maria Borio, nata a Perugia ma editorialmente attiva a Milano; Marco Corsi toscano però spesso a Milano; e Samir Galal Mohamed, che citavo prima nel discorso sull’etnicità, egizio-marchigiano anche lui trasferito a Milano.

L’ULISSE: Vagliare nel corso degli anni migliaia di autori ti ha offerto il polso della scrittura poetica “media” in Italia. A partire da questo osservatorio, che idea ti sei fatto della posizione e del mutamento dello status attuale della scrittura poetica in rapporto ad altri generi di scrittura, all’interno del campo letterario e sociale italiano? C’è crisi o tenuta della poesia nell’arco di questi tre decenni? Che tipo di interesse hanno i giovani verso di essa?

BUFFONI: È straordinario l’appeal di cui il genere letterario poesia continua ancora a godere tra i giovani, malgrado i vari sbertucciamenti che prende da tutte le parti. Fino a Montale e a Luzi i senatori a vita venivano scelti anche tra i poeti. Oggi è ormai impensabile: dopo che Fernanda Pivano ha dichiarato che i veri poeti sono De André e Jovanotti, è evidente che i mass-media stanno seguendo quella linea. Negletta è quindi la poesia dei ragazzi che scrivono oggi per i Quaderni rispetto ai tempi miei, che già erano negletti rispetto ai tempi precedenti. Non c’è stata diminuzione qualitativa, ci tengo a ripeterlo: c’è stata invece una crescita della disattenzione, anche da parte della classe media, di quei notai e quei dentisti che fino a qualche generazione fa credevano di dover conoscere i nomi di almeno due, tre poeti viventi, e che oggi li ignorano bellamente a vantaggio dei cantautori.

Pur essendo diventata la poesia sempre più un fenomeno autoreferenziale e di nicchia, è però straordinaria la pervicacia dei giovani nel continuare a praticarla, e a vedere nell’immagine di sé come poeta una forma di realizzazione o almeno di definizione. Poeta, o poetessa, naturalmente: tengo a sottolineare che la qualità media della scrittura femminile è enormemente aumentata. Tanto che, mentre vent’anni fa la scrittura femminile era riconoscibile, oggi questo non è quasi più vero, anche perché esiste ormai una scrittura maschile fortemente “genderata”, che assomiglia alla scrittura tradizionalmente considerata “femminile”. Passando dai generi nel senso del gender ai generi letterari, devo dire che mentre ne parlavate rivedevo me stesso. In questi venticinque anni tante cose sono cambiate anche per me, nel mio rapporto con la scrittura. Venticinque anni fa scrivevo solo poesia e saggistica, e al massimo facevo un po’ di giornalismo. Oggi faccio anche narrativa, e questa mi è nata proprio dalla poesia: Più luce, padre viene infatti da una costola di Guerra; Zamel da una costola di Noi e loro. La poesia mi ha insufflato la narrativa; e non è che il fatto di scrivere narrativa abbia diminuito il mio desiderio di scrivere poesia: se possibile lo ha accresciuto. Mi interessa anche molto constatare come nei Quaderni siano transitati autori come Andrea Raos, Andrea Inglese e Alessandro Broggi, che nei loro libri tendono a tenere insieme prosa e poesia. Io invece tendo a scrivere – magari parallelamente – due diversi libri, uno in prosa e uno in poesia.

L’UlISSE. Prima – nella tua mappatura dei filoni poetici – parlavamo di “ibridazione” tra diverse categorie e tendenze. Volendo lo stesso termine lo si può riprendere nel discorso sull’ibridazione cross-gender, dove i generi, che in una certa misura continuano ad esistere, si trasformano nella loro tensione reciproca.

Cambiando argomento, e pensando ora non tanto agli ultimi Quaderni ma ai primi: guardando all’evoluzione e alla maturazione nel tempo degli autori che hai accolto, hai notato se alcuni di loro sono in qualche modo diventati “maestri” per i più giovani, oppure la pluralizzazione del campo letterario determina oggi una situazione in cui l’autorevolezza del maestro, la sua esemplarità, e quindi le filiazione di scuola, tendono a sparire, o in cui diventa difficile individuare un numero limitato di esperienze esemplari?

BUFFONI. Usare il termine ‘maestro’ è forse un po’ imbarazzante. Però alcuni autori che siano diventati punti di riferimento mi pare si possano trovare. Per non fare torti cito tre donne e tre uomini. Poetesse quali Rosaria Lo Russo, Elisa Biagini e Maria Grazia Calandrone, pur nell’estrema diversità della loro scrittura, sono punti di riferimento per la poesia femminile e non solo. Stesso discorso se penso a figure come Stefano Dal Bianco, Claudio Damiani e Guido Mazzoni, autori diversissimi, che magari tra loro neanche si amano. Guido Mazzoni, che ho inserito nel Terzo Quaderno quando era ancora un ragazzino che frequentava la Normale a Pisa, mi pare sia un punto di riferimento per persone più giovani di lui e non solo come poeta. Ugualmente lo ‘scartominimismo’ del Dal Bianco di vent’anni fa, pur con tutte le sue manchevolezze, e la poesia di Damiani, pur con le critiche che si è attirata, sono stati e sono un punto di riferimento per molti.

Sono casi in cui sono contento di averci visto giusto. È infatti evidente che quella dei Quaderni è una scommessa: la posta in gioco è tanto più alta quanto più l’autore inserito è giovane. Mettere nei Quaderni Guido Mazzoni a ventidue anni, Flavio Santi e Aldo nove a ventitré, Federico Condello o Edoardo Zuccato a ventiquattro è stato assolutamente più gratificante che non metterli a trentacinque anni. Naturalmente non sempre si possono conoscere gli autori quando sono così giovani, e allora diventa inevitabile, in quei casi, che entrino nei Quaderni in età più matura. Logicamente, in tal caso la posta della scommessa è più bassa. Lorenzo Carlucci e Alessandro De Santis, ad esempio, li ho inseriti in quest’ultimo Quaderno perché il gioco della storia è andato così, ma è chiaro che sono figure già consolidate.

In tutto questo, come succede, ho commesso anche degli errori. Ad esempio con Gian Maria Annovi, che ho avuto giovanissimo in lettura e che il comitato di lettura valutò complessivamente come “dolorosamente acerbo”. Ecco, se mi fossi fidato del mio solo fiuto, avrei messo Annovi nel Nono Quaderno. Oggi, che come età potrebbe ancora entrare nei Quaderni, nemmeno vado a chiederglielo. In altri casi, è stato il comitato di lettura a frenarmi dal commettere errori.

L’ULISSE. Da più parti si segnala l’emersione, non recente, in paesi europei ed extraeuropei, di voci e scritture nuove, che sembrano non ignare della tradizione novecentesca ma che allo stesso tempo si sganciano da debiti troppo stretti sia con i versanti di un certo realismo o lirismo, sia con un’”avanguardia” rivolta ancora a modelli metatestuali (Tel Quel) o di plurilinguismo e sperimentazione funambolica (gruppi 63 e 93). Si tratterebbe cioè di scritture che sembrano andare al di là di queste polarità. È forse questa la traccia di una qualche presa d’atto di un’“esaustione” di modelli e linee anche di secondo Novecento? Si individuano forse, perciò, strade differenti, che coniugano limpidezza e “sperimentazione”? Qual è il tuo parere a riguardo, non solo come regista dei Quaderni, ma anche come autore che vive nello stesso elemento che scandaglia?

BUFFONI. Quarantacinque anni fa, quando avevo vent’anni, mi sono giovato di un’educazione europea che mi ha dato delle opportunità allora non comuni. La conoscenza diretta dei poeti tedeschi, inglesi o francesi in originale, poterli tradurre, frequentare università straniere – tutte cose che oggi sono la norma – allora erano eccezioni. Da un altro punto di vista il fatto di aver trascorso un decennio per lo più all’estero all’inizio mi ha penalizzato, portandomi a un esordio a trent’anni, per certi versi tardivo rispetto a quello dei miei coetanei. Tuttavia questa mia educazione europea alla lunga è stata un vantaggio, anche perché ha permesso alla poesia di essere contornata dall’esperienza saggistica e da una serie di altre esperienze che hanno sicuramente irrobustito la mia figura. Alla lunga questo decennio appartato mi ha quindi dato una rendita di posizione.

Se però ancora all’inizio degli anni Novanta, quando ho avviato l’avventura dei Quaderni, aver sottomano il mondo anglo-ssassone, americano, tedesco e francese significava dominare il “mercato straniero”, adesso non è più così. Per poter respirare oggi qualcosa che mi ricordi quell’esperienza devo pensare al mondo arabo, con tutte le profonde differenze che ci sono tra Maghreb e Arabia Saudita. Tempo fa sono stato visiting professor in Arabia Saudita per quindici giorni, e devo dire che insegnare Leopardi a gente che non ha idea di che cosa sia il Romanticismo, ma che ha una forte tradizione di poesia lirica, è stato insieme molto difficile e affascinante. Se fossi giovane oggi, per avere un respiro più ampio studierei bene l’arabo, il giapponese o il russo. Non che la conoscenza della letteratura inglese, francese e tedesca non sia importante, ma la do per scontata. Ad esempio mi interessa moltissimo cosa succede in ambito slavofono rispetto alla riflessione sulla metrica fissa. Stanno conoscendo ora un fenomeno che noi abbiamo vissuto tra Otto e Novecento: conosco personalmente poeti che tentano oggi di fare verso libero in arabo. Qui si apre tutto un mondo e devo dire che a questo riguardo non ho molte soddisfazioni dagli autori dei Quaderni. Qualcuno c’è che mi aiuta in questo lavoro: Adrea Raos, per fare un nome. Ma sono pochi. Mi interessa il confronto con lo stadio in cui altre civiltà si trovano nella loro evoluzione poetica. Ma nel panorama italiano vedo una grande pigrizia, anche tra i miei dottorandi all’università, gente che a fatica macina un po’ di inglese. Vorrei qualcosa di più, ma forse pretendo troppo.

L’ULISSE. Come ritieni di collocarti rispetto a certe categorie consolidate del Novecento, e del secondo Novecento? Sebbene la tua scrittura abbia un legame con una certa linea lombarda, sembra difficilmente collocabile nella forbice, dominante in campo critico, tra poeti sperimentali e lirici. La nostra impressione, nel pensare a questo numero, è che questa faglia in un certo senso vada a smussarsi. In qualche misura, queste polarizzazioni erano legate a un panorama critico e poetico che guardava soprattutto alla poesia francese, mentre se guardiamo alla poesia anglosassone, per non dire a quella russa o di altri paesi, tali categorie dicotomiche vengono di molto relativizzate.

BUFFONI. Parto dal fondo. C’è stato un momento in cui ho avuto l’offerta di diventare cattedratico a Sidney, e divenire quindi australiano e scrivere in inglese. Un’estate sono stato molto combattuto in proposito, e forse avrei fatto bene a prendere quella decisione. Mi trovo a invidiare chi scrive poesia in lingua inglese e può pubblicare poesia sulla prima pagina di un giornale. Tony Harrison, per citare un amico, per anni è stato sulle prime pagine dei quotidiani inglesi scrivendo sui fatti del giorno, ma in poesia. È evidente che noi, con un percorso storico che viene da Bembo, e con la lingua che ci troviamo, non possiamo permettercelo. Se, come Tony Harrison, dovessi fare il commento ai fatti del giorno in poesia in italiano, al massimo ne verrebbe fuori qualcosa alla Ottiero Ottieri, per cui è meglio lasciar perdere. Questa è la grande difficoltà del genere “poesia” in Italia, ed è forse la ragione per cui faccio certe cose in prosa: scrivo la mia poesia e la trasformo in un testo in prosa che potrebbe stare sulle pagine di un quotidiano.

Fatta questa premessa, c’è poi la prima questione che ponevate sul rapporto tra “sperimentali” e “lirici”. Ho già citato prima poeti più vecchi di me di venti o trent’anni, come ad esempio Luciano Erba, che diceva di stimare Sanguineti anche se scriveva cose che lui non concepiva e non voleva scrivere.

Recentemente in un incontro a Roma con Mazzoni, Cortellessa, Ostuni, Ottonieri e Giovenale, si discuteva amabilmente della sparizione dell’io in poesia. E c’erano diversi giovani che ascoltavano assai attenti, molto interessati al tema. A tale proposito mi trovai a dire che il problema non è quello di sottolineare liricamente o cancellare sperimentalmente l’io in poesia: il problema è invece quello del soggetto, che cosa tu vuoi dire in poesia, dove e come ti “detta dentro”. Malgrado tutto rimango un anceschiano: il concetto di progetto in poesia c’è ed è centrale. E devo dire che Ostuni, seduto accanto a me, annuiva. Ho scritto un libro, Il profilo del Rosa, con l’io lirico al massimo della sua possibilità di estrinsecazione. Eppure sono la stessa persona che cinque anni dopo ha pubblicato Guerra, dove l’io non c’è, se non per piccole smagliature che potrei persino togliere senza intaccare la raccolta nel suo insieme. Che cosa ha fatto sì che io, che sono lo stesso autore, abbia scritto un libro così “lirico”, così fondato sull’io come Il profilo del Rosa, e un altro libro così “oggettivo”, dove l’io non c’è? Il soggetto: è il soggetto – quello che “mi detta dentro” – a far sì che si possa scrivere in modi tanto diversi. Personalmente non sono né un fautore della sparizione dell’io perché ho scritto Guerra, né un fautore della presenza dell’io perché ho scritto Il profilo del Rosa. Che cosa è allora davvero importante? Non tanto l’esercitarsi a scrivere poesia con o senza l’io, ma decidere bene di che cosa vogliamo parlare, qual è il progetto che abbiamo in mente, che cosa – anceschianamente – vogliamo ottenere con un libro di poesia. Tutto il resto è ancillare, è orpello.

Stiamo tanto a parlare di un pronome, di qualche cosa che sta al posto di qualche altra cosa: ma non ce ne può importare di meno! A tale proposito mi viene in mente il caso – su cui ho scritto una poesia ancora inedita – di un giovane collega ricercatore, che insegna italiano in un corso per stranieri dove ha come studenti-tipo la sedicenne cinese che fa la barista, il muratore polacco e il maghrebino che non si capisce bene che lavoro faccia. Il nostro giovane intellettuale chiede: “Mi sapete dire che differenza c’è tra lui ed egli”? La barista cinese si consulta con il muratore polacco e con il maghrebino, e dopo un attimo si fa portavoce dei tre rispondendo: si dice “egli” quando “lui” è gay. Mi sembra un capolavoro [sorride] – e non solo per l’uso dei pronomi – come tre culture così diverse, consultandosi, siano arrivate a dare questa spiegazione.

[Immagine: Thomas Ruff, Ritratti (gm)].

5 thoughts on “Sui Quaderni italiani di poesia contemporanea. Un dialogo con Franco Buffoni

  1. “In effetti, la mia sensazione, è che vi sia un miglioramento medio qualitativo indubitabile. Rispetto al dibattito concentrato sulle riviste cartacee di venticinque anni fa, il confronto costante oggi è molto facilitato dalla rete. A ciò non corrisponde però un’originalità del dettato. A volte mi sorprendo a pensare: “Ma guarda come sono tutti bravini e inquadratini come pianisti giapponesi: non vedi errori, svarioni o ingenuità, ma il tasso di originalità è minore”. Questa è la ragione per cui nell’ultimo Quaderno abbiamo deciso di inserire un giovanissimo, Samir Galal Mohamed, nato in provincia di Pesaro-Urbino da madre italiana e da padre egiziano, un giovane poeta che ci ha fatto ritrovare l’ebbrezza dell’ingenuità mista all’originalità. Una sua poesia sul padre è strepitosa. Forse è proprio da questo genere di persone, che a casa sentono altri sapori, altri odori, altre lingue, ma poi a scuola studiano come noi Lucrezio, Tasso e Leopardi, che ci si potrà aspettare quelle sprezzature di originalità che ora sento un po’ venire meno negli autori italiani.”

    Il problema è a mio modesto avviso duplice: inizialmente biografico, nel senso che lo standard di “elevata qualità poco originale” è in genere riconducibile a curriculum da addetti ai lavori che fanno vite ordinarie e nutrono immaginari conseguentemente limitati; e poi attitudinale, nel senso che l’investimento in queste faccende, biologicamente agonistico verso la sopravvivenza, cioè il superamento dei limiti (dei padri, di una tradizione, di una qualche coercizione che impedisce di stare al mondo) è molto sfumato, preferendosi invece approcci di gruppo, collaborativi e quindi mediati, nei quali la sopravvivenza è idealmente garantita a tutti.

    L’originalità che cerca il prof. Buffoni si può ancora trovare in contesti non ortodossi, come il giovane egiziano, ma lì molto spesso mancano le basi tecniche per fare buona poesia in lingua italiana e manca soprattutto l’interesse a provare a farne. In vent’anni di tentativi di stimolare gente di formazione non umanistica a lavorare sui propri linguaggi settoriali in modo da renderli poesia, ho raccolto sostanziale indifferenza: la poesia in senso stretto non interessa a nessuno, anche perché il poetico lo si trova in abbondanza e più alla portata nelle canzoni pop, nei film, nella vita quotidiana (la cucina e la cura del corpo per le donne, il calcio e le compagnie di giro per gli uomini).

  2. @ Il fuGiusCo
    “Il problema è a mio modesto avviso duplice: inizialmente biografico, nel senso che lo standard di “elevata qualità poco originale” è in genere riconducibile a curriculum da addetti ai lavori che fanno vite ordinarie e nutrono immaginari conseguentemente limitati.”

    La storia della letteratura è stracolma di lampanti confutazioni di questa Sua teoria…

  3. @Macioci

    Dovremmo discutere se nella storia della letteratura ci sia mai stato qualcosa di simile ad pensiero medio-mediato occidentale di cui oggi siamo pressoché tutti quanti intrisi alle nostre latitudini, fosse anche indirettamente tramite media globali ed internet. Non basta spegnere la TV e la radio, anche solo camminare per strada, collegarsi al pc per leggere i giornali, quelli di fascia alta e non solo i popolari, espone al poetico generalizzato di massa. Se l’immaginario è questo e se le vite banali in acquario sono queste, non esce nulla. In poesia si guarda allora a vite estreme ed estreme reazioni, ma se per esempio prende la raccolta dei boiardi e dei figli di boiardi pubblicate recentemente da Lietocolle, ci trova la stessa stoppa rilanciata dai precari dei paeselli diroccati: banalità creaturali e trionfo del poetico televisivo / internettico. La storia della letteratura che cita lei è fatta al contrario di macrocosmi individuali isolati gli uni dagli altri, se non per il collante -a volte- della letteratura classica e delle persone letterarie che avevano vita nella mente degli autori.

  4. @ Il fu GiusCo
    Non mi è del tutto chiaro ciò che Lei dice.
    Per me dedurre una mediocrità letteraria da una biografia piatta è falso – una vita esteriore “estrema” può incidere su quella interiore (e di conseguenza sull’opera) ma farne una regola non si può. Il malmesso sedentario Leopardi tocca regioni cosmiche tanto quanto l’intrepido marinaio Melville…

  5. Macioci, lo vede il mare di sciocchezze che ha sommerso il sito con balotelli ed il gay pride? stia sicuro che leopardi lo spinotto internautico nel cervello non ce l’aveva e che rimaneva comunque “aggiornato” abbeverandosi ai classici, cosi’ come melville alla vita vera, e ai diversi tempi propri di assorbimento delle lezioni del pensato e vissuto. Crede che sia possibile essere originali in poesia con lo spinotto in testa, un post al giorno e facolta’ di chiacchiera senza limiti? glielo dico io, non lo e’. seppur lo fosse, per via di estrazione culturale profondamente diversa, balotelli ed il gay pride gli entrerebbero comunque nel cervello in qualche modo e gli resetterebbero l’immaginario ed il vocabolario che si accompagna loro: i fascistoidi con le medaglie senatoriali liddove una volta erano i ragazzi della via pal ed ancora prima achille, ettore ed ulisse; i diritti concreti di ogni minoranza individuale dove prima il vecchio testamento del dio padrone ed ancora prima l’arca di noe’ che salva tutti e tutte. Cosa mai potra’ sperare di leggere di originale il prof. Buffoni oggi se non qualche buon selvaggio isolato dal flusso, contentandosi della materia grezza e buttando a mare le forme morte degli incliti con lo spinotto in testa? e’ comunque anche colpa del prof. buffoni, con i suoi 12 quaderni ha formato il suo canone ed autorizzato un sacco di linee morte a parlare, oggi raccoglie quel che ha seminato ed aggravato dello spinotto occidentale omologante.

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