di Mauro Piras
Sono stato al Gay Pride, ieri. Nulla di nuovo, ci sono stato già più volte. Da diversi anni a Torino si tiene un Gay Pride, e se ho tempo ci vado. La prima volta fu in occasione di quello nazionale del 2006, che fu un evento, per la cultura politica di questa città. Quello che colpì, allora, fu la partecipazione collettiva: incontravo a ogni angolo i miei studenti, le mie studentesse, i miei colleghi, le amiche e gli amici del sindacato, persone di ogni tipo; le famiglie si affacciavano ai balconi e applaudivano; coppie di vecchietti sorpresi e incuriositi osservavano, perplessi, ma sorridevano. Da allora il Gay Pride è diventato un rito, qui, più o meno partecipato a seconda degli anni. Riflette gli umori politici della città. Ieri, per esempio, alcuni cambiamenti significativi.
Intanto, la Regione ha dato il suo patrocinio, che era stato tolto dal 2010, cioè da quando si era insediata la Giunta di centrodestra guidata da Cota. Chiamparino, nuovo Presidente dal 25 maggio, ha invece restaurato l’impegno della Regione nella difesa delle differenze sessuali. Poi, era presente uno striscione del Pd, ben grosso e visibile. Fino all’ultimo mi sono detto: il Pd farà la sua solita figura meschina, aderisce, ma poi va lì quasi di nascosto, non manda dirigenti, non ha uno striscione. Invece c’era lo striscione, un carro dei giovani democratici decisamente rumoroso, e Chiamparino in prima fila, nell’apertura istituzionale, con alcuni assessori del comune. Ovviamente, però, mancavano i segretari regionale e provinciale. Che vuoi fare, un po’ di viltà ci vuole sempre.
La partecipazione è stata altissima. Cinquantamila persone, hanno scritto i giornali. Sicuramente moltissima gente, in certi momenti c’era una calca spaventosa, si faceva fatica ad avanzare se non seguendo il movimento del corteo. E si è rivista la qualità della partecipazione del 2006: la presenza di tutte le associazioni e le personalità del mondo LGBT e di tutte le persone che si identificano in esso era immersa in una presenza diffusa di cittadini qualunque, come me, venuti semplicemente a sostenere la causa. Una quantità enorme di ragazze e ragazzi che, come sa chi insegna, vivono ormai con una grande naturalezza la permeabilità dei confini tra le identità sessuali; la vivono costantemente nei loro momenti di divertimento, nelle feste, così come nelle amicizie e negli affetti. E vengono al Gay Pride a riprodurre questa forma di vita, intensificata, nella rappresentazione pubblica dell’esplosione del dionisiaco, della sensualità e dell’affettività liberata. Ma, insieme a loro, anche tante persone di mezza età (sempre come me) che militano in partiti, associazioni, sindacati, occupandosi ogni giorno di altre cose, ma si sentono naturalmente parte della lotta per questi diritti. E anche questa volta, la partecipazione dei passanti, delle famiglie dai balconi, dalle finestre. Dei commercianti, che avevano già aderito nelle settimane precedenti alla campagna “Omofobia no grazie”.
Immerso in questo flusso di forza vitale e volontà di potenza che esplode e ti porta, indebolendo le tue difese, ho fatto però anche qualche riflessione meno banale (spero).
Ho notato due cose. La prima è che questa sensazione di essere portato, quasi pressato, dalla folla, di essere trascinato potentemente dal flusso del corteo, l’ho avuta solo al Gay Pride, ultimamente. E dire che ho fatto tante manifestazioni, qui a Torino. Ogni anno, quella del Primo Maggio, senza eccezione. Poi, sempre, la fiaccolata del 24 aprile per la Festa della Liberazione. E ancora, tutte le manifestazioni politiche importanti, come quelle contro la guerra nel 2003; e quelle per la scuola, alcune, negli anni peggiori della Gelmini, decisamente imponenti. Quella tragica dopo l’incidente alla Thyssen, nel 2007. Ma in quasi tutte ho avvertito l’allentarsi della forza delle manifestazioni classiche. Anche quando erano affollate, il corteo non era mai così compatto e trascinante.
Inoltre, il secondo aspetto riguarda la “liturgia” di queste manifestazioni. Nelle manifestazioni classiche, questa liturgia da anni si sta indebolendo. Una cosa che si nota, da diverso tempo, è che la maggioranza delle persone che partecipano ai cortei non scandisce più gli slogan, o almeno non lo fa più con la forza e la regolarità con cui questo avveniva prima. Si è creata una specie di divisione del lavoro: nei camion e in testa ai gruppi (ma soprattutto nei camion) alcune persone scandiscono degli slogan e fanno dei discorsi; il resto dei manifestanti segue, semplicemente. Raramente accade, come succedeva regolarmente nelle classiche manifestazioni politiche, che la maggior parte dei manifestanti urli degli slogan e canti. Avviene solo nei gruppi più determinati, ma si tratta di solito di frange minoritarie (per esempio i centri sociali).
Invece nel Gay Pride la liturgia è coinvolgente, e la maggioranza partecipa. Ovviamente, è una liturgia del tutto diversa. A causa anche del ruolo guida dei carri, assomiglia molto più a una ritualità da discoteca che a una organizzazione da manifestazione politica. Dai carri viene una musica assordante, scandita dalle incitazioni degli speaker ai microfoni, veri e propri dj, incitazioni che si alternano a piccoli comizi, piccoli discorsi politici. Le incitazioni vanno oltre il corteo, si rivolgono ai passanti, alle persone affacciate alle finestre, a tutti. E grazie alla musica e ai dj, le folle di ragazzi e ragazze (ma non solo) intorno ai carri sono sempre in movimento, cantano, gridano, rispondo alle incitazioni (“saltate tutti”, e saltano; “fate un urlo”, e fanno un urlo; ecc.). È un mondo del tutto diverso, ma funziona. L’impressione è che mentre le manifestazioni tradizionali hanno perso energia, e si ripetono un po’ stancamente, queste invece sono al culmine della loro espressione: portano al massimo la partecipazione e il coinvolgimento dei manifestanti. Molto più che in quelle tradizionali, in questi eventi ci si avvicina alla ritualità come la vede Durkheim: l’io è assorbito dal rito collettivo al punto da esserne totalmente trasceso, rinsaldando così il legame con i valori che fondano quel rito. Ma quali sono questi valori? Proverò a dire qualcosa più avanti.
Prima, ancora qualche considerazione sulla manifestazione di questo rito. La sua forza, in questo momento, deriva forse dal fatto che è in rapporto diretto con pratiche diffuse nella società. Lo sballo indotto dalla musica e dalla discoteca fanno parte dell’esperienza ordinaria di molti giovani, e così anche l’esplosione della sensualità e del dionisiaco, in esperienze erotiche che rifiutano di definirsi in schemi tradizionali. Questo pone la liturgia del Gay Pride in continuità con aspetti della società individualista, edonista e consumista (uso espressamente questi termini, che molti caricano di connotazioni di critica moralistica) che sembrano opporsi allo spirito di giustizia e di solidarietà che anima i movimenti sociali, in generale, e le manifestazioni più tradizionali della sinistra in particolare. E certo, l’occhio, durante la manifestazione non può non essere colpito anche da alcuni elementi di disturbo: alcune presenze estranee, ma che non possono non essere lì. I sottoproletari (napoletani si direbbe), corpulenti, mal vestiti, per niente intonati all’atmosfera, che si aggirano con carrelli improvvisati a vendere “birre, cocche!”, identici a quelli che si incontravano una volta nei treni, che si vedono nei concerti. E l’autista della Mercedes decappottabile che procede sontuosa trasportando due splendide ragazze (ragazzi) vestite di piume, in calze e maglie a rete, su tacchi vertiginosi, che esibiscono il loro corpo levigato, mentre lui, in abito nero, sobrio, pelato, lo sguardo professionale indifferente, guida in mezzo alla folla. Queste presenze sembrano dirci che il Gay Pride è un rito per la classe media planetaria omogenea al sistema, l’ennesima celebrazione del sé che si realizza nella soggettività del desiderio, captato, questo, dal mercato. Un rito a cui i “veri sfruttati” sono estranei. Forse è così. Ma non bisogna fermarsi qui, credo. Forse invece la potenza aggregatrice del Gay Pride viene proprio dal fatto che riesce a trasformare tendenze interne al sistema in forze morali, che agiscono politicamente. Come dovrebbe fare ogni movimento politico.
Ma quali sono queste forze morali? Quali sono i valori che fondano il rito del Gay Pride, come chiedevo prima? Per dirla con toni meno esagerati: che idea di democrazia è in gioco qui?
Parto da un dettaglio. Tra le autorità presenti c’era l’assessore comunale alle pari opportunità Ilda Curti, a fianco di Chiamparino. Ilda Curti è la stessa persona che, quando Chiamparino era al comune, si è impegnata per la costruzione di una Moschea a Torino, in una trattativa lunga e paziente con la comunità islamica, e resistendo tenacemente a tutti i tentativi di boicottaggio, che fossero le resistenze di una parte dell’opinione pubblica e dei partiti, o le cause pretestuose intentate dalla Lega. Alla fine la Moschea si fa. Si vede qui il senso di questa politica: si tratta di realizzare l’idea di eguaglianza dei cittadini attraverso la creazione degli spazi in cui le loro particolarità possano esprimersi liberamente. L’eguale rispetto delle diversità. Questo accade anche nel Gay Pride. Le Drag Queen coperte di piume in cima ai carri sono l’avanguardia di una minoranza che vuole semplicemente essere riconosciuta per quello che è, senza che la sua identità abbia lo stigma del disprezzo sociale o della rimozione dalla dimensione pubblica. L’avanguardia infrange lo specchio della rappresentazione pubblica accettata dei ruoli sociali e, come sempre nelle lotte sociali, con il conflitto e con l’affermazione esasperata di sé contro le resistenze, impone agli altri soggetti sociali di riconoscere che quella forma di vita è legittima e degna come le altre. E così gli altri, dietro, possono seguire. Chi si trova fianco a fianco con le fanciulle (i fanciulli) distesi sul cofano della Mercedes, con i ragazzi seminudi che ballano sui carri, ma anche con le mamme delle famiglie arcobaleno, con i giovani ragazzi gay in camicia e pantaloni ben stirati ecc., sente di partecipare della condivisione di una eticità che si forma nel processo democratico: la forma di vita che si costruisce nel riconoscimento reciproco di forme di vita diverse, non necessariamente condivise nelle proprie scelte di vita, ma sentite come parte del nostro orizzonte sociale, cioè come parte di una società che è disposta a lottare per affermare anche quelle identità che non mi appartengono. E allora le identità che non mi appartengono, perché non sono la scelta di vita che ho fatto io, allo stesso tempo mi appartengono, perché io appartengo a quella società che sceglie di porre tra i suoi fini anche la creazione degli spazi per il fiorire di quelle forme di vita: che siano esse le comunità islamiche tradizionali, che vogliono uno spazio dignitoso per il culto, o le comunità LGBT, che vogliono potersi manifestare senza essere disprezzate.
Qui emergono i valori fondanti di una democrazia che trova la sua legittimazione nell’eguale rispetto delle persone concrete, in carne e ossa, con le loro storie. La discussione sulla democrazia è oggi scissa tra due prospettive entrambi semplificatrici: da una parte la visione “procedurale”, secondo cui la democrazia può rispettare le diversità se si svuota di contenuti etici, rimane indifferente alle differenze e chiede ai cittadini di confrontarsi solo su questo terreno di neutralità; dall’altra la visione “etica” che contesta questo modello “gracile” di democrazia e sostiene che una democrazia può sopravvivere solo se si dà dei fini condivisi, che possono venire unicamente da una storia, da un’identità e da una tradizione comuni. Questa contrapposizione, che ricompare di nuovo nel testo di Charles Taylor La democrazia e i suoi dilemmi (Diabasis, 2014), in parte pubblicato e discusso anche su questo blog, è semplicistica. La democrazia procedurale non esiste. La democrazia che rifiuta di assumere una “identità storica forte” lo fa perché parte dall’assunzione di un punto di vista morale altrettanto forte: il principio dell’eguaglianza morale di individui concreti, posto alla base della legittimità delle sue istituzioni. Questo principio, se rispettato e applicato, porta alla creazione di uno spazio etico condiviso, che non è il guscio vuoto del proceduralismo e della stretta neutralità liberale, ma non è neanche l’eticità densa di una identità nazionale o culturale, che respinge ai margini le minoranze: è lo spazio morale che si crea nel riconoscere come parte della nostra società forme di vita diverse, e nel promuovere gli spazi che permettono loro di svilupparsi liberamente. Questo spazio morale diventa un patrimonio condiviso della società, e quindi diventa la riserva da cui sorgono i fini che la società si pone. I cittadini non LGBT che hanno partecipato alla manifestazione di ieri hanno sentito di condividere la lotta per l’affermazione dei diritti di quella comunità, e in questo hanno sentito di affermare una loro identità morale forte, che alimenta le istituzioni. Il rito è servito a farli sentire parte di questo tutto, a farli tornare al momento sacrale in cui la condivisione dei fini rinsalda le basi della coscienza collettiva.
(Torino, 29 giugno 2014)
[Immagine: Gay Pride, Torino (mp)].
Caro Piras,
con la consueta franchezza, le dico che non condivido quasi nulla di ciò che lei ha scritto in questo articolo.
Innanzitutto, la prima obiezione riguarda i soggetti collettivi che hanno diritto di accesso al riconoscimento pubblico. Qui, già si diparte un’alternativa, o è la legge che lo garantisce (la costituzione recita ad esempio la possibilità per qualsiasi religione di essere professata). Se qualcuno me lo proibisce, io vado dal giudice e chiedo che egli faccia rispettare la legge. Punto, credo che questo sia ciò che lei chiama democrazia procedurale, cioè affidata all’approvazione ed al successivo rispetto in forza di legge di determinate norme.
L’alternativa è che invece il rispetto sia affidato ad un movimento di opinione pubblica, come mi pare avvenga quando una minoranza sia abbastanza numerosa e chiassosa (o se preferite, militante) per farsi sentire, per imporsi all’opinione pubblica. In effetti, questa seconda ipotesi è quella propriamente liberale, che lo stato si ritragga il più possibile, smetta di fornire garanzia urbi et orbi, e tutto è affidato al mercato, in questo caso al mercato delle opinioni.
Il limite di questa procedura è che così le minoranze troppo modeste soccombono. Questo ha di peculiare lo stato, che la legge è eguale per tutti, che quindi prescinde completamente dalla mia forza: fossi anche l’unico credente in Zeus, il giudice ha il dovere di proteggere il mio diritto a professare questa specifica religione, e questo mio diritto non potrebbe essere protetto in nessun altro modo. Gli omosessuali hanno fortunatamente ottenuto tanti risultati positivi perchè sono stati abili ed attivi, hanno saputo imporsi ad un’opinione pubblica spesso retriva, ma tale retrivia si accoppia spesso ad una sostanziale inerzia. Mi chiedo se altri, senza essere altrettanto abili e determinati, avrebbero potuto ottenere gli stessi risultati. Allo stesso modo, cosa ha garantito la moschea, se non la numerosità dei musulmani? Finchè i musulmani erano pochi, nessuno si occupava di loro e dei loro diritti religiosi.
I risultati ottenuti dagli omosessuali sono positivi per loro, ma io aggiungo per l’intera società, ma è augurabile che il tutto sia affidato a doti del soggetto direttamente interessato, visto che invece ogni questione sociale coinvolge tutti noi, che se un omosessuale viene offeso ci perdiamo tutti, non soltanto lui? Ecco perchè la prima alternativa, la forza della legge è preferibile, è la via maestra, difendo non solo i forti ma anche i deboli.
Il secondo ed ultimo (per questioni di sintesi) punto che affronto è la questione etica. Lei risolleva qui una questione di lunga data, la questione della laicità e del laicismo. La laicità è un valore che può appartenere a rigore solo allo stato, solo lo stato può essere indifferente verso qualsiasi opinione, solo lo stato può in base alla norma che la legge è eguale per tutti apparire perfettamente neutrale, i singoli cittadini non possono costitutivamente essere laici, avranno delle opinioni e ne saranno in misura maggiore o minore influenzati. Quando quindi un cittadino pretende di essere laico, non può che finire con l’essere laicista, cioè col predicare quella specifica norma etica che consiste appunto nella tolleranza e nella comprensione dei diversi da sè.
Nulla di male in questo laicismo, ma il punto è fino a che punto questa tolleranza si esprime.
Così, fieri sostenitori del matrimonio omosessuale in nome proprio della non ingerenza, diventano improvvisamente oppositori altrettanto fieri se uno avanza la proposta della poligamia. Si sollevano le questioni di principio più improbabili, quando l’unica differenza tra i due casi è proprio la forza degli omosessuali e la debolezza (quasi l’inesistenza nei fatti) dei sostenitori della poligamia. Al solito, si trascura il fatto che la società ci precede, la cultura dominante ci precede, e che immaginare una società costituita a partire da individui provenienti da un non luogo è assurda.
Caro Mauro,
ancora un interessante articolo, che riprende tematiche della democrazia liberale che avevi già accennato in precedenza. Peraltro occorre comunque dire che nel discorso sulla laicità in italia esiste una concezione di laicità a volte declinata in modo secondo me eccessivamente libertario, che non evidenzia il fatto che a ogni individuo in casi limite come portare o no a termine una gravidanza o continuare o no una condizione di fine vita con sofferenze non percepite come sopportabili, al fine che lui possa scegliere liberamente, deve aver acquisito i mezzi culturali, economici, sociali, caratteriali per compiere in modo libero e consapevole tali scelte. Penso ad esempio a casi in cui scelte su interruzioni di gravidanza e condizioni di fine vita sono pesantemente condizionati dallo stato economico e sociale della persona e delle persone a lei più vicine (ad esempio lo stato dovrebbe evitare il più possibile che una donna non possa portare a termine una gravidanza che prima la si voleva continuare a causa della perdita improvvisa del posto di lavoro).
Il caso dei diritti degli omosessuali invece mi pare abbia meno problematiche di questo tipo, per quanto riguarda le adozioni, io sono dell’idea che si dovrebbe valutare caso per caso, in quanto anche se ci fossero dati empirici che affermassero che mediamente i figli adottati da coppie gay hanno più problemi dei figli adottati da coppie eterosessuali, comunque questo discorso dovrebbe valere per ogni altro fattore che sembra rendere più problematica la vita dei figli adottati (ad esempio una diversità etnica dei genitori) e quindi restrizioni a priori generiche distaccate dal contesto singolo di ciascun figlio non possono essere utilizzate. Comunque occorre sempre notare che nelle scelte pratiche l’ideale non sempre è realizzabile e dunque più che al bene ideale generico occorre puntare al miglior bene possibile in quella situazione concreta. Non so se tu hai una posizione simile alla mia.
@ Vincenzo Cucinotta:
Sul punto che le minoranze devono essere difese e riconosciute pubblicamente a prescindere dalla loro numerosità e potenza io concordo, anche se esistessero solo una decina di omosessuali in Italia i loro diritti sarebbero ugualmente degni di essere difesi. Per quanto riguarda il discorso sulla laicità mi pare non abbia compreso il fatto che è falso che laicità dello stato non afferma affatto un “essere indifferente verso qualsiasi opinione” ma invece, come nota Piras, assume come forte valore morale “il principio dell’eguaglianza morale di individui concreti”. E’ questo principio che ad esempio non può far ammettere la poligamia se intesa come associazione famigliare di più persone in cui un sottoinsieme di persone in questo gruppo è in condizioni di disuguaglianza di diritti (come è presenti in certe società islamiche o africane), mentre una certa poligamia può essere accettata nel senso di associazioni come le comuni degli anni ’60, le quali però non mi risulta abbiano avuto più successo, ma comunque anch’io sono pronto a difendere i diritti di coloro che compiono tali scelte di vita, non importa quanto è il loro numero.
Dioniso e i valori…
Eteronormatività, sì grazie!
In realtà, al di là delle incongrue esaltazioni bacchiche cui si abbandona l’estensore di questa cronaca del Gay Pride torinese, il comportamento omosessuale è tanto più diffuso quanto più la società è contrassegnata dall’antagonismo tra i suoi membri, cioè quanto più essa è competitiva. La riprova è costituita dalla civiltà della Grecia antica, in cui, come è noto, il comportamento omosessuale era declinato nella forma della pederastia e rispecchiava fedelmente la struttura di una società ove i maschi liberi vivevano immersi in una dimensione di agonismo permanente (Giorgio Colli, ad esempio, fa risalire a questo dato socio-antropologico la stessa nascita della dialettica), così come fortemente agonistici erano i rapporti tra le stesse città dell’Ellade (l’istituzione delle Olimpiadi fu anche e soprattutto la valvola di sfogo per tenere sotto controllo questa energia potenzialmente distruttiva, i cui correlati mitologici sono da individuare in figure come quelle di Eracle e di Achille). Non sorprendono pertanto né la diffusione del comportamento omosessuale in Grecia né la sua progressiva diffusione e legittimazione in Roma grazie alla progressiva ellenizzazione di quest’ultima, ultima tappa del passaggio da una società di tipo patriarcale-solidaristico ad una società imperiale-cosmopolita con forti connotazioni individualistiche e competitive. Non è ora il caso di riprendere, anche se sarebbe altamente istruttivo per esemplificare quanto or ora ricordato, il dibattito sulla opportunità e liceità dell’amore omosessuale, che si svolse in Grecia e che vide le importanti prese di posizione di filosofi come Platone, Aristotele e Plutarco. Per misurare ad ogni modo analogie e costanti, che attraversano intere epoche, è sufficiente sottolineare: a) che manifestazioni come il Gay Pride fruiscono di consistenti finanziamenti da parte dell’ambasciata statunitense, organo dell’Impero sotto il cui giogo viene celebrata la “libertà dei servi”; b) che la disponibilità ad elargire questo tipo di sostegno obbedisce ad una strategia in cui i diritti civili sono sistematicamente e alternatamente contrapposti ai diritti politici e ai diritti sociali.
Caro Cucinotta,
l’alternativa non è tra un riconoscimento pubblico dato dallo stato e un riconoscimento pubblico dato solo dall’opinione pubblica, con lo stato che si ritrae. Credo che un’idea di questo genere sia solo dei libertari più estremi. In ogni caso anche questi devono riconoscere che ci sono dei diritti uguali garantiti dallo stato.
Io sto dicendo il contrario, e quello che propongo è proprio nel senso di colmare le lacune del neutralismo liberale. Questo dice: riconosciamo diritti formali uguali a tutti, ma lo stato è neutrale e resta esterno alle identità sociali particolari. Questa posizione però non tiene conto del fatto che esistono fattori di disistima e non riconoscimento che agiscono socialmente, al di sotto delle leggi, e che queste quindi sono inadeguate a rendere effettiva l’eguaglianza tra le persone. E’ necessario quindi che anche le pratiche sociali cambino. E questo può avvenire attraverso processi culturali e sociali che non sono in potere dello stato, ed è un bene che sia così. Però il potere dello stato può intervenire per creare le condizioni affinché queste pratiche sociali si modifichino. Ecco perché lo stato non deve essere neutrale, ma deve promuovere le identità diverse e minoritarie, per creare lo spazio in cui possano essere riconosciute non solo formalmente ma anche nella pratica sociale. Ecco perché lo stato deve farsi carico anche del riconoscimento simbolico.
Ciò detto, può restare il nocciolo della sua obiezione: non rischiano di ottenere riconoscimento, così, solo le minoranze che si impongono rumorosamente? Rispondo così. 1) E’ ovvio che il riconoscimento giuridico deve essere dato a tutti, anche a chi non riesce a organizzarsi e lottare. 2) Se lo stato non è neutrale, ma promuove lo spazio perché le minoranze possano esprimersi, tenderà a essere sensibile alle minoranze in generale; altrimenti tutte, deboli o forti, saranno svantaggiate. 3) I diritti appartengono ai soggetti quando questi li rivendicano e li ottengono come propri, non perché vengono concessi dall’alto, quindi fa parte della normale dinamica della lotta per il riconoscimento che i gruppi e gli individui esclusi da uno spazio giuridico e sociale si affermino con la lotta, appunto, e quindi anche creando dei rapporti di forza; questo è vero fin dalla storia del movimento operaio.
Sul secondo punto. Lei ha ragione a dire che solo lo stato è tenuto a essere laico, nel senso di non schierarsi per una visione etica, ma solo per i valori morali fondativi della democrazia. I cittadini non hanno questo obbligo. Ognuno avrà il proprio rapporto con una idea di vita buona, magari “laicista”. Però i cittadini possono riconoscersi più facilmente se sono capaci di parlarsi anche con argomenti che derivano da quei principi fondanti della democrazia, e non solo dalla propria prospettiva etica. O almeno se, pur parlandosi dalla propria prospettiva etica, si parlano con il rispetto che si deve a persone libere e eguali.
Caro Michele,
grazie. Concordo sul fatto che lo stato debba garantire ai cittadini quanto più possibile le condizioni epistemiche e socio-economiche delle loro scelte. Tuttavia, bisogna evitare di forzare questo argomento, perché rischia di scivolare nel paternalismo.
Presente! Sono una delle studentesse del 2006 che erano andate al Pride il giorno prima del primo scritto di maturità :D
Quest’anno non sono riuscita andare causa master in Università, purtroppo. L’anno scorso in compenso sono stata con i miei amici francesi a quello di Parigi, in cui si festeggiava l’entrata in vigore del marriage pour tous (conservo gelosamente la spiletta “La République a dit oui”). Un’esperienza bellissima. Speriamo che presto anche in Italia arrivi il giorno dei veri festeggiamenti.
È stato Oscar Wilde ad affermare che la democrazia significa semplicemente la coercizione (di una data parte) del popolo, da parte (di un’altra parte) del popolo, per il popolo. Se si tiene ben presente la natura coercitiva e parziale della democrazia borghese, si comprende allora, contrariamente a quanto asserisce Piras in questo articolo dedicato all’esaltazione del Gay Pride, perché esista una netta differenza tra una concezione proceduralista ed una concezione sostanzialista della democrazia. Intanto, vi è da dire, riprendendo il tema fondamentale della cittadinanza, che la concezione sostanzialista permette, a differenza di quella proceduralista, di definire come non democratica una società che escluda una parte della popolazione dall’esercizio dei diritti politici. Ciò può avvenire perché è proprio sul terreno dei risultati concreti delle decisioni politiche che si ripercuote con la massima evidenza e violenza la non democraticità di una società caratterizzata dalla discriminazione di settori più o meno ampi della popolazione. Il problema della connessione fra la struttura della cittadinanza e le concrete modalità di esercizio dei poteri trova infatti risposta solamente in una concezione sostanzialista della democrazia, poiché quest’ultima permette di riconoscere il carattere non democratico di una società fondata, putacaso, sull’’apartheid’. Per contro, sulla base di una concezione proceduralista (si pensi ad una posizione come quella di Bobbio) è impossibile argomentare analoghe valutazioni, poiché si assumono teorie che, come quelle proceduraliste, non riconoscono alcun criterio esterno all’ordinamento giuridico per formulare un giudizio sui regimi politici (è questo l’irriducibile sostrato giuspositivistico, e quindi volgarmente apologetico, ìnsito nelle concezioni proceduraliste). Sennonché la concezione sostanzialista della democrazia tiene conto sia del problema delle concrete condizioni di esercizio della cittadinanza (cfr. quell’articolo chiave della Costituzione che è l’articolo 3) sia dei fenomeni di disemancipazione, che sorgono da condizioni di vita spesso incompatibili con la dignità e il benessere dei cittadini. Un elenco esaustivo sarebbe stucchevole, però, di fronte all’enfasi spropositata con cui vengono salutate le manifestazioni carnevalesche degli omosessuali, quasi segnassero un mutamento epocale delle forme e dei contenuti della democrazia (ma ho già ricordato i precedenti storici antichi di questo fenomeno tutt’altro che nuovo), è doveroso ricordare quegli aspetti di ordine materiale e morale che rendono una democrazia piena ed effettiva: dalle politiche del territorio e dell’ambiente (assetto idrogeologico e tutela del paesaggio, controllo dell’inquinamento e dei relativi danni per la salute della popolazione) alla produzione e gestione dei servizi (istruzione pubblica, sanità, assistenza sociale e trasporti), dalla politica economica (funzione di cui il potere esecutivo e legislativo nazionale è stato espropriato ad opera di istituzioni imperialiste come la Ue, la Bce e il Fmi) alla quantità e qualità dell’occupazione. Tali sono gli indicatori più fedeli dei mutamenti intervenuti nella struttura materiale della cittadinanza: mutamenti che stanno privando quest’ultima di qualsiasi valore e la stanno riducendo ad una forma vuota. Da questo punto di vista, si comprende l’interesse critico che la concezione sostanzialista alimenta per il legame, rappresentato dal condizionamento ideologico, che intercorre tra le procedure (norme giuridiche, princìpi costituzionali e sistemi istituzionali) e i loro effetti concreti sul piano economico e sociale. Sembra infatti difficile negare che proprio il sistema dei ‘mass media’ sia il fulcro della capacità critica, individuale e collettiva, di valutazione, e quindi una chiave determinante per la comprensione di quel fenomeno di autolesionismo collettivo che, come hanno dimostrato le ultime elezioni, è costituito da un consenso di massa durevole e crescente per un cattivo governo della società. Così, anche sotto questo profilo, non vi è alcun dubbio che il confronto tra le due concezioni (quella proceduralista, che si riferisce esclusivamente alla sfera giuridica formale e al campo delle istituzioni politiche, e quella sostanzialista, che pone il proprio asse nel solido terreno dei rapporti sociali ed economici) sia destinato a risolversi con la prevalenza della seconda sulla prima, se non si è disposti ad accettare, per tornare circolarmente all’inizio, che la democrazia significhi semplicemente la coercizione (di una data parte) del popolo, da parte (di un’altra parte) del popolo, per il popolo.
ERRATA CORRIGE: mi fanno sapere che il segretario provinciale del Pd Torino c’era, anche se io non l’avevo visto, chiedo scusa per l’imprecisione.
Condivido quanto scrive Piras. Se posso, aggiungerei solo due cose sul rapporto fra diritti ed etica. Il dibattito acceso sul diritto al pieno riconoscimento della propria sessualità ci dice anche che la sessualità è entrata a far parte del nostro orizzonte etico – la sessualità è parte integrante delle nostre idee di vita significativa e delle nostre identità – qua
Caro Orbilius,
non ho capito bene: secondo lei il “comportamento omosessuale” è una sorta di patologia sociale che ne riflette una più profonda, cioè un eccesso di competitività? Una tesi che comporta un notevole onere della prova.
Cara Elisabetta,
grazie, il tuo intervento mi ha fatto molto piacere. Speriamo davvero che arrivino i tempi dei veri festeggiamenti.
Caro Barone,
non mi sembra di avere detto da nessuna parte che non ci sia differenza tra democrazia procedurale e sostanziale, né che io sia per la prima. Ma mi sarò capito male.
La sua repubblica ideale garantisce diritti economici e sociali che sottoscrivo pienamente, ma non capisco perché non debba includere i diritti delle minoranza di genere e li metta in conflitto con i primi.
[mi scuso per avere inviato solo parte del commento, che continua qui] – quali che siano. Il movimento LGBT ricorda a tutte le persone che oggi per noi la sessualità è una sfera significativa della vita.
Inoltre, il dibattito sul pieno riconoscimento dei diritti di persone LGBT ci aiuta a chiarire e definire quali la dimensione etica di istituzioni come matrimonio, l’adozione, la genitorialità – quali sono i fini che queste promuovono in generale.
Quando si parla di diritti, c’è fortunatamente molto di più in gioco che la libertà di individui astratti.
@ piras
“quello che propongo è proprio nel senso di colmare le lacune del neutralismo liberale”.
Perché “neutralismo liberale”? Per quanto riguardo il ruolo dello Stato nella gestione della questione delle minoranze, il Paese più interventista, su tutti i piani – legislativo, giudiziario, esecutivo – è proprio quello con più solida tradizione liberale: gli Stati Uniti. Piaccia o non piaccia, la tutela delle minoranze a me sembra proprio una prerogativa degli Stati con una forte identità politica liberale.
Caro Piras, non vorrei che le estasi dionisiache da Lei sperimentate nel corso del Gay Pride torinese abbiano fatto velo alla Sua lucidità (a proposito, visto che del segretario provinciale del Pd poco mi importa, c’era Gianni Vattimo?), ma la posizione che Lei dichiara è una variante un po’ più ‘forte’ della democrazia proceduralista (non procedurale, come Lei approssimativamente scrive): diciamo, un proceduralismo condito con un pizzico di ‘valori etico-sociali’ (q.b., ché, se si esagera, si finisce con il conferire alla democrazia un'”identità storica forte”, come fa Charles Taylor, che Lei, dimentico, ahimè, della dottrina aristotelica delle opposizioni, accusa di semplicismo). Per quanto concerne il modello di “repubblica ideale”, a cui vorrebbe ridurre la mia critica della “repubblica reale”, con la quale invece Lei, a quanto pare, si identifica quasi senza riserve), io mi sono limitato a definire come democratico un regime politico che soddisfi taluni requisiti materiali (primi fra tutti, il diritto alla vita, al lavoro, all’istruzione, alla salute ecc.), che vanno ben oltre il terreno delle libertà civili e politiche e la sfera della miserabile nozione di “eguaglianza delle opportunità”, presi in considerazione dalla concezione proceduralista. La concezione sostanzialista della democrazia pone quindi un vincolo di legittimità connesso ai contenuti e ai risultati concreti delle decisioni pubbliche, esigendo che queste contribuiscano al perseguimento dell'”interesse generale”. Certo, da buon lettore di Bobbio quale sono, non nego la forza logica della posizione proceduralista (soprattutto quando è intesa e sviluppata, ma questo non è il Suo caso, con tutto il necessario rigore). Per contro, le concezioni sostanzialiste della democrazia sono chiaramente più complesse. Una volta posto infatti l’obiettivo dell'”interesse generale”, esse implicano che l’osservanza di procedure formalmente democratiche non garantisce di per sé che i risultati delle scelte politiche promuovano o almeno rispettino l'”interesse generale”. Una società può esercitare in piena libertà, esprimendosi col suffragio universale, i propri diritti politici, ma ciò non basta a fornire alle decisioni assunte un certificato di legittimità: una società può anche scegliere ‘liberamente’ la propria schiavitù. Gli esempi classici e recenti non mancano: dal successo elettorale di Hitler nelle elezioni del novembre 1932 a quello del Fis algerino nelle elezioni del dicembre 1991, dalla abolizione della schiavitù negli Stati Uniti (1862) e in Alabama (1995!) al riconoscimento dei diritti politici alle donne. Infine, mi piace ricordare che per definire un regime caratterizzato dal dominio dei mezzi di comunicazione di massa, Bertolt Brecht ritenne di dover ricorrere ad un ossimoro, quale “fascismo democratico”. Un ossimoro che rende bene la drammaticità della contraddizione e il carattere deleterio dei pericoli che l’illusione dell’autonomia individuale, coincidente con il dogma della “sovranità del consumatore politico”, implica per la nostra società.
Mauro Piras mi invita ad assolvere l”onus probandi’ rispetto al nesso inscindibile, che ho richiamato nel mio commento, fra comportamento omosessuale e competitività nelle diverse epoche e nelle diverse società. Mi limito solo ad alcuni esempi relativi al settore militare, in cui il modello competitivo trova la sua principale e radicale applicazione, anche se il discorso potrebbe essere più ampio. La falange macedone e il battaglione sacro tebano, formati da oltre un centinaio di coppie omosessuali, possono bastare per l’epoca classica, a meno che non si voglia ricordare l’esclusione dei legionari omosessuali passivi dall’esercito romano, motivata da chiare esigenze di efficienza militare sia nella difesa che nell’attacco. E la recente legittimazione della omosessualità nelle file delle forze armate statunitensi è solo una concessione al principio delle pari opportunità di genere, tanto caro al presidente Obama, o non è anche, e soprattutto, una calcolata immissione di forze che possono rivelarsi assai utili, per usare una locuzione di tipo aziendale, ai fini della ottimizzazione delle prestazioni militari? Infine, non può mancare in questa rapida rassegna un riferimento al film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, ove la nozione marxiana della mercificazione dei corpi attraverso la rappresentazione onirica e stravolta del sesso si accampa su uno scenario infernale di tipo dantesco. “Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune”, fu la fulminante risposta che Pier Paolo Pasolini détte ad una delle domande che gli furono poste durante l’intervista che rilasciò sul set del film. Che questo “ruolo metaforico orribile” del sesso e, in particolare, della omosessualità, evocato da un grande intellettuale italiano, sia tracimato progressivamente da una costellazione di figure retoriche nella stessa realtà umano-sociale è quanto troverà una tragica conferma, come è noto, sia ‘a parte subiecti’ sia ‘a parte obiecti’.
Mentre potrei essere d’accordo in linea di principio con l’affermazione che “una democrazia … trova la sua legittimazione nell’eguale rispetto delle persone concrete, in carne e ossa, con le loro storie” mi pare che la manifestazione descritta testimoni l’esito opposto. L’affermazione Reich-Marcusiana della liberta` individuale come liberta` essentialmente istintuale coincide con la completa manipolabilita` commerciale ed emozionale dell’individuo stesso. L’esaltazione dionisiaca e soggettiva dell’isitnto non puo` che concludere che alla morte della democrazia in quanto tutto diventa oggetto di consumo e non e` possibile alcuna forma di razionalita` condivisa al di la` di un banale scientismo che ultimamente accetta tacitamente i paramtri etici imposti dalla borghesia neo-capitalista. Queste cose non me le sono inventate io. Rileggetevi il capitolo della “Repubblica” di Platone so come muoiono le democrazie.
“Dioniso intanto in terra di Lidia (…)
è in pieno fiore, ché era cresciuto quanto voleva. Per sfuggire
alla frusta meridiana del Sole nel suo punto più alto,
era solito fare il bagno nel dolce sciabordio del fiume meonio (…).
Ed ecco che sulle rive non bagnate dall’onde spuntano rose spontanee,
ecco che fiorisce il giglio e le Stagioni formano una ghirlanda sulle sponde,
mentre Bacco fa il bagno; nei riflessi dell’acqua
i riccioli sciolti dei capelli scuri rosseggiano.
Una volta, mentre cacciava ai piedi di una rupe adombrata da un bosco,
fu affascinato dalla rosea bellezza di un giovane suo coetaneo.
Questo adolescente, Ampelo, era cresciuto giocando
ai piedi dei monti frigi, giovane virgulto degli Amori;
la tenera lanugine che arrossa il mento,
fiore dorato della giovinezza, non aveva ancora segnato le sue lisce,
rotonde guance di neve. I grappoli ricciuti
della chioma corrono all’indietro sulle spalle d’argento,
sciolti, ondeggiando sotto la brezza melodiosa
si sollevano al soffio del vento. Quando i capelli si scostano,
appare appena visibile in mezzo il collo nudo,
che saettando il suo splendore fa svanire l’ombra, proprio come riluce
la Luna, che al suo apparire in mezzo al cielo squarcia le nubi umide.
La voce gli scorre mielata dalla bocca di rosa.
Dalle sue membra si diffonde tutta una primavera; quando cammina,
dai suoi piedi d’argento rosseggia un prato di rose;
se poi volge intorno lo sguardo con le pupille lucenti
dei suoi grandi occhi, è la Luna che risplende intera.
Dioniso ne fa un compagno di giochi e nei loro teneri divertimenti
lo interroga con parole d’ammirazione per la sua bellezza,
come farebbe un mortale, nascondendo con l’inganno la sua natura immortale:
– Quale padre t’ha generato? Quale ventre celeste ti ha partorito?
Quale Grazia ti ha procreato? Quale bell’Apollo ti ha fatto nascere?
Dimmi, caro, non nascondermi la tua origine. Se sei giunto qui,
novello Amore senz’ali, senza frecce né faretra,
quale dei beati ti ha dato la vita, giacendo con Afrodite? –
(Nonno di Panopoli, “Dionisiache”, canto 10, v. 139 ss., traduzione di Daria Gigli Piccardi)
@ eros barone
abolizione della schiavitù in Alabama nel 1995? Mi scusi, professore, ha mangiato un fungo allucinogeno?
Riintervengo brevemente anche alla luce della direzione che ha preso la discussione solo per eitare un equivoco rispetto alla mia opinione in proposito.
Quando sostengo la cosiddetta democrazia procedurale, non lo faccio in contrapposizione a una presunta democrazia sostanziale, non è questa l’alternativa in cui mi pongo. Le mie obiezioni verso Piras non riguardavano un presunto suo sconfinamento dalle semplici norme al sostenere attivamente i principii di uguale dignità degli uomini, assolutamente non è così, come spero si capisse già dal mio primo intervento.
Al contrario, la mia obiezione stava nella gracilità di questo ruolo attivo, di chi magari pensa che l’uguale rispetto che si deve a tutti gli uomini possa costituire un principio fondante di una nuova morale. A mio parere, ci vuole ben altra polpa per costituire una morale, e quindi, malgrado la consueta cortesia e grande chiarezza espositiva della replica di Piras, mi pare di dovere considerare come inesistente questa terza alternativa che egli pone, le alternative rimangono sempre due, o siamo liberali sino in fondo, e quindi sosteniamo che la morale è un fatto strettamente individuale, e lo stato deve fare solo l’arbitro, lasciando che sia il mercato, cioè l’equilibrio di forze a determinare i termini effettivi della convivenza sociale, o come io credo, lo stato ammette che le norme che egli promulga attraverso le sue istituzioni hanno un effetto etico, o meglio costituiscono un potentissimo veicolo nel determinare l’ethos prevalente.
Tornando all’esempio che sempre faccio in questi casi, lo stato può e deve intervenire nella abitudini alimentari dei cittadini in maniera attiva, magari con una fiscalità adeguata che sfavorisca l’acquisto di cibi che ad esempio favoriscono l’obesità.
Infatti, si potrebbe obiettare a proposito se lo stato intervenisse nei confronti di privati cittadini mettendone a repentaglio la libertà di scelta, ma nella realtà interverrebbe piuttosto in una situazione in cui la effettiva libertà di scelte alimentari è già messa in pericolo da entità private come le multinazionali alimentari che impongono con campagne pubblicitarie martellanti i loro prodotti. La Nestlè è più forte di qualsiasi madre, e quindi questa soccombe e finisce col dare ai propri bambini le brioscine (è solo un esempio, non soffermiamoci sui dettagli), e quindi se lo stato interviene non lo fa per compromettere la libertà di scelta di quella mamma, ma al contrario per riequilibrare la forza preponderante della multinazionale.
@ Franci
Al termine della guerra di Secessione, il XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America proibì nel 1865 la schiavitù. Esso fu inviato per la ratifica ai 36 Stati allora esistenti ed entrò in vigore alla fine dello stesso anno in séguito alla ratifica di 27 Stati. La sua ratifica più recente è tuttavia avvenuta nel 1995 in Mississippi (non in Alabama, come ho scritto erroneamente affidandomi alla memoria). Il Mississippi è stato perciò l’ultimo dei 36 Stati allora esistenti che abbia ratificato il XIII emendamento. Sennonché, a causa di un disguido burocratico la ratifica del Mississipi nel 1995 non fu formalmente archiviata, ragione per cui essa è stata certificata ufficialmente solo nel 2013. Come vede, a patto che le si studino, le vicende della storia sono spesso più allucinogene del fungo psilocibinico.
@ Orbilius
Ho letto la sua tesi sul “nesso inscindibile” tra competitività sociale e omosessualità, che reinterpreta la storia mondiale dai tempi delle falangi macedoni a Obama. Mi pare che vada ben oltre il solito nesso tra “cameratismo militaresco / apologia delle virtù virili” e omoerotismo. Soffrendo di una fascinazione regressiva per i più sfrenati tentativi di ricostruzione storica che presentino caratteri intrinsecamente reazionari, le chiedo se è tutta farina del suo sacco o ha una bibliografia di riferimento. La domanda – malgrado l’ironia che non riesco a reprimere – è seria.
@ barone
Non c’era bisogno della ratifica del Mississippi perché, nello stesso Mississippi, l’abolizione della schiavitù entrasse in vigore. Lei ha dunque detto, in ogni caso, una cosa priva di senso.
@ Vincenzo Cucinotta:
quando lei dice:
“lo stato può e deve intervenire nella abitudini alimentari dei cittadini in maniera attiva, magari con una fiscalità adeguata che sfavorisca l’acquisto di cibi che ad esempio favoriscono l’obesità.”
e
“la effettiva libertà di scelte alimentari è già messa in pericolo da entità private come le multinazionali alimentari che impongono con campagne pubblicitarie martellanti i loro prodotti.”
lei forse non si accorge che, come ha già detto Piras rispondendo a me, lo stato, se si fonda su un principio liberale, in base già a questo principio deve garantire ai cittadini le conoscenze e i mezzi socio economici allo scopo di rendere possibili nella pratica le loro scelte. Nel caso dell’alimentazione, lo stato ad esempio deve rendere accessibile a tutti i cittadini informazioni nutrizionali sulle conseguenze di una certa alimentazione piuttosto che di un’altra, nonché dare a più cittadini possibili i mezzi sociali ed economici per procurarsi anche cibi non pubblicizzati da multinazionali ma più salutari. In tal caso non c’è bisogno di mezzi paternalistici come tassare i cibi più dannosi per la salute o altre interventi statali simili.
Naturalmente ci si può chiedere perché, nel caso italiano, tutti i cittadini debbano pagare una sanità pubblica che cura persone ammalate a causa delle loro scelte autolesionistiche (a differenza di un sistema sanitario affidato alle assicurazioni private) e in effetti anch’io riterrei che un sistema sanitario nazionale debba avere dei limiti a garantire certe cure, comunque ammetto che è un discorso complesso.
@ Franci
Si informi: l’ultimo Stato a ratificare l’emendamento che aboliva la schiavitù fu il Mississippi nel 1995, a 130 anni dall’approvazione di tale emendamento da parte della Camera e del Senato federali. E si trattava proprio di uno Stato dove per decenni avevano lavorato centinaia di migliaia di schiavi neri nelle piantagioni di cotone. Lo so anch’io che era un adempimento formale, ma le lotte dei neri americani per i diritti civili, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, dicono esattamente il contrario (a proposito della differenza tra la concezione proceduralista e la concezione sostanzialista della democrazia). È inoltre significativo che, quando i parlamentari del Mississippi votarono, sempre nel 1995, la ratifica del XIII emendamento, ci furono diverse astensioni.
Caro Michele,
io ho ben compreso la tesi di Piras, il punto è che non la condivido.
Il dissenso di fondo a me pare di verificarlo sulla stessa natura dell’uomo. Il liberalismo parla di un uomo disincarnato, tutta razionalità, che fa scelte errate solo perchè disinformato.
Potrei riassumere il mio dissenso ricordando come nella storia dell’umanità lo stadio ha sempre prevalso sul teatro. In sè la cosa non è nè positiva nè negativa, ma in ogni caso non vedo vantaggio alcuno nell’ignorare queste caratteristiche intrinseche della nostra specie. Quest’ottimismo sfrenato che il liberalismo ha riguardo la natura dell’uomo ha al contrario effetti pericolosissimi, perchè ignora le capacità di singoli soggetti di sequestrare la libertà altrui, cosa di cui abbiamo ampia verifica nelle nostre società occidentali, nominalmente libere, nella sostanza estremamente conformiste.
L’aspetto ideologico del liberalismo sta appunto in questa cecità, questo chiudere gli occhi alla realtà quando questa non collima con le nostre teorie.
@ barone
Mi sembra un’inutile polemica, e il suo desiderio di avere l’ultima parola una forma un po’ balzana di orgoglio. Lei ha scritto che in Alabama la schiavitù è stata abolita nel 1995. Non è vero, e nemmeno lo è per quanto riguarda il Mississippi. Punto. La lascio alle sua divagazioni sulle differenza tre democrazia proceduralista e democrazia sostanzialista, un genere di speculazione che comunque mi ha sempre ripugnato. Buone vacanze.
errata
“alle sue divagazioni sulle differenze tra democrazia”
@ Franci
Gentile amica/nemica, Le offro, quale bicchiere della staffa, questa citazione dai “Four Quartets” di Eliot:
Non desisteremo mai dall’esplorare.
E la fine di ogni nostro esplorare
sarà giungere là donde siamo partiti
e conoscere quel luogo per la prima volta.