cropped-jennyholzer-providence06.jpgdi Daniele Balicco

[Questo articolo è uscito su «Cosmo». La versione francese è stata discussa all’EHESS di Parigi nell’ambito seminario “Droit et littérature. La norme entre commandement et récit” di Emanuele Coccia]

Bisogna preferire cose impossibili ma plausibili
a cose possibili ma non credibili.

Aristotele, Poetica, p.103[1]

Ne Il lungo XX secolo, Giovanni Arrighi ha descritto il funzionamento dei quattro grandi cicli sistemici di accumulazione della storia del capitalismo mondiale individuando, all’interno di ogni ciclo, il susseguirsi di due movimenti opposti e costanti: una fase di espansione materiale e di egemonia sistemica; una seconda fase di espansione finanziaria e di dominio sistemico[2]. Riformulando la logica dell’accumulazione marxiana con le lenti di Gramsci e Braudel, Arrighi ha così interpretato la storia di lunga durata del capitalismo mondiale partendo dalle sue origini – individuate in quello che Braudel ha definito come il “lungo sedicesimo secolo italiano” – per arrivare fino all’espansione finanziaria anglo-americana di questi ultimi quarant’anni.

Lo scopo di questo articolo non è quello di discutere l’interpretazione storico economica di Giovani Arrighi[3]. Il tentativo è piuttosto quello di impostare, per ora in modo necessariamente apodittico, un’analisi della produzione culturale orientata sui presupposti del suo lavoro. Nello specifico, mi concentrerò sul legame triangolare che stringe espansione finanziaria, dominio sistemico ed arte internazionale. La storia del mercato mondiale dell’arte (letteratura, arti plastiche, arti visive, musica, architettura) è sicuramente il punto d’osservazione privilegiato per studiare l’intersecarsi di queste tre realtà e del susseguirsi, nell’alternanza dei cicli economici studiati da Arrighi, di alcune città capaci di imporsi come centri mondiali di produzione estetica: anzitutto il triangolo Firenze-Roma-Venezia; quindi Madrid, Amsterdam, Londra, Parigi e infine New York.[4] Anticipando la tesi di fondo, sosterrò che soprattutto nelle fasi di dominio sistemico, i centri mondiali di potere organizzano lo spazio che governano attraverso una combinazione di forza militare, forza monetaria e forza simbolica. In particolare, quest’ultima agisce attraverso la dimensione estetica colonizzando senso comune e inconscio di massa. Il suo scopo è quello di rendere universali, e quindi riconoscibili da tutti, le forme e i linguaggi singolari che ogni centro produce per auto-legittimare se stesso come centro di comando.

Chiamo verosimile estetico la forza simbolica con cui ogni dominio prova a regolare, a proprio vantaggio, ciò che deve essere riconosciuto, interpretato e rappresentato come realtà. Mentre mi limito per ora, nell’economia di questo scritto, a chiamare realismo la possibilità estetica opposta; che è quella di confliggere dentro e contro i confini di verosimiglianza imposti. Ultima precisazione introduttiva: nella storia ciclica del capitalismo, descritta da Giovanni Arrighi, esiste una progressione aritmetica. Le potenze capaci di governare il sistema mondo passano, in sei secoli, da piccole città, a piccoli stati, a vere e proprie regioni, fino a spazi quasi continentali, come nel caso degli Stati Uniti d’America. Se dunque il ciclo si ripete – prima espansione mercantile, poi dominio finanziario – l’aumento di territorio, di popolazione, di beni da produrre e di moneta da governare, è invece, ad ogni salto, linearmente esponenziale. In questa progressione va individuata una differenza. Ogni ciclo, infatti, ripete se stesso intensificando la propria capacità di plasmare la realtà storica attraverso un aumento geometrico della propria forza militare, monetaria e simbolica.

Per questa ragione, mai come negli ultimi quarant’anni, la produzione di verosimile estetico è stata capace di colonizzare le forme elementari della vita quotidiana, organizzando un vero e proprio sensorio collettivo di massa[5]. Le arti che rappresentano mimeticamente la vita (come, per esempio, il romanzo, la musica pop e, soprattutto, la nuova serialità televisiva) così come le discipline che plasmano gli spazi umani e la natura (come l’architettura, il design o l’arte contemporanea) hanno implicitamente generato uno standard di verosimiglianza che è l’alfabeto con cui le persone occidentali, e non solo, pensano, vivono e sognano la vita. Dentro e contro questo meccanismo di autolegittimazione simbolica – che andrebbe letto, soprattutto nelle culture che subiscono il dominio sistemico, come una vera e propria identificazione con l’aggressore – si muove il realismo. Che è l’esperienza estetica della libertà dal dominio.

In questo breve articolo mi concentrerò solo su un problema teorico: il conflitto fra verosimiglianza e realismo. Questa opposizione non può essere discussa in poche pagine; perché richiede un’argomentazione capace di approfondire questioni centrali dell’estetica antica, moderna e, soprattutto, contemporanea[6]. Come è evidente, il compito è esorbitante rispetto all’economia di questo scritto. Non potrò dunque che disegnare in modo apodittico l’opposizione, riservandomi di trattare in uno studio futuro l’approfondimento teorico necessario.

Il punto di partenza per una riflessione teorica sul verosimile estetico è la Poetica di Aristotele. Nel capitolo 25 viene identificato nella verosimiglianza il legame che unisce la mimesis a due forze esterne alla realtà oggetto di rappresentazione: l’aspettativa del pubblico e la fedeltà ad un modello ideale. Nel ragionamento di Aristotele, la scrittura poetica non interpreta infatti la realtà così come è. Perché questo è il compito dello storico. Scopo dell’arte è invece quello di raccontare la vita per come potrebbe essere. Ribaltando l’interdizione platonica, Aristotele affida all’arte un ruolo conoscitivo imprescindibile, proprio perché “dice soprattutto cose universali” a differenza della narrazione storica che invece “dice il particolare”[7]. A questo punto il problema centrale della Poetica diventa come rappresentare la vita assecondando due leggi: necessità e verosimiglianza. La prima legge regola la congruenza interna dell’imitazione estetica, l’armonia fra stile, oggetto e forma della rappresentazione; la seconda, che è quella che più interessa al nostro ragionamento, regola invece la congruenza esterna fra mondo reale e mimesis.

In generale, bisogna ridurre ciò che è impossibile, o conformemente alla poesia, o a ciò che è meglio o alle aspettative. In ambito poetico, infatti, si deve preferire un verosimile impossibile all’inverosimile, anche se possibile. Forse è impossibile essere come quelli che dipinge Zeusi, poiché li dipinge meglio: il modello, infatti deve eccellere.[8]

Aristotele è chiarissimo: quello che l’imitazione poetica deve evitare in ogni modo è l’inverosimile. Non importa che un fatto raccontato in modo inverosimile sia possibile, vale a dire che appartenga al campo del reale. Così come non importa che un poeta scelga di imitare un frammento di vita oggettivamente irreale (perché meraviglioso o perché appartenente ad un mondo divino), se rappresentato in modo verosimile. Quello che è importante è che l’attività mimetica rispetti uno standard di verosimiglianza, che è un codice prescrittivo. Aristotele ci dice che solo ciò che non disattende le aspettative del pubblico e solo ciò che rispetta la conformità a modelli ideali può entrare di diritto nello spazio operativo della mimesis. Sta qui una delle ragioni per cui, nel mondo classico, l’attività mimetica tenderà ad avere un rapporto con il mondo della vita di tipo selettivo e censorio.

Tutta la riflessione aristotelica cinquecentesca, come la discussione teorica, che soprattutto nel XVII secolo, attraverserà il classicismo francese, conferma quest’idea di arte come attività simbolica discriminante, importandola fino alle soglie dell’età moderna[9]. Questa tradizione teorica è riuscita ad imporre, per secoli, una forza prescrittiva regolando ciò che può essere imitato e come deve essere rappresentato. Non è difficile riconoscere in questa coazione discriminante un meccanismo di potere. Più complicato, forse, capire come questa modalità operativa rimanga sostanzialmente la stessa, pur trasformando radicalmente premesse e contenuti della sua azione.

Per iniziare a comprendere senso e direzione di questa metamorfosi – per provare, in altre parole, a descrivere come un modello prescrittivo premoderno si capovolga in una forza sradicante capace di generare implicitamente un nuovo standard di verosimiglianza – può essere utile spostare il punto di osservazione di 180°, considerando, anzitutto, due fenomeni storici esterni al mondo delle arti. Partiamo dal primo. Per quanto sia intimamente persuaso che la dimensione estetica debba essere studiata iuxta propria principia, è comunque sorprendente notare come la mutazione delle forme di potere del capitalismo manchesteriano – anzitutto l’occultamento dello sfruttamento del lavoro che, per la prima volta nella storia delle società umane, si nasconde nella finzione del contratto fra persone libere[10] – si muova in sinergia con alcune trasformazioni interne al mondo delle arti. Restando nel sistema letterario, si consideri anche solo la distruzione della Stiltrennung che novel e lirica moderna progressivamente impongono come norma estetica. Quello che è sorprendente, insomma, è che negli stessi anni comando sul lavoro e prescrizioni estetiche da meccanismi di potere espliciti diventano impliciti.

Guardiamo ora il secondo fenomeno storico, che ci costringe a complicare ulteriormente l’analisi. Nel primo paragrafo di questo scritto abbiamo sostenuto che il susseguirsi dei quattro cicli di accumulazione studiati da Arrighi non va semplicemente letto come progresso diacronico, bensì come intensificazione di potere sistemico. La storia di lungo periodo del capitalismo andrebbe dunque osservata facendo attenzione ai salti di intensità della sua potenza[11]. E il passaggio dal mondo delle tecniche artigianali all’uso della tecnologia nella produzione in scala è uno di questi. A partire dalla prima rivoluzione industriale inizia infatti ad interrompersi il rapporto di continuità che ha sempre legato arte, scienza e tecnica. Nel terzo ciclo studiato da Arrighi, quello del capitalismo britannico, questa separazione diventa sistemica. La scienza viene separata dalla sua applicazione tecnica ed estetica ed incorporata in un sistema razionale di macchine operatrici che comandano il lavoro umano[12]. Precisamente a questo livello, che è insieme storico e logico, va collocato un impressionante salto d’intensità della potenza del capitalismo storico; probabilmente il più importante. Se seguiamo Marx, nel XIII capitolo del Capitale – intitolato Macchine e grande industria – troviamo un’analisi molto chiara su come il capitalismo abbia trasformato la scienza in tecnologia, vale a dire in un’arma interna alla competizione infra-capitalistica ed in un’arma esterna puntata contro il lavoro vivo. Insisto su questa trasformazione perché soprattutto nell’ultimo ciclo sistemico, quello statunitense, il verosimile sarà indirettamente generato dall’uso di tecnologie estetiche[13].

Ricapitolando: il concetto di verosimiglianza può essere letto come un effetto di potere di lunghissimo periodo. Aristotele, e la tradizione teorica che ne prosegue l’insegnamento, ci mostra il funzionamento tecnico di questa macchina mimetica che ha lo scopo di selezionare, dalla realtà e dall’immaginario, ciò che può essere narrato e come deve essere rappresentato. Come con ogni altra forma premoderna di organizzazione della cultura e del potere, il capitalismo storico si pone in un rapporto di conflitto, assimilazione e trasformazione. La creazione di un mercato del lavoro di uomini liberi e la produzione di un mercato estetico celebrante la libertà espressiva raccontano, ognuno nel suo ambito specifico e con velocità non perfettamente sincronizzate, il funzionamento del nuovo potere sradicante del capitalismo come comando di un meccanismo astratto (la produzione illimitata di moneta) – e per questo implicito perché empiricamente non evidente – sul mondo della vita. Nello stesso tempo, l’incorporazione della scienza in un sistema di macchine operatrici, impone un salto d’intensità alla potenza plasmante di questo nuovo potere non antropomorfico. Ed è precisamente al livello di questo salto che va pensato il verosimile estetico come la forza simbolica che ha lo scopo di dissimulare il comando del capitale sulla vita[14].

L’intero quadro così ricostruito ha un taglio unilaterale perché vuole descrivere una tendenza, all’interno della quale le contro-tendenze non solo sono ammesse, ma, esattamente come nell’analisi tendenziale della caduta del saggio di profitto, sono l’elemento decisivo della comprensione storica[15]. Questo significa che il verosimile estetico non è solo ed esclusivamente un effetto di potere e come tale da considerarsi non autentico o addirittura da bandire. Tutt’altro; e comunque sia, non è il giudizio morale o politico lo scopo di questo studio. Quello che sto cercando di definire è piuttosto il funzionamento di un meccanismo conoscitivo: la metamorfosi del verosimile estetico da effetto di una prescrizione esplicita ad alfabeto mimetico con cui viene rappresentata la vita, soprattutto a partire dal quarto ciclo di accumulazione sistemico.

A questo punto l’analisi dovrebbe spiegare il rapporto fra espansione finanziaria e verosimile estetico, nonché la sua continua ri-dislocazione geografica. Mi limito per ora solo ad enumerare le questioni di fondo per poi chiarire quale potrebbe essere, nell’ordine di questo discorso, l’azione del realismo. Naturalmente, anche solo a livello intuitivo, è facile comprendere come siano soprattutto le fasi di espansione finanziaria quelle nelle quali una grande quantità di moneta viene liberata dalla produzione diretta di merci e investita nella dimensione estetica. Il primo punto di osservazione riguarda quindi le transazioni interne al mercato dell’arte internazionale. Un surplus di moneta può essere investito per tante ragioni: come semplice atto speculativo (come nel caso dell’acquisto di un quadro o di una scultura da parte di un privato o di un fondo d’investimento); come bene rifugio e come dépense sistemica, vale a dire come consumo d’ostentazione tanto delle classi dirigenti (committenza di palazzi, quadri, poesie o poemi d’occasione, musiche o oggetti di design) quanto degli spazi centrali del sistema mondo (musei e urbanistica[16]). In questo ultimo caso, il verosimile viene indirettamente generato dalla forma estetica dello spazio, dal suo essere rappresentazione simbolica di forza sistemica. I nomi delle capitali della lunga storia del capitalismo occidentale (Venezia Firenze Genova, Madrid e Amsterdam, Londra e Parigi, New York) non solo sono diventati simboli, immagini, suoni, rappresentazioni, in altre parole, archetipi dell’inconscio collettivo; ma hanno anche progressivamente costruito un habitat sempre più congruo alla vita astratta della moneta. La storia dei cicli sistemici, che come abbiamo ormai più volte ripetuto è da intendersi non come progresso ma come intensificazione, può trovare proprio nell’evoluzione dell’urbanistica un campo d’indagine privilegiato. La storia dell’imporsi di uno spazio sempre più astratto e sempre meno vincolato alle prescrizioni oggettive del genius loci[17]trova il suo primo salto d’intensità nella riorganizzazione hausmanniana di Parigi, voluta da Napoleone III, tra il 1851 e il 1870; per arrivare fino alle attuali pianificazioni urbanistiche di Bejin o di Dubai[18].

Il secondo punto di osservazione riguarda invece come la simbiosi fra estetica e tecnologia abbia progressivamente imposto un investimento sempre maggiore di capitale come discrimine all’accesso al sistema di produzione di verosimile estetico. Consideriamo rapidamente il mercato cinematografico che è un buon punto d’osservazione per analizzare questo ulteriore salto di intensità. Nella cinematografia contemporanea mainstream solo gli Stati Uniti possono rappresentare le forme singolari della vita contemporanea come forme universali. Solo la vita americana ha diritto ad essere riconoscibile, sul grande schermo, come il presente di tutti. E per almeno due ragioni obiettive: anzitutto perché l’industria cinematografica americana ha costruito un universo simbolico onnipervasivo (per produzione e distribuzione) grazie al suo essere epicentro mondiale della produzione di moneta. Un’enorme disponibilità di capitale può essere infatti investita in tecnologie di riproduzione, in formazione degli attori, in scrittura, in distribuzione e così via. In realtà, niente di nuovo, visto che qualcosa di simile accadeva, per esempio, già durante il nostro Rinascimento nel mondo della raffigurazione pittorica e dell’architettura. Quello che è radicalmente diverso è però l’intensità, la forza con cui il modello normativo riesce ad imporsi. Che è la forza di essere il centro mondiale della produzione di moneta. Quindi, la prima ragione sta nell’accesso diretto ad un credito monetario di dimensioni non equiparabili, almeno per il momento, a quello di altre potenze del sistema mondo. Accesso al credito che agisce, all’interno della sintassi mimetica (ciò che può essere rappresentato e come può esserlo), influenzando dei due soprattutto il secondo termine, la forma della rappresentazione, il come si mette in scena la vita. Del resto, nell’attuale salto d’intensità del capitalismo come potenza, la tecnologia è diventata la forma estetica della riproduzione della vita[19].

Per quanto riguarda invece il primo dei due termini, cosa narrare, quali parti della vita e dell’habitat umano vanno prediletti perché siano riconoscibili come verosimili, qualunque sia la scelta tematica dovrà rispondere o confliggere – poco importa – con due norme implicite. La prima riguarda l’antropologia. La vita umana è nuda vita, priva di sensi di colpa e di vergogna, esposta senza protezioni culturali al dominio delle pulsioni e alla lotta per la sopravvivenza, di cui guerra e pornografia sono l’alfabeto primario. La seconda norma riguarda invece l’habitat. La vita che viene rappresentata sullo schermo si dovrà muovere per lo più in uno spazio fisico plasmato o, comunque sia, orientato dal potere della moneta. Tanto dai suoi segni visibili, nell’urbanistica come nell’architettura; quanto dalla sua incontrovertibile tendenza espansiva, esteticamente rappresentata come capacità di imprimere su un spazio limitato l’apertura verso l’infinito. Già queste caratteristiche implicite dell’habitat e dell’antropologia del mondo statunitense di per sé comunicano forza simbolica. Ricapitolando: accesso privilegiato al credito, monopolio della tecnologia e rappresentazione della realtà della moneta come spazio estetico e come addomesticamento dell’umano, generano indirettamente uno standard di verosimiglianza a cui l’intero sistema risponde facilitando o precludendo l’accesso al mercato internazionale di produzioni estetiche non americane; garantendo o meno, così, la possibilità della loro esistenza come consumo simbolico internazionale.

In queste pagine ho provato a definire un’ipotesi teorica che legge il verosimile estetico come espressione di forza simbolica, in altre parole come effetto dell’investimento, diretto o indiretto, di surplus di moneta nella dimensione estetica. A questo punto restano sospesi però due problemi. Il primo è più semplice, anche se non trascurabile. Per rendere più mosso lo scarno profilo disegnato in questo breve scritto, andrebbe almeno ricordato che il sistema delle arti reagisce e, di volta in volta ha reagito, in modo elastico al susseguirsi dei cicli di accumulazione. Non tutte le arti restano costantemente al centro del mercato internazionale; con l’esclusione ovvia di urbanistica e architettura. Di volta in volta alcune discipline assumono un ruolo guida nella produzione di verosimile estetico, per poi perderlo nei cicli successivi. Semplificando al massimo, si può sostenere che la letteratura ha un ruolo centrale soprattutto nel terzo ciclo di accumulazione, quello britannico con l’emergere del novel francese e inglese[20]; così come la pittura è la disciplina guida del ciclo italiano e olandese; e così via. E’ importante questa considerazione perché soprattutto con l’avvento dell’ultimo ciclo, le arti che meno necessitano investimenti di capitale diretto per la loro realizzazione (come per esempio la poesia, la narrativa o la pittura) godranno di un più ampio spazio di libertà; e quindi della possibilità diretta di contestare i limiti di verosimiglianza imposti.

Quest’ultima considerazione introduce la discussione del secondo e ultimo problema. L’impostazione di questo lavoro oppone verosimiglianza a realismo. L’opposizione non è affatto scontata; tutt’altro. Per molti studiosi di estetica o di teoria della letteratura, come per esempio Northop Frye[21], i due termini si possono tranquillamente sovrapporre. Per questa ragione è importante chiarire, per quanto possibile, il concetto di realismo proposto in questo studio, con l’accortezza di considerarlo però come semplice strumento di lavoro, senza alcuna pretesa di entrare nel merito di un dibattito che ha i confini dell’infinito. Se dunque la verosimiglianza è un effetto di potere che il capitalismo sussume, sia in modo formale che in modo reale, il realismo è la contestazione di questo comando. Nel campo dell’estetica, potrebbe essere letto come l’equivalente del lavoro vivo; che, nell’impostazione di Marx, resta l’unico oppositore, logico e quindi storico, al comando della moneta e della sua accumulazione senza fine. Questa significa che lo spazio del realismo è uno spazio intermettente, conflittuale, soggettivo, sempre possibile e sempre evanescente. Detto con altre parole, è la forma che assume, nella dimensione estetica, la ribellione della vita alla sua trasformazione in pura energia inintenzionale.

Federico Bertoni ha indicato due grandi modi possibili di pensare questo concetto. In senso stretto e in senso lato, come una categoria estetica e storiografica o come “una categoria transtorica e universale, una sorta di «costante mimetica dell’arte» senza limiti di tempo, luogo, genere o forma espressiva, svincolata dalla poetica esplicita degli autori o dagli sviluppi della riflessione teorica”[22]. Entrambi gli usi, come è ovvio, hanno limiti e punti di forza. Prediligere il secondo significa aprire il campo d’analisi ad ogni forma estetica capace di muoversi dentro e contro i limiti imposti dallo standard di verosimiglianza di volta in volta vigente. Questo significa che il realismo, mentre contesta ciò che deve e può essere considerato realtà, riabilita forme di vita «reali, ma non verosimili». E per questo è prezioso. Perché è l’esperienza della libertà come apertura del possibile.

Secondo Maurizio Ferraris, uno dei sintomi più interessanti dell’emergere di una nuova tendenza realistica nella riflessione filosofica contemporanea starebbe nel fatto che “si sia tornati a considerare l’estetica non come una filosofia dell’illusione, bensì come una filosofia della percezione”. Questo cambiamento di 180° avrebbe “rivelato una nuova disponibilità nei confronti del mondo esterno, di un reale che esorbita dagli schemi concettuali, e che ne è indipendente – proprio come non ci è possibile, con la sola forza della riflessione, correggere le illusioni ottiche, o cambiare i colori degli oggetti che ci circondano”[23]. Scopo del mio studio è precisamente quello di contestare quest’opposizione, mostrando come il conflitto fra verosimile estetico e realismo s’involva quasi sempre in un’antinomia. Perché la ricostruzione di questa dinamica conflittuale potrebbe mostrare per un verso come un’illusione percettiva possa essere effetto di una reale forza sistemica; per un altro, come la possibilità di una percezione reale del mondo della vita non sia mai qualcosa di oggettivo, garantito di per sé, ma sia sempre esito di un rapporto di forza; quindi di un conflitto. Il realismo, in altre parole, potrebbe essere definito come lo spazio della possibilità dell’esistenza del soggetto[24].

[1] Aristotele, Poetica, tr.it di Daniele Guastini, Carocci Editore, Roma 2010, p. 103

[2]G.Arrighi, The Long Twentieth Century, Verso Book, London- New York 1994 (tr.it Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano 1996, pp.49-51)

[3] Per una discussione dell’impostazione teorica complessiva de Il Lungo XX secolo, vedi: D.Balicco-P.Bianchi, Interpretazioni del capitalismo americano: Fredric Jameson, David Harvey, Giovanni Arrighi in Il Capitalismo americano e i suoi critici, a cura di P.P.Poggio, Jakabook, Milano 2013, pp. 677-693.

[4] Per uno studio del rapporto fra ricerca teorica, mercato dell’arte internazionale e speculazione finanziaria newyorkese, mi permetto di rimandare a: D.Balicco, Nietzsche a Wall Street in https://www.leparoleelecose.it/?p=4680

[5] Sul rapporto fra dimensione estetica e sensorio sociale, seguo: B.Carnevali, Le apparenze sociali. Una filosofia del prestigio, Il Mulino, Bologna 2012; un’estremizzazione intelligente del rapporto fra merce, pubblicità e sensorio di massa, si legge in: E.Coccia, Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale, Il Mulino, Bologna 2013.

[6] In una bibliografia pressoché sterminata, si vedano almeno i seguenti testi generali: L.Pareyson, L’estetica e i suoi problemi, Marzorati, Milano 1961; W.Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, 3 vol., Einaudi, Torino 1979; S.Halliwell, The Aesthetics of Mimesis: Ancient Texts and Modern Problems, Princeton, MA 2002; di particolare interesse, nella riflessione estetica sul verosimile pittorico, fotografico e cinematografico: G. Della Volpe, Il verosimile filmico e altri scritti, Edizione Filmcritica, Roma 1954; R.Arnheim, Film come arte, Il Saggiatore, Milano 1960; E.H.Gombritch, Arte e illusione: studi sulla psicologia della percezione pittorica, Torino, Einaudi 1965; S.Krakauer, Film: ritorno alla realtà fisica, Il Saggiatore, Milano 1962; R. Barthes, L’effet de réel, in Communications, 1968, 11, pp. 84-89; J.P. Oudart, L’effet de réel, in Cahiers du cinéma, 1969, pp.211-212; Ch. Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1972; L.Nochlin, Realismo, Einaudi, Torino 1979.

[7] Aristotele, Poetica cit., p.67.

[8] Ibidem, p.108.

[9] Per un’analisi storico filosofica del rapporto fra Stiltrennung e selezione del narrabile, a cui si oppone l’emergere del novel, come forze estetica che può raccontare “ogni cosa in ogni modo”, si veda: G.Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2012.

[10] R. Luxemburg, Introduzione all’economia politica, Jakabook, Milano 1970; M.Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Jakabook, Milano 2011.

[11] Sullo studio dei cicli capitalistici con un’attenzione ai salti di potenza, si vedano almeno: I. Wallerstein, Capitalismo storico e Civiltà capitalistica, Asterios, Trieste 2000; M. Beaud, Storia del capitalismo. Dal Rinascimento alla New Economy, Mondadori, Milano 2004; G.Carandini, Racconti dalla civiltà capitalistica. Dalla Venezia del 1200 al mondo del 1939, Laterza, Bari 2011;

[12] L. Cillaro-R. Finelli, Capitalismo e conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’età telematica, Manifestolibri, Roma 1998.

[13] Sul rapporto fra estetica e tecnologia, letto in chiave operaista, mi permetto di rimandare a: D.Balicco, Fortini, il postmoderno e la mutazione in Per Romano Luperini, (a cura di) P.Cataldi, Palumbo, Palermo 2010, pp.467-487.

[14]Sul capitalismo come astrazione reale si vedano, almeno: R.Finelli, Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo, Bulzoni, Roma 1987; R.Bellofiore, Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione: sulla (dis)continuità Marx-Hegel in «Consecutio Temporum», pubblicato il 25 ottobre 2013 in www.consecutio.org.

[15] Sul rapporto fra analisi tendenziale e controtendenze, si veda: R.Bellofiore, La crisi capitalista, la barbarie che avanza, Asterios, Trieste 2012, in particolare pp.13-14.

[16] Sul rapporto speculazione finanziaria e urbanistica fondamentale è il lavoro del geografo inglese David Harvey: D.Harvey, L’esperienza urbana, Il Saggiatore, Milano 1998; Id, Paris the Capital of Modernity, Oxford University Press, 2001.

[17] C.N. Schultz, Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Mondadori, Milano 1979

[18] Sulla storia della metamorfosi spaziale del capitalismo, in particolare sul nesso bolla speculativa e sprawl urbano: D.Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007; Id, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano 2011; con una prospettiva puramente estetico-architettonica, si veda invece: L.Benevolo, La fine della città, Laterza, Roma 2011; R.Kholaas, Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet, Macerata 2006; Id, Singapore songlines. Ritratto di una metropoli Potemkin… Trent’anni di tabula rasa, Quodlibet, Macerata 2010.

[19] F. Jameson, Surrealism without Unconsciousin Id, Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism, Verso Book, Durham 1991, pp. 82-110.

[20] Su questo tema si veda, in particolare, lo studio di Edward Said su sviluppo del novel e lotta imperialistica fra Inghilterra e Francia per dominare il mondo non occidentale: E.Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Gamberetti Editore, Roma 1995.

[21] Nel saggio più noto di Northop Frye, Anatomia della critica, si legge in due passaggi distinti che “il realismo è la tendenza alla verosimiglianza”; il realismo è “la tendenza a raccontare una storia plausibile” in N.Frye, Anatomia della critica. Quattro saggi, Einaudi, Torino 1969, pp. 69, 182.

[22] F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, pp.30-31.

[23] M.Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma 2012, p. 47.

[24] F.Jameson, The antinomies of realism, Verso, Durham 2013.

[Immagine: Jenny Holzer, Money Creates Taste (gm)].

18 thoughts on “Espansione finanziaria e verosimile estetico. Un’ipotesi teorica

  1. Come afferma Maurizio Ferraris, qui citato, uno dei sintomi più interessanti dell’emergere di una nuova tendenza realistica nella riflessione filosofica contemporanea starebbe nel fatto che “si sia tornati a considerare l’estetica non come una filosofia dell’illusione, bensì come una filosofia della percezione”. Stupisce quindi che nell’articolo qui riportato, di cui condivido in generale la linea interpretativa, manchi qualsiasi accenno al realismo socialista, che è un’ottima cartina di tornasole per mettere alla prova, sia pure ‘e contrario’, l’ipotesi teorica della corrispondenza tra espansione finanziaria e verosimile estetico.

    Un aneddoto può giovare a porre in luce le “convergenze parallele” or ora evocate. Alcuni anni fa il direttore dell’accademia di Francoforte, arrivato a Mosca con l’intenzione di organizzare una retrospettiva dedicata al lavoro di Kandiskij, entrò in crisi durante il tragitto dall’aeroporto all’albergo, perché notò che l’autostrada era costellata da manifesti pubblicitari di due tipi: da un lato, vi erano quelli ispirati dalla globalizzazione capitalistica con i grandi marchi occidentali della Levi’s e della Coca Cola in primo piano; dall’altro, quelli realizzati per pubblicizzare prodotti russi, che mostravano una netta differenza estetica rispetto ai primi, giacché si richiamavano tanto nell’organizzazione spaziale quanto nello stile pittorico all’arte del periodo staliniano. Insomma, gli autori di questi manifesti, pur essendo a conoscenza delle ultime tendenze internazionali, preferivano ispirarsi alla forza propagandistica del realismo socialista per dare espressione alle proprie finalità. A questo punto, si impone una domanda: se il realismo socialista è capace di ispirare, anche ai nostri giorni, un’elaborazione particolarmente efficace delle immagini (basti pensare allo stile che caratterizza le illustrazioni degli odierni libri scolastici russi), perché è così scarsa l’attenzione che gli viene prestata?

    Per fornire una prima risposta a questa domanda occorre considerare che in Russia, diversamente da quanto avvenne con la tradizionale arte di regime, ad esempio nel periodo nazista, le sperimentazioni degli artisti d’avanguardia confluirono direttamente nei primi sviluppi del realismo socialista, imprimendogli un carattere inconfondibile attraverso tecniche come la fotografia o il collage. Accadde così che molti artisti delle avanguardie del primo ’900 contribuissero attivamente alla nascita di un’arte del popolo capace sia di porre fine, in virtù dell’abolizione del mercato, all’adeguazione meccanica e coattiva dell’offerta artistica alla domanda solvibile, sia di dischiudere la possibilità di una diffusione delle proprie ricerche su larga scala e presso un pubblico sterminato. Tra l’altro, vale la pena di precisare che la partecipazione attiva e diretta di diversi artisti d’avanguardia alla costruzione di una cultura visiva che intendeva essere autenticamente di massa obbliga a ripensare quell’antinomia tra avanguardia e cultura di massa (o ‘kitsch’) che per tutto il secolo scorso è stata considerata un vero e proprio truismo. Del resto, la carica rivoluzionaria espressa dagli artisti d’avanguardia nasceva dalla volontà di creare non solo un nuovo pubblico, ma anche un nuovo tipo di essere umano, che avrebbe condiviso il loro gusto e avrebbe visto il mondo attraverso i loro occhi. L’obiettivo era quello di cambiare il genere umano, non solo l’arte.

    La riprova di questo discorso può essere colta in due temi figurativi particolarmente frequentati, in quanto connessi a due protagonisti, come Lenin e Stalin, della storia della Russia novecentesca. Che questi personaggi campeggino nella produzione delle opere del realismo socialista non deve sorprendere, poiché le opere che li raffigurano non erano certo pensate per finire nelle sale dei musei, bensì per essere esibite nelle biglietterie delle stazioni ferroviarie e negli atri delle scuole e dei teatri, al fine di sprigionare tutta la carica mitopoietica ìnsita in quei protagonisti della storia russa. Una carica mitopoietica che spiega anche quel caso esemplare di inversione del rapporto, concepito ingenuamente come unidirezionale, tra il verosimile estetico e la realtà storica, che si ritrova nella famosa scena del film “La caduta di Berlino”, in cui il regista Mikhail Chiaureli decise di mostrare Stalin mentre arrivava di persona a Berlino e conquistava la capitale tedesca, benché naturalmente questo non fosse mai avvenuto. Quando Stalin vide il film non protestò per la licenza poetica, ma disse al regista che la verosimiglianza del suo personaggio gli faceva pensare di essere stato davvero presente in quel periodo a Berlino. Mi sembra dunque che non manchino le ragioni per sostenere che il confronto con la poetica e con le realizzazioni del realismo socialista avrebbe sicuramente accresciuto lo spessore di un saggio teso a dimostrare che “il realismo è la possibilità estetica…di confliggere ‘dentro e contro’ i confini di verosimiglianza imposti”.

  2. @ Eros Barone

    Ringrazio Eros Barone per il suggerimento ad approfondire il conflitto fra verosimiglianza e realismo nell’arte sovietica. Ho lavorato su Deineka, quindi capisco il senso del ragionamento. Tuttavia, l’articolo ipotizza un rapporto fra moneta ed estetica nel capitalismo storico, per lo meno per come lo intende la scuola sistema di Frank, Wallerstein, Hopkins e Arrighi. Per quanto adori Bordiga, mi è difficile inserire la storia dell’Unione Sovietica all’interno della storia di lunga durata dell’accumulazione capitalistica. Nel caso dell’Urss, il peso della moneta nell’imporre norme di verosimiglianza credo sia pressoché nullo. La politica, la propaganda, la pedagogia hanno un ruolo molto più importante; in questo caso, la politica fa funzionare con adattamenti, certo, ma senza inversione alcuna, la vecchia macchina mimetica aristotelica.

  3. Caro Balicco, pur conoscendo e apprezzando, entro certi limiti, il pensiero e soprattutto lo stile di Amadeo Bordiga (stile che meriterebbe un’analisi linguistica ad ampio raggio), tengo a chiarire, qualora non sia già risultato evidente dai miei numerosi commenti, che il mio orientamento teorico-politico è marxista-leninista. Aggiungo pertanto che la Sua riluttanza ad inscrivere la storia dell’Unione Sovietica all’interno della storia di lunga durata dell’accumulazione capitalistica è del tutto legittima sul piano politico e pienamente fondata su quello scientifico. Si è infatti trattato di un esperimento grandioso, temporaneamente sconfitto, di costruzione di una società liberata dallo sfruttamento capitalistico e dalla proprietà privata borghese. Insomma, su scala storico-mondiale, vale ancora la parola d’ordine: “Ce n’est qu’un début, continuons le combat”.

  4. E l’arte contemporanea (pittura, scultura, performance, video arte etc)? All’inizio, la lega “apoditticamente” all’architettura e al design per concentrarsi sulle arti di massa come la narrativa, il cinema e la recente serialità televisiva. La riprende per un istante ma solo per dire che il mercato dell’arte contemporanea esprime “apoditticamente” lo stretto legame tra accumulazione finanziaria e dimensione estetica, ma rimane il giudizio negativo: nella sua ottica, per quando se ne può dedurre da questo articolo, in uno scenario di accumulazione finanziaria sempre più intensa, un quadro di Bacon è poco di più di una tappezzeria, solo molto più costosa.

    Mi sono dato due ragioni per questa trascuratezza. La prima è che lei valuta marginale il contributo dell’arte contemporanea alla produzione estetica globale. Opinione legittima ma che andrebbe appunto esplicitata. La seconda è che forse l’arte contemporanea, compresa la Pop Art, è difficile da ricondurre alla dicotomia verosimile estetico/realismo e che affrontarla nel modo corretto avrebbe solo sparigliato, vista l’economia dell’articolo, una coppia che deve ancora consolidarsi.

    P.S. Una curiosità. Il realismo sovietico, a parte il nome, è realista nel senso delineato in questo articolo?

  5. @ gianluca

    L’articolo propone solo uno schema, molto scarno, per iniziare ad impostare un’analisi giocata su due categorie interpretative: verosimiglianza / realismo. Mi sembra che lei faccia molta confusione. Anzitutto (punto primo) non capisco da dove lei possa dedurre che, dal mio punto di vista, “un quadro di Bacon è poco di più di una tappezzeria, solo molto più costosa”. Non do nessun giudizio di valore in questo articolo, non è lo scopo della mia ricerca, né tantomeno del mio metodo, che è anzitutto conoscitivo. Punto secondo: nel mio testo non dico che il mercato dell’arte contemporanea esprime “apoditticamente” il legame fra arte e speculazione finanziaria. Non avrebbe alcun senso. Uso il termine apodittico proprio per scusarmi se la mia argomentazione è schematica e assertiva (in questo senso ho osato il termine apodittico), visto che il testo è il canovaccio di una lezione e insieme un abbozzo di progetto di ricerca e non un saggio vero e proprio che, su un argomento del generare, per essere completo, avrebbe bisogno di centinaia di pagine. Quello che cerco di spiegare è il rapporto fra investimenti monetari e mercato dell’arte in generale, arte contemporanea compresa, con una prospettiva di lungo periodo. Punto terzo: se lei segue il ragionamento non dovrebbe essere difficile capire che la pop art è una manifestazione da manuale di verosimile estetico all’altezza del quarto ciclo di accumulazione, quello americano. Punto quarto: come ho già scritto, rispondendo a Baroni, il realismo socialista appartiene ad una storia diversa e più antica. Nel suo ambito specifico, e non dovrebbe essere difficile capirlo, è un esempio di verosimile interno al regime sovietico. Questi due concetti (realismo e verosimiglianza) non voglio dire sempre la stessa cosa, ma cambiano geograficamente e storicamente. Il verosimile è legato ad un codice prescrittivo che è sempre espressione di forza simbolica; il realismo è un movimento che cerca strade proprie al di là dei limiti prescrittivi che ogni periodo storico e geografia politica impone. Non so se sono riuscito a sciogliere qualche dubbio. Lo spero. Grazie ancora per le domande.

  6. Sul punto primo. Lo deduco dal fatto che lei associa l’arte contemporanea all’architettura e al design (di cui la tappezzeria è un’espressione). Se preferisce paragoniamo Bacon ad un palazzo progettato da Libeskind.

    Sul punto Terzo, Lei presenta i concetti di verosimile e di realismo come appena abbozzati, eppure sa già che la Pop Art è un caso da manuale. Allora non avvii un programma di ricerca, scriva piuttosto un manuale.
    Allo stato delle sue riflessioni, per come sono presentate in questa sede, ovvero di uno schema scarno, dire che la Pop art è “una manifestazione da manuale di verosimile estetico all’altezza del quarto ciclo di accumulazione” è banale, non certo ovvio. A farne un caso da manuale non basta il successo economico e sociale. Eppoi non è stata certo la Pop Art a “colonizzare, mai come negli ultimi quarantanni, le forme elementari della vita quotidiana”. Sotto questo aspetto è un peccato che lei abbia escluso la pubblicità dalla sua analisi. E’ vero che nei precedenti cicli di accumulazione non esisteva o comunque non con l’intensità attuale, ma oggi non ha senso parlare di colonizzazione, parlare di televisione e poi ignorare la pubblicità. Se la pubblicità fosse un arte, in confronto alla sua verosimiglianza estetica, la Pop Arte sarebbe quasi, e sottolineo quasi realistica.

    Sul realismo sovietico, La mia era una curiosità “retorica”.

  7. @ gianluca

    Gentile Gianluca, credo che l’articolo discuta o, quanto meno, cerchi di ipotizzare un modo per leggere un conflitto estetico alla cui radice sta una riflessione sui cicli sistemici (i 4 cicli di espansione materiale e i 4 cicli di espansione finanziaria) e sul loro funzionamento.
    Io considero il sistema delle arti un come mercato, anzitutto. Per questo il discorso è scarno; perché all’interno di questo mercato, ogni singolo settore segue delle logiche comuni e specifiche di cui fornisco solo pochi esempi.

    Questo è il baricentro del discorso. Lo ripeto: l’idea è quella di vedere come funzioni la verosimiglianza come categoria aristotelica, adattandosi, di volta in volta, nei vari cicli. e’ solo un’ipotesi. Ma se segue il ragionamento – che può non essere condivisibile, ma che ha una sua logica – l’ultimo ciclo che è anzitutto mercantile e poi monetario, quello americano, costruisce, come ogni altro ciclo precedente, una serie di codici di verosimiglianza. Se segue il discorso su moneta e antropologia (che è solo accennato rispetto al cinema) non dovrebbe essere difficile capire che la pop art anticipa una serie di gesti che, come giustamente sostiene, saranno poi rielaborati in larga scala dalla pubblicità che è, senza dubbio – ha ragione – , uno dei motori del verosimile estetico di massa. Mi dispiace se il mio tono le è sembrato scortese, non era voluto. I piani del discorso, me ne rendo conto, sono difficili da seguire perché incrociano temi di storia, economia, finanza, mercati, estetica, inconscio di massa, etc… etc…

  8. Ancora più scarno. A suo avviso la Pop art anticipa, fornisce i codici che poi saranno rielaborati e diffusi dalla pubblicità. A mio avviso la Pop art prende atto delle forze in campo, del ruolo del cinema e della pubblicità, le esplicita e in questo senso muove una critica più o meno velata e più o meno incisiva, certamente con molta ironia. Magari questa critica non la rende un’arte realistica nel senso indicato da lei, ma certo la sottrae al giudizio di essere un caso da manuale di verosimiglianza.

    Sulla dimensione economica e storica del suo articolo non aveva senso dire qualcosa, perché lei stesso li mutua e li considera delle premesse. Perciò non avrebbe senso discutere della solidità o meno delle analisi di Arrighi. Per questo bisogna attendere che lei sviluppi meglio il concetto di sistema delle arti come un mercato.

  9. @ Balicco e gianluca

    Visto che chi ha introdotto il tema del realismo socialista sono stato io, vorrei sottolineare che non è corretto, se si tiene conto (e come non tenerne conto?) della continuità fra le avanguardie protonovecentesche e il realismo socialista (basti pensare, fra gli altri, a Malevic, Rodcenko, Klutsis e Vertov), che ho posto in risalto nel mio intervento, quanto sostiene Balicco, e cioè che “il realismo socialista appartiene ad una storia diversa e più antica”, confinata nell’ambito di un verosimile interno al regime sovietico ed estranea ad una dimensione europea, quasi fosse una sorta di corrispettivo estetico, che so?, del modo di produzione asiatico. Circa poi la variabilità storico-geografica dei concetti di realismo e verosimiglianza, essa non può mai risultare così ampia da dissolversi in una polisemia confusiva, pena la perdita di ogni funzione connotativa. Il minimo comun denominatore del realismo sarà pur sempre, a partire dal vecchio Aristotele che tutti finiamo giustamente con l’assumere come punto di riferimento, un rapporto in qualche modo mimetico tra l’arte e la realtà percepita, e il minimo comun denominatore del verosimile sarà, giustappunto, una qualche congruenza esterna fra mondo reale e ‘mimesis’. Insomma, per trasferirci in un campo analogo, aveva ragione Boris Ponomariov, responsabile del PCUS per i rapporti con i partiti comunisti occidentali, quando, di fronte alle acrobazie eccezionaliste del revisionismo eurocomunista italiano (che abbiamo visto tutti dove sia andato a parare), ricordava negli anni ’80 del secolo scorso che una mucca (= socialismo) potrà essere bianca, marrone, nera o pezzata (= italiano, francese, spagnolo ecc. ecc.), ma per essere mucca deve comunque essere un mammifero erbivoro ruminante dotato di due corna e di arti con quattro dita, e deve produrre latte.

    Infine, non se ne abbia a male Balicco, ma ha ragione gianluca ad obiettargli l’uso improprio del termine ‘apodittico’: uso che può essere giustificato nella comunicazione corrente, ma non in un articolo di elevato impegno teorico, poiché il giudizio apodittico, a partire da Aristotele per giungere sino a Kant, è proprio il giudizio dimostrativo che istituisce tra soggetto e predicato un rapporto logicamente necessario (nel mentre anapodittico, cioè indimostrabile, è il principio di non contraddizione, che tuttavia fonda qualsiasi dimostrazione). Dunque, bando alle sciatterie, fra le quali rientra anche quella di citare scorrettamente il cognome degli interlocutori: “My name is Barone, Eros Barone”.

  10. @ gianluca

    Il problema è che il suo punto di vista c’entra poco con l’impostazione dell’articolo; il mio problema non è SOLO di natura estetica. A me interessa capire SOPRATTUTTO come gli investimenti diretti o indiretti di moneta finiscano nel mercato dell’arte, favorendo, per una serie di ragioni, alcune scelte estetiche piuttosto che altre. Nel mio discorso è fondamentale il ruolo della moneta, è un tentativo di pensare come l’accumulazione di moneta plasmi progressivamente tutto ciò che ci circonda – e questo è Marx prima di essere Arrighi o Wallerstein o Rosa Luxemburg. La verosimiglianza ha a che fare con la produzione di moneta. Tutto ciò che si trova nel centro di comando della moneta costruisce progressivamente un mondo di verosimiglianza. Lei non capisce il fuoco del ragionamento: che è provare a rendere esplicite le leggi che impongono a tutti noi di conoscere la pop art e non le opere di un artista bengalese coevo a Wharol. Questa è la verosimiglianza; solo questo. E’ la forza che permette il riconoscimento pubblico in un sistema mondo. Per questo le premesse economiche non sono accessorie, ma sono fondamentali per capire il discorso. Altrimenti si entra in una discussione senza fine su cosa dovrebbe essere una corrente artistica o un’altra.

  11. Il suo obiettivo principale, mi ricorda, si parva licet, il mio vecchio progetto di tesi di laurea sul mercato del collezionismo come paradigmatico di un certo tipo di comportamenti di consumo.
    Le consiglio di affiancare a Marx anche qualche altro economista, magari eterodosso, sul funzionamento della moneta. Se gli economisti la irritano, Massimo Amato potrebbe essere complementare al suo approccio alla moneta.
    Altrimenti si rischia di rimanere sul piano simbolico, su un livello di astrazione molto elevata e la dimensione economica, concreta, dei mercati viene trascurata. Lei è fiero del suo discorso sul cinema, ma quella è proprio un’analisi da manuale, nel senso di consolidata. Inoltre, il sistema cinematografico è forse il più semplice da descrivere perché più di altri è assimilabile a quello dei beni di consumo. Il mercato dell’architettura è assimilabile a quello degli investimenti. Il mercato dell’arte è un’ibrido o forse qualcosa di particolare e distinto rispetto agli altri due.

    Magari George Simmel, che non gode di buona fama soprattutto tra i cultori di Marx, quasi certamente avrà messo per iscritto qualche intuizione sullo stato dell’arte in una società dominata dall’economia monetaria.

  12. @ Gianluca

    Tutto vero: il mercato dell’arte è un ibrido (oggi può essere studiato perfino insieme a quello della droga e delle armi, visto che tutti e tre funzionano alla grande come riciclaggio di denaro sporco rispondendo a logiche simili). Il libro, se riuscirò a scriverlo, approfondirà le diverse logiche mercantili di ogni settore (tenendo ben presente però che le logiche interne ad ogni settore cambiano, anche radicalmente, da ciclo a ciclo, adottando un’ottica di lungo periodo)

    La cosa che più mi colpisce del suo modo di argomentare è l’attribuzione al mio articolo di giudizi o idiosincrasie di cui non è possibile trovare alcuna traccia. Per restare solo all’ultimo suo post:

    “se gli economisti la irritano” : gli economisti non mi irritano affatto, anzi. Studio anche economia e da molti anni. E non solo Marx – su cui ho lavorato per dieci anni. (grazie comunque per l’indicazione: andrò a guardare i lavori di Giovanni Amato)

    “lei è fiero del suo discorso sul cinema” : ma chi glielo dice, scusi? Questo per me è lavoro ed è molto faticoso, tra l’altro. A me interessa solo che il ragionamento apra possibilità di ricerca e di conoscenza.

    Su Simmel la rincuoro. E’ un autore molto interessante e sarà ben presente nel libro, se riuscirò a scriverlo.

    buon sabato

  13. Gentile Balicco,

    non sono uno studioso, bensì uno scrittore di cinema e teatro. Il suo articolo mi pone davanti un prezioso orizzonte teorico, pregnante per lo sviluppo del mio lavoro. Più il capitale è necessario a realizzare l’opera, tanto più l’opera dovrà conformarsi alla legge della “verosimiglianza”. Nelle mie riflessioni di scrittore sono arrivato a conclusioni analoghe, per concedermi spazi di creazione meno conformati. Per questa ragione adesso guardo con favore al romanzo. Mi sembra chiaro che il percorso sovietico non poteva essere qui considerato e comprendo anche che questo è al momento è lo schema di uno studio da sviscerare e dimostrare, un lavoro che a questo punto attendo con interesse. Mi sembra quindi il momento giusto per porre due domande, che magari potranno trovare in seguito una qualche risposta.

    Una volta Pier Paolo Pasolini rispose su un quotidiano ad un lettore che chiedeva come fosse possibile che al cinema – così controllato e costoso – potessero arrivare a volte opere molto controverse. Sarebbe complicato ritrovare l’articolo, ma credo di poter dire con una certa sicurezza che la risposta fosse più o meno questa: il cinema è fatto di tanti soldi, tanto capitale. I capitalisti possono non avere una morale perché la loro morale è in realtà il capitale stesso. Se quel film, anche se dal contenuto controverso – ha potenzialmente un grande pubblico, allora sarà finanziato e potrà arrivare agli spettatori. Quindi mi chiedo: gli anni sessanta e settanta erano una fase diversa del capitalismo che quindi poteva permettere questi fenomeni? La situazione adesso è da considerarsi cambiata oppure il ragionamento di Pasolini è ancora condivisibile nell’ambito delle eccezioni alla regola?

    Il rapporto tra i termini verosimiglianza e realismo è da sempre affascinante. L’articolo definisce questa opposizione di due termini che nel senso comune sono considerati pressoché sinonimi: il primo sarebbe espressione del potere, il secondo di opposizione al potere e quindi margine di esistenza del soggetto. Vorrei capire meglio la definizione di realismo non solo in relazione alla verosimiglianza, ma anche rispetto al linguaggio estetico delle arti. In ambito letterario e filmico – ad esempio – il realismo è sempre accostato alla necessità di uno squarcio su un immaginario esistente e non ancora raccontato, con referenti reali individuabili: la miseria dell’Italia del dopoguerra, la condizione delle classi popolari ai tempi di Verga e Zola, ecc. Questa lettura “sociale” del termine realismo sembrerebbe in linea con la definizione di un arte che contesta il linguaggio di verosimiglianza, espressione appunto del potere capitalistico. Eppure limitarci a questa definizione credo sarebbe abbastanza riduttivo. Cerco di porre la domanda: non può esistere un’arte astratta – o ad ogni modo senza che abbia come referente diretto una realtà sociale emergente o nascosta- che sia allo stesso tempo di resistenza? Nella storia della letteratura, Realismo è anche occultamento della finzione, è sempre un tentativo di minimizzare l’invenzione. E quindi aggiungo un altro quesito: un’arte spudoratamente finzionale può essere di resistenza? Si potrebbe forse considerare il termine realismo con una maggiore ampiezza di significato. In tal caso mi piacerebbe saperne di più circa le prospettive che vorrebbe adottare per il suo lavoro.

    A presto.

  14. @ Andrea Paolo Massara

    Gentile Andrea,

    la ringrazio tantissimo per le riflessioni e per il tono con cui ha posto le domande, che è sempre più raro, soprattutto nel web. Cercherò di risponderle con ordine.

    1. “Gli anni sessanta e settanta erano una fase diversa del capitalismo che quindi poteva permettere questi fenomeni? La situazione adesso è da considerarsi cambiata oppure il ragionamento di Pasolini è ancora condivisibile nell’ambito delle eccezioni alla regola?”

    Rispondere a questa domanda può essere difficile. Per un verso le direi, seguendo Arrighi, che sì, gli anni Sessanta e Settanta sono anni diversi; il 1971 in teoria è l’anno di svolta, l’inconvertibilità del dollaro in oro imposta da Nixon. Lì vengono cambiate le regole del capitalismo mondiale e si entra nella fase di espansione finanziaria, e quindi, nell’ottica di Arrighi, di DOMINIO sistemico. Questo vuol dire che, rispetto agli anni ’45 / ’71, l’accumulazione di moneta si concentra sempre di più nella speculazione finanziaria e il centro di comando – gli Stati Uniti – smettono di coordinare il mercato mondiale e iniziano a sfruttarlo a proprio esclusivo vantaggio. Nelle fasi di dominio, al coordinamento più o meno democratico delle regole del mercato, subentra l’IMPOSIZIONE di regole dettate dal centro del sistema e un rafforzamento massiccio della forza simbolica attraverso investimenti diretti ed indiretti sullo spazio, (come nell’urbanistica – caso da manuale la rinascita di New York a partire dalla fine degli anni ’80 o di Londra, in questo ultimo decennio) e in generale sulle forme di riproduzione mimetica della vita – su tutti, il cinema e, oggi le serie televisive. Questa potrebbe essere una risposta sul cambiamento generale delle regole del sistema capitalistico. Tuttavia, nulla è mai organizzato in modo perfetto, contraddizioni si producono in continuazione e quindi è anche possibile che, per esempio, film confezionati in modo completamente diverso rispetto allo standard di verosimiglianza, per una serie di ragioni, riescano comunque ad imporsi. Lo studio della tendenza – questo è un insegnamento di Marx che credo sia irrinunciabile, vale solo se si approfondiscono le contro-tendenze, che è l’unico modo per accedere ad un reale comprensione storica. Quindi le risponderei così: a livello tendenziale, siamo entrati in una fase nuova, rispetto a quella in cui scriveva Pasolini; tuttavia, il suo ragionamento vale sempre, anche perché – e qui si apre un altro problema teorico molto complicato – la caduta tendenziale del saggio di profitto agisce direttamente sulla tecnologia abbassandone il costo di produzione e, alla lunga, il prezzo (pensi semplicemente a come si sono abbassati i costi per esempio del macchinario televisivo, oggi si possono fare riprese professionali in full HD con una semplice Canon 7d che costa più o meno 1000 euro senza obiettivi). Ovviamente questa tendenza agisce contro la prima e riapre possibilità altrimenti impensabili. Non so se le ho risposto ma ha posto una domanda centrale e di difficile soluzione

    2. “Non può esistere un’arte astratta – o ogni modo senza che abbia come referente diretto una realtà sociale emergente o nascosta- che sia allo stesso tempo di resistenza?” “Un’arte spudoratamente finzionale può essere di resistenza?”

    Credo proprio di sì. Realismo e verosimiglianza – questa è forse la difficoltà contro-intuitiva della mia impostazione – possono voler dire di volta in volta anche l’opposto. Il realismo agisce dentro e contro i vincoli di verosimiglianza di volta in volta vigenti. Nella poesia contemporanea, il ritorno all’uso di forme metriche chiuso e di un nuovo tipo di classicismo moderno, potrebbe essere letto proprio in questa direzione. Il verosimile ha imposto, negli ultimi decenni, un’apertura incondizionata verso il mondo della vita (un’apertura che è sradicamento, per come intende questo termine Simone Weil). Un’arte più astratta, più chiusa, più convenzionale è stata praticata – penso a Fortini, Sereni, Luzi, l’ultimo Zanzotto, l’ultimo Raboni etc… – proprio contro un’idea di “de-regolamentazione del mercato poetico”. In questo caso specifico, scelte estetiche molto più formalizzate e chiuse sono in realtà realistiche, se questo termine significa, citando Aristotele, trovare strade “reali, ma non plausibili”. Spero di aver risposto in qualche modo. La ringrazio comunque per le domande.

  15. Gentile e tempestivo Balicco,

    Dopo il suo ultimo post capisco anche che alcune delle risposte erano già contenute nell’articolo. Grazie per aver sviscerato ulteriormente le questioni: imposizione e controtendenze; verosimiglianza e realismo, che non è verismo o realismo in termini di rappresentazione della realtà, ma opposizione alla verosimiglianza. Le premesse della sua riflessione mi sono ormai chiare.

    Volevo segnalarle due ulteriori suggestioni su questi argomenti, poi la lascio al suo lavoro.

    Si tende a considerare i tempi attuali come aperti ad una infinita pluralità di linguaggi artistici. Anche io davo per scontato questo stato di cose. Quando ho cominciato a guardare con attenzione le selezioni dei più importanti premi per nuovi testi per il teatro, mi sono reso conto di come tra i lavori scelti ci fosse parecchia omogeneità. Ne ho parlato con un vecchio maestro del teatro che su questo argomento aveva fatto delle considerazioni riguardanti gli ultimi cinquant’anni. C’è stato – a suo parere – un cambiamento nel modo di intendere questo tipo di premi. Fino a quando li ha gestiti la generazione nata tra gli anni ’30 e ’40, le cinquine erano intese come una panoramica sulle diverse tendenze individuate nella mole dei testi inviati. Ormai da anni invece, le giurie sono sempre più spesso composte da gruppi di giurati che condividono un preciso orizzonte di gusto e criterio, e i finalisti sono così tutti esempi di uno stesso modo di fare teatro. Si tratta di due diverse impostazioni che il maestro definiva come la differenza tra il “fare osservazione” e il “fare una lettura”. Si potrebbe parlare forse di un altro sintomo delle diverse fasi del capitalismo?

    Si può immaginare che il realismo quando prende piede può diventare progressivamente verosimiglianza, in un ciclo di controtendenze che prendono il sopravvento e si impongono come egemoniche. Forse per il discorso sulle fasi del capitalismo, negli ultimi decenni l’influsso delle controtendenze è più debole, ma nei primi del Novecento questo alternarsi di forze era un gioco ancora possibile. Jean Cocteau era un osservatore lucidissimo della sua epoca e un ironico provocatore. Forse potrebbe dare qualche spunto al suo studio. Le cito un piccolo passaggio del bellissimo libro intervista “Jean Cocteau secondo Jean Cocteau” a cura di William Fifield (Castelvecchi). Cocteau parla di come le avanguardie diventino imposizione, schiacciando le altre possibilità. Non cita mai le questioni del capitalismo di cui stiamo parlando in questa sede, ma è possibile che anche il cubismo – di cui Cocteau non sopporta l’egemonia conquistata col tempo- possa essere diventato tanto potente soltanto nel momento in cui sia stato intercettato come oggetto di valore simbolico-finanziario?

    “Le rivoluzioni vengono rimpiazzate molto rapidamente da mode e imperialismi, non è così? Allora è evidente che una rivoluzione non possa durare molto a lungo, dopo un po’ si radica, e quando succede… è qui che Radiguet mi ha dato una grande lezione; mi ha detto: “Non è mai il pubblico di massa che va contraddetto, ma l’avanguardia”, perchè riteneva che quest’ultima iniziasse in piedi finendo per sedersi molto rapidamente, diventando allora un’abitudine, un accademismo”.

    Un augurio di buon lavoro. Ci tenga aggiornati attraverso il blog.

  16. @ Daniele Balicco
    Ho il massimo rispetto per le idiosincrasie.

    Tuttavia, se le ho attribuito una certa resistenza nei confronti degli economisti, e´dovuto ad un riflesso automatico. Ho una formazione economica e cio´che ho notato in molti (sociologi, filososi etc) che si occupano di Economia ( per fare due nomi a caso: Baudrillard, che certo conosce meglio di me, o Fulvio Carmagnola) e´che mostrano un certa insofferenza (o una certa ignoranza lo lascio decidere a lei) per il modo di ragionare della scienza economica (con l´eccezione del solito Marx), perche´magari lo giudicano superficiale, poi manifestano una conoscenza dei processi economici e finanziari che per usare un eufemismo potremmo definire ingenua.
    In questo senso la sua considerazione sul riciclaggio di denaro che attraversa, in fasi diverse e con funzioni diverse, i mercati di armi, droga e arte mi sembra decisamente stimolante.

    Buon lavoro

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